Paradossi.
Paradoxes.
126,1126,2 210,1 238,2 271,2 368,1 949,1 1329,2 1364,2 1507,1 1660,1 2157,1 2702,1 4096,2 4058,1 67,4 97,2 99,1[126,2] L'impressione che produce l'annunzio improvviso di una
grave sventura, non si accresce in proporzione della maggiore o minor gravità di
essa. L'uomo in quel punto la considera quasi come somma, e tutto l'impeto del
dolore si scarica sopra di essa, in maniera che non avrebbe potuto raddoppiarsi,
se la sventura annunziatagli fosse stata del doppio maggiore, voglio dire però,
se sin da principio gli fosse stata annunziata così, perchè sopravvenendo un
altro annunzio, la successione della cosa lascia luogo all'accrescimento del
dolore, sebbene neanche allora l'accrescimento sarebbe in proporzione del
raddoppiamento della sventura, perchè l'anima è già esaurita e come intorpidita
dal
127 dolore passato. Ieri in mezzo a una festa, due
fanciulli restano oppressi da una pietra caduta da un tetto. Si sparge voce che
tutti due sieno figliuoli di una stessa madre. Poi la gente si consola perchè
viene in chiaro che sono di due donne. Che altro è questo se non rallegrarsi
perchè il dolore si raddoppia veramente, essendo ugualmente grave in ambedue?
quando in una sola appresso a poco sarebbe stato lo stesso in {tutti} due i casi. E quella che tramortì all'annunzio,
non avrebbe potuto soffrir di più se la sventura per se stessa fosse stata
doppia. Prescindendo dal caso che la morte di due figli la privasse di tutta la
figliuolanza, il che muterebbe la specie della disgrazia, ed è fuor del caso. E
potrebbe anche darsi che quel solo figlio ch'ella perdè, fosse unico, laonde
questa considerazione qui non ha luogo. (16. Giugno 1820.).
[210,1] Diciamo male che il tal desiderio è {stato} soddisfatto. Non si soddisfanno i desideri,
conseguito {che abbiamo} l'oggetto, ma si spengono,
cioè si perdono ed abbandonano per la certezza acquistata di non poterli mai
soddisfare. E tutto quello che si guadagna conseguito l'oggetto desiderato, è di
conoscerlo intieramente. (14. Agosto 1820.).
[238,2] La negligenza e l'irriflessione spessissimo ha
l'apparenza e produce gli effetti della malvagità e brutalità. E merita di esser
considerata come una delle principali e più frequenti cagioni della tristizia
degli uomini e delle azioni. Passeggiando con un amico assai filosofo e
sensibile, vedemmo un giovanastro che con un grosso bastone, passando
sbadatamente e come per giuoco, menò un buon colpo a un povero cane che se ne
stava pe' fatti suoi senza infastidir nessuno. E parve segno all'amico di
pessimo carattere in quel giovane. A me parve segno di brutale irriflessione.
239 Questa molte volte c'induce a far cose
dannosissime {o penosissime} altrui, senza che {ce} ne accorgiamo (parlo anche della vita più ordinaria
e giornaliera, come di un padrone che per trascuraggine lasci penare il suo
servitore alla pioggia ec.) e avvedutici, ce ne duole; molte altre volte, come
nel caso detto di sopra, sappiamo bene quello che facciamo, ma non ci curiamo di
considerarlo, e lo facciamo così alla buona, e considerandolo bene non lo
faremmo. Così la trascuranza prende tutto l'aspetto, e produce lo stessissimo
effetto della malvagità e crudeltà, non ostante che ogni volta che tu
riflettessi, fossi molto alieno dalla volontà di produrre quel tale effetto, e
che la malvagità e crudeltà non abbia che fare col tuo carattere. (11.
7.bre 1820.).
[271,2] Coloro che dicono per consolare una persona priva di
qualche considerabile vantaggio della vita: non ti affliggere; assicurati che
sono pure illusioni: parlano scioccamente. Perchè quegli potrà e dovrà
rispondere: ma tutti i piaceri sono illusioni o consistono nell'illusione, e
di queste illusioni si forma e si compone la nostra vita. Ora se io non
posso averne, che piacere mi resta? e perchè vivo? Nella stessa maniera
dico io delle antiche istituzioni ec. tendenti a fomentare l'entusiasmo, le
illusioni, il coraggio, l'attività, il movimento, la vita. Erano illusioni, ma
toglietele,
272 come son tolte. Che piacere rimane? e la
vita che cosa diventa? Nella stessa maniera dico: la virtù, la generosità, la
sensibilità, la corrispondenza vera in amore, la fedeltà, la costanza, la
giustizia, la magnanimità ec. umanamente parlando sono enti immaginari. E
tuttavia l'uomo sensibile se ne trovasse frequentemente nel mondo, sarebbe meno
infelice, e se il mondo andasse più dietro a questi enti immaginari (astraendo
ancora da una vita futura), sarebbe molto {meno}
infelice. Seguirebbe delle illusioni, perchè nessuna cosa è capace di riempier
l'animo umano, ma non è meglio una vita con molti piaceri illusorii, che senza
nessun piacere? non si vivrebbe meglio se nel mondo si trovassero queste
illusioni più realizzate, e se l'uomo di cuore non si dovesse persuadere non
solo che sono enti immaginari, ma che nel mondo non si trovano più neanche così
immaginari come sono? {in maniera che manchi affatto il
pascolo e il sostegno all'illusione.} E dall'altro lato, non c'è
maggiore illusione ovvero apparenza di piacere che quello che deriva dal bello
dal tenero dal grande dal sublime dall'onesto. Laonde quanto più queste cose
abbondassero, sebbene illusorie, tanto meno l'uomo sarebbe infelice. (11.
8.bre 1820.). {{V. p. 338. capoverso
2.}}
[368,1] Si suol dire che la monotonia fa parere i giorni più
lunghi. Così è quanto alle parti del tempo considerate separatamente. Ma quanto
al complesso è tutto l'opposto, perchè un giorno pieno di varietà, terminato che
sia ti parrà lunghissimo, anzi spesso ti avverrà di credere a prima giunta che
una cosa fatta, accaduta, veduta, ec. oggi, appartenga al giorno di ieri o ier
l'altro, perchè la moltiplicità delle cose allunga nella tua memora lo spazio, e
il maggior numero degli accidenti, accresce l'apparenza del tempo. All'opposto
in una vita tutta uniforme, spesso ti avverrà (e m'è avvenuto) di credere che
l'accaduto ieri o ier l'altro appartenga al giorno d'oggi, o quello di più
giorni fa, al giorno di ieri. E ciò per la ragione contraria, {e perchè l'uniformità impiccolisce l'immagine delle
distanze.} Così la monotonia
369 prolunga la
vita in quanto la lunghezza è penosa, e l'abbrevia in quanto la lunghezza è
piacevole e desiderata; e la tua vita passata nell'uniformità ti par brevissima
e momentanea, quando ne sei giunto al fine. (1. Dec. 1820.).
[949,1] Dalla sciocca idea che si ha del bello assoluto deriva
quella sciocchissima opinione che le cose utili non debbano esser belle, o
possano non esser belle. Poniamo per esempio un'opera scientifica. Se non è
bella, la scusano perciò ch'è utile, anzi dicono che la bellezza non le
conviene. Ed io dico che se non è bella, e quindi è brutta, è dunque cattiva per
questo verso, quando anche pregevolissima in tutto il resto. Per qual ragione è
bello il Trattato di Celso, ch'è un trattato di Medicina? Forse perchè ha ornamenti
poetici o rettorici? Anzi prima di tutto perchè ne manca onninamente, e perchè
ha quel nudo candore e semplicità che conviene a siffatte opere. Poi perchè è
chiaro, preciso, perchè ha una lingua ed uno stile puro. Questi pregi o bellezze
convengono a qualunque libro. Ogni libro ha obbligo di esser bello in tutto il
rigore di questo termine: cioè di essere intieramente buono. Se non è bello, per
questo lato è cattivo, e non v'è cosa di mezzo tra il non esser bello, e il non
essere perfettamente buono, e l'esser quindi per questa parte cattivo. E ciò che
dico dei libri, si deve estendere a tutti
950 gli altri
generi di cose chiamate utili, e generalmente a tutto. (16. Aprile
1821.)
[1329,2] Si suol dire; se il tale incomodo ec. ec. fosse
durevole, non sarebbe sopportabile. Anzi si sopporterebbe molto meglio, mediante
l'assuefazione e il tempo. All'opposto diciamo frequentemente; il tal piacere
ec. sarebbe stato grandissimo, se avesse durato. Anzi durando, non sarebbe stato
più piacere. (15 Luglio 1821.).
[1364,2] Sopravvenendo un mal minore a un maggiore, o
viceversa, sogliamo dire, Se potessi liberarmi, ovvero, se non mi travagliasse
questo male così grave, terrei per un nulla questo leggero. E accadrebbe in
verità l'opposto: che ci parrebbe assai maggiore che or non ci pare. (21.
Luglio 1821.).
[1507,1] Paragonando le occupazioni di un mercante che
travaglia a' suoi complicatissimi negozi, e di un giovane che scherza con una
donna, quella {ci par} serissima, e questa
frivolissima. E pure qual è lo scopo del mercante? il far danari. E perchè? per
godere. E come si gode quaggiù? collo spassarsi; e uno de' maggiori spassi e
piaceri è quello che si piglia colle donne. Dunque lo scopo del mercante in
ultima analisi è di potersi a suo agio, e con molti mezzi occupare in quello
stesso in che si occupa il giovanastro, o in cose tali. Se dunque il fine è
frivolo, quanto più il mezzo. Tutto dunque è frivolo a questo mondo, e l'utile è
molto più frivolo del semplicissimo dilettevole. Così dico degli studi, e delle
carriere ec. (16. Agos. 1821.).
[1660,1] Quanto l'uomo sia solito a giudicar di tutto
assolutamente, e quanto perciò s'inganni, vediamolo in cose ordinarie. Il
giovane deride, accusa, non concepisce, condanna i gusti, i pareri, i costumi, i
desiderii ec. del vecchio, e viceversa. Tutti due s'ingannano, e nel fatto loro
hanno piena ragione. Così dico di chi è appassionato, e di chi non lo è; di chi
si trova in un tal caso, e di chi non vi si trova. S'io
fossi ne' suoi panni farei certo o non farei così: non comprendo
come
1661
egli possa portarsi altrimenti. Se foste ne'
suoi panni, lo comprendereste. Tutto giorno ci par facilissimo, verissimo ec.
quel ch'è impossibile, falsissimo ec. per chi si trova nel caso. A chi consiglia non duole il capo (Crusca) dice il proverbio, e fa molto al proposito. (9.
Sett. 1821.).
[2157,1] Ho paragonato altrove p. 1507 le
occupazioni di un mercadante con quelle di un giovanastro che si spassa colle
donne, e trovatele della stessissima importanza, anzi queste più importanti di
quelle. La stessa comparazione col medesimo risultato, si può fare
2158 delle operazioni e intenzioni e desiderii e
fatiche di un soldato, di un letterato, di un uomo in carriera ec. Quel filosofo
che per puro amore dell'umanità, suda dietro ad un'opera di morale o di
politica, o d'altro soggetto della più grande utilità, o si affatica nella
speculazione della natura, del cuore umano ec.; quel ministro zelante e
integerrimo del maggior monarca immaginabile, che travaglia giorno e notte {unicamente} per il bene della maggior nazione e della
maggior possibile quantità di uomini (se pur si trovano tali filosofi, e tali
cortigiani); questi tali che cosa cercano essi? La felicità degli uomini. E la
felicità che cos'è? il piacere. E qual piacere maggiore che i giovanili? Dunque
le occupazioni di costoro non sono più importanti di quelle del giovanastro che
mette a profitto i vantaggi dell'età più favorita dalla natura,
2159 e destinata a godere. Anzi sono meno importanti,
perchè non fanno altro che proccurare agli uomini, {alla
lontanissima} quello stesso piacere, (o altri piaceri che certo
saranno sempre minori) che il giovanastro immediatamente ed attualmente si gode.
In ultima analisi è manifesto che le occupazioni di coloro hanno appresso a poco
per fine quello medesimo che il giovanastro già conseguisce, sebbene questo fine
sia molto lontano. Il fine, come dunque non sarà più importante del mezzo? e di
un mezzo lontanissimo? e difficilissimo? e spesso immaginario, falso,
inutilissimo? spesso ancora conducente ad esito contrario? (24. Nov. dì di
S. Flaviano.
1821.).
[2702,1]
2702 Materia della pigrizia non sono propriamente le
azioni faticose, ma quelle, faticose o no, nelle quali non è piacere presente, o
vogliamo dire opinione di piacere. Niuno è pigro al bere o al mangiare. Lo
studio è cosa faticosissima. Ma se l'uomo vi prova piacere, ancorchè pigro ad
ogni altra cosa, non sarà pigro a studiare, anzi travaglierà nello studio
gl'interi giorni. E forse la massima parte delle persone assolutamente studiose,
sono infingarde, e pure nello studio operano e si affaticano continuamente. Il
fine dei pensieri e delle azioni dell'uomo è sempre e solo il piacere. Ma i
mezzi di conseguir quello che l'uomo si propone come piacere, ora hanno piacere
in se stessi, ora no. Questi ultimi sono materia della pigrizia, ancorchè
domandino pochissima fatica, ancorchè il piacere a cui condurrebbero sia
vicinissimo e prontissimo e certissimo, ancorchè l'uomo faccia molta stima di
questo piacere e lo desideri, ancorchè finalmente il fine al quale questi mezzi
conducono sia necessario, o molto
2703 utile ad
ottenere altri piaceri. Così l'uomo si astiene di comparire a una festa (dove
crede che si sarebbe trovato con piacere) per non assettarsi; e se si fosse
trovato all'ordine, o se non se gli fosse richiesto d'assettarsi, sarebbe andato
alla festa: la qual era pure un piacer vicino e pronto, e che si otteneva
certamente con un'ora di pochissima fatica. Così la pigrizia ritiene ancora da
quei travagli che sono necessari a procacciarsi il mangiare e il bere, perchè
essi in se non hanno piacere. Così da cento altre azioni utili, cioè conducenti
più o men tosto al piacere (giacchè questo è il significato di utile), ma non
piacevoli in se: e tanto più quanto più è lontano il piacere ch'esse
procacciano, e quanto elle sono più faticose, più lunghe, e meno piacevoli.
(20. Maggio 1823.).
[4096,2] Il tale diceva non esser ben detto quel che si
afferma comunemente che basta l'apparenza p. e. a un letterato per essere
stimato, benchè manchi della sostanza. Ora l'apparenza non solo basta, ma è la
sola cosa che basti, ed è necessaria e la sola necessaria. Perocchè la sostanza
senza l'apparenza non fa effetto alcuno e nulla ottiene, e l'apparenza colla
sostanza non fa nè ottiene niente di più che senza essa: onde si vede la
sostanza essere inutile, e il tutto stare nella sola apparenza. (1.
Giugno. 1824.).
[4058,1] È un grand'errore di quelli che hanno a congetturare
o indovinare le risoluzioni o gli andamenti d'altri, sia nelle cose private sia
nelle pubbliche, e queste o politiche o militari, e sia con dati o senza dati,
il considerare con ogni sorta di acutezza e di prudenza quello che sia più utile
a quei tali di risolvere o di fare, più conveniente, più secondo lo stato loro e
delle cose, più giusto, più savio, e trovatolo, risolversi che essi faranno o
determineranno, ovvero fanno e determinano appunto questa o queste cose {+o l'una di queste in ogni modo.}
Diamo uno sguardo all'intorno alla vita, alle azioni e risoluzioni degli uomini,
e vedremo che per dieci ben fatte, convenienti ed utili a quei che le fanno, ve
n'ha mille malissimo fatte, sconvenientissime, inutilissime, dannosissime a essi
medesimi, più o meno, contrarie alla prudenza, a quello che avrebbe risoluto o
fatto un uomo savio e perfetto, trovandosi nel caso loro. Vedremo che gli uomini
il più delle volte non deliberano maturamente quando v'ha bisogno di maturità,
non conoscono l'importanza delle cose che hanno a risolvere o a fare, non
sospettano nemmeno che sia loro utile o necessario di consultare intorno ad
esse, e non entrano affatto in alcuna consulta. Parlo egualmente de' grandi e
de'
4059 piccoli, delle cose pubbliche e delle private,
piccole relativamente e grandi. È certissimo che gli affari degli uomini
qualunque, che vanno male, non vanno così (se non di rado) senza loro colpa o
insufficienza; or come dunque dovrà essere regola per indovinare le opere o
risoluzioni loro, il cercare quello che lor sia più utile e conveniente? Il
numero o degli sciocchi assolutamente, o degl'inetti ai carichi e alle cose che
hanno a maneggiare, benchè valorosi nel resto, o di quelli che anche al loro
carico sono adattati, ma non perfetti, o insomma delle risoluzioni e delle
azioni mal prese e mal fatte, inutili o dannose a chi le ha fatte o prese,
sconvenienti al caso, o finalmente tali che nelle date circostanze non erano le
migliori; il numero dico di tali azioni, risoluzioni ed uomini soverchia ed ha
sempre soverchiato di grandissima lunga quello delle azioni, risoluzioni ed
uomini loro contrarii, come apparisce da tutte le antiche e moderne storie sì
civili sì militari sì private, e dall'osservazione della vita e avvenimenti
giornalieri privati o pubblici. Onde quella regola in vece di condurre alla
probabilità dell'indovinare, conduce chi la segue ad avere cento probabilità per
una, contro quella {o quelle cose} che egli sceglie e
quel giudizio o congettura che ei forma. Di più, assolutamente parlando, è
falsissimo e malissimo considerato il persuadersi che gli uomini nel caso
proprio veggano quel medesimo che in esso caso veggono gli altri posti fuori di
esso, e pensino e sentano e sieno disposti {allo}
stesso modo. Onde ancorchè pognamo {in due persone}
perfetta parità di prudenza, di esperienza, insomma di attitudine a risolvere e
fare in un dato caso quello che si conviene, è certissimo che se di queste due
persone l'una
4060 si troverà nel caso e l'altra fuori
considerandolo senza comunicare con quella, {il più delle
volte} la risoluzione o il modo dell'azione dell'una sarà diversissima
{più o meno} da quello che all'altra parrà si fosse
convenuto. Aggiungasi la diversità dei principii, delle abitudini e di mille
altre cose anche minime che diversificando gli spiriti (giacchè non si dà
spirito perfettamente uguale ad un altro, più che si dieno due fisonomie al
tutto conformi), diversificano altresì con mille modi le risoluzioni ed azioni
di uno da quelle di un altro, anche supponendo in ambedue ugual capacità, e
parità di caso, anzi diversificano le risoluzioni e azioni di una persona stessa
in casi uguali o simiglianti. Senza poi parlare delle passioni e delle occasioni
e circostanze del momento, spesso minime, che così minime modificano sovente e
sovente cagionano al tutto e determinano le risoluzioni ed azioni di uno, mentre
che l'altro che vuole indovinarle non è affetto da tali circostanze, sia
fisiche, sia morali, sia qualunque. La vera regola per isbagliare il meno
possibile, e la vera politica in tali casi, è conoscere quanto si può il
carattere, le abitudini, le qualità della data persona, applicarle al caso di
cui si tratta, e rinunziando a ogni prudenza propria, mettendosi ne' piedi di
quella, piuttosto come poeta, che come ragionatore, congetturar quello ch'egli è
per fare o risolvere, {anzi risolvere, per così dire, in vece
sua.} come il drammatico congettura quello che un dato uomo di un dato
carattere in un dato caso sarebbe per dire, e congetturatolo parla in persona di
esso. (5. Aprile. 1824.). {+V. il Guicc. ed. Friburgo. t.
4. p. 106.}
[67,4] Moltissime volte anzi la più parte si prende l'amor
della gloria per l'amor della patria. P. e. si attribuisce a questo la costanza
dei greci alle termopile, il fatto d'Attilio Regolo (se è vero) ec. ec. le quali cose
furono puri effetti dell'amor della gloria, cioè dell'amor proprio immediato ed
evidente, non trasformato ec. Il gran mobile degli antichi popoli era la gloria
che si prometteva a chi si sacrificava per la patria, e la vergogna a chi
ricusava questo sacrifizio, e però come i maomettani si espongono alla morte,
anzi la
68 cercano per la speranza del paradiso che
gliene viene secondo la loro opinione, così gli antichi per la speranza, anzi
certezza della gloria cercavano la morte i patimenti ec. ed è evidente che così
facendo erano spinti da amor di se stessi e non della patria, dal vedere che
alle volte cercavano di morire anche senza necessità nè utile, (come puoi vedere
nei dettagli che dà il Barthelemy sulle
Termopile) e da quegli Spartani accusati
{dall'opinione pubblica} d'aver fuggito la morte
alle Termopile che si uccisero da se, non per la patria
ma per la vergogna. Ed esaminando bene si vedrà che l'amor puramente della
patria, anche presso gli antichi era un mobile molto più raro che non si crede.
Piuttosto quello della libertà, l'odio di quelle tali nazioni nemiche ec.
affetti che poi si comprendono generalmente sotto il nome di amor di patria,
nome che bisogna ben intendere, perchè il sacrifizio precisamente per altrui non
è possibile all'uomo.
[97,2] Si suol dire che per ottenere qualche grazia è opportuno
il tempo dell'allegrezza di colui che si prega. E quando questa grazia si possa
far sul momento, o non costi impegno ed opera al supplicato, convengo anch'io in
questa opinione. Ma per interessar chicchessia in vostro favore, ed impegnarlo a
prendersi qualche benchè piccola premura di un vostro affare, non c'è tempo più
assolutamente inopportuno di quello della gioia viva. Ogni volta che l'uomo è
occupato da qualche passion forte, è incapace di pensare ad altro, ogni volta
che o la sua propria infelicità o la sua propria fortuna l'interessano
vivamente, e lo riempiono, è incapace di pigliar premura de' negozi delle
infelicità dei desiderii altrui. Nei
98 momenti di gioia
viva o di dolor vivo l'uomo non è suscettibile nè di compassione, nè d'interesse
per gli altri, nel dolore perchè il suo male l'occupa più dell'altrui, nella
gioia perchè il suo bene l'inebbria, e gli leva il gusto e la forza di occuparsi
in verun altro pensiero. E massimamente la compassione è incompatibile col suo
stato quando egli o è tutto pieno della pietà di se stesso, o prova
un'esaltazione di contento che gli dipinge a festa tutti gli oggetti e gli fa
considerar la sventura come un'illusione, per lo meno {odiarla} come cosa alienissima da quello che lo anima e lo riempie
tutto in quel punto. Solamente gli stati di mezzo, sono opportuni all'interesse
per le cose altrui, o anche un certo stato di entusiasmo senza origine e senza
scopo reale, che gli faccia abbracciar con piacere l'occasione di operare
dirittamente, di beneficare, di sostituir l'azione all'inazione, di dare un
corpo ai suoi sentimenti, e di rivolgere alla realtà quell'impeto di entusiasmo
virtuoso, magnanimo generoso ec. che si aggirava intorno all'astratto e
all'indefinito. Ma quando il nostro animo è già occupato dalla realtà, ossia da
quell'apparenza che noi riguardiamo come realtà, il rivolgerlo ad
un'altro[un altro] scopo, è impresa
difficicilissima[difficilissima] e quello è
il tempo più inopportuno di sollecitar l'interesse altrui per la vostra causa,
quand'esso è già tutto per la propria, e lo staccarnelo riuscirebbe penosissimo
al supplicato. Molto più se la gioia sia di quelle rare che occorrono nella vita
pochissime volte, e che ci pongono quasi in uno stato di pazzia, sarebbe da
stolto il farsi allora avanti a quel tale, ed esponendogli con qualsivoglia
eloquenza i propri bisogni e le proprie miserie, sperare di distorlo dal
pensiero ch'è padrone dell'animo suo, e che gli è sì caro, e quel ch'è più,
condurlo ad operare {o a risolvere efficacemente
d'operare} per un fine alieno da quel pensiero, al quale egli è così
intento anche in udirvi, che appena vi ascolta, e se vi ascolta, cerca di
abbreviare il discorso, di ridur tutto in compendio, (per poi dimenticarlo
affatto) ed ogni suo desiderio è rivolto al momento in cui avrete finito, e lo
lascerete pascere di quel pensiero che lo signoreggia, ed anche parlarvene, e
rivolgere immediatamente la
99 conversazione sopra quel
soggetto.
[99,1] Udrai dire sovente che per esser compatito o per
interessare, giova indirizzarsi a chi abbia provato le stesse sventure, o sia
stato nella stessa tua condizione. Se intendono del passato, andrà bene. Ma non
c'è uomo da cui tu possa sperar meno che da chi si ritrova {presentemente} nella stessa calamità o nelle stesse circostanze tue.
L'interesse ch'egli prova per se, soffoca tutto quello che potrebbe ispirargli
il caso tuo. Ad ogni circostanza, ad ogni minuzia del tuo racconto, egli si
rivolge sopra di se, e le considera applicandole alla sua persona. Lo vedrai
commosso, crederai che senta pietà di te, ma la sente di se stesso unicamente.
T'interromperà ad ogni tratto con dirti: appunto ancor io:
oh per l'appunto se sapessi quello ch'io provo:
questo è propriamente il caso mio. {Fa al proposito l'esempio d'Achille piangente i suoi
mali mentre ha Priamo a' suoi
ginocchi.} Si proverà anche d'estenuare la tua miseria, il tuo
bisogno, la ragionevolezza de' tuoi desideri, per ingrandire quello che lo
riguarda: Va bene, ma abbi pazienza, tu hai pure questo tal conforto: io
all'opposto, e così discorrendo. In somma sarà sempre impossibile di
rivolger l'interesse vivo e presente che uno ha per se, sopra i negozi altrui,
(parlo anche, serbata una certa proporzione, degli uomini di cuore e
d'entusiasmo) e quando l'uomo è occupato intieramente del suo dolore, (o anche
della sua gioia e di qualunque passion viva) indurlo ad interessarsi per quello
d'un altro, massimamente se sia della
stessa specie. Sarà sempre impossibile attaccar l'egoismo così di fronte, quando
anche da lato è così difficile a spetrare. E soprattutto trattandosi di azione
non isperar mai nulla da un giovane che come te si trovi disgustato della vita
domestica, e come te senta il bisogno di proccurarsi i mezzi di troncarla, da un
militare disgraziato come te, o che corra collo stesso impegno e colla stessa
vivezza di desiderio agli onori, da un malato che sia tutto occupato ed afflitto
da una malattia simile alla tua ec. ec.
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