Galateo morale.
Moral etiquette.
38,1 97,1 126,2 139,2 197,1 206,1.2 230,1 233,2 255,2 271,2 302,1 313,1 324,4 453,2 536,3 661,3 669,1 712,1 926,1 931,1 1291,1 1583,2 1660,1 1669,2 1675,1 1740,1 1932,2 3360,1 3684,1 4037,6 4140,2 4188,8 4195,seg. 4261,2 4268,1 4274,2 4275,1 4285,5 4294,5[38,1]
38 Non so se si possa far cosa più dispiacevole altrui
quanto ad uno che v'abbia fatto un dono splendido, offrirne goffamente un altro
molto inferiore, col che si viene a mostrare {di stimar poco
quel dono comparandolo con quello che si presenta quasi fosse atto a
compensarlo, e} di credere che il dono ricevuto si sia già compensato
sgravandosi dell'obbligo della gratitudine, e il donatore che nel donarvi si
compiaceva in se stesso aspettandosi da voi e la cognizione del benefizio, e la
gratitudine (quantunque dovesse essere anche necessariamente e prevedutamente
infruttuosa) si vede nell'atto della sua maggior compiacenza privo del premio
del suo sacrifizio, e di più senza potersene lagnare se non altro fra se così
altamente e generosamente come possono quelli che trovano ingratitudine. La qual
frustrazione di speranza dopo un sacrifizio {e forse anche
uno sforzo} fatto per conseguirla effettivamente, produce nell'uomo un
senso disgustosissimo.
[97,1] Una delle cose più dispiacevoli, è il sentir parlare di
un soggetto che c'interessi, senza potervi interloquire. E molto più se ne
parlano a sproposito, o ignorando una circostanza un fatto ec. che noi potremmo
narrar loro, o in contraddizione coi nostri sentimenti, in maniera che vengano a
concludere il contrario di quello che noi stimiamo o sappiamo. Il che è penoso
anche quando la cosa non ci riguardi in nessun modo personalmente, {nè anche c'interessi.} Ma soprattutto s'ella ci riguarda
{o interessa,} è veramente opera da uomo riflessivo
lo schivare questi tali discorsi in presenza p. e. di domestici che non vi
potrebbero metter bocca, o di altri inferiori, i quali sentendo toccare il tasto
che è loro a cuore, senza potervi avere nessuna parte attiva, ne proverebbero
molta pena, attaccandosi come farebbero intieramente e con grande studio alla
passiva di ascoltare, non ostante l'inquietudine che sfuggirebbero rinunziando
anche a questa parte, il che però non ci è possibile.
[126,2] L'impressione che produce l'annunzio improvviso di una
grave sventura, non si accresce in proporzione della maggiore o minor gravità di
essa. L'uomo in quel punto la considera quasi come somma, e tutto l'impeto del
dolore si scarica sopra di essa, in maniera che non avrebbe potuto raddoppiarsi,
se la sventura annunziatagli fosse stata del doppio maggiore, voglio dire però,
se sin da principio gli fosse stata annunziata così, perchè sopravvenendo un
altro annunzio, la successione della cosa lascia luogo all'accrescimento del
dolore, sebbene neanche allora l'accrescimento sarebbe in proporzione del
raddoppiamento della sventura, perchè l'anima è già esaurita e come intorpidita
dal
127 dolore passato. Ieri in mezzo a una festa, due
fanciulli restano oppressi da una pietra caduta da un tetto. Si sparge voce che
tutti due sieno figliuoli di una stessa madre. Poi la gente si consola perchè
viene in chiaro che sono di due donne. Che altro è questo se non rallegrarsi
perchè il dolore si raddoppia veramente, essendo ugualmente grave in ambedue?
quando in una sola appresso a poco sarebbe stato lo stesso in {tutti} due i casi. E quella che tramortì all'annunzio,
non avrebbe potuto soffrir di più se la sventura per se stessa fosse stata
doppia. Prescindendo dal caso che la morte di due figli la privasse di tutta la
figliuolanza, il che muterebbe la specie della disgrazia, ed è fuor del caso. E
potrebbe anche darsi che quel solo figlio ch'ella perdè, fosse unico, laonde
questa considerazione qui non ha luogo. (16. Giugno 1820.).
[139,2] Da queste considerazioni impara come tu debba
regolarti nel consolare una persona afflitta. Non ti mostrare incredulo al suo
male, se è vero. Non la persuaderesti, e l'abbatteresti davantaggio, privandola
della compassione. Ella conosce bene il suo male, e tu confessandolo converrai
con lei. Ma nel fondo ultimo del suo cuore le resta una goccia d'illusione. I
più disperati credi certo che la conservano, per benefizio costante della
natura. Guarda di non seccargliela, e vogli piuttosto peccare nell'attenuare il
suo male e mostrarti poco compassionevole, che nell'accertarlo di quello
140 in cui la sua immaginazione contraddice ancora alla
sua ragione. Se anche egli ti esagera la sua calamità, sii certo che nell'intimo
del suo cuore fa tutto l'opposto, dico nell'intimo, cioè in un fondo nascosto
anche a lui. Tu devi convenire non colle sue parole ma col suo cuore, e come
secondando il suo cuore tu darai una certa realtà a quell'ombra d'illusione che
gli resta, così nel caso contrario tu gli porterai un colpo estremo e mortale.
La solitudine e il deserto l'avrebbero consolato meglio di te, perchè avrebbe
avuto con se la natura sempre intenta a felicitare o a consolare. Parlo delle
calamità gravissime {e reali} che riducono alla
disperazione della vita, e non delle leggere, nelle quali anzi si desidera di
esser creduto esagerando, nè di quelle provenienti da grandi illusioni e
passioni, dove l'uomo forse cerca e vuole la disperazione e fugge il conforto.
(26. Giugno 1820.).
[197,1] Dice Diogene Laerzio di Chilone che προσέταττε... ἰσχυρὸν ὄντα πρᾷον εἶναι ὅπως οἱ πλησίον αἰδῶνται μᾶλλον
ἢ ϕοβῶνται
*
. E questo precetto si deve estendere,
massimamente oggidì in tanta propagazione dell'egoismo, a tutti i vantaggi
particolari di cui l'individuo può godere. Perchè se tu sei bello non ti resta
altro mezzo per non essere odiosissimo agli uomini che un'affabilità
particolare, e come una certa noncuranza di te stesso, che plachi l'amor proprio
altrui offeso dall'avvantaggio che tu hai sopra di loro, o anche
dall'uguaglianza. Così se tu sei ricco, dotto, potente ec. Quanto maggiore è
l'avvantaggio che tu hai sopra gli altri, tanto più per fuggir l'odio, t'è
necessaria una maggiore amabilità, e quasi dimenticanza e disprezzo di te stesso
in faccia agli altri, perchè tu devi medicare una cagione d'odio che tu hai in
te stesso e che gli altri non hanno: una cagione assoluta, che ti fa odioso per
se sola, senza che tu sia nè ingiusto nè superbo nè ec. Ed era questa una cosa
notissima agli antichi, tanto persuasi della odiosità dei vantaggi individuali,
che ne credevano invidiosi gli stessi dei, e nella prosperità avevano cura
dell'invidiam deprecari tanto divina che umana, e
quindi un
198 seguito non interrotto di felicità li
rendeva paurosi di gravi sciagure. V. Frontone
de Bello Parthico.
(4. Agosto 1820.). {{v. p. 453. capoverso
ult.}}
[230,1]
230 Dice il Casa (Galateo c. 3.) che non è dicevol costume, quando ad alcuno vien veduto per via, come
occorre alle volte, cosa stomachevole, il rivolgersi a' compagni, e
mostrarla loro. E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa
puzzolente, come alcuni soglion fare, con grandissima istanza pure
accostandocela al naso, e dicendo: Deh sentite di grazia come questo
pute.
*
Non solo dunque il piacere che si prova, ma
anche alcuni incomodi {+(oltre i dolori delle sventure ec.)} si vogliono quasi
per naturale inclinazione partecipare agli altri, e questa partecipazione ci
diletta, e ci dà pena il non conseguirla. Ne inferirai che dunque l'uomo è fatto
per vivere in società. Ma io dico anzi che questa inclinazione o desiderio,
benchè paia naturale, è un effetto della società, bensì effetto prontissimo e
facile, perchè si dimostra anche ne' fanciulli, e forse più spesso che negli
adulti. V. p. 208.
e 85. fine.
(4. Settembre 1820.).
[233,2] Al capoverso
primo della p. 206. aggiungi: Et si elles
*
(les
Françoises) ont un amant, elles ont autant de soin
de ne pas {donner} à l'heureux mortel des
marques de prédilection en public, qu'un Anglois du bon ton de ne
pas paroître amoureux {de sa femme} en
compagnie.
*
Morgan,
France. t.
1. 1818. p. 253. liv. 3.
[255,2] L'uomo superiore, oggidì colla cognizione e sperienza
del mondo, si può dire, benchè sembri un paradosso, che si avvezzi a pregiare
piuttosto che a dispregiare. Dico riguardo alle cose reali. Perchè
256 mentre egli è inesperto del mondo, i piccoli pregi,
i principii di virtù, le piccole bellezze o bontà o grandezze in qualsivoglia
genere di cose, gli paiono dispregevoli, paragonando sempre gli altri a se
stesso, com'è costume degli uomini, o paragonando le cose alla sua immaginativa.
Ma colla sperienza, trovandosi sempre in mezzo ad eccessive piccolezze,
malvagità, sciocchezze, bruttezze ec. appoco appoco si avvezza a stimare quei
piccoli pregi che prima spregiava, a contentarsi del poco, a rinunziare alla
speranza dell'ottimo o del buono, e a lasciar l'abitudine di misurar gli uomini
e le cose con se stesso, e colla immaginazion sua. Laonde siccome prima egli non
istimava se non le cose lontane, le quali, in quel modo in cui egli le
concepiva, non erano reali, si può dire che il numero delle cose reali ch'egli
stima vada sempre crescendo, se bene diminuisca la {misura
della} stima assoluta, e il numero assoluto delle cose ch'egli
stimava, perchè sono molte più quelle cose ch'egli pregiava lontane, e disprezza
vicine, di quelle che da principio noncurava, ed ora è necessitato a pregiare.
(30. 7.bre 1820.).
[271,2] Coloro che dicono per consolare una persona priva di
qualche considerabile vantaggio della vita: non ti affliggere; assicurati che
sono pure illusioni: parlano scioccamente. Perchè quegli potrà e dovrà
rispondere: ma tutti i piaceri sono illusioni o consistono nell'illusione, e
di queste illusioni si forma e si compone la nostra vita. Ora se io non
posso averne, che piacere mi resta? e perchè vivo? Nella stessa maniera
dico io delle antiche istituzioni ec. tendenti a fomentare l'entusiasmo, le
illusioni, il coraggio, l'attività, il movimento, la vita. Erano illusioni, ma
toglietele,
272 come son tolte. Che piacere rimane? e la
vita che cosa diventa? Nella stessa maniera dico: la virtù, la generosità, la
sensibilità, la corrispondenza vera in amore, la fedeltà, la costanza, la
giustizia, la magnanimità ec. umanamente parlando sono enti immaginari. E
tuttavia l'uomo sensibile se ne trovasse frequentemente nel mondo, sarebbe meno
infelice, e se il mondo andasse più dietro a questi enti immaginari (astraendo
ancora da una vita futura), sarebbe molto {meno}
infelice. Seguirebbe delle illusioni, perchè nessuna cosa è capace di riempier
l'animo umano, ma non è meglio una vita con molti piaceri illusorii, che senza
nessun piacere? non si vivrebbe meglio se nel mondo si trovassero queste
illusioni più realizzate, e se l'uomo di cuore non si dovesse persuadere non
solo che sono enti immaginari, ma che nel mondo non si trovano più neanche così
immaginari come sono? {in maniera che manchi affatto il
pascolo e il sostegno all'illusione.} E dall'altro lato, non c'è
maggiore illusione ovvero apparenza di piacere che quello che deriva dal bello
dal tenero dal grande dal sublime dall'onesto. Laonde quanto più queste cose
abbondassero, sebbene illusorie, tanto meno l'uomo sarebbe infelice. (11.
8.bre 1820.). {{V. p. 338. capoverso
2.}}
[302,1] Nelle estreme sventure tutte le altre età ammettono la
consolazione o filosofica, o qualunque. Solamente la giovanezza non ammette e
non vede altra consolazione che della morte. Il libro di Crantore, περὶ πένθους lodatissimo dagli
antichi, il libro di Cic.
de
Consolatione dove espresse in gran parte quello di Crantore, saranno stati utili alle
altre età. Pel giovane estremamente sventurato {o che si
creda tale,} non si può scriver libro consolatorio.
[313,1] Come la forza della natura giovanile, forza che non
può esser vinta in fatto da nessuna
ragionevolezza, studio, filosofia, precoce maturità di pensare ec. fa che il
giovane s'inebbri facilmente della felicità, così anche dell'infelicità, quando
questa è tanto grave che superi la naturale inclinazione del giovane
all'allegrezza, al divagarsi, a sperare, a noncurare il male. E perciò il
giovane è incapace d'altra consolazione che della morte, come ho detto p. 302. Nè religione, nè ragione, nè
altro che sia, non è sufficiente a consolare il giovane sommamente sventurato,
s'egli ha una certa forza d'animo, la quale tutta s'impiega in consolidare, e
fargli sentire profondamente e ostinatamente il suo male.
[324,4] Il vino è il più certo, e (senza paragone) il più
efficace consolatore. Dunque il vigore; dunque la natura.
[453,2] Quale idea avessero gli antichi della felicità (e
quindi dell'infelicità) dell'uomo in questa vita, della sua gloria, delle sue
imprese; e come tutto ciò paresse loro solido e reale,
454 si può arguire anche da questo, che delle grandi felicità ed imprese umane,
ne credevano invidiosi gli stessi Dei, e temevano perciò l'invidia loro, ed era
lor cura in tali casi deprecari la divina invidia, in
maniera che stimavano anche fortuna, e (se ben mi ricordo) si proccuravano
espressamente qualche leggero male, per dare soddisfazione agli Dei, e mitigare
l'invidia loro pp. 197-98. Deos immortales precatus est, ut, si
quis eorum invideret operibus ac fortunae suae, in ipsum potius
saevirent, quam in remp.
*
Velleio I. c. 10. di Paolo Emilio. E così avvenne
essendogli morti due figli, l'uno 4 giorni avanti il suo trionfo, e l'altro 3
giorni dopo esso trionfo. E v. quivi le note Variorum.
V. pure Dionigi Alicarnasseo l. 12. c. 20. e 23. edizione
di Milano, e la nota del Mai al c. 20. V. ancora questi pensieri
p. 197. fine. Così importanti
stimavano gli antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle
divine operazioni altri fini che i nostri, mettevano i dei in comunione della
nostra vita e de' nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre
felicità ed imprese, come i nostri simili,
455 non
dubitando ch'elle non fossero degne della invidia degl'immortali. (23.
Dic. 1820.). {{V. p. 494. capoverso
1.}}
[536,3] È degna di esser veduta, consultata, e anche
537 tradotta e riportata all'occasione, la bella disputazione di Tullio (Lael. sive de Amicitia
c. 13. Nam quibusdam
*
etc. sino alla fine)
contro quei filosofi greci i quali dicevano caput esse ad beate vivendum, securitatem; qua frui
non possit animus, si tanquam parturiat unus pro
pluribus:
*
e quindi venivano a prescrivere il curam fugere,
*
e l'honestum rem actionemve, ne
sollicitus
sis, aut non suscipere, aut susceptam
deponere.
*
La qual filosofia, è presso a poco la
filosofia dell'{inazione e del} nulla, la filosofia
perfettamente ragionevole, la filosofia de' nostri giorni. E quella disputazione
di Tullio si può avere per una
disputazione contro l'egoismo, sebbene, a quei tempi, ancora ignoto di nome.
Quę est enim ista securitas?
*
dice Cicerone; e segue facendo vedere a che cosa
porti. Ma il principale è, che non solamente porta a mille assurdità e
scelleraggini (secondo natura, non secondo ragione, ma Cic. chiama la
natura, optimam bene vivendi
ducem.
*
c. 5.): ma non ottiene neanche il suo
fine, ch'è la felicità dell'individuo
538 in qualunque
modo ottenuta. Anzi al contrario, l'impedisce, e la toglie di natura sua, ed è
contraddittoria e incompatibile colla felicità dell'individuo nello stato
sociale. Eccoci tutti seguaci di quella setta o dogma che Cicerone impugna. Eccoci tutti filosofi a quella
maniera. Eccoci tutti egoisti. Ebbene? siamo noi felici? che cosa godiamo noi?
Tolto il bello, il grande, il nobile, la virtù dal mondo, che piacere, che
vantaggio, che vita rimane? Non dico in genere, {e nella
società,} ma in particolare, e in ciascuno. Chi è o fu più felice? Gli
antichi coi loro sacrifizi, le loro cure, le loro inquietudini, negozi,
attività, imprese, pericoli: o noi colla nostra sicurezza, tranquillità, non
curanza, ordine, pace, {inazione}, amore del nostro
bene, e non curanza {di quello} degli altri, o del
pubblico ec.? Gli antichi col loro eroismo, o noi col nostro egoismo? (21.
Gen. 1821.).
[661,3]
On aime à savoir les foiblesses des personnes
estimables,
*
non già solamente di quelle che si odiano o
invidiano, ma di quelle che si amano, si ammirano, si trattano, ci obbligano
e ci giovano coi loro benefizi, consigli ec. e in questo senso lo dice Mad. Lambert
La Femme Hermite. Nouvelle
Nouvelle,
662 dans ses oeuvres complètes
citées ci-dessus (p. 633),
p. 229. Tu puoi però applicarti questo pensiero, e
rendertelo proprio, giacchè Mad. lo
stende, lo spiega, e l'applica in maniera ordinaria, così che il pensiero sembra
comune, non fa gran colpo e non se ne osserva l'originalità. Essa lo applica
principalmente alla confidenza che ne deriva verso quelle tali persone: et
j'étois trop heureuse de trouver en elle, non-seulement des
conseils, mais de ces foiblesses aimables qui nous rendent plus
indulgens pour celles d'autrui.
*
Ma si può
considerare questa verità molto più in grande, dilatarla, osservarne i rapporti,
applicarla anche al teatro, alla poesia, a' romanzi ec. ed alle {arti} imitatrici, e confermarne quella regola di Aristotele, che il protagonista non sia
perfetto. (15. Feb. 1821.).
[669,1]
L'orgueil nous sépare de la société: notre
amour-propre nous donne un rang à part qui nous est toujours
disputé: l'estime de soi-même qui se fait trop sentir est presque
toujours punie par le mépris universel.
*
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans
ses oeuvres complètes
citées ci-dessus, (p. 633), p.
99. fine. Così è naturalmente nella società, così porta la natura di
questa istituzione umana, la quale essendo diretta al comun bene e piacere, non
sussiste veramente, se l'individuo non accomuna
670 più
o meno cogli altri la sua stima, i suoi interessi, i suoi fini, pensieri,
opinioni, sentimenti ed affetti, inclinazioni, ed azioni; e se tutto questo non
è diretto se non a se stesso. Quanto più si trova nell'individuo il se stesso, tanto meno esiste veramente
la società. Così se l'egoismo è intero, la società non esiste se non di nome.
Perchè ciascuno individuo non avendo per fine se non se medesimo, non curando
affatto il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta al bene o
piacere altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società a parte, ed
intera, e perfettamente distinta, giacchè è perfettamente distinto il suo fine;
e così il mondo torna qual era da principio, e innanzi all'origine della
società, la quale resta sciolta quanto al fatto e alla sostanza, e quanto alla
ragione ed essenza sua. Perciò l'egoismo è sempre stata la peste della società,
e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata
671 la
condizione della società; e quindi tanto peggiori essenzialmente quelle
istituzioni che maggiormente lo favoriscono o direttamente o indirettamente,
come fa soprattutto il dispotismo. (Sotto il quale stato la
Francia, era divenuta la patria del più pestifero
egoismo, mitigato assai dalla rivoluzione, non ostante gl'immensi suoi danni,
come è stato osservato da tutti i filosofi.) L'egoismo è inseparabile dall'uomo,
cioè l'amor proprio, ma per egoismo, s'intende più propriamente un amor proprio
mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli
che derivano dall'eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall'onore, dall'amicizia
ec. Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità, e per
universalità; e quando a motivo e dell'intensità, e massime dell'universalità si
è levata la maschera (la quale non serve più a nasconderlo, perchè troppo vivo,
e perchè tutti sono animati dallo stesso sentimento), allora la natura del
commercio sociale (sia relativo alla conversazione,
672
sia generalmente alla vita) cangia quasi intieramente. Perchè ciascuno pensando
per se (tanto per sua propria inclinazione, quanto perchè nessun altro vi pensa
più, e perchè il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano tutti
i riguardi, l'uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell'altro;
gl'individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra più o meno
aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme; il più forte sotto qualunque
riguardo, la vince; il cedere agli altri qualsivoglia cosa, {o per creanza, o per virtù, onore ec.} è inutile, dannoso e pazzo,
perchè gli altri non ti son grati, non ti rendono nulla, e di quanto tu cedi
loro, o di quella minore resistenza che opponi loro, profittano in loro
vantaggio solamente, e quindi in danno tuo. E così, per togliere un esempio dal
passo cit. di Mad. di Lambert, si vede
nel fatto che oggidì, il disprezzo degli altri, e la stima aperta e ostentata di
se stesso, non solamente non è più così dannosa come
673
una volta, ma bene spesso è necessaria, e chi non sa farne uso non guadagna
nulla in questo mondo presente. Perchè gli altri non sono disposti ad accordarti
{spontaneamente, e in forza del vero, e del merito}
nulla, come di nessuna altra cosa, così neanche di stima, e bisogna quindi che
tu la conquisti come per forza, e con guerra aperta e ostilmente, mostrandoti
persuasissimo del tuo merito, ad onta di chicchessia, disprezzando e calpestando
gli altri, deridendoli, profittando d'ogni menomo loro difetto, rinfacciandolo
loro, non perdonando nulla agli altri, cercando in somma di abbassarli e di
renderteli inferiori, o nella conversazione o dovunque con tutti i mezzi più
forti. Che se oggidì ti vuoi procacciare la stima degli altri, col rispetto,
buona maniera verso loro, col lusingare il loro amor proprio, dissimulare i loro
difetti ec. e quanto a te, colla modestia, col silenzio ec. ti succede tutto
l'opposto. Essi profittano di te {e de' tuoi riguardi verso
loro,} per innalzarsi, e della tua poca resistenza {quanto a te,} per deprimerti. Quello che concedi
674 loro, l'adoprano in loro mero vantaggio, e danno tuo; quello che
non ti arroghi o non pretendi, o quel merito che tu dissimuli, te lo negano e
tolgono, per vederti inferiore ec. Così, nel modo che ho detto, ritornano
effettivamente nel mondo i costumi selvaggi, {e} di
quella prima età, quando la società non esistendo, ciascuno era amico di se
solo, e nemico di tutti gli altri esseri o dissimili o simili suoi, in quanto si
opponevano a qualunque suo menomo interesse o desiderio, o in quanto egli poteva
godere a spese loro. Costumi che nello stato di società son barbari, perchè
distruttivi della società, e contrari direttamente all'essenza ragione, e scopo
suo. Quindi si veda quanto sia vero, che lo stato presente del mondo, è
propriamente barbare[barbarie], o vicino alla
barbarie quanto mai fosse. Ogni così detta società dominata dall'egoismo
individuale, è barbara, e barbara della maggior barbarie. (17. Feb.
1821.).
[712,1] Non vale il dire che i piaceri, i beni, le felicità di
questo mondo, sono tutti inganni. Che resta levati via questi inganni? E chi per
le sue sventure manca di questi benchè ingannosi piaceri e beni, che altro gode
o spera quaggiù? In somma l'infelice è veramente e positivamente infelice; {+quando anche il
suo male non consista che in assenza di beni;} laddove è pur troppo
vero che non si dà vera nè soda felicità, e che l'uomo felice, non è veramente
tale. (3. Marzo 1821.)
[926,1]
Alla p. 872. E
non per altra cagione sono odiose e riputate contrarie alla buona creanza le
lodi di se medesimo, se non perchè offendono l'amor proprio di chi le ascolta. E
perciò la superbia è vizio {nella società,} e perciò
l'umiltà è cara, e stimata virtù. (7. Aprile. 1821.).
[931,1] Non è cosa più dispiacevole e dispettosa all'uomo
afflitto, e oppresso dalla malinconia, dalla sventura presente, o dal presente
sentimento di lei, quanto il tuono della frivolezza e della dissipazione in
coloro che lo circondano, e l'aspetto comunque della gioia insulsa. Molto più se
questo è usato con lui, e soprattutto s'egli è obbligato per creanza, o per
qualunque ragione a prendervi parte. (12. Aprile 1821.)
[1291,1] L'aspetto dell'uomo allegro e pieno o commosso anche
mediocremente da qualche buona fortuna, da qualche vantaggio, da qualche piacere
ricevuto ec. è per lo più molestissimo non solo alle persone afflitte, o pur
malinconiche, o poco inclinate alla letizia per atto o
1292 per abito, ma anche alle persone d'animo indifferentemente
disposto, {+e non danneggiate punto, nè soverchiate ec.
da quella prosperità.} Questo ci accade ancora cogli amici,
parenti i più stretti ec. E bisogna che l'uomo il quale ha cagione di allegria,
o la dissimuli, o la dimostri con certa disinvoltura, indifferenza e spirito,
altrimenti {la sua presenza, e la sua conversazione}
riuscirà sempre odiosa e grave, anche a quelli che dovrebbero rallegrarsi del
suo bene, o che non hanno materia alcuna di dolersene. {+Tale infatti è la pratica degli uomini riflessivi, padroni di se, e ben
creati.} Che vuol dir questo, se non che il nostro amor
proprio, ci porta inevitabilmente, e senza che ce ne avvediamo, all'odio altrui?
Certo è che nel detto caso, anche all'uomo il più buono, è mestieri un certo
sforzo sopra se stesso e un certo eroismo, per prender parte alla letizia
altrui, della quale egli non aspetti nessun vantaggio {nè
danno,} o solamente per non gravarsene. (8. Luglio
1821.).
[1583,2] Moltissimi piaceri non son {quasi
piaceri,} se non a causa della speranza e intenzione che si ha di
raccontarli. Tolta questa vi troveremmo un gran vuoto. Questa rende piacevoli le
cose che non lo sono, anche le dispiacevoli ec. ec. {+Questi effetti però ponno riferirsi all'ambizione, al
desiderio di parere interessante, ec. non a quello di comunicare e dividere
le proprie sensazioni.}
1584
(29. Agos. 1821.).
[1660,1] Quanto l'uomo sia solito a giudicar di tutto
assolutamente, e quanto perciò s'inganni, vediamolo in cose ordinarie. Il
giovane deride, accusa, non concepisce, condanna i gusti, i pareri, i costumi, i
desiderii ec. del vecchio, e viceversa. Tutti due s'ingannano, e nel fatto loro
hanno piena ragione. Così dico di chi è appassionato, e di chi non lo è; di chi
si trova in un tal caso, e di chi non vi si trova. S'io
fossi ne' suoi panni farei certo o non farei così: non comprendo
come
1661
egli possa portarsi altrimenti. Se foste ne'
suoi panni, lo comprendereste. Tutto giorno ci par facilissimo, verissimo ec.
quel ch'è impossibile, falsissimo ec. per chi si trova nel caso. A chi consiglia non duole il capo (Crusca) dice il proverbio, e fa molto al proposito. (9.
Sett. 1821.).
[1669,2] Il vedere che altri prova in nostra presenza un
gusto vivo, ci è sempre grave, e ci rende odiosa quella persona. E perciò è
prudenza e creanza il non dimostrare in presenza
1670
altrui di provare un piacere, o il portarsi con una disinvoltura che mostri di
non curarsene ec. Similmente dico di un vantaggio. E v. un mio pensiero sul far
carezze alla moglie in presenza altrui, e il costume degl'inglesi che ho notato
in questo proposito p. 206
p. 233. Cosa spiacevolissima anche tra noi, e che m'è avvenuto di
sentir condannare come insopportabile in due sposi che si facevano grandi
carezze in presenza d'altri. Tanto è vero che l'uomo odia naturalmente l'uomo.
Eccetto se quel gusto che ho detto è stato procacciato a quella persona da noi
stessi volontariamente, nel qual caso
egli ridonda in certo modo su di noi, e serve alla nostra ambizione, ec. insomma
ne partecipiamo. Questo effetto si prova massimamente cogli eguali e co'
superiori (meno cogl'inferiori, co' fanciulli ec.); ma cogli eguali soprattutto,
e cogli amici e stretti conoscenti più che mai, perocchè con questi si esercita
principalmente l'invidia, e si sente al vivo l'inferiorità nostra ec. in
qualsivoglia genere. I superiori sono il soggetto di un odio più generale, che
si stende su tutta la loro persona,
1671 condizione ec.
e discende meno, o è meno sensibile alle cose particolari, tanto più che non si
può entrare con essi in competenza di desiderii ec. Parimente riguardo
agl'inferiori, bisogna che i loro vantaggi o piaceri siano d'un alto grado (nel
qual caso l'odio è maggiore verso loro che verso qualunque altro) perchè
arrivino a pungere il nostro amor proprio, e la nostra gelosia ec. Nondimeno è
vero che sempre se ne prova qualche disgusto. (11. Sett.
1821.).
[1675,1] Parimente l'uomo inesperto (ed anche lo
sperimentato, nella ebbrezza della gioia) sopravvenuto da qualche fortuna, ed
acquistato qualche vantaggio, crede fermamente che tutti, e massime gli amici e
i conoscenti debbano rallegrarsene di tutto cuore, e neppur sospetta che ne
l'abbiano a odiare, ch'egli sia per perderne l'amicizia di questo o di quello,
che gli stessi amici più cari, debbano o tentar mille vie di spogliarlo del suo
nuovo vantaggio, screditarlo ec. o almeno desiderar di farlo, proccurar di
scemare presso lui, presso loro stessi, e presso gli altri l'idea e il pregio
della sua nuova fortuna ec. Tutto ciò, accadendo, come inevitabilmente accade,
gli riesce maraviglioso. (11. Sett. 1821.).
[1740,1] Considerate indipendentemente e in se stessa, la
lode di se medesimo. Anche dopo formata una società (giacchè prima non esisteva
l'amor di lode), qual cosa più conforme alla natura, più dolce a chi la
pronunzia, qual cosa a cui lo spirito sia più spontaneamente e potentemente
inclinato, qual cosa meno dannosa a' nostri simili, qual piacere insomma più
innocente, e qual premio più conveniente alla virtù, o all'opinione di lei?
Eppur l'assuefazione ce la fa riguardare come un vizio da cui l'animo ben fatto
naturalmente rifugga, come un desiderio di cui bisogni arrossire (e qual cosa ha
ella in se stessa e per natura, che sia vergognosa?), come contrario al dovere
della modestia, che si suppone innato, e non lo è punto (consideriamo i
fanciulli, i quali tuttavia non appena cominciano a desiderar la lode, che già
sono avvertiti a non darsela da se stessi),
1741 come
ripugnante insomma a un dettame interno, e proibita dalla legge naturale.
[1932,2] La lode di se stesso la quale ho detto pp. 1740-41 non esser
altro che naturalissima all'uomo, e in tanto solo condannata nella società, e
divenuta oggetto di una certa ripugnanza all'individuo (che par naturale e non
è) in quanto l'uomo odia l'altro uomo; è sempre tanto più o meno in uso ec.
quanto la società è più o meno stretta, e la civiltà più
1933 o meno avanzata. Presso gli antichi ella non fu mai così deforme,
nè soggetta al ridicolo come oggi. Esempio di
Cicerone. Oggi la modestia
è tanto più minuziosa e scrupolosa nelle sue leggi quanto la nazione è più
civile e socievole. Quindi in Francia queste leggi sono
nell'apice del rigore, e in francia riescono
intollerabili gli antichi quando si lodano da se come Cic. e Orazio
(v. l'apologia che fa Thomas di Cic. in tal proposito; nell'Essai sur les
Éloges), ed è proibito sotto pena del più gran
ridicolo, a chi scrive e a chi parla il mostrare di far conto di se o delle cose
sue, il parlar di se senza grand'arte, il non affettar disprezzo di se e delle
proprie cose. ec. Questi effetti nelle altre nazioni sono proporzionati al più o
meno di francese che si trova ne' loro costumi, o in quelli de' loro individui.
(La Francia non ha differenza d'individui, essendo tutta
un individuo). I tedeschi
1934 che certo non sono
incivili, pur si vede ne' loro scrittori, che parlano volentieri di se, e danno
a se stessi, alle loro azioni, famiglie, casi, scritti ec. un certo peso, e in
un certo modo che riuscirebbe ridicolo in Francia ec.
(17. Ott. 1821.). {{Similmente possiamo
discorrere degl'italiani.}}
[3360,1] Tanto l'uomo è gradito e fa fortuna nella
conversazione e nella vita, quanto ei
3361 sa ridere.
(5. Sett. 1823.).
[3684,1]
3684 Non v'è persona che riesca più intollerabile e che
meno sia tollerata nella società, di uno intollerante. (14. Ott.
1823.).
[4037,6] Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel
conversare, e massime gli sprezzanti avessero più amor proprio degli altri e più
stima di se, e i timidi meno. Tutto al contrario. I timidi per eccesso di amor
proprio e per il troppo conto che fanno di se, temendo sempre di sfigurare e
perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di acquistarla e di
figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del proprio onore, del
proprio concetto, del proprio amore, e occupati e legati da questo pensiero,
sono senza coraggio, e non si ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti fanno al
contrario
4038 per la contraria cagione, cioè per aver
poca cura e poco concetto concetto di se, o desiderio della stima degli altri
(che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura, o per
abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano
di offendere l'amor proprio degli altri, e n'hanno poca cura, per poco amor di
se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille scrupoli e riguardi, e non
impetrano mai da se stessi non che di lederlo menomamente, ma di porsene a
rischio benchè leggero e lontano, e ciò per soverchio amor proprio, il quale
parrebbe che dovesse principalmente offendere e muoverli ad offendere quello
degli altri. E così per soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar
dispregio degli altri, e infatti non gli spregiano, anzi gli stimano
eccessivamente non per altro che per lo smisurato desiderio e conto che fanno
della loro stima, anche conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema
che hanno di perderla, eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per
rispetto al merito di coloro. Tali sono ordinariamente i fanciulli e i giovani
ancora inesperti e inesercitati nel commercio umano e nelle palestre dell'amor
proprio, dov'esso riporta tanti colpi, che alla fine incallisce; e tali sono più
o manco, per più o men lungo tempo, ed alcune per tutta la vita, le persone
sensibili e immaginose, le quali restano {sovente}
fanciulle anche in età matura, e vecchia, sì quanto a {molte} altre cose, sì quanto a questa della timidità {nel consorzio umano,} che in esse è sempre difficile a
vincere più {assai} che negli altri, e in alcune è
assolutamente invincibile, come {fu} in Rousseau. La cagione si è l'eccesso
dell'amor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza
dell'animo; ed insieme la vivacità della immaginazione, la quale non mai
veramente spenta {in loro,} nè anche quando pare
affatto agghiacciata, e quando effettivamente ha cessato affatto di partorire
alcun piacere all'individuo medesimo, continuamente,
4039 secondo la sua natura, va fingendo ad esso amor proprio che è per se
vivissimo, mille falsi pericoli e difficoltà, o smisuratamente accrescendo e
moltiplicando i veri. Sì, Rousseau e gli
altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da
un'invincibile e irrepugnabile timidità, anzi mauvaise
honte ed erubescenza, non furono e non son tali se non
per eccesso di amor proprio e d'immaginazione. Altro danno e infelicità somma
della soprabbondanza della vita interna dell'anima (oltre i tanti da me altrove
notati p. 1382
p.
1584
pp. 2410-14
pp.
2629-30
pp. 2736-39
p.
2861
pp.
3921. sgg.), della sensibilità, della squisitezza dell'ingegno, della
natura riflessiva, immaginosa ec. Poichè in essa l'amor proprio essendo
eccessivo e però tanto più bisognoso di successi, e desiderando la stima altrui
e temendo la disistima molto più che gli altri non fanno, e impedito di
conseguire e costretto ad incontrare quelli che gli altri con molto minor
desiderio e bisogno conseguono facilissimamente ogni dì, ed evitano con molto
minor tema, e che quando nol conseguissero o non lo evitassero, ne sarebbero
molto meno afflitti e infelicitati, per la minore vivacità {e
sensibilità} dell'amor proprio, ed anche della immaginazione, la quale
a quegli altri accresce eziandio per se stessa e con mille false esagerazioni e
finzioni la grandezza delle perdite fatte, di quello che essi desiderano
naturalmente di conseguire, di quello che non ottengono, dei mali successi
incontrati nella società, delle ἀσχημοσύναι, che anche bene spesso non son vere
affatto, ma fabbricate di pianta dall'immaginazione, e non esistono se non
nell'idea di questi tali, e così anche i buoni successi o gli oggetti che essi
si propongono di conseguire che spessissimo sono vani e immaginari, e da niuno
ottenuti nè possibili ad ottenere ec. ec. (1. Marzo. penultimo dì di
Carnevale. 1824.) Ciò che ho detto dell'immaginazione, dico
4040 dell'amor proprio, il quale in questi tali, anche
quando sembra rotto e fiaccato dall'uso de' mali, {dispiaceri, punture ec.} anzi minore assai che non è negli altri, e
quasi al tutto agghiacciato, addormentato e spento, è sempre in verità vivissimo
assai più che negli altri anche giovani e principianti, caldissimo, e {ancora} in istato da esser chiamato tenerezza di se
stesso (come suol essere nella gioventù) benchè sia in loro più {negativo che} positivo, più atto a impedire che a
cagionare, piuttosto causa di passione che d'azione ec. quale egli è
proporzianatamente[proporzionatamente] anche
ne' primi anni di questi tali. (3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri.
1824.).
[4140,2] Tanto è necessaria l'arte nel viver con gli uomini
che anche la sincerità e la schiettezza conviene usarla seco loro con artificio.
(Milano. 22. Sett. 1825.)
[4188,8]
Propterea dicebat
Bion μὴ δυνατòν εἶναι τοῖς
πολλοῖς ἀρέσκειν, εἰ μὴ πλακoῦντα γενóμενον ἢ Θάσιον: non posse aliquem
vulgo omnibus placere, nisi placenta fieret aut vinum Τhasium.
*
Casaub.
ad Athenae. l. 3. c. 29.
(Bologna. 17. Luglio. 1826.).
[4194,1] La condotta di Tiberio nell'impero, da principio non pur
affabile, benigna, moderata, ma eziandio umile; insomma più che civilis
(v. Sueton.
Tiber. c. 24-33), le sue
difficoltà di accettar l'impero ec. paragonate colla
seguente condotta tirannica, si attribuiscono a profonda politica,
dissimulazione e simulazione. Io non vi so veder niente di finto, nè di
artifiziale. Tiberio era certamente, a
differenza di Cesare, di natura timida.
A differenza poi e di Cesare che fin da
giovanetto andò continuamente elevandosi, ed abituando successivamente l'animo e
il carattere a grandezze sempre maggiori; e di Augusto che pure fin da giovanetto si vide alla testa degli affari;
Tiberio, nato privato, vissuto la
gioventù e l'età matura in sospetto di Augusto e de' costui parenti, ed anche in non piccolo pericolo (otto
anni passò ritirato in Rodi per fuggirlo o scemarlo), non
aveva l'animo nè il carattere formato al potere, quando la fortuna gliel pose in
mano. Però nel principio fu modesto, anzi timido ed umile, anche dopo liberato
da ogni timore, come dice espressamente Suetonio (c. 26.); {+v.
p. 4197. capoverso 6.} nè qui v'era dissimulazione: io non
ci veggo altro che un uomo avvezzo a soggiacere, avvezzo a temere ed evitar di
offendere, che ridotto a soprastare, conserva ancora l'abito di tal timore e di
tale evitamento. Egli lo perdè col tempo, e coll'esperienza continuata del suo
potere, e della soggezione, anzi abbiezione, degli altri. Questo non è
smascherarsi; questo è mutar carattere e natura, per mutazione di circostanze.
4195
Tiberio era certamente cattivo, perchè
vile, e debole. {+V. p. 4197. capoverso 7.} Questo fu causa
che il potere lo rendesse un tiranno, perchè la sua natura era tale che
l'influenza del principato doveva farne un cattivo carattere di principe. Ma qui
non ci entra simulazione. Io non sono mai stato nè principe nè cattivo. Pur
disprezzato e soggetto sempre fino all'età quasi matura; vedutomi poi per le
circostanze, uguale a molti e superiore ad alcuni; da principio benignissimo ed
umile cogl'inferiori, sono poi divenuto verso loro un poco esigente, {un poco intollerante, φιλόνεικος, μεμψίμοιρος,} ed anche
cogli uguali un poco chagrin, e più difficile a
perdonare un'ingiuria, {una piccola mancanza,} più
risentito, più facile a concepir qualche seme di avversione, {più desideroso, se non altro, di vendettucce,} ec. Se la mia natura
fosse stata cattiva, io sarei divenuto tanto più insopportabile quanto più tardi
sono pervenuto alla superiorità, ed in età men facile ad accostumarmici. Noi
siamo tutti inclinati a suppor negli uomini antichi o moderni, assenti o
presenti, noti o ignoti, e nelle loro azioni e condotta, una politica, un'arte,
una simulazione quasi continua, e qualche fine occulto. Ma credete a me che v'è
{al mondo} assai meno politica, assai meno
finzione, assai meno tendenze occulte, meno intrighi, meno maneggi, meno arte,
{e più di sincerità e di vero} che non si crede. 1.
Gli uomini di talento (indispensabile fondamento a simil condotta) sono assai
più rari che non si stima. 2. Anche gli uomini i più persuasi della necessità o
utilità dell'arte nel consorzio umano, {e i più disposti ad
essa per volontà,} non hanno la pazienza di usarla troppo spesso, di
fingere, di nascondere e dissimulare troppo a lungo. 3. Condotte calcolate e
dirette costantemente a qualche fine, sono più immaginarie che reali, perchè è
natura di qualunque uomo d'essere incostante, ne' suoi gusti, desiderii,
opinioni, in tutto; di esser contraddittorio
4196 ed
incoerente nelle sue azioni, massime ec.; di operare contro i proprii principii;
di operare contro i proprii interessi. ec. 4. Finalmente la natura per
combattuta che sia, per quanto la vogliam credere abbattuta, può ancora, ed
opera nel mondo, assai più che non si crede. Ora la natura è l'opposto
dell'arte: la finzione tende a nasconder la natura, ma questa trapela ad ogni
momento, in dispetto d'ogni massima, d'ogni volontà, d'ogni disciplina.
(Bologna. 3. Sett. Domenica. 1826.).
Del resto le atrocissime crudeltà usate scopertamente in seguito da Tiberio, e gran parte di queste senza
nessuna utilità proposta, ma per solo piacere e soddisfazione del gusto e
dell'animo suo, mostrano che l'anima di Tiberio era più vile che doppia per sua natura, e col regno era
divenuta più malvagia che politica. (Bologna 4.
Sett. 1826.).
[4261,2] Tutti siamo naturalmente inclinati a stimar noi
medesimi uguali a chi ci è superiore, superiori agli uguali, maggiori di ogni
comparazione cogl'inferiori; in somma ad innalzare il merito proprio sopra {quel degli altri fuor di modo e ragione.} Questo è
natura universale, e vien da una sorgente comune a tutti. Ma un'altra sorgente
d'orgoglio {e di disistima altrui,} sconosciuta affatto
a noi; divenuta, per l'assuefazione incominciata sin dall'infanzia, naturale e
propria; è ai Francesi e agl'Inglesi la stima della propria nazione. Tant'è: il
più umano e ben educato e spregiudicato francese o inglese, non può mai far che
trovandosi con forestieri, non si creda cordialmente e sinceramente di trovarsi
con un inferiore a se (qualunque si sieno le altre circostanze); che non
disprezzi più o meno le altre nazioni prese in grosso; e che in qualche modo,
più o meno, non dimostri {esteriormente} questa sua
opinione di superiorità. Questa è una molla, una fonte {ben
distinta} di orgoglio, e di stima di se in pregiudizio o abbassamento
d'altrui, della quale niun altro fra i popoli civili, se non gli uomini delle
dette nazioni, possono avere o formarsi una giusta idea. I Tedeschi che
potrebbero con altrettanto diritto aver lo stesso sentimento, ne sono impediti
dalla lor divisione, dal non esserci nazion tedesca. I Russi sentono di esser
mezzo barbari; gli Svedesi, i Danesi, gli Olandesi, di essere troppo piccoli, e
di poter poco. Gli Spagnuoli del tempo di Carlo quinto e di Filippo
secondo, ebbero certamente questo sentimento, come veggiamo dalle
storie, niente meno che i francesi e gl'inglesi di oggidì, e con diritto uguale;
forse, senza diritto alcuno, l'hanno anche oggi; e così i Portoghesi: ma chi
pone oggi in conto gli Spagnuoli e i Portoghesi, parlando di popoli civili?
Gl'italiani forse l'ebbero (e par veramente di sì) nei secoli 15.o e 16.o e
parte del precedente e del susseguente; per conto della lor civiltà, che essi
ben conoscevano, e gli altri riconoscevano, esser superiore a quella di tutto il
resto d'europa. Degl'italiani d'oggi non parlo; non so
ben se ve n'abbia.
[4268,1]
Τhe muses are amicae omnium horarum; and, like our gay
acquaintance, the best company in the world, as long as one expects no
real service from them.
*
Ibid.
[4274,2] Pel manuale di
filosofia pratica. A me è avvenuto di conservare per lo più ogni
amicizia contratta una volta, eziandio con persone difficilissime, di cui tutti
a poco andare si disgustavano, o che si disgustavano con tutti. E la cagion, per
quello che io posso trovare, è che io non mi disgusto mai di un amico per sue
negligenze, e per nessuna sua azione che mi sia o nocevole o dispiacevole; se
non quando io veggo chiaramente, o posso con piena ragione giudicare in lui un
animo e una volontà determinata di farmi dispiacere e offesa. Cosa che in verità
è rarissima. Ma a vedere il procedere degli altri comunemente nelle amicizie, si
direbbe che gli uomini non le contraggono se non per avere il piacere di
romperle; e che questo è il principal fine a cui mirano nell'amicizia: tanto
studiosamente cercano e tanto cupidamente abbracciano le occasioni di rompersi
coll'amico, eziandio frivolissime, ed eziandio tali che essi medesimi nel fondo
del loro cuore non possono a meno di non discolpar l'amico, e di non conoscere
che quella offesa o dispiacere, almen secondo ogni probabilità, non venne da
volontà determinata di offenderli. (7. Apr. 1827.).
[4275,1]
Alla p.
4275[4245.] Un'altra cagione per
la quale io amo la μονοϕαγία è per non avere (come necessariamente avrei se
mangiassi in compagnia) dintorno alla mia tavola, assistenti al mio pasto,
d'importuns laquais, épiant nos
discours, critiquant tout bas nos maintiens, comptant nos morceaux d'un
oeil avide, s'amusant à nous faire attendre à boire, et murmurant d'un
trop long dîner.
*
(Rousseau, Émile.)
Disgraziatamente non mi è mai riuscito di assuefarmi a provar piacere in
presenza di persone che, di mia certa scienza, lo condannino, lo deridano, se ne
annoino; non ho mai potuto comprendere come gli altri sopportino anzi si
compiacciano, di siffatti testimonii, l'occupazione e i pensieri dei quali in
quel tempo, tutti sanno essere appunto quelli detti di sopra. Anche gli antichi
a tavola si faceano servire, ma da schiavi, cioè da genti che essi stimavano
meno che uomini, o certo, meno uomini che essi. Però aveano forse ragione di non
curarsi, e di non temere le loro railleries e
disapprovazioni. Ma i nostri servitori sono nostri uguali. Ed è bene strano che
noi, tanto sensibili sopra ogni menomo ridicolo, ogni menoma parola o pensiero
che noi possiamo sapere o sospettare in altrui a nostro disfavore; non ci diamo
cura alcuna di quelli dei servitori in quel tempo, i quali, non sospettiamo, ma
sappiamo ben certo quali sieno intorno di noi: e che mentre non potremmo senza
molestia starcene fermi e oziosi a sedere in un luogo dove fosse presente uno
che noi sapessimo che attualmente si trattenesse in dir male di noi ed in
ischernirci; possiamo poi, avendo molti dintorno di questa sorte, gustare
tranquillamente, e {pienamente senza disturbo alcuno,
i} piaceri della tavola. L'opinione che gli antichi avevano dei loro
schiavi, li giustifica anche per un altro verso, cioè del loro non curarsi
dell'incomodo, della noia, della rabbia che i loro servi dovevano
necessariamente provare nel tempo, e per cagione, di quei loro piaceri; e che
ciascun di noi proverebbe se si trovasse nel
4276 luogo
dei nostri servi quando assistono alle nostre tavole. In vero l'umanità e la
cordialità nostra possono essere un poco accusate, quando elle ci permettono
abitualmente di godere in presenza di persone che il nostro godimento fa patire,
e il cui patimento ci sta sotto gli occhi; e nondimeno godere senza il menomo
disturbo. Non è molto umano il divertirsi in una conversazione mentre il vostro
cocchiere sta esposto alla pioggia: ma in fine voi non lo vedete. Non è molto
umano lo stornar gli occhi dai patimenti degli altri per non esserne afflitto o
turbato, perchè quel pensiero non vi guasti i vostri diletti. Ma il dilettarsi
tranquillamente e a tutto suo agio, finchè n'è capace il corpo e lo spirito,
avendo, non lontane, ma presenti, non nel pensiero, ma negli occhi, persone
uguali a noi, che manifestamente (e con tutta ragione) soffrono, e non per altra
causa, ma pel nostro stesso godere, quanto sarà umano? Io confesso che non mi è
riuscito mai di provar piacere in cosa che io, non dico vedessi, non sapessi, ma
che pur sospettassi che fosse di molestia o di noia ad alcuno: perchè non mi è
mai riuscito di potermi in quel tempo cacciar quel pensiero dalla mente. E ciò,
quando anche non fosse ragionevole in quella tal persona il darsene quella
molestia. Perciò non voglio mangiare in compagnia, per non aver servitori
intorno: perchè appunto io voglio alla tavola provar piacere: e mangiando solo,
non voglio averne che mi assistano. Tanto più che io per bisogno, e con molta
ragione, voglio mangiare a grand'agio, e con lunghezza di tempo (non parendomi
anche che il tempo sia male impiegato in questo, come par che stimino molti, che
si affrettano d'ingoiare ogni cosa, e di levarsi su, quasi che questo momento
fosse il più bello del desinare); la qual lunghezza, con altrettanta ragione, da
chi mi servisse, sarebbe trovata estremamente fastidiosa e intollerabile.
(7. Apr. 1827.).
[4285,5] L'amore e la stima che un letterato porta alla
letteratura, o uno scienziato alla sua scienza, sono il più delle volte in
ragione inversa dell'amore e della stima che il letterato o lo scienziato porta
a se stesso. (Firenze. 5. Luglio.
1827.).
[4294,5] persone la cui compagnia {e
conversazione} ci piaccia durevolmente, e si usi volentieri con
4295 frequenza e lunghezza, non sono in sostanza, e non
possono essere altre che quelle dalle quali giudichiamo che vaglia la pena di
sforzarci e adoperarci d'essere stimate, e stimate ogni giorno più. Perciò la
compagnia {e conversazione} delle donne non può esser
durevolmente piacevole, se esse non sono o non si rendono tali da rendere
durevolmente pregiabile e desiderabile la loro stima.
(Firenze. Domenica 14. Ottobre.
1827.). {{
Fin qui si stende l'Indice di questo zibaldone di
Pensieri
cominciato agli 11 Luglio, e finito ai 14 ottobre del 1827. in Firenze.}}
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Pensieri
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