26. Giugno 1820.
[136,2] Oggidì le menti superiori hanno questa proprietà che
sono facilissime a concepire illusioni, e facilissime e prontissime a perderle,
(parlo anche delle piccole illusioni della
137 giornata)
a concepirle, per la molta forza dell'immaginazione a perderle, per la molta
forza della ragione.
[137,1] Mentre io stava disgustatissimo della vita, e privo
affatto di speranza, e così desideroso della morte, che mi disperava per non
poter morire, mi giunge una lettera di quel mio amico, che m'avea sempre confortato a
sperare, e pregato a vivere, assicurandomi come uomo di somma intelligenza e
gran fama, ch'io diverrei grande, e glorioso all'italia,
nella qual lettera mi diceva di concepir troppo bene le mie sventure,
(Piacenza 18. Giugno) che se Dio mi mandava la morte
l'accettassi come un bene, e ch'egli l'augurava pronta a se ed a me per l'amore
che mi portava. Credereste che questa lettera invece di staccarmi maggiormente
dalla vita, mi riaffezionò a quello ch'io aveva già abbandonato? E ch'io
pensando alle speranze passate, e ai conforti e presagi fattimi già dal mio
amico, che ora pareva non si curasse più di vederli verificati, nè di quella
grandezza che mi aveva promessa, e rivedendo a caso le mie carte e i miei studi,
e ricordandomi la mia fanciullezza e i pensieri e i desideri e le belle viste e
le occupazioni dell'adolescenza, mi si serrava il cuore in maniera ch'io non
sapea più rinunziare alla speranza, e la morte mi spaventava? non già come
morte, ma come annullatrice di tutta la bella aspettativa passata. E pure quella
lettera non mi avea detto nulla ch'io non
138 mi dicessi
già tuttogiorno, e conveniva nè più nè meno colla mia opinione. Io trovo le
seguenti ragioni di queto[questo] effetto. 1.
che le cose che da lontano paiono tollerabili, da vicino mutano aspetto. Quella
lettera e quell'augurio mi metteva come in una specie di superstizione, come se
le cose si stringessero, e la morte veramente si avvicinasse, e quella che da
lontano m'era parsa facilissima a sopportare, anzi la sola cosa desiderabile, da
vicino mi pareva dolorosissima e formidabile.
[138,1] 2. Io considerava quel desiderio della morte come
eroico. Sapeva bene che in fatti non mi restava altro, ma pure mi compiaceva nel
pensiero della morte come in un'immaginazione. Credeva certo che i miei
pochissimi amici, ma pur questi pochi, e nominatamente quel tale {mi volessero pure in vita, e non consentissero alla mia
disperazione e s'io morissi,} ne sarebbero rimasti sorpresi e
abbattuti, e avrebbero detto. Dunque tutto è finito? Oh Dio, tante speranze,
tanta grandezza d'animo, tanto ingegno senza frutto nessuno. Non gloria, non
piaceri, tutto è passato, come non fosse mai stato. Ma il pensar che
dovessero dire, {Lode a Dio} ha finito di penare, ne
godo per lui, che non gli restava altro bene: riposi in pace; questo
chiudersi come spontaneo della tomba sopra di me, questa subita e intiera
consolazione della mia morte ne' miei cari, quantunque ragionevole, mi affogava,
col sentimento di un mio intiero annullarmi. La previdenza della tua morte ne'
tuoi amici, che li consola anticipatamente, è la cosa più spaventosa che tu
possa immaginare.
[139,1]
139 3. Lo stato non della mia ragione la quale vedeva il
vero, ma della mia immaginazione era questo. La necessità e il vantaggio della
morte ch'era reale faceva in me l'effetto di un[un'] illusione, a cui l'immaginazione si affeziona, e il vantaggio e
le speranze della vita ch'erano illusorie, stavano nel fondo del cuor mio come
la realtà. Quella lettera di un tale amico, mise queste cose viceversa. Insomma
questa vita è una carnificina senza l'immaginazione, e la sventura più estrema
diventa anche peggiore e somiglia a un vero inferno quando sei spogliato di
quell'ombra d'illusione, che la natura ci suol sempre lasciare. Se ti
sopravviene una calamità senza rimedio, e in qualunque affar doloroso, il
communicarti con un amico, {e} il sentir che questo ti
conferma {intieramente} quello che già la tua ragione
vedeva troppo chiaro, ti toglie ogni residuo di speranza, e parendoti di
accertarti allora della totalità e irreparabilità del tuo male, cadi nella piena
disperazione.
[139,2] Da queste considerazioni impara come tu debba
regolarti nel consolare una persona afflitta. Non ti mostrare incredulo al suo
male, se è vero. Non la persuaderesti, e l'abbatteresti davantaggio, privandola
della compassione. Ella conosce bene il suo male, e tu confessandolo converrai
con lei. Ma nel fondo ultimo del suo cuore le resta una goccia d'illusione. I
più disperati credi certo che la conservano, per benefizio costante della
natura. Guarda di non seccargliela, e vogli piuttosto peccare nell'attenuare il
suo male e mostrarti poco compassionevole, che nell'accertarlo di quello
140 in cui la sua immaginazione contraddice ancora alla
sua ragione. Se anche egli ti esagera la sua calamità, sii certo che nell'intimo
del suo cuore fa tutto l'opposto, dico nell'intimo, cioè in un fondo nascosto
anche a lui. Tu devi convenire non colle sue parole ma col suo cuore, e come
secondando il suo cuore tu darai una certa realtà a quell'ombra d'illusione che
gli resta, così nel caso contrario tu gli porterai un colpo estremo e mortale.
La solitudine e il deserto l'avrebbero consolato meglio di te, perchè avrebbe
avuto con se la natura sempre intenta a felicitare o a consolare. Parlo delle
calamità gravissime {e reali} che riducono alla
disperazione della vita, e non delle leggere, nelle quali anzi si desidera di
esser creduto esagerando, nè di quelle provenienti da grandi illusioni e
passioni, dove l'uomo forse cerca e vuole la disperazione e fugge il conforto.
(26. Giugno 1820.).