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[195,1]  Gli uomini sono come i cavalli. Per tenergli in dovere e farsi stimare bisogna sparlare bravare minacciare e far chiasso. Bisogna adoperar l'espediente di quelle monache del Tristram Shandy. (1 Agosto 1820.).

[196,2]  Anche gli uomini già sazi della lode, e persuasi della loro fama che non guadagna per le espressioni particolari di questo o di quello, sono sensibili alla lode che riguarda qualche pregio diverso da quelli per cui sono famosi. E però, eccetto le persone avvezze a essere adulate in ogni cosa, nessuno diviene indifferente alla lode in  197 genere, ma alla lode di quelle tali sue qualità. Di più la lode più cara è spesso quella che cade sopra una cosa nella quale tu desideri, ma dubiti o stimi di {non} esser lodevole, o che altri {non} ti abbia per tale.

[197,1]  Dice Diogene Laerzio di Chilone che προσέταττε... ἰσχυρὸν ὄντα πρᾷον εἶναι ὅπως οἱ πλησίον αἰδῶνται μᾶλλον ἢ ϕοβῶνται * . E questo precetto si deve estendere, massimamente oggidì in tanta propagazione dell'egoismo, a tutti i vantaggi particolari di cui l'individuo può godere. Perchè se tu sei bello non ti resta altro mezzo per non essere odiosissimo agli uomini che un'affabilità particolare, e come una certa noncuranza di te stesso, che plachi l'amor proprio altrui offeso dall'avvantaggio che tu hai sopra di loro, o anche dall'uguaglianza. Così se tu sei ricco, dotto, potente ec. Quanto maggiore è l'avvantaggio che tu hai sopra gli altri, tanto più per fuggir l'odio, t'è necessaria una maggiore amabilità, e quasi dimenticanza e disprezzo di te stesso in faccia agli altri, perchè tu devi medicare una cagione d'odio che tu hai in te stesso e che gli altri non hanno: una cagione assoluta, che ti fa odioso per se sola, senza che tu sia nè ingiusto nè superbo nè ec. Ed era questa una cosa notissima agli antichi, tanto persuasi della odiosità dei vantaggi individuali, che ne credevano invidiosi gli stessi dei, e nella prosperità avevano cura dell'invidiam deprecari tanto divina che umana, e quindi un  198 seguito non interrotto di felicità li rendeva paurosi di gravi sciagure. V. Frontone de Bello Parthico. (4. Agosto 1820.). {{v. p. 453. capoverso ult.}}

[220,1]  Si dice con ragione che al mondo si rappresenta una Commedia dove tutti gli uomini fanno la loro parte. Ma non era così dell'uomo in natura, perchè le sue operazioni non avevano in vista gli spettatori e i circostanti, ma erano reali e vere.

[233,2]  Al capoverso primo della p. 206. aggiungi: Et si elles * (les Françoises) ont un amant, elles ont autant de soin de ne pas {donner} à l'heureux mortel des marques de prédilection en public, qu'un Anglois du bon ton de ne pas paroître amoureux {de sa femme} en compagnie. * Morgan, France. t. 1. 1818. p. 253. liv. 3.

[283,1]  Qualunque uomo nuovo tu veda, purch'egli viva nel mondo, tu sei certo di non errare, tenendolo subito per un malvagio, qualunque sia la sua fisonomia, le maniere, il portamento, le parole, le azioni ec. E chi vuol mettersi al sicuro deve subito giudicarlo per tale, e appresso a poco non troverà mai di avere sbagliato veramente, non ostante che tutte le apparenze gli possano dimostrare il contrario per lunghissimo tempo. Nello stesso modo, e per la stessa ragione è pur troppo acerbissima oggidì la condizione dell'uomo da bene che si unisce in matrimonio. Perchè s'egli non intende di portare e far sempre vivere i suoi figli nelle selve, deve tenere per indubitatissimo  284 fino da quel primo punto, che il suo matrimonio non frutterà al mondo altro che qualche malvagio di più. E questo non ostante qualunque indole, qualunque cura o arte di educazione ec. Perchè da che un uomo qualunque dovrà entrare nella società, è quasi matematicamente certo che dovrà divenire un malvagio, se non tutto a un tratto, certo a poco a poco; se non del tutto, certo in gran parte, a proporzione degli ostacoli ch'esso gli opporrà, ma che in tutti i modi certamente saranno vinti. E parimente dovrebb'esser dolorosissimo per l'uomo da bene il considerare nel mentre che alleva i suoi figli, che qualunque sua cura, qualunque immaginabile speranza di virtù, ch'egli ne possa concepire, è certissimo per infallibile e continua esperienza, che saranno, almeno in gran parte, inutili e vane. Sicchè tutto quello che può ragionevolmente sperare e cercare il buon educatore, è d'istillare ne' suoi figli tanta dose di virtù, che venendo senza fallo a scemare, pur ne resti qualche poco, a proporzione della prima quantità. Questa sarebbe ben altra risposta da darsi a chi vi consigliasse d'ammogliarvi, o v'interrogasse perchè non l'abbiate fatto. Al che Talete interrogato  285 da Solone, dicono che rispondesse col mostrargli le inquietudini e i dolori del padre per li pericoli o le sventure della sua prole. Ma ora si potrebbe rispondere: per non procreare dei malvagi: per non dare al mondo altri malvagi. (17. 8.bre 1820.).

[334,1]   334 Non c'è uomo costituito in carica o dignità, il quale confessi di averla cercata, e non dica o voglia fare intendere d'esserne stato rivestito spontaneamente, anzi contro sua voglia ec. Gl'incarichi, le dignità, gli onori, ciascuno li cerca, e nessuno gli ha cercati.

[463,2]  L'egoismo comune cagiona e necessita l'egoismo di ciascuno. Perchè quando nessuno fa per te, tu non puoi vivere se non t'adopri tutto per te solo. E quando gli altri ti tolgono quanto possono, e per li loro vantaggi non badano al danno tuo, se vuoi vivere, conviene che tu combatta per te, e contrasti agli altri tutto quello che puoi. Perchè di qualunque cosa tu voglia cedere, non devi aspettare nè gratitudine nè compenso, essendo abolito il commercio de' sacrifizi e liberalità e benefizi scambievoli: anzi se tu cedi un passo gli altri ti cacciano indietro venti passi, adoperandosi ciascuno per se con tutte le sue forze; onde bisogna che ciascuno  464 contrasti agli altri quanto può, e combatta per se fino all'ultimo, e con tutto il potere: essendo necessario che la reazione sia proporzionata all'azione, se ne deve seguire l'effetto, cioè se vuoi vivere. E l'azione essendo eccessiva, dev'esserlo anche la reazione. E quanto l'una è maggiore, tanto l'altra dee crescere necessariamente. Come in una truppa di fiere affollate intorno a una preda, dove ciascuna è risoluta di non lasciare alle altre se non quanto sarà costretta; quella fiera che o restasse inattiva, o cedesse alle altre, o aspettasse che queste pensassero a lei, o finalmente non adoperasse tutte le sue forze; o resterebbe a digiuno, o perderebbe tanto, quanto meno forza avesse adoperata, o potuto adoperare. Tutto quello che si cede è perduto, posto il sistema dell'egoismo universale. Anche per altra parte, questo egoismo cagiona l'egoismo individuale, cioè non solo per l'esempio, ma pel disinganno che cagiona in un uomo virtuoso, la trista esperienza della inutilità, anzi nocevolezza della virtù e de' sacrifizi magnanimi: e per la misantropia che ispira il veder tutti occupati per se stessi, e non curanti del vostro vantaggio, non grati ai vostri benefizi, e pronti a danneggiarvi o beneficati o no.  465 La qual cosa cambia il carattere delle persone, e introduce non solo materialmente, ma radicalmente l'egoismo, anche negli animi più ben fatti. Anzi principalmente in questi, perchè l'egoismo non vi entra come passione bassa e vile, ma come alta e magnanima, cioè come passione di vendetta, e odio de' malvagi e degl'ingrati. Si nocentem innocentemque idem exitus maneat, acrioris viri esse, merito perire: * diceva Ottone Imp. appresso Tacito Hist. l. 1. c. 21. (2. Gen. 1821.). {{V. p. 607. fine.}}

[476,2]  Non punir mai l'ingiuria che non hai meritata, nè lasciare impunita quella che hai meritata.  477 Perdona al tuo calunniatore, punisci il tuo detrattore. Non far caso di chi ti schernisce a torto, ma piglia vendetta di chi ti motteggia a ragione. (7. Gen. 1821.).

[496,2]  Dicono e suggeriscono che volendo ottener dalle donne quei favori che si desiderano, giova prima il ber vino, ad oggetto di rendersi coraggioso, non curante, pensar poco alle conseguenze, e se non altro brillare nella compagnia coi vantaggi della disinvoltura. Voltaire consiglia scherzosamente di bere, per dimenticare o liberarsi dall'  497 amore. Ou bien buvez: c'est un parti fort sage. * Non so quanto bene. Il vino, ossia la forza del corpo, come ho detto altrove p. 109 p. 324, ed è vero, sebbene inclini all'allegrezza, e sopisca i dolori dell'animo, contuttociò dà risalto alle passioni dominanti o abituali di ciascheduno. Bensì le rallegrerà, e darà speranza anche allo sventurato o disperato in amore. {{V. p. 501 capoverso 1.}}

[507,2]  Qual è la più grata compagnia? Quella che rileva l'idea che abbiamo di noi medesimi; quella che ci fa compiacere di noi stessi, che ci persuade di valer più che non credevamo, che ci mostra come lodevoli alcune qualità, dove non credevamo di meritar lode, o non tanta;  508 quella da cui partiamo con maggiore stima di noi, che ci lascia più soddisfatti di noi stessi. Tutto è amor proprio nell'uomo e in qualunque vivente. Amabile non pare e non è, se non quegli che lusinga, giova ec. l'amor proprio degli altri. Questa è una delle principali osservazioni ed artifizi per farsi stimare di buona compagnia, rendersi piacevole e amabile, farsi desiderare e far fortuna: nominatamente nella galanteria. Cosa ben conosciuta dai professori di quest'ultima arte. V. quello che Lord Nelvil di Mad. d'Arbigny presso la Staël nella Corinna. Si desidera bene spesso la compagnia di qualcuno, ci si trova un pascolo un piacere nuovo e straordinario: nè si vede bene perchè, ma si attribuisce all'amabilità delle sue maniere e del suo carattere. La ragion vera ch'egli sa fare che noi ci stimiamo da più di quello che facessimo, o confermarci nella buona opinione che avevamo di noi. (15. Gen. 1821.).

[612,2]  Non è veramente furbo chi non teme, o presume e confida con certezza, di non poter essere ingannato {trappolato ec.:} perchè non conosce dunque e non apprezza a dovere le forze della sua stessa furberia.

[669,1]  L'orgueil nous sépare de la société: notre amour-propre nous donne un rang à part qui nous est toujours disputé: l'estime de soi-même qui se fait trop sentir est presque toujours punie par le mépris universel. * Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille, dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p. 633), p. 99. fine. Così è naturalmente nella società, così porta la natura di questa istituzione umana, la quale essendo diretta al comun bene e piacere, non sussiste veramente, se l'individuo non accomuna  670 più o meno cogli altri la sua stima, i suoi interessi, i suoi fini, pensieri, opinioni, sentimenti ed affetti, inclinazioni, ed azioni; e se tutto questo non è diretto se non a se stesso. Quanto più si trova nell'individuo il se stesso, tanto meno esiste veramente la società. Così se l'egoismo è intero, la società non esiste se non di nome. Perchè ciascuno individuo non avendo per fine se non se medesimo, non curando affatto il ben comune, e nessun pensiero o azione sua essendo diretta al bene o piacere altrui, ciascuno individuo forma da se solo una società a parte, ed intera, e perfettamente distinta, giacchè è perfettamente distinto il suo fine; e così il mondo torna qual era da principio, e innanzi all'origine della società, la quale resta sciolta quanto al fatto e alla sostanza, e quanto alla ragione ed essenza sua. Perciò l'egoismo è sempre stata la peste della società, e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata  671 la condizione della società; e quindi tanto peggiori essenzialmente quelle istituzioni che maggiormente lo favoriscono o direttamente o indirettamente, come fa soprattutto il dispotismo. (Sotto il quale stato la Francia, era divenuta la patria del più pestifero egoismo, mitigato assai dalla rivoluzione, non ostante gl'immensi suoi danni, come è stato osservato da tutti i filosofi.) L'egoismo è inseparabile dall'uomo, cioè l'amor proprio, ma per egoismo, s'intende più propriamente un amor proprio mal diretto, male impiegato, rivolto ai propri vantaggi reali, e non a quelli che derivano dall'eroismo, dai sacrifizi, dalle virtù, dall'onore, dall'amicizia ec. Quando dunque questo egoismo è giunto al colmo, per intensità, e per universalità; e quando a motivo e dell'intensità, e massime dell'universalità si è levata la maschera (la quale non serve più a nasconderlo, perchè troppo vivo, e perchè tutti sono animati dallo stesso sentimento), allora la natura del commercio sociale (sia relativo alla conversazione,  672 sia generalmente alla vita) cangia quasi intieramente. Perchè ciascuno pensando per se (tanto per sua propria inclinazione, quanto perchè nessun altro vi pensa più, e perchè il bene di ciascheduno è confidato a lui solo), si superano tutti i riguardi, l'uno toglie la preda dalla bocca e dalle unghie dell'altro; gl'individui di quella che si chiama società, sono ciascuno in guerra più o meno aperta, con ciascun altro, e con tutti insieme; il più forte sotto qualunque riguardo, la vince; il cedere agli altri qualsivoglia cosa, {o per creanza, o per virtù, onore ec.} è inutile, dannoso e pazzo, perchè gli altri non ti son grati, non ti rendono nulla, e di quanto tu cedi loro, o di quella minore resistenza che opponi loro, profittano in loro vantaggio solamente, e quindi in danno tuo. E così, per togliere un esempio dal passo cit. di Mad. di Lambert, si vede nel fatto che oggidì, il disprezzo degli altri, e la stima aperta e ostentata di se stesso, non solamente non è più così dannosa come  673 una volta, ma bene spesso è necessaria, e chi non sa farne uso non guadagna nulla in questo mondo presente. Perchè gli altri non sono disposti ad accordarti {spontaneamente, e in forza del vero, e del merito} nulla, come di nessuna altra cosa, così neanche di stima, e bisogna quindi che tu la conquisti come per forza, e con guerra aperta e ostilmente, mostrandoti persuasissimo del tuo merito, ad onta di chicchessia, disprezzando e calpestando gli altri, deridendoli, profittando d'ogni menomo loro difetto, rinfacciandolo loro, non perdonando nulla agli altri, cercando in somma di abbassarli e di renderteli inferiori, o nella conversazione o dovunque con tutti i mezzi più forti. Che se oggidì ti vuoi procacciare la stima degli altri, col rispetto, buona maniera verso loro, col lusingare il loro amor proprio, dissimulare i loro difetti ec. e quanto a te, colla modestia, col silenzio ec. ti succede tutto l'opposto. Essi profittano di te {e de' tuoi riguardi verso loro,} per innalzarsi, e della tua poca resistenza {quanto a te,} per deprimerti. Quello che concedi  674 loro, l'adoprano in loro mero vantaggio, e danno tuo; quello che non ti arroghi o non pretendi, o quel merito che tu dissimuli, te lo negano e tolgono, per vederti inferiore ec. Così, nel modo che ho detto, ritornano effettivamente nel mondo i costumi selvaggi, {e} di quella prima età, quando la società non esistendo, ciascuno era amico di se solo, e nemico di tutti gli altri esseri o dissimili o simili suoi, in quanto si opponevano a qualunque suo menomo interesse o desiderio, o in quanto egli poteva godere a spese loro. Costumi che nello stato di società son barbari, perchè distruttivi della società, e contrari direttamente all'essenza ragione, e scopo suo. Quindi si veda quanto sia vero, che lo stato presente del mondo, è propriamente barbare[barbarie], o vicino alla barbarie quanto mai fosse. Ogni così detta società dominata dall'egoismo individuale, è barbara, e barbara della maggior barbarie. (17. Feb. 1821.).

[724,2]  L'uomo è così inclinato alla lode, che anche in quelle cose dov'egli non ha mai nè cercato nè curato di esser lodevole, e ch'egli stima di nessun pregio, ancora in queste l'esser lodato lo compiace. Anzi spesso lo indurrà a cercar di rialzare presso se stesso il pregio e l'opinione di quella tal cosa minima nella quale è stato lodato; e a persuadersi che essa, o l'essere lodevole in essa, non sia del tutto minimo nell'opinione altrui. (7. Marzo 1821.).

[930,1]  Oggi l'uomo è nella società quello ch'è una colonna d'aria rispetto a tutte le altre e a ciascuna di loro. S'ella cede, o per rarefazione, o per qualunque conto, le colonne lontane premendo le vicine, {e queste premendo nè più nè meno in tutti i lati,} tutte accorrono ad occupare e riempiere il suo posto. Così l'uomo nella società egoista. L'uno premendo l'altro, quell'individuo che cede in qualunque maniera, o per mancanza di abilità, o di forza, o per virtù, e perchè lasci un vuoto di egoismo, dev'esser sicuro di esser subito calpestato dall'egoismo che ha dintorno per tutti i lati: e di essere stritolato come una macchina {pneumatica} dalla quale, senza le debite precauzioni, si fosse sottratta l'aria. (11. Aprile 1821.).

[960,1]  Altra cagione dello snervamento prodotto nell'uomo dall'infelicità, è la diffidenza di se stesso o delle cose, affezione mortifera, com'è vivifica e principalissima nel mondo {e nei viventi} la confidenza, e massime in se stesso: e questa è una qualità primitiva e naturale nell'uomo e nel vivente, innanzi all'esperienza. ec. ec. Così pure l'uomo che ha perduto, o per viltà e vizio, o per forza delle avversità e delle contraddizioni e avvilimenti {e disprezzi} sofferti, la stima di se stesso, non è più buono a niente di grande nè di magnanimo. E dicendo la stima, distinguo questa qualità dalla confidenza, ch'è cosa ben diversa considerandola bene. (19. Aprile. 1821.).

[978,1]  Oggi non può scegliere il cammino della virtù se non il pazzo, o il timido e vile, o il debole e misero. (23. Aprile. 1821.)

[1083,1]   1083 Alla considerazione della grazia derivante dallo straordinario, spetta in parte il vedere che uno de' mezzi più frequenti e sicuri di piacere alle donne, è quello di trattarle con dispregio e motteggiarle ec. Il che anche deriva da un certo contrasto ec. che forma il piccante. {+E ancora dall'amor proprio messo in movimento, e renduto desideroso dell'amore e della stima di chi ti dispregia, perch'ella ti pare più difficile, e quindi la brami di più ec. E così accade anche agli uomini verso le donne o ritrose, o motteggianti ec.} (24. Maggio 1821.).

[1291,1]  L'aspetto dell'uomo allegro e pieno o commosso anche mediocremente da qualche buona fortuna, da qualche vantaggio, da qualche piacere ricevuto ec. è per lo più molestissimo non solo alle persone afflitte, o pur malinconiche, o poco inclinate alla letizia per atto o  1292 per abito, ma anche alle persone d'animo indifferentemente disposto, {+e non danneggiate punto, nè soverchiate ec. da quella prosperità.} Questo ci accade ancora cogli amici, parenti i più stretti ec. E bisogna che l'uomo il quale ha cagione di allegria, o la dissimuli, o la dimostri con certa disinvoltura, indifferenza e spirito, altrimenti {la sua presenza, e la sua conversazione} riuscirà sempre odiosa e grave, anche a quelli che dovrebbero rallegrarsi del suo bene, o che non hanno materia alcuna di dolersene. {+Tale infatti è la pratica degli uomini riflessivi, padroni di se, e ben creati.} Che vuol dir questo, se non che il nostro amor proprio, ci porta inevitabilmente, e senza che ce ne avvediamo, all'odio altrui? Certo è che nel detto caso, anche all'uomo il più buono, è mestieri un certo sforzo sopra se stesso e un certo eroismo, per prender parte alla letizia altrui, della quale egli non aspetti nessun vantaggio {nè danno,} o solamente per non gravarsene. (8. Luglio 1821.).

[1387,2]  I giovani massime alquanto istruiti prima di entrare nel mondo, credono facilmente e fermamente in generale, quello che sentono o leggono delle cose umane, ma nel particolare non mai. E il frutto dell'esperienza è persuadere a' giovani, {quanto alla vita umana,} che il generale si verifica effettivamente in tutti o in quasi tutti i particolari, e in ciascuno di essi. (25. Luglio 1821.).

[1431,1]  Non c'è miglior modo di far colpo e fortuna con una giovane superba e sprezzante, che disprezzandola. Or chi crederebbe che l'amor proprio (giacchè dal solo amor proprio deriva l'amore altrui) potesse produrre questo effetto, che quando egli è punto, si provasse inclinazione per chi lo punge? Chi non crederebbe al contrario che una donna altera e innamorata di se stessa, dovesse vincersi, interessarsi, allettarsi cogli ossequi, cogli omaggi, ec.? Eppur così è. Non solo l'ossequio e l'omaggio ti farà sempre più disprezzar da costei, ma se disprezzandola tu sei pervenuto a fissarla, e a produrle una inclinazione per te, ed allora o per amore, o per abbandono, o per credere di aver fatto abbastanza, ec. tu cerchi di cattivartela coi mezzi più naturali, e le dai qualche piccolo segno di sommissione,  1432 di amore che si dimostri per vero ec. tu hai tutto perduto, ed ella immediatamente si disgusta di te, e ti disprezza. Conviene che tu segua imperturbabile a mostrarle noncuranza fino alla fine. Ed è questo un effetto semplicissimo di quel centiforme amor proprio, che produce gli effetti i più svariati e contrari. Tanto che, mentre quasi tutte le donne si cattivano col disprezzo, {+(sebbene alcune volte, e in certe circostanze, se ne offendono)} quelle però massimamente dove l'amor proprio è più vivo e tirannico, cioè le più superbe ed egoiste ec. {+V. in questo proposito les Mémoires secrets de Duclos à Lausanne 1791. t. 1. p. 95. e p. 271-273.} V. in questo proposito altro pensiero p. 1083 dove ho notato questo effetto, discorrendo della grazia. Certo è però che questa modificazione dell'amor proprio, non è delle più naturali, benchè non molto lontana dalla natura; e ricerca un carattere alquanto alterato, ma per altro comunissimo. (1. Agos. 1821.).

[1594,1]   1594 La forza dell'opinione, dell'assuefazione ec. e come tutto sia relativo, si può anche vedere nelle parole, ne' modi, ne' concetti, nelle immagini della poesia e della prosa comparativamente. Paragone il quale si può facilmente istituire, mostrando p. e. come una parola, una sentenza {non insolita}, che non fa verun effetto nella prosa {perchè vi siamo assuefatti,} lo faccia nel verso ec. ec. ec. e puoi vedere la p. 1127. (31. Agos. 1821.).

[1673,1]  L'uomo inesperto del mondo, come il giovane ec. sopravvenuto da qualche disgrazia o corporale o qualunque, {dov'egli non abbia alcuna colpa,} non pensa neppure che ciò debba essere agli altri, oggetto di riso sul suo conto, di fuggirlo, di spregiarlo,  1674 di odiarlo, di schernirlo. Anzi se egli concepisce verun pensiero intorno agli altri, relativamente alla sua disgrazia, non se ne promette altro che compassione, ed anche premura, o almen desiderio di giovarlo; insomma non li considera se non come oggetti di consolazione e di speranza per lui; tanto che talvolta arriva per questa parte a godere in certo modo della sua sventura. Tale è il dettame della natura. Quanto è diverso il fatto! Anche le persone le più sperimentate, ne' primi momenti di una disgrazia, sono soggette a cadere in questo errore, e in questa speranza, almeno confusa e lontana. Non par possibile all'uomo che una sventura non meritata gli debba nuocere presso i suoi simili, nell'opinione, nell'affetto, ec. ma egli tien per fermissimo tutto l'opposto; e s'egli è inesperto non si guarda di nascondere agli altri (potendo) la sua disgrazia; anzi talvolta cerca di manifestarla: laddove la principale arte di vivere consiste ordinariamente nel non confessar mai di esser  1675 disgraziato, o di avere alcuno svantaggio rispetto agli altri ec.

[1721,1]  Non si vive al mondo che di prepotenza. Se tu non vuoi o sai adoperarla, {gli} altri l'adopreranno su di te. Siate dunque prepotenti. Così dico dell'impostura. (17. Sett. 1821.).

[1727,2]  L'uomo il più certo della malizia degli uomini, si riconcilia col genere umano, e ne pensa alquanto meglio, se anche momentaneamente ne riceve qualche buon trattamento, sia pur di pochissimo rilievo. L'individuo da te più conosciuto per malvagio, se ti usa distinzioni e cortesie che lusinghino il tuo amor proprio, divien subito qualche cosa di meno male nella tua fantasia. Molto più la donna coll'uomo, o l'uomo (anche il più brutto, anche quello di cui s'ha peggiore idea, anzi pure avversione particolare) colla donna: e però è massima, specialmente degli uomini, che  1728 per qualunque ripulsa, idea, opinione, ostacolo, costume, non si dee mai disperare di venire a capo di una donna. Si potrebbe parimente dire in genere, che l'uomo non dee mai disperare di venire a capo di qualunque persona. Ecco quanta è la gran forza della ragione nell'uomo! (18. Sett. 1821.).

[1728,1]  Come l'individuo, così le nazioni non faranno mai nulla se non saranno piene di se stesse, di amor proprio, ambizione, opinione di se, confidenza in se stesse. (18. Sett. 1821.).

[1787,3]  Chi vuole o dee fare un mestiere al mondo, se vuol trarne alcun frutto, non può scegliere se non quello dell'impostore, in qualunque genere. La letteratura è stato sempre il più sterile di tutti i mestieri. Il  1788 vero letterato (se non mescola alla verità l'impostura) non guadagna mai nulla. Eppur l'impostore arriva a render fecondo anche questo campo infruttifero, e uno de' maggior miracoli dell'impostura si è di render fruttuosa la letteratura. L'impostura è una condizione necessaria per tutti i mestieri o veri o falsi. Se le lettere e la dottrina frutta mai nulla, ciò {è} all'impostore, e in virtù non della verità (quando anche vi sia mescolata), ma dell'impostura. (25. Sett. 1821.).

[1866,2]  Alla p. 1865. Si può dire che la cognizione del mondo, la furberia, la filosofia, ed anche generalmente lo stesso talento, consiste in gran parte nella facoltà ed abito di non eccettuare. Il giovane si trova tradito, deriso dietro alle spalle ec. ec. ingannato, perseguitato ec. da questo e da quell'uomo da cui meno se l'aspettava, da un amico ec. ec. S'egli ha talento, dopo due o tre esperienze, ed anche alla prima, conchiude che non bisogna fidarsi degli uomini, che tutti appresso a poco sono malvagi, ne deduce de' risultati generali sulla natura del mondo e della società, qualunque  1867 persona ancorchè novissima, qualunque favore fattogli ec. ec. gli riesce sospetto, ed in breve egli si forma un sistema vero intorno agli uomini, di cui nessuna circostanza, nessuna apparenza per grande ch'ella sia, lo può far dimenticare. Ma s'egli è di corto talento, 10, 20 esperienze non basteranno a condurlo a questi risultati, egli considererà quello che gli è accaduto, e sempre gli accade, come tante eccezioni, e per conoscer gli uomini avrà sempre bisogno di esperienze individuali su ciascuno, così che al fine della sua carriera non sarà meglio istruito che nel principio, le esperienze non gli serviranno mai nulla, il suo giudizio sarà sempre falso, le apparenze e le illusioni lo inganneranno sempre allo stesso modo. E così si verifica che la facoltà di generalizzare è quella che costituisce gran parte del talento.

[1880,1]  Ho detto pp. 452-53 che la stessa malvagità è grazia, e fa effetto nelle donne. Aggiungo che anche nelle buone, anche nelle scrupolose, anzi più che nelle altre, perchè per esse è più nuova e straordinaria la malvagità. Il malvagio le tira a se collo stesso orrore e scuotimento che in loro produce sì esso che il suo carattere. Lo stesso diremo delle donne rispetto agli uomini. {+Lo stesso particolarmente di {questo o quel} vizio di chi dev'essere amato, dirittamente contrario alla natura o al costume di quella persona che deve amare.}

[1885,1]  Un uomo famoso per dissipazioni e sfrenatezze e fortune galanti, e infedeltà in amore, fa grand'effetto nelle donne con questa sola fama, ma forse nelle donne modeste e timide, e avvezze ad esser fedeli, più che nelle altre. La franchezza, il brio,  1886 la sfrontatezza ec. fa {sempre} fortuna in amore, ed e[è] quasi indifferentemente necessaria e felice con ogni sorta di donne, perch'è quasi l'unico mezzo di ottenere. Ma considerata semplicemente come mezzo di piacere e di far effetto sulle prime, è certo ch'egli è più potente, sulle donne modeste, ritirate, paurose, poco solite agl'intrighi ec. che nelle loro contrarie.

[1903,2]  Alla p. 1880. L'uomo, per molto che sia dissipato, convive sempre più con se stesso che cogli altri, o con verun altro, e quindi è più abituato alle qualità proprie, che alle altrui, o a quelle di chiunqu'altro. Perciò non v'è qualita[qualità] umana così straordinaria per l'uomo, come quelle che sono contrarie alle proprie. Ben è vero che questo effetto va in proporzione della maggiore o minore abitudine che l'uomo ha o con se stesso, o con la società. Del resto è noto che l'uomo giudica  1904 sempre più o meno gli altri da se stesso; che per quanto sia filosofo e pratico del mondo, e quasi anche dimentico di se stesso, sempre ricade lì; che il vizioso non crede alla virtù, nè il virtuoso al vizio; che secondo le mutazioni a cui soggiace il carattere di ciascun individuo, si diversifica il giudizio e il concetto abituale ch'egli forma degli altri ec.

[2155,4]  Le donne, i grandi, e il pubblico (letterario, civile, politico ec.) si guadagnano, si maneggiano, si muovono, si persuadono,  2156 si predominano, si vincono ec. colle stesse arti, mezzi, furfanterie, soverchierie ec. Le rivalità letterarie p. e. si esercitano nello stesso modo delle galanti. Nella repubblica letteraria ec. come presso le donne, e come nelle conversazioni, bisogna innalzarsi sopra il corpo degli altri, bisogna farsi largo, calunniare i rivali, motteggiarli, farsi dintorno una gran piazza vota, cacciandone chi la occupa, cogli artifizi e le malvagità che si esercitano co' rivali in amore ec. (24. Nov. 1821.).

[2258,1]  Altra somiglianza fra il mondo e le donne. Quanto più sinceramente queste e quello si amano, quanto più si ha vera e forte intenzione di giovar loro, e sacrificarsi per loro, tanto più bisogna esser certi di non riuscire a nulla presso di essi. Odiarli, disprezzarli, trattarli al solo fine de' proprii vantaggi e piaceri, questo è l'unico e indispensabil mezzo di far qualche cosa nella galanteria, come in qualunque carriera mõdana[mondana], con qualunque persona, o società, in qualunque parte della vita, in qualunque scopo ec. ec. (18. Dic. 1821.).

[2259,1]  Per qual cagione le donne sono ordinariamente maliziose, furbe, raggiratrici, ingannatrici, astute, impostore, e nella galanteria, e nella devozione, e in tutto ciò che imprendono, e in qualunque carriera si mettono? Perchè acquistano così presto e l'inclinazione e l'arte d'ingannare, dissimulare, fingere, cogliere le occasioni ec. ec.? Perchè l'astuzia di una donna di mediocre talento e pratica di mondo, vince bene spesso l'arte e la furberia dell'uomo il più capace per natura e per esercizio? Crediamo noi che l'ingegno delle donne sia naturalmente e meccanicamente disposto ad amare, e facilmente acquistare queste qualità, a differenza dello spirito degli uomini? Crediamo noi che queste facoltà (poichè sono pur facoltà) sieno ingenerate nelle femmine più che ne' maschi, e proprie della  2260 natura donnesca? Non già. Lo spirito naturale e primitivo delle donne, non ha nè vestigio alcuno di tali facoltà, nè disposizione ad acquistarle, maggiore per nessun grado di quella che ne abbiano gli uomini. Ma la facilità e la perfezione con cui esse le acquistano, non viene da altra cagione che dalla loro natural debolezza, e inferiorità di forze a quelle degli uomini, e dal non poter esse sperare se non dall'arte e dall'astuzia essendo inferiori nella forza, ed inferiori ancora ne' diritti che la legge e il costume comparte fra gli uomini e le donne. Questo è tutto ciò che v'ha di naturale e d'innato nel carattere malizioso delle femmine: vale a dire che nè questo carattere, nè alcuna particolar disposizione ad acquistarlo esiste nella natura donnesca, ma solo una qualità, una circostanza che la proccura, affatto estranea al talento, all'indole dello spirito, al meccanismo dell'ingegno e dell'animo. Infatti ponete le donne in altre circostanze;  2261 vale a dire fate o ch'esse non sieno mai entrate a dirittura in verun genere di società, massimamente cogli uomini, o che le leggi {e i costumi} non sottopongano la loro condizione a quella de' maschi (come accadeva primitivamente, e come accade forse anche oggi in qualche paese barbaro), o che dette leggi e costumi le favoriscano alquanto più, o le mettano anche al di sopra degli uomini (come so di un paese dov'elle son tenute per esseri sacri), o che esse generalmente per qualche circostanza (come si raccontava del paese delle amazzoni ec.), o individualmente sieno o uguali o superiori agli uomini con cui trattano, per forze o corporali, o intellettuali, naturali o acquisite, per ricchezze, per rango, per nascita ec. ec. e troverete la loro arte ed astuzia o nulla, o poca, o non superiore o inferiore ancora a quella degli uomini, almeno di quelli con cui hanno a fare; o certo proporzionatamente, e secondo la qualità di dette circostanze, minore di quella delle altre donne,  2262 poste nelle circostanze contrarie, ancorchè meno ingegnose, e meno cattive ec. L'esperienza quotidiana lo dimostra. Nè solo nelle donne, ma anche negli uomini, o deboli, o poveri, {o brutti, o difettosi,} o non colti, o inferiori per qualunque verso agli altri con cui trattano, come sono i cortigiani avvezzi a trattare con superiori, e però sempre furbi, e ingannatori, e simulatori ec. Nè solo degli uomini, ma delle nazioni intere (come quelle soggette al dispotismo), delle città o provincie, delle famiglie, ec. lo dimostra la storia, i viaggi ec. ec. E cambiate le circostanze e i tempi quella stessa nazione o città o individuo maschio o femmina, perde, minora, acquista, accresce l'astuzia e la doppiezza, che si credono proprie del loro carattere, quando si osservano superficialmente. I selvaggi ordinariamente son doppi, impostori, finti verso gli stranieri più forti di loro fisicamente o moralmente. Ed osservate che la furberia è propria dell'ingegno. Ora ell'è spessissimo maggiore appunto in chi ha svantaggio  2263 dagli altri per ingegno o coltura ed esercizio di esso. {+(Così nelle donne in genere, meno colte degli uomini, negl'individui maschi o femmine, plebei, mal educati ec. ne' selvaggi rispetto ai civilizzati ec.)} Qual prova maggiore e più chiara che l'ingegno complessivamente preso, e ciascuna sua facoltà, non sono opera se non delle circostanze, quando si vede che la stessa circostanza dell'aver poco ingegno, proccura ad esso ingegno una facoltà (tutta propria di esso), che maggiori ingegni non hanno, o in minor grado? (19. Dic. 1821.).

[2271,1]  Il partire, il restare contenti di una persona, non vuol dire, e non è altro in sostanza che il restar contenti di se medesimi. Noi amiamo la conversazione, usciamo soddisfatti dal colloquio ec. di coloro che ci fanno restar contenti di noi medesimi, in qualunque modo, o perchè essi lo proccurino, o perchè non sappiano altrimenti, ci diano campo di figurare. ec. Quindi è che quando tu resti contento di un altro, ciò vuol dire in ultima analisi che tu ne riporti l'idea di te stesso superiore all'idea di colui. Così che se questo può giovare all'amore verso quella tal persona, ordinariamente però non giova nè alla stima, nè al timore, nè al peso, nè al conto, nè all'alta opinione ec. cose che gli uomini in società desiderano di riscuotere dagli altri uomini assai più che l'amore.  2272 (E con ragione, perchè l'amore verso gli altri è inoperoso, non così il timore, l'opinione, il buon conto ec.) E però volendo farsi largo nel mondo, solamente i giovanetti e i principianti cercano sempre di lasciar la gente soddisfatta di se. Chi ben pensa, proccura tutto il contrario, e sebben pare a prima vista che quegli il quale parte malcontento di voi porti con se de' sentimenti a voi sfavorevoli, nondimeno il fatto è che egli suo malgrado, e senza punto avvedersene, {+anzi e desiderando e cercando e credendo il contrario,} porta de' sentimenti a voi favorevolissimi secondo il mondo, giacchè l'esser malcontento di voi, non è per lui altro che esser malcontento di se stesso rispetto a voi, e quindi in un modo o nell'altro tu nella sua idea resti superiore a lui stesso (che è quello appunto che gli dà pena); e gl'impedisci di ecclissar la opinione di te, con l'opinione e l'estimazione di se. Ne seguirà l'odio, ma non mai il disprezzo  2273 (neppur quando tu l'abbia fatto scontento con maniere biasimevoli, ed anche villane); e il disprezzo, o la poca opinione, è quello che in società importa soprattutto di evitare; e il solo che si possa evitare, perchè l'odio non è schivabile; essendo innato nell'uomo e nel vivente l'odiare gli altri viventi, e massime i compagni; non è schivabile per quanta cura si voglia mai porre nel soddisfare a tutti colle opere, colle parole, colle maniere, e nel ménager, e cattivare, e studiare, e secondare l'amor proprio di tutti. Laddove il disprezzo verso gli altri non è punto innato nell'uomo: bensì egli desidera di concepirlo, e lo desidera in virtù dell'odio che porta loro; ma dipendendo esso dall'intelletto, e da' fatti, e non dalla volontà, si può benissimo impedire. {+Tutti questi effetti sono maggiori oggidì di quello che mai fossero nella società, a causa del sistema di assoluto e universale e accanito e sempre crescente egoismo, che forma il carattere del secolo.} (22. Dic. 1821.).

[2342,1]   2342 Il mondo deride chi fedelmente e sinceramente osserva i suoi doveri, o prova effettivamente e segue i sentimenti dettati dalla natura e dalla morale; e si scandolezza e biasima chi trascura pubblicamente i medesimi doveri, chi mostra di disprezzarli, chi pienamente non gli adempie in faccia al pubblico, quando anche egli abbia i suoi giustissimi motivi per non farlo, e non seguire il costume in questa parte. Una donna è derisa s'ella piange sinceramente il suo marito recentemente morto, se a chi la tratta, dà segno di sentir vivo e vero dolore della sua perdita; ma s'ella, anche per circostanze imperiose, trascura il menomo dei doveri che il costume impone in questi casi, s'ella un giorno più presto del tempo prescritto dall'uso si fa vedere in pubblico, s'ella, anche a solo fine di portar qualche alleggerimento al suo vero dolore, si permette prima del detto tempo, qualche menomo spasso o distrazione, il mondo severissimamente la giudica, e inesorabilmente la condanna, senz'aver riguardo a ragioni nè circostanze, per reali che possano essere, e non lascia di mordere  2343 e di riprendere la più piccola violazione dei doveri apparenti, mentre è prontissimo a schernire chi gli osservi di buona fede ec. (10. Gen. 1822.).

[2401,3]  Non è da far mai pompa della propria infelicità. La sola fortuna fa fortuna tra gli uomini, e la sventura non fu mai fortunata; nè si può far traffico, e ritrarre utilità dalla miseria, quando ella sia vera. Nessuno fu mai più stimato o più gradito per esser più infelice degli altri. E però allo sventurato, volendo esser bene accolto ed accetto, o  2402 farsi tenere in pregio, non solamente conviene dissimulare le proprie disgrazie, ma fingersi del numero de' fortunati, pretendere a questo titolo, combatter la fama o chiunque glie lo neghi, e mettere ogni studio per ingannar gli altri in questo punto. (23. Aprile. 1822.). {{V. p. 2415.}} {{2485.}}

[2429,1]   2429 A voler esser lodato o stimato dagli altri, bisogna per necessità intuonar sempre altamente e precisamente alle orecchie loro: io vaglio assai più di voi: acciocchè gli altri dicano: colui vale alquanto più di noi, o quanto noi. La fama di ciascheduno in qualsivoglia genere, {o propriamente o almeno metaforicamente parlando,} è sempre incominciata dalla bocca propria. Se tu fai nel cospetto di quanta gente tu vuoi, un'azione o una produzione ec. la più degna e la più lodevole che si possa immaginare; t'inganni a partito se credi che quell'azione ec. essendo manifestissima, e manifestissimamente lodevolissima, gli altri debbano aprir la bocca spontaneamente, e cominciare essi a dir bene di te. Guardano, e tacciono eternamente, se tu non rompi il silenzio, e se non hai l'arte o il coraggio d'essere il primo a far questo. Ciò massimamente in questi tempi di perfezionato e purificato egoismo. Chi vuol vivere, si scordi della modestia. (7. Maggio. 1822.).

[2436,1]  Il mondo, o la società umana nello stato di egoismo (cioè di quella modificazione dell'amor proprio così chiamata) in cui si trova presentemente, si può rassomigliare al sistema  2437 dell'aria, le cui colonne (come le chiamano i fisici) si premono l'une l'altre, ciascuna a tutto potere, e per tutti i versi. Ma essendo le forze uguali, e uguale l'uso delle medesime in ciascuna colonna, ne risulta l'equilibrio, e il sistema si mantiene mediante una legge che par distruttiva, cioè una legge di nemicizia scambievole continuamente esercitata da ciascuna colonna contro tutte, e da tutte contro ciascuna.

[2441,1]  Non si nomina mai più volentieri, nè più volentieri si sente nominare in altro modo chiunque ha qualche riconosciuto difetto o corporale o morale, che pel nome dello stesso difetto. Il sordo, il zoppo, il gobbo, il matto tale. Anzi queste persone non sono ordinariamente chiamate se non con questi nomi, o chiamandole pel nome loro fuor della loro presenza, è ben raro che non vi si ponga quel tale aggiunto. Chiamandole o udendole chiamar così, pare agli uomini d'esser superiori a questi tali, {godono dell'immagine del loro difetto,} sentono e si ammoniscono in certo modo della propria superiorità, l'amor proprio n'è lusingato e se ne compiace. Aggiungete l'odio eterno e naturale dell'uomo verso l'uomo che si pasce  2442 e si diletta di questi titoli ignominiosi, anche verso gli amici {o gl'indifferenti.} E da queste ragioni naturali nasce che l'uomo difettoso com'è detto di sopra, muta quasi il suo nome in quello del suo difetto, e gli altri che così lo chiamano intendono e mirano indistintamente nel fondo del cuor loro a levarlo dal numero de' loro simili, o a metterlo al di sotto della loro specie: tendenza propria {+(e quanto alla società, prima e somma)} d'ogn'individuo sociale. {+Io mi sono trovato a vedere uno di persona difettosa, uomo del volgo, trattenersi e giocare con gente della sua condizione, e questa non chiamarlo mai con altro nome che del suo difetto, tanto che il suo proprio nome non l'ho mai potuto sentire. E s'io ho veruna cognizione del cuore umano, mi si dee credere com'io comprendeva chiaramente che ciascuno di loro, ogni volta che chiamava quell'uomo disprezzatamente con quel nome, provava una gioia interna, e una compiacenza maligna della propria superiorità sopra quella creatura sua simile, e non tanto dell'esser - p. 2449. marg. {libero da quel difetto, quanto del vederlo e poterlo deridere e rimproverare in quella creatura, essendone libero esso. E per quanto frequente fosse nelle loro bocche quell’appellazione, io sentiva e conosceva ch’ella non usciva {mai} dalle loro labbra senza un tuono esterno e un senso e giudizio interno di trionfo e di gusto.}} (13. Maggio 1822.).

[2473,1]   2473 Alle ragioni da me recate in altri luoghi pp. 1473-74 pp. 1648-49 pp. 2039-41, per le quali il giovane per natura sensibile, e magnanimo e virtuoso, coll'esperienza della vita, diviene e più presto degli altri, e più costantemente e irrevocabilmente, e più freddamente e duramente, e insomma più eroicamente vizioso, aggiungi anche questa, che un giovane della detta natura, e del detto abito, deve, entrando nel mondo, sperimentare e più presto e più fortemente degli altri la scelleraggine degli uomini, e il danno della virtù, e rendersi ben tosto più certo di qualunque altro della necessità di esser malvagio, e della inevitabile e somma infelicità ch'è destinata in questa vita e in questa società agli uomini di virtù vera. {{Perocchè gli altri non essendo virtuosi, o non essendolo al par di lui, non isperimentano tanto nè così presto la scelleraggine degli uomini, nè l'odio e persecuzione loro per tutto ciò ch'è buono, nè le sventure di quella virtù che non possiedono. E sperimentando ancora le soverchierie e le persecuzioni degli altri, non si trovano così nudi e disarmati per combatterle e respingerle, come si trova il virtuoso.  2474 In somma il giovane di poca virtù non può concepire un odio così vivo verso gli uomini, {nè così presto,} com'è obbligato a concepirlo il giovane d'animo nobile. Perchè colui trova gli uomini e meno infiammati contro di se, e meno capaci di nuocergli, e meno diversi da lui medesimo.}} {{Per lo che, non arrivando mai ad odiare fortemente gli uomini, e odiarli per massima nata e confermata e radicata immobilmente dall'esperienza, non arriva neppure così facilmente a quell'eroismo di malvagità fredda, sicura e consapevole di se stessa, ragionata, inesorabile, immedicabile {ed eterna,} a cui necessariamente dee giungere {(e tosto)} l'uomo d'ingegno al tempo stesso e di virtù naturale. (13. Giugno. 1822.)}}

[2568,1]  Tutto è arte, e tutto fa l'arte fra gli uomini. Galanteria, commercio civile, cura de' propri negozi o degli altrui, carriere pubbliche, amministrazione politica interiore ed esteriore, letteratura; in tutte queste  2569 cose, e s'altre ve ne sono, riesce meglio chi v'adopra più arte. In letteratura, (lasciando stare quel che spetta alla politica letteraria, e al modo di governarsi col mondo letterato) colui che scrive con più arte i suoi pensieri, è sempre quello che trionfa, e che meglio arriva all'immortalità, sieno pure i suoi pensieri di poco conto, e sieno pure importantissimi e originalissimi quelli d'un altro che non abbia sufficiente arte nello scrivere: il quale non riuscirà mai a farsi nome, e ad esser letto con piacere, e nemmeno a far valutare, e pigliare in considerazione e studio i suoi pensieri. La natura ha certamente la sua parte, e la sua gran forza; ma quanta sia la parte e la forza della natura in tutte queste cose, rispettivamente a quella dell'arte, mi pare che dopo le gran dispute che se ne son fatte, si possa determinare in questo modo, e precisare  2570 in questi termini. Supposto in due persone ugual grado d'arte, quella ch'è superiore per natura, riesce certamente meglio dell'{altra} nelle sue imprese. Datemi due persone che sappiano ugualmente scrivere. Quella che ha più genio, sicuramente trionfa nel giudizio de' posteri e della verità. Datemi due galanti egualmente bravi nel mestier loro. Quello ch'è più bello {+(in parità d'altre circostanze, come ricchezza, fortuna d'ogni genere, comodità ed occasioni particolari ec.)} soverchia sicuramente l'altro. Ma ponete un uomo bellissimo senz'arte di trattar le donne; un gran genio senza scienza o pratica dello scrivere; e dall'altra parte un bruttissimo bene ammaestrato e pratico della galanteria, un uomo freddissimo bene istruito ed esercitato nella maniera d'esporre i propri pensieri, questi due si godranno le donne e la gloria, e quegli altri due staranno indubitatamente a vedere. Dal che si deduce che in ultima  2571 analisi la forza dell'arte nelle cose umane è maggiore assai che non è quella della natura. Lucano era forse maggior genio di Virgilio, nè perciò resta che sia stato maggior poeta, e riuscito meglio nella sua impresa; anzi che veruno lo stimi nemmeno paragonabile a Virgilio.

[2582,1]   2582 Il piacere che noi proviamo della Satira, della commedia satirica, della raillerie, della maldicenza ec. o nel farla o nel sentirla, non viene da altro se non dal sentimento o dall'opinione della nostra superiorità sopra gli altri, che si desta in noi per le dette cose, cioè in somma dall'odio nostro innato verso gli altri, conseguenza dell'amor proprio che ci fa compiacere dello scorno e dell'abbassamento anche di quelli che in niun modo si sono opposti o si possono opporre al nostro amor proprio, a' nostri interessi ec., che niun danno, niun dispiacere, niuno incomodo ci hanno mai recato, e fino anche della stessa specie umana; l'abbassamento della quale, derisa nelle commedie o nelle satire ec. in astratto, e senza specificazione d'individui reali, lusinga esso medesimo la nostra innata misantropia. E dico innata, perchè l'amor proprio, ch'è innato, non può star senza di  2583 lei. (25. Luglio, dì di S. Giacomo maggiore 1822.)

[2611,1]   2611 Nessuna cosa è vergognosa per l'uomo di spirito nè capace di farlo vergognare, e provare il dispiacevole sentimento di questa passione, se non solamente il vergognarsi e l'arrossire. (22. Agosto. 1822.).

[3061,1]  Niuna cosa nella società è giudicata, nè {{infatti riesce}} più vergognosa del vergognarsi. (29. Luglio. 1823.).

[3183,1]  Gli uomini che nel mondo sono stimati e sono tenuti da quanto gli altri o da più degli altri, lo sono per l'ordinario in quanto coll'uso della società essi si sono allontanati dalla natura lor propria e dagli abiti naturali dell'uomo generalmente, ed hanno in se oscurata e coperta la natura, o sanno, sempre che vogliono, coprirla. E quanto più è oscurata in loro e coperta e mutata sì la natura individuale e lor propria, vale a dire il loro natural carattere, e gli abiti a che essa {particolar natura} gli avrebbe condotti, sì la natura generale degli uomini, tanto la stima generale verso di essi è maggiore. Voglio dir che la più parte delle qualità che negli uomini ottengono stima appo il mondo, o sono totalmente acquisite e per nulla naturali, anzi spesso contrarie alla natura lor propria o generale; ovvero sono talmente svisate  3184 dal naturale che per naturali non si ravvisano, e più che sono svisate, più, per l'ordinario, si stimano. Perocchè egli è ben raro che una qualità semplicemente naturale, e tale qual ella è da natura, sia stimata punto nella società, e quando pur sialo, questa stima non è nè durevole, nè salda, nè generale, nè molta, {ed} è sempre inferiore a quella delle qualità acquisite o snaturate, le quali si apprezzano per regola, stabilmente e seriamente, ma le naturali quasi per gioco, per rarità, per variare, per passatempo, momentaneamente. Quelle si stimano come gravi, serie, e da negozio; queste come lievi, di poca importanza ed utilità, da {semplice} trattenimento e da ozio: e la società presto se ne annoia.

[3360,1]  Tanto l'uomo è gradito e fa fortuna nella conversazione e nella vita, quanto ei  3361 sa ridere. (5. Sett. 1823.).

[3466,1]  Ces hommes qui existent ainsi * (les Chartreux de Rome) sont pourtant les mêmes à qui la guerre et toute son activité suffiraient à peine s'ils s'y étaient accoutumés. C'est un sujet inépuisable de réflexion que  3467 les différentes combinaisons de la destinée humaine sur la terre. Il se passe dans l'intérieur de l'ame mille accidents, il se forme mille habitudes qui font de chaque individu un monde et son histoire. Connaître un autre parfaitement serait l'étude d'une vie entière; qu'est-ce donc qu'on entend par connaître les hommes? les gouverner, cela se peut, mais les comprendre, Dieu seul le fait. * Corinne, livre 10. Chap. 1. t. 2. p. 114. Ciò vuol dire che l'uomo è sommamente e infinitamente o indeterminatamente conformabile, e non è possibile conoscer mai tutti i modi e tutte le differenze in cui lo spirito degl'individui, secondo la diversità delle circostanze (ch'è infinita o indeterminabile), si conforma o si può conformare; per la stessa ragione per cui non si possono conoscere tutte le circostanze possibili ad aver luogo, che possono influire sullo spirito degl'individui, nè tutte quelle che hanno effettivamente influito su tale o tale individuo determinato, nè le loro combinazioni scambievoli, nè le loro minute diversità che producono non piccole differenze di carattere ec.  3468 La maggior cognizione adunque che si possa avere dell'uomo è quella di sapere perfettamente e ragionatamente che gli uomini non si possono mai ben conoscere, perchè l'uomo è indefinitamente variabile negl'individui, e l'individuo stesso per se. E il più certo segno di tal cognizione si è quello di non maravigliarsi mai un punto, e di esser bene e ragionatamente e veramente disposto a non maravigliarsi di qualunque strana {e inaudita e nuova} indole, carattere, qualità, facoltà, azione di qualunque individuo umano noto o ignoto ci possa venire agli orecchi o agli occhi, ci accada o possa accader d'intendere o di vedere, {+in bene o in male.} Chi è veramente giunto a questa disposizione, e l'ha in se ben perfetta, radicata e costante, ed efficace, può dire di conoscer l'uomo il più ch'è possibile all'uomo. È[E] più infatti non può se non Dio, come ben dice la Staël, perchè Dio solo può conoscere e conosce tutti i possibili. Or gli uomini non si possono perfettamente {conoscere,} chi non conosca poco men che tutti i possibili, dico, i possibili di questa natura e di questa terra. (19. Sett. 1823.).

[3520,1]  Tre stati e condizioni della vecchiezza rispetto alla giovanezza ed alle altre età. {+Puoi vedere la p. 3846.}1.o Quando il genere umano era appresso a poco incorrotto, o certo proclive ed abituato generalmente alla virtù, e quando l'esperienza insegnava all'individuo le cose utili {a se ed agli altri,} senza disingannarlo delle oneste, e delle inclinazioni virtuose, nobili, magnanime  3521 ec.; nè gli dimostrava la perversità degli uomini, che ancora non erano perversi, nè lo disgustava e faceva pentire della virtù, che ancor non era, se non altro, dannosa, e ch'egli per naturale istituto aveva intrapreso fin da principio di seguire, e seguiva; allora i vecchi, come più ricchi d'esperienza e più saggi, erano più venerabili e venerati, più stimabili e stimati, ed anche in molte parti più utili a' loro simili {e compagni} ed al corpo della società, che non i giovani e quelli dell'altre età. 2. Cominciata a corrompere la società umana e giunta la corruzione al mezzo, o più oltre, l'esperienza dovette fare tutto il contrario delle cose dette di sopra, e distruggendo le buone disposizioni naturali, e le qualità contratte ne' primi anni, render l'individuo tanto peggiore di carattere, d'animo, di costumi, di qualità, di azioni o di desiderii, quanto più egli avesse sperimentato. Allora dunque i vecchi furono (nella gran società) molto meno stimabili e stimati, quanto alla virtù ed all'onestà, che i giovani {ec.}; molto più tristi, svergognati,  3522 finti, coperti, furbi, traditori, malvagi insomma, {alieni dal ben fare,} e dannosi, o inclinati a far danno, a' compagni e alla società. Laddove quei dell'altre età, e massime i giovani, furono molto più degni di stima e molto più utili o men dannosi, perchè meno corrotti; più buoni perchè più naturali; più proprii a ben fare, più misericordiosi, più benefici, perchè men freddi, più generosi per natura dell'età, men guasti dall'esempio {e dalle cattive massime,} o non ancor guasti ec. 3. Passata che fu la corruzione sociale di gran lunga oltre il mezzo, e giunta, si può dire, al suo colmo, nel quale oggidì si trova e riposa, ed è, a quel che sembra per riposar lungamente o in perpetuo; non fu e non è bisogno di molta nè lunga esperienza nè d'assai mali esempi per corrompere negl'individui la sempre buona natura ed indole primitiva; nascono, si può dir, gli uomini già corrotti; il primitivo, e seco la virtù ed ogni sorta di bontà effettiva, è sparito quasi onninamente dal mondo; il giovane, anzi pure il fanciullo, in brevissimo tratto è maturo e vecchio di malizia,  3523 di frode, di malvagità, e conosce il mondo assai più che i vecchi stessi per lo passato non facevano ec. Quindi per ben contrarie cagioni {+e con ben contrari effetti veggasi la (p. 3517-8.)} son tornate le cose appresso a poco nel loro stato primiero. I giovani massimamente, sono ben più odiosi e dannosi de' vecchi, perchè in essi alla disposizione intera e alla decisa volontà di mal fare si aggiunge il potere e la facoltà; e l'ardor giovanile, e la forza e l'impeto e il fiore delle passioni, che un dì conduceva gli uomini al bene, ora conducendogli dirittamente e pienamente e decisamente al male, rende gl'individui tanto più {cattivi,} perniciosi ed odiabili, quanto esso ardore è più grande. Laddove i vecchi sono, non dirò già più stimabili nè venerabili, ma più tollerabili e meno da essere odiati e fuggiti che quelli dell'altre età, siccome meno potenti di mal fare, benchè a ciò solo inclinati; e siccome anche meno desiderosi di nuocere e di far bene a se e male altrui, perchè più freddi, e di più sedate passioni, e dalla lunga esperienza più disingannati  3524 de' piaceri e de' vantaggi di questa vita, e fatti meno avidi, e di desiderii men vivi: essendo la freddezza e l'esperienza che un dì furon cagione d'ogni male e malvagità, divenute oggi cagione, non già di bene nè di bontà, ma di minor male e cattiveria, che non il calor naturale e l'inesperienza che già furon cagioni principali di bontà, ed or sono cagioni di maggiore ribalderia. Da principio dunque fu la vecchiezza {rispetto} alla gioventù (e proporzionatamente all'altre età), come il meglio al bene; poscia come il cattivo al buono; in ultimo è (e probabilmente sarà sempre) come il manco male al male, o come il cattivo al pessimo.

[3545,1]  Il più deciso effetto, e quasi la somma degli effetti che produce in un uomo di raro ed elevato spirito la cognizione e l'esperienza degli uomini, si è il renderlo indulgentissimo verso qualunque maggiore e più {eccessiva} debolezza, piccolezza, sciocchezza, ignoranza, stoltezza, malvagità, vizio e difetto altrui, naturale o acquisito; laddove egli era verso queste cose severissimo prima di tal cognizione; e il renderlo facilissimo ad apprezzare e lodare le menome virtù e i piccolissimi pregi, che innanzi alla detta esperienza ei soleva dispregiare, non curare, stimare indegni di lode, e quasi confondere o non distinguere dalle  3546 imperfezioni; insomma il renderlo facilissimo e solito a stimare, e difficilissimo, insolito, anzi quasi dimentico del dispregiare e del non curare, tutto all'opposto di quel ch'egli era per lo innanzi. Tanto poco vagliono gli uomini. E da ciò si può dedurre e far {esatto} giudizio quanto sia il valor vero e la virtù vera degli uomini. (28. Sett. 1823.). {{v. p. 3720.}}

[3546,1]  In una città piccola, massime dove sia poca conversazione, non essendo determinato il tuono della società, {+(neppur un tuono proprio particolarmente d'essa città, qual sempre sarebbe in una città piccola, quando veggiamo che anche le grandi hanno sempre notabilissime nuances di tuono lor proprio, e differenze da quello dell'altre, anche dentro una stessa nazione)} ciascun fa tuono da se, e la maniera di ciascuno, qual ch'ella sia, è tollerata e giudicata per buona e conveniente. Così a proporzione in una nazione, dove non v'abbia se non pochissima società, come in italia. Il tuono sociale di questa nazione non esiste: ciascuno ha il suo. Infatti non v'è tuono di società che possa dirsi italiano. Ciascuno italiano ha la sua maniera di conversare, o naturale, o imparata dagli stranieri, o comunque acquistata. Laddove in una nazione socievole, e così a proporzione in una città grande, non è, non solo stimato, ma neppur tollerato, chi non si  3547 conforma alla maniera comune di trattare, e chi non ha il tuono degli altri, perchè questa maniera comune esiste, e il tuono di società è determinato, più o meno strettamente, e non è lecito uscirne senza esser messo, nella società ec., fuor della legge, e considerato come da men degli altri, perchè dagli altri diverso, diverso dai più. (28. Sett. 1823.).

[255,2]  L'uomo superiore, oggidì colla cognizione e sperienza del mondo, si può dire, benchè sembri un paradosso, che si avvezzi a pregiare piuttosto che a dispregiare. Dico riguardo alle cose reali. Perchè  256 mentre egli è inesperto del mondo, i piccoli pregi, i principii di virtù, le piccole bellezze o bontà o grandezze in qualsivoglia genere di cose, gli paiono dispregevoli, paragonando sempre gli altri a se stesso, com'è costume degli uomini, o paragonando le cose alla sua immaginativa. Ma colla sperienza, trovandosi sempre in mezzo ad eccessive piccolezze, malvagità, sciocchezze, bruttezze ec. appoco appoco si avvezza a stimare quei piccoli pregi che prima spregiava, a contentarsi del poco, a rinunziare alla speranza dell'ottimo o del buono, e a lasciar l'abitudine di misurar gli uomini e le cose con se stesso, e colla immaginazion sua. Laonde siccome prima egli non istimava se non le cose lontane, le quali, in quel modo in cui egli le concepiva, non erano reali, si può dire che il numero delle cose reali ch'egli stima vada sempre crescendo, se bene diminuisca la {misura della} stima assoluta, e il numero assoluto delle cose ch'egli stimava, perchè sono molte più quelle cose ch'egli pregiava lontane, e disprezza vicine, di quelle che da principio noncurava, ed ora è necessitato a pregiare. (30. 7.bre 1820.).

[3684,1]   3684 Non v'è persona che riesca più intollerabile e che meno sia tollerata nella società, di uno intollerante. (14. Ott. 1823.).

[3720,1]  Alla p. 3546. I detti effetti accadono in un gran letterato, in un gran filosofo, in un gran poeta, in un gran professore di qualsivoglia o letteratura o arte o scienza o abilità ec. verso quelli che si arrogano quella medesima arte, e la professano. {ec.} Severissimi, disprezzantissimi, intollerantissimi a principio, non per superbia (anzi questi tali sono sempre modestissimi) ma per non trovar {niuno} che non sia indegnissimo di stima per se, o che meriti più che pochissimo nella sua professione; e disprezzanti nel cuor loro, piuttosto ch'esternamente; a poco a poco persuadendosi che insomma non v'è di meglio di coloro ch'ei disprezzava, dalla mancanza de' veramente stimabili piglia argomento e in ultimo abitudine di tollerare il niun merito, e di stimare e lodare il piccolissimo, e di celebrare e fino ammirare il mediocre (non per se ma per la sua rarità, finalmente conosciuta, e conosciuta per universale) e insomma di contentarsi del poco e pochissimo, e di dare alle cose non il  3721 peso assoluto ma il peso relativo che meritano. Sicchè gli si viene a fare ben raro il caso nel quale ei possa e sappia totalmente disprezzare.

[4037,6]  Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel conversare, e massime gli sprezzanti avessero più amor proprio degli altri e più stima di se, e i timidi meno. Tutto al contrario. I timidi per eccesso di amor proprio e per il troppo conto che fanno di se, temendo sempre di sfigurare e perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di acquistarla e di figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del proprio onore, del proprio concetto, del proprio amore, e occupati e legati da questo pensiero, sono senza coraggio, e non si ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti fanno al contrario  4038 per la contraria cagione, cioè per aver poca cura e poco concetto concetto di se, o desiderio della stima degli altri (che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura, o per abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano di offendere l'amor proprio degli altri, e n'hanno poca cura, per poco amor di se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille scrupoli e riguardi, e non impetrano mai da se stessi non che di lederlo menomamente, ma di porsene a rischio benchè leggero e lontano, e ciò per soverchio amor proprio, il quale parrebbe che dovesse principalmente offendere e muoverli ad offendere quello degli altri. E così per soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar dispregio degli altri, e infatti non gli spregiano, anzi gli stimano eccessivamente non per altro che per lo smisurato desiderio e conto che fanno della loro stima, anche conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema che hanno di perderla, eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per rispetto al merito di coloro. Tali sono ordinariamente i fanciulli e i giovani ancora inesperti e inesercitati nel commercio umano e nelle palestre dell'amor proprio, dov'esso riporta tanti colpi, che alla fine incallisce; e tali sono più o manco, per più o men lungo tempo, ed alcune per tutta la vita, le persone sensibili e immaginose, le quali restano {sovente} fanciulle anche in età matura, e vecchia, sì quanto a {molte} altre cose, sì quanto a questa della timidità {nel consorzio umano,} che in esse è sempre difficile a vincere più {assai} che negli altri, e in alcune è assolutamente invincibile, come {fu} in Rousseau. La cagione si è l'eccesso dell'amor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza dell'animo; ed insieme la vivacità della immaginazione, la quale non mai veramente spenta {in loro,} nè anche quando pare affatto agghiacciata, e quando effettivamente ha cessato affatto di partorire alcun piacere all'individuo medesimo, continuamente,  4039 secondo la sua natura, va fingendo ad esso amor proprio che è per se vivissimo, mille falsi pericoli e difficoltà, o smisuratamente accrescendo e moltiplicando i veri. Sì, Rousseau e gli altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da un'invincibile e irrepugnabile timidità, anzi mauvaise honte ed erubescenza, non furono e non son tali se non per eccesso di amor proprio e d'immaginazione. Altro danno e infelicità somma della soprabbondanza della vita interna dell'anima (oltre i tanti da me altrove notati p. 1382 p. 1584 pp. 2410-14 pp. 2629-30 pp. 2736-39 p. 2861 pp. 3921. sgg.), della sensibilità, della squisitezza dell'ingegno, della natura riflessiva, immaginosa ec. Poichè in essa l'amor proprio essendo eccessivo e però tanto più bisognoso di successi, e desiderando la stima altrui e temendo la disistima molto più che gli altri non fanno, e impedito di conseguire e costretto ad incontrare quelli che gli altri con molto minor desiderio e bisogno conseguono facilissimamente ogni dì, ed evitano con molto minor tema, e che quando nol conseguissero o non lo evitassero, ne sarebbero molto meno afflitti e infelicitati, per la minore vivacità {e sensibilità} dell'amor proprio, ed anche della immaginazione, la quale a quegli altri accresce eziandio per se stessa e con mille false esagerazioni e finzioni la grandezza delle perdite fatte, di quello che essi desiderano naturalmente di conseguire, di quello che non ottengono, dei mali successi incontrati nella società, delle ἀσχημοσύναι, che anche bene spesso non son vere affatto, ma fabbricate di pianta dall'immaginazione, e non esistono se non nell'idea di questi tali, e così anche i buoni successi o gli oggetti che essi si propongono di conseguire che spessissimo sono vani e immaginari, e da niuno ottenuti nè possibili ad ottenere ec. ec. (1. Marzo. penultimo dì di Carnevale. 1824.) Ciò che ho detto dell'immaginazione, dico  4040 dell'amor proprio, il quale in questi tali, anche quando sembra rotto e fiaccato dall'uso de' mali, {dispiaceri, punture ec.} anzi minore assai che non è negli altri, e quasi al tutto agghiacciato, addormentato e spento, è sempre in verità vivissimo assai più che negli altri anche giovani e principianti, caldissimo, e {ancora} in istato da esser chiamato tenerezza di se stesso (come suol essere nella gioventù) benchè sia in loro più {negativo che} positivo, più atto a impedire che a cagionare, piuttosto causa di passione che d'azione ec. quale egli è proporzianatamente[proporzionatamente] anche ne' primi anni di questi tali. (3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri. 1824.).

[4058,1]  È un grand'errore di quelli che hanno a congetturare o indovinare le risoluzioni o gli andamenti d'altri, sia nelle cose private sia nelle pubbliche, e queste o politiche o militari, e sia con dati o senza dati, il considerare con ogni sorta di acutezza e di prudenza quello che sia più utile a quei tali di risolvere o di fare, più conveniente, più secondo lo stato loro e delle cose, più giusto, più savio, e trovatolo, risolversi che essi faranno o determineranno, ovvero fanno e determinano appunto questa o queste cose {+o l'una di queste in ogni modo.} Diamo uno sguardo all'intorno alla vita, alle azioni e risoluzioni degli uomini, e vedremo che per dieci ben fatte, convenienti ed utili a quei che le fanno, ve n'ha mille malissimo fatte, sconvenientissime, inutilissime, dannosissime a essi medesimi, più o meno, contrarie alla prudenza, a quello che avrebbe risoluto o fatto un uomo savio e perfetto, trovandosi nel caso loro. Vedremo che gli uomini il più delle volte non deliberano maturamente quando v'ha bisogno di maturità, non conoscono l'importanza delle cose che hanno a risolvere o a fare, non sospettano nemmeno che sia loro utile o necessario di consultare intorno ad esse, e non entrano affatto in alcuna consulta. Parlo egualmente de' grandi e de'  4059 piccoli, delle cose pubbliche e delle private, piccole relativamente e grandi. È certissimo che gli affari degli uomini qualunque, che vanno male, non vanno così (se non di rado) senza loro colpa o insufficienza; or come dunque dovrà essere regola per indovinare le opere o risoluzioni loro, il cercare quello che lor sia più utile e conveniente? Il numero o degli sciocchi assolutamente, o degl'inetti ai carichi e alle cose che hanno a maneggiare, benchè valorosi nel resto, o di quelli che anche al loro carico sono adattati, ma non perfetti, o insomma delle risoluzioni e delle azioni mal prese e mal fatte, inutili o dannose a chi le ha fatte o prese, sconvenienti al caso, o finalmente tali che nelle date circostanze non erano le migliori; il numero dico di tali azioni, risoluzioni ed uomini soverchia ed ha sempre soverchiato di grandissima lunga quello delle azioni, risoluzioni ed uomini loro contrarii, come apparisce da tutte le antiche e moderne storie sì civili sì militari sì private, e dall'osservazione della vita e avvenimenti giornalieri privati o pubblici. Onde quella regola in vece di condurre alla probabilità dell'indovinare, conduce chi la segue ad avere cento probabilità per una, contro quella {o quelle cose} che egli sceglie e quel giudizio o congettura che ei forma. Di più, assolutamente parlando, è falsissimo e malissimo considerato il persuadersi che gli uomini nel caso proprio veggano quel medesimo che in esso caso veggono gli altri posti fuori di esso, e pensino e sentano e sieno disposti {allo} stesso modo. Onde ancorchè pognamo {in due persone} perfetta parità di prudenza, di esperienza, insomma di attitudine a risolvere e fare in un dato caso quello che si conviene, è certissimo che se di queste due persone l'una  4060 si troverà nel caso e l'altra fuori considerandolo senza comunicare con quella, {il più delle volte} la risoluzione o il modo dell'azione dell'una sarà diversissima {più o meno} da quello che all'altra parrà si fosse convenuto. Aggiungasi la diversità dei principii, delle abitudini e di mille altre cose anche minime che diversificando gli spiriti (giacchè non si dà spirito perfettamente uguale ad un altro, più che si dieno due fisonomie al tutto conformi), diversificano altresì con mille modi le risoluzioni ed azioni di uno da quelle di un altro, anche supponendo in ambedue ugual capacità, e parità di caso, anzi diversificano le risoluzioni e azioni di una persona stessa in casi uguali o simiglianti. Senza poi parlare delle passioni e delle occasioni e circostanze del momento, spesso minime, che così minime modificano sovente e sovente cagionano al tutto e determinano le risoluzioni ed azioni di uno, mentre che l'altro che vuole indovinarle non è affetto da tali circostanze, sia fisiche, sia morali, sia qualunque. La vera regola per isbagliare il meno possibile, e la vera politica in tali casi, è conoscere quanto si può il carattere, le abitudini, le qualità della data persona, applicarle al caso di cui si tratta, e rinunziando a ogni prudenza propria, mettendosi ne' piedi di quella, piuttosto come poeta, che come ragionatore, congetturar quello ch'egli è per fare o risolvere, {anzi risolvere, per così dire, in vece sua.} come il drammatico congettura quello che un dato uomo di un dato carattere in un dato caso sarebbe per dire, e congetturatolo parla in persona di esso. (5. Aprile. 1824.). {+V. il Guicc. ed. Friburgo. t. 4. p. 106.}

[4096,2]  Il tale diceva non esser ben detto quel che si afferma comunemente che basta l'apparenza p. e. a un letterato per essere stimato, benchè manchi della sostanza. Ora l'apparenza non solo basta, ma è la sola cosa che basti, ed è necessaria e la sola necessaria. Perocchè la sostanza senza l'apparenza non fa effetto alcuno e nulla ottiene, e l'apparenza colla sostanza non fa nè ottiene niente di più che senza essa: onde si vede la sostanza essere inutile, e il tutto stare nella sola apparenza. (1. Giugno. 1824.).

[4140,2]  Tanto è necessaria l'arte nel viver con gli uomini che anche la sincerità e la schiettezza conviene usarla seco loro con artificio. (Milano. 22. Sett. 1825.)

[4153,5]  Il mezzo più efficace di ottener fama è quello di far creder al mondo di esser già famoso. (Bologna. 21. Nov. 1825.). {{Analogo e confermativo  4154 {+ di questo detto è quello di Labruyère, che più facile è far passare un'opera mediocre in grazia di una riputazione dell'autore già ottenuta e stabilita, che l'ottenere o stabilire una riputazione con un'opera eccellente.}}}

[4188,8]  Propterea dicebat Bion μὴ δυνατòν εἶναι τοῖς πολλοῖς ἀρέσκειν, εἰ μὴ πλακoῦντα γενóμενον ἢ Θάσιον: non posse aliquem vulgo omnibus placere, nisi placenta fieret aut vinum Τhasium. * Casaub. ad Athenae. l. 3. c. 29. (Bologna. 17. Luglio. 1826.).

[4194,1]  La condotta di Tiberio nell'impero, da principio non pur affabile, benigna, moderata, ma eziandio umile; insomma più che civilis (v. Sueton. Tiber. c. 24-33), le sue difficoltà di accettar l'impero ec. paragonate colla seguente condotta tirannica, si attribuiscono a profonda politica, dissimulazione e simulazione. Io non vi so veder niente di finto, nè di artifiziale. Tiberio era certamente, a differenza di Cesare, di natura timida. A differenza poi e di Cesare che fin da giovanetto andò continuamente elevandosi, ed abituando successivamente l'animo e il carattere a grandezze sempre maggiori; e di Augusto che pure fin da giovanetto si vide alla testa degli affari; Tiberio, nato privato, vissuto la gioventù e l'età matura in sospetto di Augusto e de' costui parenti, ed anche in non piccolo pericolo (otto anni passò ritirato in Rodi per fuggirlo o scemarlo), non aveva l'animo nè il carattere formato al potere, quando la fortuna gliel pose in mano. Però nel principio fu modesto, anzi timido ed umile, anche dopo liberato da ogni timore, come dice espressamente Suetonio (c. 26.); {+v. p. 4197. capoverso 6.} nè qui v'era dissimulazione: io non ci veggo altro che un uomo avvezzo a soggiacere, avvezzo a temere ed evitar di offendere, che ridotto a soprastare, conserva ancora l'abito di tal timore e di tale evitamento. Egli lo perdè col tempo, e coll'esperienza continuata del suo potere, e della soggezione, anzi abbiezione, degli altri. Questo non è smascherarsi; questo è mutar carattere e natura, per mutazione di circostanze.  4195 Tiberio era certamente cattivo, perchè vile, e debole. {+V. p. 4197. capoverso 7.} Questo fu causa che il potere lo rendesse un tiranno, perchè la sua natura era tale che l'influenza del principato doveva farne un cattivo carattere di principe. Ma qui non ci entra simulazione. Io non sono mai stato nè principe nè cattivo. Pur disprezzato e soggetto sempre fino all'età quasi matura; vedutomi poi per le circostanze, uguale a molti e superiore ad alcuni; da principio benignissimo ed umile cogl'inferiori, sono poi divenuto verso loro un poco esigente, {un poco intollerante, φιλόνεικος, μεμψίμοιρος,} ed anche cogli uguali un poco chagrin, e più difficile a perdonare un'ingiuria, {una piccola mancanza,} più risentito, più facile a concepir qualche seme di avversione, {più desideroso, se non altro, di vendettucce,} ec. Se la mia natura fosse stata cattiva, io sarei divenuto tanto più insopportabile quanto più tardi sono pervenuto alla superiorità, ed in età men facile ad accostumarmici. Noi siamo tutti inclinati a suppor negli uomini antichi o moderni, assenti o presenti, noti o ignoti, e nelle loro azioni e condotta, una politica, un'arte, una simulazione quasi continua, e qualche fine occulto. Ma credete a me che v'è {al mondo} assai meno politica, assai meno finzione, assai meno tendenze occulte, meno intrighi, meno maneggi, meno arte, {e più di sincerità e di vero} che non si crede. 1. Gli uomini di talento (indispensabile fondamento a simil condotta) sono assai più rari che non si stima. 2. Anche gli uomini i più persuasi della necessità o utilità dell'arte nel consorzio umano, {e i più disposti ad essa per volontà,} non hanno la pazienza di usarla troppo spesso, di fingere, di nascondere e dissimulare troppo a lungo. 3. Condotte calcolate e dirette costantemente a qualche fine, sono più immaginarie che reali, perchè è natura di qualunque uomo d'essere incostante, ne' suoi gusti, desiderii, opinioni, in tutto; di esser contraddittorio  4196 ed incoerente nelle sue azioni, massime ec.; di operare contro i proprii principii; di operare contro i proprii interessi. ec. 4. Finalmente la natura per combattuta che sia, per quanto la vogliam credere abbattuta, può ancora, ed opera nel mondo, assai più che non si crede. Ora la natura è l'opposto dell'arte: la finzione tende a nasconder la natura, ma questa trapela ad ogni momento, in dispetto d'ogni massima, d'ogni volontà, d'ogni disciplina. (Bologna. 3. Sett. Domenica. 1826.). Del resto le atrocissime crudeltà usate scopertamente in seguito da Tiberio, e gran parte di queste senza nessuna utilità proposta, ma per solo piacere e soddisfazione del gusto e dell'animo suo, mostrano che l'anima di Tiberio era più vile che doppia per sua natura, e col regno era divenuta più malvagia che politica. (Bologna 4. Sett. 1826.).

[4197,8]  Che gli uomini abbiano trovate e pongano in opera delle arti per combattere, soggiogare, recare al loro uso e servigio il resto della natura animata o inanimata, non è cosa strana. Ma che abbiano trovato ed usino arti {e regole} per combattere e vincere gli uomini stessi, che queste arti sieno esposte a tutti gli uomini, e tutti ugualmente le apprendano ed usino, o le possano apprendere e usare, questo ha dell'assurdo; perchè se due uomini sanno ugualmente di scherma, che giova la loro arte a ciascuno de' due? che superiorità ne riceve l'uno sopra l'altro? non sarebbe per ambedue lo stesso, che ambedue fossero ignoranti della scherma, o che tutti e due combattessero alla naturale? {+V. p. 4214.} Un libro, una scoperta di Tattica o di strategica o di poliorcetica ec. pubblicata ed esposta all'uso comune, a che giova? se l'amico e il nemico l'apprendono del pari, ambedue con più arte e più fatica di prima, si trovano nella stessissima condizione rispettiva di prima. Il coltivare queste tali arti, o scienze che si vogliano dire, il proccurarne l'  4198 incremento, e molto più il diffonderne la coltura e la conoscenza, è la più inutile e strana cosa che si possa fare; è propriamente il metodo di ottener con fatica e spesa quello che si può ottenere senza fatica nè spesa; di eseguire artificialmente e di render necessaria l'arte laddove la natura bastava, e laddove col metodo artificiale non si ottiene il menomo vantaggio sopra il naturale. Insomma è il metodo di moltiplicare e complicar le ruote {e le molle} di un orologio, e di far con più quel medesimo che si poteva fare e già si faceva con meno. Il simile dico della politica, del macchiavellismo ec. e di tutte le arti inventate per combattere e superchiare i nostri simili. (Bologna. 10. Sett. 1826.).

[4201,8]  Eὐήϑης, εὐήϑεια, ec. bonitas, bonus vir ec. bonhomme, bonhomie ec. dabben uomo, dabbenaggine ec. Parole il cui significato ed uso provano in quanta stima dagli antichi e dai moderni sia stato veramente e popolarmente (giacchè il popolo determina il senso delle parole) tenuta la bontà. E in vero io mi ricordo che quando io imparava il greco, incontrandomi in quell'εὐήϑης ec., mi trovava sempre imbarazzato, parendomi che siffatte parole suonassero lode, e non potendomi entrare in capo ch'elle si prendessero in mala parte, come pur richiedeva il testo. Avverto che io studiava il greco da fanciullo. (Bologna. 18. Sett. 1826.).

[4247,1]  Magistrato {#1 Ministro, funzionario qualunque} da bene. Magistrato malvagio. Qual è il segno da riconoscerlo? Di tutte le altre cose non ne troverete una, dove stabilito ancora e confessato il fatto, non sieno vari e opposti giudizi, o interpretazioni qual buona qual sinistra. Rigoroso, severo: se tu lo lodi per questo capo, altri per questo medesimo lo chiamerà vendicativo, crudele, ministro della tirannide, esecutore di vendette e risentimenti privati sotto specie di pubblici, nemico dei cittadini, fanatico, persecutore, odiatore dei lumi, della libertà, del progresso della civilizzazione. Clemente: sarà freddo, debole, protettore dei vizi e dei malvagi, complice dei perturbatori della società, fautore delle male opere. Se vi sono partiti, ed egli ne favorisce uno, l'altro o gli altri lo condannano; se nessuno, egli è un insensato, un vile, almeno un furbo. {Così dell'ambizione; ec. ec.} Ma quanto all'astinenza o all'appetenza dell'altrui o del pubblico, voi non troverete due persone che concordato il fatto, discordino nel lodarlo o nel biasimarlo, o anche nell'interpretarlo. E questo è quasi il solo capo dal quale in verità suol dipendere il nome che uno acquista nei magistrati di uomo da bene, o di tristo. Da bene è sinonimo di disinteressato, malvagio di cupido; integrità di disinteresse ec. Da ciò parrebbe che gli uomini non fossero d'accordo se non nel concetto della roba, e che l'ufficiale pubblico potesse a suo modo dispor della vita, dell'onore, della libertà, di tutti gli altri beni dei cittadini, purchè rispettasse i danari e le possessioni. (4. Feb. Domenica. 1827.).

[4268,1]  Τhe muses are amicae omnium horarum; and, like our gay acquaintance, the best company in the world, as long as one expects no real service from them. * Ibid.

[4280,1]  Il vedersi nello specchio, ed immaginare che v'abbia un'altra creatura simile a se, eccita negli animali un furore, una smania, un dolore estremo. Vedilo di una scimmia nel Racconto di Pougens, intitolato Joco, Nuovo Ricoglitore di Milano, Marzo 1827. p. 215-6. Ciò accade anche nei nostri bambini. V. Roberti Lettera di un bambino di 16 mesi. Amor grande datoci dalla natura verso i nostri simili!! (Recanati. 13. Apr. Venerdì santo. 1827.). {{ V. p. 4419.}}

[4285,5]  L'amore e la stima che un letterato porta alla letteratura, o uno scienziato alla sua scienza, sono il più delle volte in ragione inversa dell'amore e della stima che il letterato o lo scienziato porta a se stesso. (Firenze. 5. Luglio. 1827.).

[4286,5]  Uno che costretto dai debiti, aveva venduto per cinquantamila scudi il suo patrimonio, non volendo dire di aver venduto, diceva (e certo con altrettanta verità) di aver comperato cinquantamila scudi. (Firenze. 19. Luglio. 1827.).

[4294,5]  persone la cui compagnia {e conversazione} ci piaccia durevolmente, e si usi volentieri con  4295 frequenza e lunghezza, non sono in sostanza, e non possono essere altre che quelle dalle quali giudichiamo che vaglia la pena di sforzarci e adoperarci d'essere stimate, e stimate ogni giorno più. Perciò la compagnia {e conversazione} delle donne non può esser durevolmente piacevole, se esse non sono o non si rendono tali da rendere durevolmente pregiabile e desiderabile la loro stima. (Firenze. Domenica 14. Ottobre. 1827.). {{
Fin qui si stende l'Indice di questo zibaldone di
Pensieri
cominciato agli 11 Luglio, e finito ai 14 ottobre del 1827. in Firenze.}}

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Necessità di usar prepotenza e impostura. (danno) (2)
Malizia. Furberia. (1827) (1)
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. Suo stato, costumi ec. antichi e moderni. (1827) (1)
Diversità grande, anche fisica, che è da uomini a uomini. (1827) (1)
che si credono innate, e derivano realmente dall'assuefazione. (1827) (1)
Uomo, solo titolo di cui l'uomo si può pregiare. (1827) (1)
Solo modo di conoscer l'uomo, o gli uomini. (1827) (1)
Vecchiezza. (1827) (1)
Tre stati della vecchiezza in tre diverse epoche del genere umano. (danno) (1)
Esperienza assuefa a pregiare più che a dispregiare. (1827) (2)
Pratica del mondo avvezza gli uomini insigni piuttosto a pregiare che a disprezzare. (danno) (2)
Città piccole e Città grandi. (1827) (1)
Conversazione d', di città piccole ec. (1827) (1)
Francesi. (1827) (1)
Qualità umane che si credono cattive. (1827) (1)
Lode. (1827) (2)