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Editorial Annotations:

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Memorie della mia vita.

Memories of my life.

29,4 36,1 45,1 50,3 59,1.2.3 64,2 66,1 70,2 71,2 72,2.4 73,1 82,2 83,1.2 84,2 85,2 85,3 85,5 87,1 107,1.2 133,1 136,1.2 137,1 140,1 143,2 151,3 194,3 211,3 212,2 213,1 222,2 245,1 248,1 255,2 256,2 259,1 102,2 262,2261,1 263,2 271,2 277,1 280,1 280,2 280,3 285,2 294,1 302,1 306,1 309,1.2 313,1 319,1 349 366,2 368,1 369,1 460,1 463,2 472,2 479,1 481,1 503,1 512,1 514,1 527,1 528,1 532,1 612,3 614,2 618,1.2 633,1 636,1 636,2 643,2 644,1 653,2 662,1 666,1 667,1 676,3 678,1 678,3 703,43 712,1 714,1 718,1 722,1 724,2 829,1 930,1 958,1 960,2 1011,1 1028,1 1044,2 1075,2 1083,1 1103,1 1163,1 1165,2 1169,21 1176,1 1254,4 1260,2 1315,1 1319,1 1328,1 1347,1 1364,1.3 1387,2 1393,1 1401,1 1421,2 1436,1 1448,1 1450,1 1472,2 1473,1 1510,1 1540,1 1541,1 1542,1 1543,1 1545,1-1547,1 1554,2 1555,1 1572,3 1573,1 1580,1 1584,1.2 1586,1 1588,1 1589,1 1594,2 1610,2 1628,1 1648,1 1651,1 1655,1 1673,1 1688,1 1690,1 1714,1 1715,1 1719,1 1723,1 1724,1 1727,2 1741,2 1750,1 1787,3 1788,1 1800,2 1802,1 1815,1 1860,1 1863,1 1903,1.2 1913,1 1914,1 1927,2 1939,1 1961,3 1970,2 1974,1 1975,1 1987,1 1988,3 1998,1 1999,1 2032,1 2043,1 2102,1 2107,1 2132,1 2134,1 2150,2 2159,1 2171,1 2184,1 2208,2 2217,1 2228,1 2230,1 2233,1 2242,2 2258,1 2271,1 2274,1 2315,1 2342,1 2363,2 2378,1 2381,1 2390,1 2391,1 2401,3 2405,1 2415,2 2419,2 2429,1 2430 2432-3 2434,2 2436,1 2451,1 2453,1 2471,1 2473,1 2479,1 2481,2 2481,3 2484,2 2491,1 2493,1 2523,2 2526,1 Vedi Fato. See Fate. 2583,1 2596,1 2602,1 2607,1 2610,1 2628,1 2629,3 2643,1 2645,2 2661,1 2673,2 2673,3 2683,3 2684,1 2685,2 2702,1 2736,1 2796,1 2861,1 2862,1 2876,1 2883,1 2923,1.2 2936,1 2938,1 2941,1 2944,1 2965,1 2987,3 3027,2 3029,1.2 3040,1 3058,2 3061,1 3078,1 3107,1 3154,1 3158,1 3171,1 3183,1 3197,1 3265,1 3269,1 3271,1 3301,1 3318,1 3347,1 3360,1 3382,2 3410,1 3430,12 3432,1 3435,1 3440,1 3443,1 3466,1 3480,1 3488,2 3497,1 3509,1 3517,1 3520,1 3525,1.2 3526,1 3545,1 3546,1 3552,2 3553,2 3568,2 3596,1 3676,1 3684,1 3745,2 3765,1 3770-1 3821,2 3835,1 3837,1 3854,2 3876,1 3879,1 3881,4 3891,1.2 3895,1 3902,5 3922,1 3941,3 3942,2 3952,1 3956,3 3976,1 3990,2 4021,5.7 4024,5 4031,1 4037,6 4041,7 4058,1 4060,1 4062,1.5 4064,1 4070,1 4074,1 4079,1 4096,2 4103,6 4105,2 4118,2 4120,20 4138,2.3 4140,2 4141,3 4149,6 4153,5 4160,10 4164,2 4166,4 4167,12 4168,3 4169,1 4172,8.9 4174,12 4180,3.4 4183,2 4185,2 4194,1 4197,8 4198,1 4201,8.10 4204,1 4216,1 4219,1 4226,4 4228,1 4229,4 4231,2.4 4239,5 4241,3.5 4243,8 4247,1 4249,54 4254,4 4255,6 4256,1 4257,5.11 4259,5 4261,2 4266,1 4267,2.3 4268,1.2.7 4272,2 4274,2 4276 4277,1 4280,1 4282,10 4283,2 4283,8 4284,1 4285,5 4286,6 4287,1 4289,1.2 4293,2.4 4294,5

[29,4]  Una giovane {nubile} educata parte in monastero parte in casa con massime da monastero, esortava la sorella di un giovane parimente libero, a volergli bene, e le ripeteva questo più volte, e con premura, cosa {di} ch'io informato credetti che questo potesse essere un artifizio dell'amore che non potendo a cagione della di lei educazione monastica operare direttamente, operava ĩdirettamente[indirettamente] facendole consigliare altrui un amor lecito, verso quell'oggetto, ch'ella forse si sentiva portata ad amare con amore ch'ella avrà stimato illecito.

[36,1]  Sento dal mio letto suonare (battere) l'orologio della torre. Rimembranze di quelle notti estive nelle quali essendo fanciullo e lasciato in letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio sentiva battere un tale orologio. Oppure situazione trasportata alla profondità della notte, o al mattino ancora silenzioso, e all'età consistente.

[45,1]  Soleva considerar come una pazzia quello che dicono i Cappuccini per iscusarsi del trattar male i loro novizzi, il che fanno con gran soddisfazione, e con intimo sentimento di piacere, cioè che anch'essi sono stati trattati così. Ora l'esperienza mi ha mostrato che questo è un sentimento naturale, giacch'io giunto appena {per l'età} a svilupparmi dai legami di una penosa e strettissima educazione e tuttavia convivendo ancora nella casa paterna con un fratello minore di parecchi anni, ma non tanti ch'egli non fosse nel pienissimo uso di tutte le sue facoltà vizi ec. siccome non per altro (giacchè non era punto per predilezione de' genitori) se non perch'era mutato il genere della vita nostra che convivevamo con lui, anch'egli partecipava non poco alla nostra larghezza, ed avea molto più comodi e piaceruzzi che non avevamo noi in quella età, e molto meno incomodi e noie e lacci e strettezze e gastighi, ed era perciò molto più petulante ed ardito di noi in quell'età, perciò io ne risentiva naturalmente una verissima invidia, cioè non di quei beni giacch'io gli avea allora, e pel tempo passato non li potea più avere, ma mero e solo dispiacere ch'ei gli avesse, e desiderio che fosse incomodato e tormentato come noi, ch'è la pura e legittima invidia del pessimo genere, e io la sentiva naturalmente e senza volerla sentire, ma in somma compresi allora (e allora appunto scrissi queste parole) che tale è la natura umana, onde mi erano men cari quei beni ch'io aveva qualunque fossero, perch'io li comunicava con lui, forse parendomi che non fossero più degno termine di tanti stenti dopo che non costavano niente a un altro che si trovava nelle mie circostanze, e con meno merito di me, ec. Quindi applico ai Cappuccini, i quali trovando la sorte dei fratelli minori che sono i novizzi dipendente da loro, seguono gl'impulsi di questa inclinazione che ho detto, e non soffrono che si possano dire a se stessi essere scarso quel bene a cui son giunti poichè altri gli acquista con assai meno travaglio di loro, nè che abbiano a provare il dispiacere che questi tali non soffrano quegl'incomodi ch'essi in quelle circostanze hanno sofferti.

[50,3]  Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de' villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch'io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a  51 farmi avveder del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco.

[64,2]  Molti sono che dalla lettura de' romanzi libri sentimentali ec. o acquistano una falsa sensibilità non avendone, o corrompono quella vera che avevano. Io sempre nemico mortalissimo dell'affettazione massimamente in tutto quello che spetta agli effetti dell'animo e del cuore mi sono ben guardato dal contrarre questa sorta d'infermità, e ho sempre cercato di lasciar la natura al tutto libera e spontanea operatrice ec. A ogni modo mi sono avveduto che la lettura de' libri non ha veramente prodotto un[in] me nè affetti o sentimenti che non avessi, nè anche verun effetto di questi, che senza esse letture non avesse dovuto nascer da se: ma pure gli ha accelerati, e fatti sviluppare più presto, in somma sapendo io dove quel tale affetto moto sentimento ch'io provava, doveva andare a finire, quantunque lasciassi intieramente fare alla natura, nondimeno trovando la strada come aperta, correvo per quella più speditamente. Per esempio nell'amore la disperazione mi portava più volte a desiderar vivamente di uccidermi: mi ci avrebbe portato senza dubbio da se, ed io sentivo che quel desiderio veniva dal cuore ed era nativo e {mio} proprio non tolto in prestito, ma egualmente mi parea di sentire che quello mi sorgea così tosto perchè dalla lettura recente del Verter, sapevo che quel genere di amore ec. finiva così, in somma la disperazione mi portava là, ma s'io fossi stato nuovo in queste cose, non mi sarebbe venuto in mente quel desiderio così presto, dovendolo io come inventare, laddove (non ostante ch'io fuggissi quanto mai si può dire ogni imitazione ec.) me lo trovava già inventato.

[66,1]   66 Io mi trovava orribilmente annoiato della vita e in grandissimo desiderio di uccidermi, e sentii non so quale indizio di male che mi fece temere in quel momento in cui io desiderava di morire: e immediatamente mi posi in apprensione e ansietà per quel timore. Non ho mai con più forza sentita la discordanza assoluta degli elementi de' quali è formata la presente condizione umana forzata a temere per la sua vita e a proccurare in tutti i modi di conservarla, proprio allora che l'è più grave, e che facilmente si risolverebbe a privarsene di sua volontà (ma non per forza d'altre cagioni). E vidi come sia vero ed evidente che (se non vogliamo supporre la natura tanto savia e coerente in tutto il resto {che l'analogia è uno de' fondamenti della filosofia moderna e anche della stessa nostra cognizione e discorso,} affatto pazza e contraddittoria nella sua principale opera) l'uomo non doveva per nessun conto accorgersi della sua assoluta e necessaria infelicità in questa vita, ma solamente delle accidentali (come i fanciulli e le bestie): e l'essersene accorto è contro natura, ripugna ai suoi principii costituenti comuni anche a tutti gli altri esseri (come dire {l'amor} della vita), e turba l'ordine delle cose. (poichè spinge infatti al suicidio la cosa più contro natura che si possa immaginare.).

[70,2]  Non v'ha forse cosa tanto conducente al suicidio quanto il disprezzo di se medesimo. Esempio di quel mio amico  71 che andò a Roma deliberato di gittarsi nel Tevere perchè sentiva dirsi ch'era un da nulla. Esempio mio stimolatissimo ad espormi a quanti pericoli potessi e anche uccidermi, la prima volta che mi venni in disprezzo. Effetto dell'amor proprio che preferisce la morte alla cognizione del proprio niente, ec. onde quanto più uno sarà egoista tanto più fortemente e costantemente sarà spinto in questo caso ad uccidersi. E infatti l'amor della vita è l'amore del proprio bene; ora essa non parendo più un bene, ec. ec.

[71,2]  Colle persone colle quali penso di poter convenire, non amo di parlare in compagnia, parte perchè i circostanti non conoscendomi bene (giacchè io non soglio farmi conoscer da tutti) darebbero di me {a queste persone} sia direttamente sia indirettamente una idea falsa; parte perchè io stesso per non entrare in dispute ch'io sfuggo a più potere con quelli che hanno diversi principii, e per non obbligare quella stessa tal persona ch'io stimassi, ad entrarvi, dissimulerei necessariamente, e così cercando d'ingannar gli altri, ingannerei anche colui, il quale mi crederebbe uno di quei tanti coi quali egli non può convenire.

[73,1]   73 Io non ho mai provato invidia nelle cose in cui mi son creduto abile, come nella letteratura, dove anzi sono stato proclivissimo a lodare. L'ho provata posso dire per la prima volta (e verso una persona a me prossimissima) quando ho desiderato di valer qualche cosa in un genere in cui capiva d'esser debolissimo. Ma bisogna che mi renda giustizia confessando che questa invidia era molto indistinta e non al tutto e per tutto vile, e contraria al mio carattere. Tuttavia mi dispiaceva assolutamente di sentire le fortune di quella tal persona in quel tal genere, e raccontandomele essa, la trattava da illusa, ec.

[82,2]  Io era oltremodo annoiato della vita, sull'orlo della vasca del mio giardino, e guardando l'acqua e curvandomici sopra con un certo fremito, pensava: s'io mi gittassi qui dentro, immediatamente venuto a galla, mi arrampicherei sopra quest'orlo, e sforzandomi di uscir fuori dopo aver temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso, proverei qualche istante di contento per essermi salvato, e di affetto a questa vita che ora tanto disprezzo, e che allora mi parrebbe più pregevole. {{La tradizione intorno al salto di Leucade poteva avere per fondamento un'osservazione simile a questa.}}

[84,2]  Nella mia somma noia e scoraggimento intiero della vita talvolta riconfortato alquanto e alleggerito io mi metteva a piangere la sorte umana e la miseria del mondo. Io rifletteva allora: io piango perchè sono più lieto, e così è che allora il nulla delle cose pure mi lasciava forza d'addolorarmi, e quando io lo sentiva maggiormente e ne era pieno, non mi lasciava il vigore di dolermene.

[85,2]  Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla.

[85,3]  Prima di provare la felicità, o vogliamo dire un'apparenza di felicità viva e presente, noi possiamo alimentarci delle speranze, e se queste son forti e costanti, il tempo loro è veramente il tempo felice dell'uomo, come nella età fra la fanciullezza e la giovanezza. Ma provata quella felicità che ho detto, e perduta, le speranze non bastano più a contentarci, e la infelicità dell'uomo è stabilita. Oltre che le speranze dopo la trista esperienza fatta sono assai più difficili, ma in ogni modo la vivezza della felicità provata, non può esser compensata dalle lusinghe e dai diletti limitati della speranza, e l'uomo in comparazione di questa piange sempre quello che ha perduto e che ben difficilmente può tornare, perchè il tempo delle grandi illusioni è finito.

[85,5]  Quando le sensazioni d'entusiasmo ec. che noi proviamo non sono molto profonde, allora cerchiamo di avere un compagno con cui comunicarle, e ci piace il poterne discorrere in quel momento, (secondo quella osservazione di Marmontel che vedendo una bella campagna non siamo contenti se non abbiamo con chi dire: la belle campagne!) perchè in certo modo speriamo di accrescere  86 il diletto di quel sentimento e il sentimento medesimo con quello degli altri. Ma quando l'impressione è profonda accade tutto l'opposto perchè temiamo, e così è, di scemarla e svaporarla partecipandola, e cavandola dal chiuso delle nostre anime, per esporla all'aria della conversazione. Oltre ch'ella ci riempie in modo, che occupando tutta la nostra attenzione, non ci lascia campo di pensare ad altri, nè modo di esprimerla, volendosi a ciò una certa attenzione che ci distrarrebbe, quando la distrazione ci è non solamente importuna, ma impossibile.

[87,1]  Quando l'uomo veramente sventurato si accorge e sente profondamente l'impossibilità d'esser felice, e la somma e certa infelicità dell'uomo, comincia dal divenire indifferente intorno a se stesso, come persona che non può sperar nulla, nè perdere e soffrire più di quello ch'ella già preveda e sappia. Ma se la sventura arriva al colmo l'indifferenza non basta, egli perde quasi affatto l'amor di se, (ch'era già da questa indifferenza così violato) o piuttosto lo rivolge in un modo tutto contrario al consueto degli uomini, egli passa ad odiare la vita l'esistenza e se stesso, egli si abborre come un nemico, e allora è quando l'aspetto di nuove sventure, o l'idea e l'atto del suicidio gli danno una terribile e quasi barbara allegrezza, massimamente se egli pervenga ad uccidersi essendone impedito da altrui; allora è il tempo di quel maligno amaro e ironico sorriso simile a quello della vendetta eseguita da un uomo crudele dopo forte lungo e irritato desiderio, il qual sorriso è l'ultima espressione della estrema disperazione e della somma infelicità. V. Staël Corinne, l. 17. c. 4. 5me édition Paris 1812. p. 184. 185. t. 3.

[133,1]  Dice Luciano nelle Lodi della Patria (t. 2. p. 479.), καὶ τοὺς κατὰ τὸν τῆς ἀποδημίας χρόνον λαμπροὺς γενομένους ἢ διὰ χρημάτων κτῆσιν, ἢ διὰ τιμῆς δόξαν * (vel ob honoris gloriam), ἢ διὰ παιδείας μαρτυρίαν, ἢ δι᾽ ἀνδρίας[ἀνδρείας] ἔπαινον, ἔστιν ἰδεῖν ἐς τὴν πατρίδα {πάντας} ἐπειγομένους * (properantes) ὡς οὐκ ἂν ἐν ἄλλοις βελτίοσιν ἐπιδειξομένους τὰ αὐῶν καλά. καὶ τοσούτῳ γε μᾶλλον ἕκαστος σπεύδει λαβέσθαι τῆς πατρίδος ὅσῳπερ ἂν ϕαίνηται μειζόνων παρ᾽ ἄλλοις ἠξιωμένος * . Questo è vero, e quando anche tu viva in una città molto maggiore della tua patria, non ostante il gran cambiamento delle opinioni antiche a questo riguardo, desidererai anche adesso, se non altro che la gloria o qualunque altro bene che tu hai acquistato sia ben noto, e faccia romore particolare nella tua patria. Ma la cagione non è mica l'amor della patria, come stima Luciano, e come pare a prima vista. E infatti stando nella tua stessa patria, tu provi lo stesso effetto  134 riguardo alla {tua} famiglia, e a' tuoi più intimi conoscenti. La ragione è che noi desideriamo che i nostri onori o pregi siano massimamente noti a coloro che ci conoscono più intieramente, e che ne sieno testimoni quelli che sanno più per minuto le nostre qualità, i nostri mezzi, la nostra natura, i nostri costumi ec. E come non ti contenteresti di una fama anonima, cioè di esser celebrato senza che si sapesse il tuo nome, perchè quella fama, ti parrebbe piuttosto generica che tua propria, così proporzionatamente desideri ch'ella sia sulle bocche di quelli presso i quali, conoscendoti più intimamente e particolarmente, la tua stima viene ad essere più individuale e propria tua, perchè si applica a tutto te, che sei loro noto minutamente. E viene anche ciò dalla inclinazione che tutti abbiamo per li nostri simili, onde non saremmo soddisfatti di una fama acquistata appresso una specie di animali diversa dall'umana, e così venendo per gradi, poco ci cureremmo di esser famosi fra i Lapponi o gl'irocchesi, essendo ignoti ai popoli colti, e non saremmo contenti di una celebrità francese o inglese, essendo sconosciuti ai nostri italiani, e così finalmente arriveremo ai nostri propri cittadini, e anche alla nostra famiglia. Aggiungete le tante relazioni che si hanno o si sono avute colle persone più attenenti alla nostra, le emulazioni, le gare, le invidie, le contrarietà avute, le amicizie fatte ec. ec. alle quali cose tutte applichiamo il sentimento che ci cagiona la nostra gloria, o qualunque vantaggio acquistato. In somma  135 la cagione è l'amore {immediato} di noi stessi, e {non} della nostra patria. {{V. p. 536, capoverso 2.}}

[137,1]  Mentre io stava disgustatissimo della vita, e privo affatto di speranza, e così desideroso della morte, che mi disperava per non poter morire, mi giunge una lettera di quel mio amico, che m'avea sempre confortato a sperare, e pregato a vivere, assicurandomi come uomo di somma intelligenza e gran fama, ch'io diverrei grande, e glorioso all'italia, nella qual lettera mi diceva di concepir troppo bene le mie sventure, (Piacenza 18. Giugno) che se Dio mi mandava la morte l'accettassi come un bene, e ch'egli l'augurava pronta a se ed a me per l'amore che mi portava. Credereste che questa lettera invece di staccarmi maggiormente dalla vita, mi riaffezionò a quello ch'io aveva già abbandonato? E ch'io pensando alle speranze passate, e ai conforti e presagi fattimi già dal mio amico, che ora pareva non si curasse più di vederli verificati, nè di quella grandezza che mi aveva promessa, e rivedendo a caso le mie carte e i miei studi, e ricordandomi la mia fanciullezza e i pensieri e i desideri e le belle viste e le occupazioni dell'adolescenza, mi si serrava il cuore in maniera ch'io non sapea più rinunziare alla speranza, e la morte mi spaventava? non già come morte, ma come annullatrice di tutta la bella aspettativa passata. E pure quella lettera non mi avea detto nulla ch'io non  138 mi dicessi già tuttogiorno, e conveniva nè più nè meno colla mia opinione. Io trovo le seguenti ragioni di queto[questo] effetto. 1. che le cose che da lontano paiono tollerabili, da vicino mutano aspetto. Quella lettera e quell'augurio mi metteva come in una specie di superstizione, come se le cose si stringessero, e la morte veramente si avvicinasse, e quella che da lontano m'era parsa facilissima a sopportare, anzi la sola cosa desiderabile, da vicino mi pareva dolorosissima e formidabile.

[140,1]  Il dolore o la disperazione che nasce dalle grandi passioni e illusioni {o da qualunque sventura della vita} non è paragonabile all'affogamento che nasce dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di tutte le cose, e della impossibilità di esser felice a questo mondo, e dalla immensità del vuoto che si sente nell'anima. Le sventure o {d'}immaginazione o reali, potranno anche indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma quel dolore ha più della vita, anzi, massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e quest'{altro dolore} ch'io dico è tutto morte; e quella  141 medesima morte prodotta immediatamente dalle sventure è cosa più viva, laddove quest'altra è più sepolcrale, senz'azione senza movimento senza calore, e quasi senza dolore, ma piuttosto con un'oppressione smisurata e un accoramento simile a quello che deriva dalla paura degli spettri nella fanciullezza, o dal pensiero dell'inferno. Questa condizione dell'anima è l'effetto di somme sventure reali, e di una grand'anima piena una volta d'immaginazione e poi spogliatane affatto, e anche di una vita così evidentemente nulla e monotona, che renda sensibile e palpabile la vanità delle cose, perchè senza ciò la gran varietà delle illusioni che la misericordiosa natura ci mette innanzi tuttogiorno, impedisce questa fatale e sensibile evidenza. E perciò non ostante che questa condizione dell'anima sia ragionevolissima anzi la sola ragionevole, con tutto ciò essendo contrarissima anzi la più dirittamente contraria alla natura, non si sa se non di pochi che l'abbiano provata, come del Tasso.

[143,2]  Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi erano pieni d'immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non avea che un barlume, e questo in grande, e con quella solita illusione che {noi} ci facciamo, cioè che nel mondo e nella vita ci debba esser sempre un'eccezione a favor nostro. Sono stato sempre sventurato, ma le mie sventure d'allora erano piene di vita, e mi disperavano perchè mi pareva (non veramente alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che m'impedissero la felicità, della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi.  144 Ben è vero che anche allora, quando le sventure mi stringevano e mi travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia, come nell'ultimo canto della Cantica. La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819. dove privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (in questi pensieri ho scritto in un anno il doppio quasi di quello che avea scritto in un anno e mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla nostra natura, a differenza dei pensieri passati, quasi tutti di letteratura), a divenir filosofo di professione (di poeta ch'io era), a sentire l'infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora l'immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantunque la facoltà dell'invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però principalmente, o sopra affari di prosa, o sopra poesie sentimentali. E s'io mi metteva a far versi, le immagini mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia era quasi disseccata (anche astraendo dalla poesia, cioè nella contemplazione delle belle scene naturali ec. come ora ch'io ci resto duro come una pietra); bensì quei versi traboccavano di sentimento. (1. Luglio 1820). {{Così si può ben dire che in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se non i fanciulli, o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo.}}

[151,3]  Al levarsi da letto, parte pel vigore riacquistato col riposo, parte per la dimenticanza dei mali avuta nel sonno, parte per una certa rinnuovazione della vita, cagionata da quella specie d'interrompimento datole, tu ti senti ordinariamente o più lieto o meno tristo, di quando ti coricasti. Nella mia vita infelicissima l'ora meno trista è quella  152 del levarmi. Le speranze è[e] le illusioni ripigliano per pochi momenti un certo corpo, ed io chiamo quell'ora la gioventù della giornata per questa similitudine che ha colla gioventù della vita. E anche riguardo alla stessa giornata, si suol sempre sperare di passarla meglio della precedente. E la sera che ti trovi fallito di questa speranza e disingannato, si può chiamare la vecchiezza della giornata. (4. Luglio. 1820.). {{V. p. 193. capoverso 1.}}

[194,3]  Oltre che il virtuoso è per l'ordinario sconosciuto {e non voluto conoscere e confessare} dalla moltitudine che è formata dai tristi, tale è la misera condizione dell'uomo in società, e dell'intrigo delle circostanze, ch'egli è sovente sconosciuto e pigliato per tutt'altro, anche dagli altri pochissimi virtuosi. Io mi sono abbattuto a dovere stimare ed amare due persone di rettissimo cuore, che per alcuni incontri datisi tra loro, si stimavano scambievolmente con intima persuasione, pessimi di carattere e di cuore. Tant'è, noi giudichiamo {del carattere} degli uomini dal modo nel quale si sono portati verso noi o perchè credessero di dovere, e anche dovessero portarsi così, o arbitrariamente, o per forza di congiunture, o anche per colpa. E il  195 più scellerato del mondo, se non ci avrà nociuto, e per qualunque motivo, avrà avuto occasione di beneficarci, anche semplicemente di trattarci bene, di mostrarcisi affabile manieroso rispettoso ec. basterà questo perch'egli nell'animo nostro abbia un posto non cattivo, ed anche di uomo onesto. E quando anche l'intelletto ripugni, il cuore e la fantasia ne terranno sempre questo concetto. Questa dovrebb'essere regola generale per qualunque senta dir bene o male di chicchessia. Se quegli che parla, parla per altrui relazione, o se parla di mala fede può avere altri motivi. Ma tolti questi due casi, ordinariamente nella vita privata, tu devi supporre che quegli che ti parla ha ricevuto bene o male da quella {tal} persona, e da tutto il suo discorso non credere di restare informato se non di questo. (31. Luglio 1820.).

[211,3]  A proposito di quello che ho detto p. 152. pens. ult. notate che l'immaginazione dei fanciulli ha ordinariamente tutte due queste qualità, ma l'una, cioè la fecondità, in maggior grado. E perciò come sono facili a fissarsi in un'idea, così anche a distrarsi, nel mezzo di un discorso, dello studio, di qualsivoglia occupazione onde si suol dire che i fanciulli non sono buoni allo studio {non solo pel poco intelletto, ma} perchè son pieni di distrazioni.  212 Giacchè la loro fantasia ha gran facilità di staccarsi subito da un oggetto per attaccarsi a un altro. Eccetto alcuni fanciulli d'immaginazione destinata a grandi cose, e a fargli infelici quando saranno maturi, la profondità della quale li fissa fortemente in questa o in quella idea, ordinariamente paurosa o dolorosa, e li tormenta nella stessa fanciullezza, com'è accaduto a me. Ed è notabile come questa profondità della immaginazione li renda gelosissimi del metodo e del consueto, fuor del quale non trovano pace, spaventandosi dello straordinario, e contando per disgrazia insopportabile l'aver tralasciato di fare una cosa loro solita ec. Es. di Pietrino, e mio. Del resto l'effetto della immaginazione dei fanciulli qual sia, v. p. 172. fine.

[212,2]  La soprabbondanza della immaginazione è quella che tormenta i fanciulli detti qui sopra, e perciò in luogo di cercarla nello straordinario, cercano di spegnerla o addormentarla col metodo. Cosa che accade anche agli uomini. V. il carattere di Lord Nelvil nella Corinna. (16. Agosto 1820.).

[213,1]  Le illusioni per quanto sieno illanguidite e smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora nel mondo, e compongono la massima parte della nostra vita. E non basta conoscer tutto per perderle, ancorchè sapute vane. E perdute una volta, nè si perdono in modo che non ne resti  214 una radice vigorosissima, e continuando a vivere, tornano a rifiorire in dispetto di tutta l'esperienza, e certezza acquistata. Io ho veduto persone savissime, espertissime, piene di cognizioni di sapere e di filosofia, infelicissime, perdere tutte le illusioni, e desiderar la morte come unico bene, e augurarla {ancora} come tale, agli amici loro: poco dopo, bensì svogliatamente, ma tuttavia riconciliarsi colla vita, formare progetti sul futuro, impegnarsi per alcuni vantaggi temporali di quegli stessi loro amici ec. {Nè poteva più essere per ignoranza o non persuasione certa e sperimentale della nullità delle cose.} Ed a me pure è avvenuto lo stesso {cento volte,} di disperarmi propriamente per non poter morire, e poi riprendere i soliti disegni e castelli in aria intorno alla vita futura, e anche un poco di allegria passeggera. E quella disperazione e quel ritorno, non avevano cagion sufficiente di alternarsi, giacchè la disperazione era prodotta da cause che duravano quasi intieramente nel tempo ch'io riprendeva le mie illusioni. Tuttavia qualche piccolo motivo di consolarmi, bastava all'effetto, ed è cosa indubitata che le illusioni svaniscono nel tempo della sventura, {+(e perciò è verissimo, e l'ho provato anch'io, che chi non è stato mai sventurato, non sa nulla. Io sapeva, perchè oggidì non si può non sapere, ma quasi come non sapessi, e così mi sarei regolato nella vita.)} e ritornano dopo che questa è passata, o mitigata dal tempo e dall'assuefazione. Ritornano con più o meno forza secondo le circostanze, il carattere, il temperamento corporale, e le qualità spirituali {tanto} ingenite {come} acquisite. Quasi tutti gli scrittori di vero e squisito sentimentale, dipingendo la disperazione e lo scoraggiamento totale della vita, hanno cavato i colori dal proprio cuore, e dipinto uno stato nel quale  215 essi stessi appresso a poco si sono trovati. Ebbene? con tutta la loro disperazione passata, con tutto che scrivendo sentissero vivamente la natura e la forza di quelle acerbe verità e passioni che esprimevano, anzi dovessero proccurarsene attualmente una intiera persuasione ec. per potere rappresentare {efficacemente} quello stato dell'uomo, e per conseguenza sentissero ed avessero quasi per le mani il nulla delle cose, tuttavia si prevalevano del sentimento stesso di questo nulla per mendicar gloria, e quanto più era vivo in loro il sentimento della vanità delle illusioni, tanto più si prefiggevano e speravano di conseguire un fine illusorio, e col desiderio della morte vivamente sentito, e vivamente espresso, {non} cercavano {altro che} di proccurarsi alcuni piaceri della vita. E così tutti i filosofi che scrivono e trattano le miserabili verità della nostra natura e ch'essendo privi d'illusioni in fondo, non cercano poi altro veramente col loro libro che di crearsi, e godersi alcuni illusorii vantaggi della vita {(v. Cic., pro Archia. c. 11.).} Tant'è: la natura è così smisuratamente più forte della ragione, che ancorchè depressa e indebolita oltre a ogni credere, pure gli resta abbastanza per vincere quella sua nemica, e questo negli stessi seguaci suoi, e in quello stesso momento in cui la predicano e la divulgano; anzi con questo stesso predicare e divulgar {la ragione contro la natura,} la danno vinta alla natura sopra la ragione.  216 L'uomo non vive d'altro che di religione o d'illusioni. Questa è proposizione esatta e incontrastabile: Tolta la religione e le illusioni radicalmente, ogni uomo, anzi ogni fanciullo alla prima facoltà di ragionare (giacchè i fanciulli massimamente non vivono d'altro che d'illusioni) si ucciderebbe infallibilmente di propria mano, e la razza nostra sarebbe rimasta spenta nel suo nascere per necessità ingenita, e sostanziale. Ma le illusioni, come ho detto, durano ancora a dispetto della ragione e del sapere. È da sperare che durino anche in progresso: ma certo non c'è più dritta strada a quello che ho detto, di questa presente condizione degli uomini, dell'incremento {e divulgamento} della filosofia da una parte, la quale ci va assottigliando e disperdendo tutto quel poco che ci rimane; e dall'altra parte della mancanza positiva di quasi tutti gli oggetti d'illusione, e della mortificazione reale, uniformità, inattività, {nullità} ec. di tutta la vita. Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perder tutte le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere avanti gli occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno altro che le ossa, come di altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto è possibile che l'uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni  217 e visioni. A riparlarci di qui a cent'anni. Non abbiamo ancora esempio nelle passate età, dei progressi di un incivilimento smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torneremo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri. (18-20. Agosto 1820.).

[222,2]  La lettura {per l'arte dello scrivere} è come l'esperienza per l'arte di viver nel mondo, e di conoscer gli uomini e le cose. Distendete e applicate questa osservazione, specialmente a quello che è avvenuto a voi stesso nello studio della lingua e dello stile, e vedrete che la lettura ha prodotto in voi lo stesso effetto dell'esperienza rispetto al mondo. (22. Agosto 1820.).

[245,1]  L'irresoluzione è peggio della disperazione. Questa massima mi venne profferita nettamente e letteralmente in sogno l'altro ieri a notte, in occasione che mio fratello mi pareva deliberato per disperazione di farsi Cappuccino, e io ricusava di allegargli quelle ragioni che gli avrebbero sospeso l'animo, adducendo la detta massima. (14. Settbre 1820.).

[248,1]  L'occupazione {della società,} come quella che offre la società francese, riempie veramente la vita, la riempie dico materialmente, ma non lascia così poco vuoto nell'animo come la occupazione destinata a provvedere ai propri bisogni, ch'era quella dell'uomo primitivo. E la sera, l'uomo che ha passata la giornata tutta intera nel mondo il più vivo, vario, e pieno, {e ne' divertimenti anche meno noiosi, e che si trova anche senza cure e dispiaceri,} ripensando alla giornata passata, e considerando la futura, non si trova di gran lunga così contento e pieno, come colui che considera i bisogni ai quali ha provveduto, e fa i suoi disegni sopra quelli a' quali provvederà l'indomani. Qualche cosa di serio è necessario che formi la base della nostra occupazione per condurci ad una certa felicità (più o meno serio, secondo gl'individui), e se bene tutte le cose sono ugualmente importanti per se stesse, e il nostro fine sia sempre il piacere, nondimeno il puro spasso non è mai capace di soddisfarci. La cagione è che ci bisogna un fine dell'occupazione, uno scopo al quale mirare, acciocchè al piacere dell'occupazione si aggiunga quello della speranza, che bene spesso forma essa sola il piacere dell'occupazione V. gli altri miei pensieri in questo proposito pp. 172-73.

[255,2]  L'uomo superiore, oggidì colla cognizione e sperienza del mondo, si può dire, benchè sembri un paradosso, che si avvezzi a pregiare piuttosto che a dispregiare. Dico riguardo alle cose reali. Perchè  256 mentre egli è inesperto del mondo, i piccoli pregi, i principii di virtù, le piccole bellezze o bontà o grandezze in qualsivoglia genere di cose, gli paiono dispregevoli, paragonando sempre gli altri a se stesso, com'è costume degli uomini, o paragonando le cose alla sua immaginativa. Ma colla sperienza, trovandosi sempre in mezzo ad eccessive piccolezze, malvagità, sciocchezze, bruttezze ec. appoco appoco si avvezza a stimare quei piccoli pregi che prima spregiava, a contentarsi del poco, a rinunziare alla speranza dell'ottimo o del buono, e a lasciar l'abitudine di misurar gli uomini e le cose con se stesso, e colla immaginazion sua. Laonde siccome prima egli non istimava se non le cose lontane, le quali, in quel modo in cui egli le concepiva, non erano reali, si può dire che il numero delle cose reali ch'egli stima vada sempre crescendo, se bene diminuisca la {misura della} stima assoluta, e il numero assoluto delle cose ch'egli stimava, perchè sono molte più quelle cose ch'egli pregiava lontane, e disprezza vicine, di quelle che da principio noncurava, ed ora è necessitato a pregiare. (30. 7.bre 1820.).

[256,2]  Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella. (1. Ottobre 1820.).

[259,1]  Laddove insomma l'opinione comune che par vera a prima vista, considera l'entusiasmo come padre dell'invenzione e concezione, e la calma come necessaria alla buona esecuzione; io dico che l'entusiasmo nuoce o piuttosto impedisce affatto l'invenzione (la quale dev'essere determinata, e l'entusiasmo è lontanissimo da qualunque sorta di determinazione), e piuttosto giova all'esecuzione, riscaldando il poeta o l'artefice, avvivando il suo stile, e aiutandolo sommamente nella formazione, disposizione, ec. delle parti, le quali cose tutte facilmente riescon fredde e monotone quando l'autore ha perduto i primi sproni dell'originalità. (3. 8bre 1820.).

[102,2]  Ci sono tre maniere di vedere le cose. L'una e la più beata, di quelle[quelli] per li quali esse hanno anche più spirito che corpo, e voglio dire degli  103 uomini di genio e sensibili, ai quali non c'è cosa che non parli all'immaginazione o al cuore, e che trovano da per tutto materia di sublimarsi e di sentire e di vivere, e un rapporto continuo delle cose coll'infinito e coll'uomo, e una vita indefinibile e vaga, in somma di quelli che considerano il tutto sotto un aspetto infinito e in relazione cogli slanci dell'animo loro. L'altra e la più comune di quelli per cui le cose hanno corpo senza aver molto spirito, e voglio dire degli uomini volgari (volgari sotto il rapporto dell'immaginazione e del sentimento, e non riguardo a tutto il resto, p. e. alla scienza, alla politica ec. ec.) che senza essere sublimati da nessuna cosa, trovano però in tutte una realtà, e le considerano quali elle appariscono, e sono stimate comunemente e in natura, e secondo questo si regolano. Questa è la maniera naturale, e la più durevolmente felice, che senza condurre a nessuna grandezza, e senza dar gran risalto al sentimento dell'esistenza, riempie però la vita, di una pienezza non sentita, ma sempre uguale e uniforme, e conduce per una strada piana e in relazione colle circostanze dalla nascita al sepolcro. La terza e[è] la sola funesta e miserabile, e tuttavia la sola vera, di quelli per cui le cose non hanno nè spirito nè corpo, ma son tutte vane e senza sostanza, e voglio dire dei filosofi e degli uomini per lo più di sentimento che dopo l'esperienza e la lugubre cognizione delle cose, dalla prima maniera passano di salto a quest'ultima senza toccare la seconda, e trovano e sentono da per tutto il nulla e il vuoto, e la vanità delle cure umane e dei desideri e delle speranze e di tutte le illusioni inerenti alla vita per modo che senza esse non è vita. E qui voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere quello dell'uomo, sia miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa saviezza, che par tutta consistere nell'uso intero della ragione. Perchè chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo e certissimo delle cose, in maniera  104 che la successone e varietà degli oggetti {e dei casi} non avesse forza di distorlo da questo pensiero, sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo, giacchè volendosi governare secondo questo incontrastabile principio ognuno vede quali sarebbero le sue operazioni. E pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la più ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli. Da ciò si vede come la saviezza comunemente intesa, e che possa giovare in questa vita, sia più vicina alla natura che alla ragione, {stando fra ambedue e non} mai come si dice volgarmente con questa sola, e come essa ragione pura e senza mescolanza, sia fonte {immediata e per sua natura} di assoluta e necessaria pazzia.

[261,1]  Osserverò che il detto fenomeno occorre molto più difficilmente nelle poesie tetre e nere del Settentrione, massimamente moderne, come in quelle di Lord Byron, che nelle meridionali, le quali conservano una certa luce negli argomenti più bui, dolorosi e disperanti; e la lettura del Petrarca, p. e. de' trionfi, e della conferenza di Achille e di Priamo, dirò ancora di Verter, produce questo effetto molto più che il Giaurro, o il Corsaro ec. non ostante che {trattino e} dimostrino la stessa infelicità degli uomini, e vanità delle cose. (4. 8bre 1820.). Io so che letto Verter mi sono trovato caldissimo nella mia disperazione letto Lord Byron, freddissimo, e senza entusiasmo nessuno; molto meno consolazione.  262 E certo Lord Byron non mi rese niente più sensibile alla mia disperazione: piuttosto mi avrebbe fatto più insensibile e marmoreo.

[263,2]  Una cosa stimabile non può essere apprezzata degnamente se non da quelli che ne conoscono il valore. Perciò la rarità non porta sempre con se la stima della cosa, anzi spessissimo l'impedisce. Un uomo di grande ingegno fra gl'ignoranti o è disprezzato, o apprezzato senz'ammirazione senza entusiasmo senza nessuno di quegli affetti che paiono conseguenze infallibili dello straordinario, e che debbano crescere tanto più quanto la cosa è più straordinaria relativamente. Il conto che se ne fa, è come di uno che abbia un utensile migliore degli altri, i quali talvolta lo chiedono in prestito o se ne servono presso chi lo possiede, e non perciò stimano che quell'uomo  264 sia una gran cosa, o superiore agli altri a cagione di quel piccolo vantaggio compensabile e paragonabile con tanti altri. Così le scritture di buon gusto in un secolo o paese corrotto o ignorante, così la sensibilità massimamente e l'entusiasmo, il quale anzi dalle persone ordinarie sarà stimato piuttosto un un μειονέκτημα, che un πλεονέκτημα, e deriso come pazzia. Così si è veduto che eccetto i pregi sensibili, o de' quali tutti sanno giudicare naturalmente, tutti gli altri sono stati assai meno stimati nei secoli e nei luoghi dove sono stati più rari. Ed è cosa certa che un grande ingegno non può essere intimamente conosciuto, e però degnamente apprezzato e ammirato se non da un altro grande ingegno; e così le sue opere; così tutto quello che spetta a discipline, arti, abilità particolari, onde p. e. un grand'uomo di guerra non riscuoterà degna ammirazione che da un altro grand'uomo dello stesso mestiere. (5. 8.bre 1820.). {{V. p. 273.}}

[271,2]  Coloro che dicono per consolare una persona priva di qualche considerabile vantaggio della vita: non ti affliggere; assicurati che sono pure illusioni: parlano scioccamente. Perchè quegli potrà e dovrà rispondere: ma tutti i piaceri sono illusioni o consistono nell'illusione, e di queste illusioni si forma e si compone la nostra vita. Ora se io non posso averne, che piacere mi resta? e perchè vivo? Nella stessa maniera dico io delle antiche istituzioni ec. tendenti a fomentare l'entusiasmo, le illusioni, il coraggio, l'attività, il movimento, la vita. Erano illusioni, ma toglietele,  272 come son tolte. Che piacere rimane? e la vita che cosa diventa? Nella stessa maniera dico: la virtù, la generosità, la sensibilità, la corrispondenza vera in amore, la fedeltà, la costanza, la giustizia, la magnanimità ec. umanamente parlando sono enti immaginari. E tuttavia l'uomo sensibile se ne trovasse frequentemente nel mondo, sarebbe meno infelice, e se il mondo andasse più dietro a questi enti immaginari (astraendo ancora da una vita futura), sarebbe molto {meno} infelice. Seguirebbe delle illusioni, perchè nessuna cosa è capace di riempier l'animo umano, ma non è meglio una vita con molti piaceri illusorii, che senza nessun piacere? non si vivrebbe meglio se nel mondo si trovassero queste illusioni più realizzate, e se l'uomo di cuore non si dovesse persuadere non solo che sono enti immaginari, ma che nel mondo non si trovano più neanche così immaginari come sono? {in maniera che manchi affatto il pascolo e il sostegno all'illusione.} E dall'altro lato, non c'è maggiore illusione ovvero apparenza di piacere che quello che deriva dal bello dal tenero dal grande dal sublime dall'onesto. Laonde quanto più queste cose abbondassero, sebbene illusorie, tanto meno l'uomo sarebbe infelice. (11. 8.bre 1820.). {{V. p. 338. capoverso 2.}}

[277,1]  Quel vecchio che non ha presente nè futuro, non è privo perciò di vita. Se non è stato mai uomo, non ha bisogno se non di quel nonnulla che gli somministra la sua situazione, e tutto gli basta per vivere. Se è stato uomo, ha un passato, e vive in quello. La mancanza del presente, non è la cosa più grave per gli uomini, anzi atteso la nullità di tutto quello che si vede nella realtà e da vicino, si può dire che il presente sia nullo per tutti, e che ogni uomo manchi del presente. Il vuoto del futuro non è gran cosa per lui, 1. perch'è già sazio della vita, che ha già provata, gustata, adoperata ec. 2. perchè i suoi desideri, passioni, affetti, sentimenti, sono rintuzzati e  278 intorpiditi, e ristretti, e non esigono più grandi beni, piaceri, movimenti, azioni presenti, nè grandi speranze, gran vita attuale o avvenire: 3. perchè l'estensione materiale del suo futuro è piccola, e non lo può spaventare gran fatto il vuoto di un piccolo spazio. Ma il giovane senza presente nè futuro, cioè senza nè beni, attività, piaceri, vita ec. nè speranze e prospettiva dell'avvenire, dev'essere infelicissimo e disperato, mancare affatto di vita, e spaventarsi e inorridire della sua sorte e del futuro. 1. Il giovane non ha passato. Tutto quello che ne ha, {non} serve altro che ad attristarlo e stringergli il cuore. Le rimembranze della fanciullezza e della prima adolescenza, dei godimenti di quell'età perduti irreparabilmente, delle speranze fiorite, delle immaginazioni ridenti, dei disegni aerei di prosperità futura, di azioni, di vita, di gloria, di piacere, tutto svanito. 2. I desideri e le passioni sue, sono ardentissime ed esigentissime. Non basta il poco; hanno bisogno di moltissimo. Quanto è maggiore la sua vita interna, tanto maggiore è il bisogno e l'estensione e intensità ec. della vita esterna che si desidera. E mancando questa, quanto maggiore è la vita interna, tanto maggiore è il senso di  279 morte, di nullità, di noia ch'egli prova: insomma tanto meno egli vive in tali circostanze, quanto la sua vita interiore è più energica. 3. Il giovane non ha provato nè veduto. Non può esser sazio. I suoi desideri e passioni sono più ardenti e bisognosi, come ho detto, non solo assolutamente per l'età, ma anche materialmente, per non avere avuto ancora di che cibarsi e riempiersi. Non può esser disingannato nell'intimo fondo e nella natura, quando anche lo sia in tutta l'estensione della sua ragione. 4. Il suo futuro è materialmente lunghissimo, e l'immensità dello spazio vuoto che resta a percorrere, fa orrore, massime paragonandolo con quel poco che ha avuto tanta pena a passare. Il giovane a questa considerazione si spaventa e dispera {eccessivamente,} sembrandogli quel futuro più lungo e terribile di un'eternità. Di più tutta la sua vita consiste nel futuro. L'età passata non è stata altro che un'introduzione alla vita. Dunque egli è nato senza dover vivere. Il giovane prova disperazioni mortali, considerando che una sola volta deve passare per questo mondo, e che questa volta non godrà della vita, non vivrà, {avrà perduto e gli sarà inutile la sua unica esistenza.} Ogn'istante che passa della sua gioventù in questa guisa, gli sembra  280 una perdita irreparabile fatta sopra un'età che per lui non può più tornare. (16. 8.bre 1820.).

[280,1]  Il suo divertimento era di passeggiare contando le stelle (e simili). (16. 8.bre 1820.).

[280,2]  Anche la mancanza {sola} del presente è più dolorosa al giovine che a qualunque altro. Le illusioni in lui sono più vive, e perciò le speranze più capaci di pascerlo. Ma l'ardor giovanile non sopporta la mancanza intera di una vita presente, non è soddisfatto del solo vivere nel futuro, ma ha bisogno di un'energia attuale, e la monotonia e l'inattività presente gli è di una pena di un peso di una noia maggiore che in qualunque altra età, perchè l'assuefazione alleggerisce qualunque male, e l'uomo col lungo uso si può assuefare anche all'intera e perfetta noia, e trovarla molto meno insoffribile che da principio. L'ho provato io, che della noia da principio mi disperava, poi questa crescendo in luogo di scemare, tuttavia l'assuefazione me la rendeva appoco appoco meno spaventosa, e più suscettibile di pazienza. La qual pazienza della noia in me divenne finalmente affatto eroica. {Esempio de' carcerati, i quali talvolta si sono anche affezionati a quella vita.}

[280,3]  L'abito dell'eroismo può essere in un corpo debole, ma l'atto difficilmente, e non senza un grande  281 sforzo, nè senza ripugnanza, e quasi contro natura. E perciò vediamo moltissimi che per abito sono tutt'altro che eroi, far non di rado azioni eroiche; e viceversa. Anzi si può dire che gli uomini d'abito di principii e d'animo eroico, lo sono di rado nel fatto; e gli uomini eroici nel fatto, lo sono di rado nell'abito nei sentimenti e nell'animo. {Estendete queste osservazioni all'entusiasmo.}

[285,2]  Si può applicare alla poesia (come anche anche alle cose che hanno relazione o affinità con lei) quello che ho detto altrove pp. 14-21 [p. 125,1] p. 215: che alle grandi azioni è necessario un misto di persuasione e di passione o illusione. Così la poesia tanto riguardo al maraviglioso, quanto alla commozione o impulso di qualunque genere, ha bisogno di un falso che pur possa persuadere, non solo secondo le regole ordinarie della verisimiglianza, ma anche rispetto ad un certo tal quale convincimento che la cosa stia o possa stare effettivamente così. Perciò l'antica mitologia, o  286 qualunque altra invenzione poetica che la somigli, ha tutto il necessario dalla parte dell'illusione, passione ec. ma mancando affatto dalla parte della persuasione, non può più produrre gli effetti di una volta, e massime negli argomenti moderni, perchè negli antichi, l'abitudine ci proccura una tal quale persuasione, principalmente quando anche il poeta sia antico, perchè immedesimatasi in noi l'idea di quei fatti, di quei tempi, di quelle poesie ec. con quelle finzioni, queste ci paiono naturali e quasi ci persuadono, perchè l'assuefazione c'impedisce quasi di distinguerle da quei poeti, tempi, avvenimenti ec. e così machinalmente ci lasciamo persuadere quanto basta all'effetto, che la cosa potesse star così. Ma applicate nuovamente le stesse o altre tali finzioni, sia ad altri argomenti antichi, sia massimamente a soggetti moderni o de' bassi tempi ec. ci troviamo sempre un non so che di arido e di falso, perchè manca la tal quale persuasione, quando anche la parte del bello immaginario, maraviglioso ec. sia perfetta. Ed anche per questa parte il Tasso non produrrà mai l'effetto dei poeti antichi,  287 sebbene il suo favoloso e maraviglioso è tratto dalla religion Cristiana. Ma oggidì in tanta propagazione e incremento di lumi, nessuna finzione o nuova nuovamente applicata, trova il menomo luogo nell'intelletto, mancando la detta assuefazione, la quale supplisce al resto ne' poeti antichi. E questa è una gran ragione per cui la poesia oggidì non può più produrre quei grandi effetti nè riguardo alla maraviglia e al diletto, nè riguardo all'eccitamento degli animi, delle passioni ec. all'impulso a grandi azioni ec. Tanto più che la religion cristiana non si presta alla finzione persuadibile, come la pagana. A ogni modo è certo appunto per le sopraddette osservazioni, che la pagana oggidì non potendo aver più effetto, il poeta deve appigliarsi alla cristiana; e che questa maneggiata con vero giudizio, {scelta,} e abilità, può tanto per la maraviglia che per gli affetti {ec.} produrre impressioni sufficienti e notabili. (19. 8.bre 1820.).

[294,1]  Le cagioni dell'amore dei vecchi alla vita e del timor della morte, i quali par che crescano in proporzione che la vita è meno amabile, e che la morte può  295 privarci di minore spazio di tempo, e di minori godimenti, anzi di maggiori mali (fenomeno discusso ultimamente dai filosofi tedeschi che ne hanno recato mille ragioni fuorchè le vere: v. lo Spettatore di Milano), sono, oltre quella che ho recata, mi pare, negli abbozzi della Vita di Lorenzo Sarno, queste altre. 1. Che coll'ardore e la forza della vitalità e dell'esistenza, si estingue o scema il coraggio, e quindi a proporzione che l'esistenza è meno gagliarda, l'uomo è meno forte per poterla disprezzare, e incontrarne o considerarne la perdita. Anche i giovani più facili a disprezzar la vita, coraggiosissimi nelle battaglie e in ogni rischio, sono bene spesso paurosissimi nelle malattie, tanto per la detta cagione della minor forza del corpo, e quindi dell'animo, quanto perchè non possono opporre alla morte quell'irriflessione, quel movimento, quell'energia, che gl'impedisce di fissarla nel viso, in mezzo ai rischi attivi. 2. Che molte cose vedute da lungi paiono facilissime ad incontrare, e niente spaventose, e in vicinanza riescono terribili, e poi ci si trovano mille difficoltà, mille crepacuori; affezioni, progetti ec. che da lontano pareano facili ad abbandonare  296 per forza di ardore di entusiasmo, o di passione, disperazione ec. e da vicino rincrescono infinitamente quando la passione è sparita, e le cose si considerano quietamente. 3. Che la natura ha posto negli esseri viventi sommo amor della vita, e quindi odio della morte, e queste passioni ha voluto e fatto che fossero cieche, e non dipendessero dal calcolo delle utilità, della maggiore o minor perdita ec. Quindi è naturale che gli effetti di questo amore e di quest'odio crescano in proporzione che la cosa amata è più in pericolo, e più bisognosa di cure per conservarla, e la cosa odiata più vicina. 4. Che i beni si disprezzano quando si possiedono sicuramente, e si apprezzano quando sono perduti, o si corre pericolo o si è in procinto di perderli. E come quel disprezzo era maggiore del giusto, così anche questa stima suol eccedere i limiti in qualsivoglia cosa. Ora il giovane, per quanto è concesso all'uomo, è il vero possessor della vita; il vecchio la possiede come precariamente. 5. Che la felicità o infelicità non si misura dall'esterno ma dall'interno. Il vecchio per l'assuefazione è meno suscettibile  297 di mali, e meno sensibile a quelli che gli avvengono; per l'estinzione dell'impeto e dell'inquietudine giovanile, meno bisognoso dei beni che gli mancano, meno vivo nei desideri, più facile a soffrir la privazione di ciò che desidera, e a desiderar cose dove possa agevolmente esser soddisfatto. Laonde la vita del vecchio non è più infelice di quella del giovane, anzi forse più felice secondo la sesta considerazione. 6. Che la vita metodica, tranquilla e inattiva non è penosa ma piacevole, quando s'accordi col metodo, calma, e inattività dell'individuo. Certo il giovane muore in una tal condizione, ma la condizione ch'egli desidera, specialmente nello stato presente del mondo, è difficilissima o impossibile a conseguire. Egli non trova altro che il nulla da cui fugge; il vecchio lo desidera, lo cerca, lo trova come tutti gli altri di qualunque età, e a differenza delle altre età, se ne compiace, o almeno non se ne duole, o certo lo soffre con pazienza, e quando l'uomo è perfettamente paziente, allora non può non amar la vita, perchè questa è amabile per natura. Aggiungete la tempesta delle passioni, dalla  298 dalla quale il vecchio è libero, la tempesta del mondo, della società, degli affari, delle azioni, degli stessi diletti, quella tempesta nella quale il giovane, anche dopo averla sospirata in mezzo alla noia, sospira il riposo e la calma. Anzi è certo che lo stato naturale è il riposo e la quiete, e che l'uomo anche più ardente, più bisognoso di energia, tende alla calma {e all'inazione} continuamente in quasi tutte le sue operazioni. Osservate ancora che la vita metodica era quella dell'uomo primitivo, e la più felice vita, non sociale, ma naturale. Osservate anche oggidì l'impressione che fa l'aspetto di essa vita rurale o domestica, nelle persone più dissipate, o più occupate, e com'ella par loro la più felice che si possa menare. È vero che ella ordinariamente è tale quando consiste in un metodo di occupazioni, e tale era nei primitivi, e nei selvaggi sempre occupati ai loro bisogni, o ad un riposo figlio e padre della fatica e dell'azione. Ma in ogni modo l'uomo avvezzandosi anche alla pura inazione, ci si affeziona talmente che l'attività gli riuscirebbe  299 penosissima. Si vedono bene spesso de' carcerati ingrassare e prosperare, ed esser pieni di allegria, nella stessa aspettazione di una sentenza che decida della loro vita. Dove anzi l'imminenza del male, accresce il piacere del presente, cosa già osservata dagli antichi (come da Orazio), anzi famosa tra loro, e provata da me, che non ho mai sperimentato tal piacere della vita, e tali furori di gioia maniaca ma schiettissima, come in alcuni tempi ch'io aspettava un male imminente, e diceva a me stesso; ti resta tanto a godere e non più, e mi rannicchiava in me stesso, cacciando tutti gli altri pensieri, e soprattutto di quel male, per pensare solamente a godere, non ostante la mia indole malinconica in tutti gli altri tempi, e riflessivissima. Anzi forse questa accresceva allora l'intensità del godimento, o della risoluzione di godere. Applicate anche questa settima considerazione ai vecchi. V. p. 121. pensiero 3. e confrontalo, rettificalo, ed accrescilo con questo, e questo con quello. (23. 8.bre 1820.).

[302,1]  Nelle estreme sventure tutte le altre età ammettono la consolazione o filosofica, o qualunque. Solamente la giovanezza non ammette e non vede altra consolazione che della morte. Il libro di Crantore, περὶ πένθους lodatissimo dagli antichi, il libro di Cic. de Consolatione dove espresse in gran parte quello di Crantore, saranno stati utili alle altre età. Pel giovane estremamente sventurato {o che si creda tale,} non si può scriver libro consolatorio.

[306,1]   306 Aristotele, o secondo altri, Diogene, τὸ κάλλος παντὸς ἔλεγεν ἐπιστολίου συστατικώτερον * (Laerz. in Aristot. l. 5. seg. 18.) Teofrasto definiva la bellezza σιοπῶσαν ἀπάτην * (ib. 19.) Pur troppo bene: perchè tutto quello che la bellezza promette, e par che dimostri, virtù, candore di costumi, sensibilità, grandezza d'animo, è tutto falso. E così la bellezza è una tacita menzogna. Avverti però che il detto di Teofrasto è più ordinario, perchè ἀπάτη non è propriamente menzogna, ma inganno, frode, seduzione, ed è relativo all'effetto che la bellezza fa sopra altrui, non al mentire assolutamente.

[313,1]  Come la forza della natura giovanile, forza che non può esser vinta in fatto da nessuna ragionevolezza, studio, filosofia, precoce maturità di pensare ec. fa che il giovane s'inebbri facilmente della felicità, così anche dell'infelicità, quando questa è tanto grave che superi la naturale inclinazione del giovane all'allegrezza, al divagarsi, a sperare, a noncurare il male. E perciò il giovane è incapace d'altra consolazione che della morte, come ho detto p. 302. Nè religione, nè ragione, nè altro che sia, non è sufficiente a consolare il giovane sommamente sventurato, s'egli ha una certa forza d'animo, la quale tutta s'impiega in consolidare, e fargli sentire profondamente e ostinatamente il suo male.

[319,1]   319 Sovente ho desiderato con impazienza di possedere e gustare un bene già sicuro, non per avidità di esso bene, ma per solo timore di concepirne troppa speranza, e guastarlo coll'aspettativa. E questa {tale} impazienza, ho osservato che non veniva da riflessione, ma naturalmente, nel tempo ch'io andava fantasticando e congetturando sopra quel bene o diletto. E così anche naturalmente proccurava di distrarmi da quel pensiero. Se però l'abito generale di riflettere, o vero l'esperienza e la riflessione che mi aveano già precedentemente resa naturale la cognizione della vanità dei piaceri, e la diffidenza dell'aspettativa, non operavano allora in me senz'avvedermene, e non mi parvero natura. (11. Nov. 1820).

[347,1]  Le buone poesie sono ugualmente intelligibili agli uomini d'immaginazione e di sentimento, e a quelli che ne son privi. E contuttociò quelli le gustano, e questi no, anzi non comprendono come si possano gustare, primieramente perchè non sono capaci nè disposti ad esser commossi, sublimati ec. dal poeta; e oltracciò perchè sebbene intendano le parole, non intendono la verità, l'evidenza di quei sentimenti: il cuore non dimostra loro che quelle passioni, quegli effetti, quei fenomeni morali ec. che il poeta descrive, vanno veramente così: e per tal modo le parole del poeta, benchè chiare, e da loro bene intese non rappresentano loro quelle cose e quelle verità che rappresentano altrui, ed intendendo le parole, non intendono il poeta. Bisogna bene osservare che questo accade anche negli scritti filosofici, profondi, metafisici, psicologici ec. affine di non maravigliarsi dei diversissimi, e spesso contrarissimi effetti che producono in diversi individui, e classi, e quindi del diverso concetto in cui son tenuti. Perchè, ponete uno scritto di questo genere, pienissimo di verità, e composto con  348 tutta quella chiarezza d'espressioni, della quale possa mai esser suscettibile. Le parole dicono lo stesso all'uomo profondo, e al superficiale: tutti comprendono ugualmente il senso materiale dello scritto, e in somma tutti intendono perfettamente quello che l'autore vuol dire. E non perciò quello scritto è compreso da tutti, come si crede comunemente. Perchè l'uomo superficiale; l'uomo che non sa mettere la sua mente nello stato in cui era quella dell'autore; insomma l'uomo che appresso a poco non è capace di pensare colla stessa profondità {dell'autore,} intende materialmente quello che legge, ma non vede i rapporti che hanno quei detti col vero, non sente che la cosa sta così, non iscuoprendo il campo che l'autore scopriva, non conosce i rapporti e legami delle cose ch'egli vedeva, e dai quali deduceva quelle conseguenze ec. che per lui, e per chiunque gli somigli sono incontrastabili, per questi altri non sono neppur verità: vedranno le stesse cose, ma non conosceranno {nè sentiranno} che abbiano relazione insieme, e con quelle conseguenze che l'autore ne cava; {non vedranno la relazione scambievole delle parti del sillogismo (giacchè ogni umana cognizione è un sillogismo)}: brevemente, intenderanno appuntino lo scritto, e non capiranno la verità di quello che dice, verità che esisterà realmente, e sarà compresa da altri. {Così pure non avranno tanta forza di mente da poter dubitare, e sentire la ragionevolezza e la verità del dubbio intorno alle cose che la natura o l'abito danno per certe.} {+Non basta intendere una proposizion vera, bisogna sentirne la verità. C'è un senso della verità, come delle passioni, de' sentimenti, bellezze, ec.: del vero, come del bello. Chi la intende, ma non la sente, intende ciò che significa quella verità, ma non intende che sia verità, perchè non ne prova il senso, cioè la persuasione.} In questo numero di persone va posta la maggior parte dei moderni apologisti della religione, uomini senza cuore, senza sentimento, senza tatto fino e profondo nelle cose della natura, {insomma senza esperienza della verità, come quei lettori de' poeti che sono senza esperienza di passioni, entusiasmo, sentimenti ec.;} i quali,  349 posto che intendano anche perfettamente il senso dei filosofi profondissimi che combattono, non intendono la verità che quivi si contiene, e vi danno nettamente, precisamente e consideratamente per falso, quello che voi saprete e sentirete ch'è vero, o viceversa. Del resto per intendere i filosofi, e quasi ogni scrittore, è necessario, come per intendere i poeti, aver tanta forza d'immaginazione, e di sentimento, e tanta capacità di riflettere, da potersi porre nei panni dello scrittore, e in quel punto preciso di vista e di situazione, in cui egli si trovava nel considerare le cose di cui scrive; altrimenti non troverete mai ch'egli sia chiaro abbastanza, per quanto lo sia in effetto. E ciò, tanto quando in voi ne debba risultare la persuasione e l'assenso allo scrittore, quanto nel caso contrario. Io so che con questo metodo non ho trovato mai oscuri, o almeno inintelligibili, gli scritti della Staël, che tutti danno per oscurissimi. (22. Nov. 1820.).

[366,2]  L'idea di una grave sventura (come anche di qualunque grande e strana mutazione di cose in bene come in male) che ci sopraggiunga, massimamente improvvisa, non si può concepire intera, se non altro ne' primi momenti; anzi è sempre confusissima, debolissima, oscurissima, e diffettosa[difettosa.] Non considero adesso l'impressione e la sorpresa e il dolore ec. che deve naturalmente oscurar l'anima, e intorpidirla. Ma ponete che vi si annunzi la morte di uno de' vostri cari e familiari, anche preveduta. Il dispiacere,  367 la rimembranza delle relazioni avute con lui, la novità che introduce nella vostra vita, vale a dire il troncamento di tutte quelle relazioni, e il dover considerare quella persona in un modo tutto diverso dal passato, cioè come morta, come incapace di essere amata o beneficata, di amare e beneficare ec. ec. tutte queste {cose} che si presentano in folla alla vostra mente, vi cagionano una confusione un imbarazzo uno stupore tale, che voi in luogo di considerare ciascuna parte della cosa, non ne considerate nessuna, non siete capace di valutare nè l'estensione nè la profondità nè la natura della cosa, nè di formarvene un concetto preciso, e restandovi solamente l'idea in genere e confusamente, non siete capace di pensarvi, nè vi pensate formalmente, non dirò perchè non vogliate pensarvi, ma perchè non sapete pensarvi. E quindi accade quella cosa osservatissima che le grandi mutazioni, sieno disgrazie, sieno fortune, al primo momento istupidiscono, e non è se non col tempo, che voi considerandone ciascuna parte, ne cominciate a piangere o rallegrarvene separatamente. Giacchè questo pure è notabile, che l'atto del piangere o rallegrarsi ec. insomma l'espressione τοῦ πάθους cade sempre sopra una parte della cosa, non già sul tutto, perchè l'anima non è capace di abbracciar questo tutto, in uno stesso tempo. P. e., nel  368 caso detto di sopra, voi comincerete a piangere per una determinata rimembranza, per una tal riflessione sopra il futuro o il presente, e per simili cose, che non potete ravvisare, e separare, e concepire nel primo momento, nè durante le[la] prima impressione. Ma finattanto che l'idea {o la cosa} vi si presenterà tutta intera, e voi non potrete distinguerne, e noverarne le parti, voi non piangerete mai, nè sarete commosso determinatamente, ma solo confusamente. E neanche dopo lungo tempo, voi non piangerete mai per la considerazione totale e generale della disgrazia intera. (1. Dec. 1820.)

[368,1]  Si suol dire che la monotonia fa parere i giorni più lunghi. Così è quanto alle parti del tempo considerate separatamente. Ma quanto al complesso è tutto l'opposto, perchè un giorno pieno di varietà, terminato che sia ti parrà lunghissimo, anzi spesso ti avverrà di credere a prima giunta che una cosa fatta, accaduta, veduta, ec. oggi, appartenga al giorno di ieri o ier l'altro, perchè la moltiplicità delle cose allunga nella tua memora lo spazio, e il maggior numero degli accidenti, accresce l'apparenza del tempo. All'opposto in una vita tutta uniforme, spesso ti avverrà (e m'è avvenuto) di credere che l'accaduto ieri o ier l'altro appartenga al giorno d'oggi, o quello di più giorni fa, al giorno di ieri. E ciò per la ragione contraria, {e perchè l'uniformità impiccolisce l'immagine delle distanze.} Così la monotonia  369 prolunga la vita in quanto la lunghezza è penosa, e l'abbrevia in quanto la lunghezza è piacevole e desiderata; e la tua vita passata nell'uniformità ti par brevissima e momentanea, quando ne sei giunto al fine. (1. Dec. 1820.).

[369,1]  Non è forse cosa che tanto promuova l'attività e l'impazienza di ottenere il fine che si desidera, quanto l'incertezza di ottenerlo, quando però questo vi prema, e l'idea di non ottenerlo vi attristi. Non {già} solamente perchè l'incertezza, obbliga all'azione (laddove la certezza può dar luogo alla pigrizia) in quanto un fine incerto domanda maggior cura per ottenerlo. Ma quando anche non domandi maggior cura, il che può ben accadere (perchè un fine può esser certo, posta però una grande attività per conseguirlo) e indipendentemente affatto dall'utilità e dal bisogno delle cure, tu sarai attivissimo e impazientissimo di ottenerlo, per questo solo che tu non puoi sopportare quell'incertezza, e che tu spasimi di liberarti dall'angustia che ti deriva dal dubbio di non riuscire ad un fine che tu desideri grandemente. Angustia alla quale forse preferirai la certezza di non poterlo conseguire. Anche materialmente m'{è} accaduto più volte di dubitare se alcuni miei sforzi corporali avrebbero potuto ottenere un fine che  370 mi premeva, e perciò raddoppiarli impazientemente, sebbene altri mi consigliava di riposare {perchè la dilazione non faceva alcun danno.} Ma io non poteva sostere[sostenere] l'incertezza di una cosa che m'importava, laddove se non avessi dubitato non avrei avuto difficoltà di aspettare. E così la stessa mia impazienza poteva pregiudicare al fine, togliendomi il riposo necessario ec. Così nel comporre ec. Parimenti se tu devi compire una tale operazione in un dato spazio, e temi di non riuscirvi, l'impazienza e la sollecitudine tua non cresce in ragione del bisogno, ma ben da vantaggio, e, s'è possibile, tu vieni a capo dell'opera prima del termine prefisso. (1. Dec. 1820.). {{V. p. 712. capoverso 2. }}

[460,1]  Quelle rare volte ch'io ho incontrato qualche piccola fortuna, o motivo di allegrezza, in luogo di mostrarla al di fuori, io mi dava naturalmente alla malinconia, quanto all'esterno, sebbene l'interno fosse contento. Ma quel contento placido e riposto, io temeva di turbarlo, alterarlo, guastarlo, e perderlo  461 col dargli vento. E dava il mio contento in custodia alla malinconia. (27. Dic. 1820.).

[463,2]  L'egoismo comune cagiona e necessita l'egoismo di ciascuno. Perchè quando nessuno fa per te, tu non puoi vivere se non t'adopri tutto per te solo. E quando gli altri ti tolgono quanto possono, e per li loro vantaggi non badano al danno tuo, se vuoi vivere, conviene che tu combatta per te, e contrasti agli altri tutto quello che puoi. Perchè di qualunque cosa tu voglia cedere, non devi aspettare nè gratitudine nè compenso, essendo abolito il commercio de' sacrifizi e liberalità e benefizi scambievoli: anzi se tu cedi un passo gli altri ti cacciano indietro venti passi, adoperandosi ciascuno per se con tutte le sue forze; onde bisogna che ciascuno  464 contrasti agli altri quanto può, e combatta per se fino all'ultimo, e con tutto il potere: essendo necessario che la reazione sia proporzionata all'azione, se ne deve seguire l'effetto, cioè se vuoi vivere. E l'azione essendo eccessiva, dev'esserlo anche la reazione. E quanto l'una è maggiore, tanto l'altra dee crescere necessariamente. Come in una truppa di fiere affollate intorno a una preda, dove ciascuna è risoluta di non lasciare alle altre se non quanto sarà costretta; quella fiera che o restasse inattiva, o cedesse alle altre, o aspettasse che queste pensassero a lei, o finalmente non adoperasse tutte le sue forze; o resterebbe a digiuno, o perderebbe tanto, quanto meno forza avesse adoperata, o potuto adoperare. Tutto quello che si cede è perduto, posto il sistema dell'egoismo universale. Anche per altra parte, questo egoismo cagiona l'egoismo individuale, cioè non solo per l'esempio, ma pel disinganno che cagiona in un uomo virtuoso, la trista esperienza della inutilità, anzi nocevolezza della virtù e de' sacrifizi magnanimi: e per la misantropia che ispira il veder tutti occupati per se stessi, e non curanti del vostro vantaggio, non grati ai vostri benefizi, e pronti a danneggiarvi o beneficati o no.  465 La qual cosa cambia il carattere delle persone, e introduce non solo materialmente, ma radicalmente l'egoismo, anche negli animi più ben fatti. Anzi principalmente in questi, perchè l'egoismo non vi entra come passione bassa e vile, ma come alta e magnanima, cioè come passione di vendetta, e odio de' malvagi e degl'ingrati. Si nocentem innocentemque idem exitus maneat, acrioris viri esse, merito perire: * diceva Ottone Imp. appresso Tacito Hist. l. 1. c. 21. (2. Gen. 1821.). {{V. p. 607. fine.}}

[472,2]  Non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l'immaginativa è capace dell'infinito, o di concepire infinitamente, ma solo dell'indefinito, e di concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta perchè l'anima non vedendo i confini, riceve l'impressione di una specie d'infinità, e confonde l'indefinito coll'infinito; non però comprende nè concepisce effettivamente nessuna infinità. Anzi nelle immaginazioni le più vaghe e indefinite, e quindi le più sublimi e dilettevoli, l'anima sente espressamente una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio insufficiente, un'impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di {quella} sua  473 immaginazione, o concezione o idea. La quale perciò, sebbene la riempia e diletti e soddisfaccia più di qualunque altra cosa possibile in questa terra, non però la riempie effettivamente, nè la soddisfa, e nel partire non la lascia mai contenta, perchè l'anima sente e conosce o le pare, di non averla concepita e veduta tutta intiera, o che creda di non aver potuto, o di non aver saputo, e si persuada che sarebbe stato in suo potere di farlo, e quindi provi un certo pentimento, nel che ha torto in realtà, non essendo colpevole. (4. Gen. 1821.).

[479,1]  Il veder morire una persona amata, è molto meno lacerante che il vederla deperire e trasformarsi nel corpo e nell'animo da malattia (o anche da altra cagione). Perchè? Perchè nel primo caso le illusioni restano, nel secondo svaniscono, e vi sono intieramente annullate e strappate a viva forza. La persona amata, dopo la sua morte, sussiste ancora tal qual'era, e così amabile come prima, nella nostra immaginazione. Ma nell'altro caso, la persona amata si perde affatto, sottentra un'altra persona, e quella di prima, quella persona amabile e cara, non può più sussistere neanche per nessuna forza d'illusione, perchè la presenza della realtà, e di quella stessa persona trasformata per malattia cronica, pazzia, corruttela di costumi ec. ec. ci disinganna violentemente, e crudelmente: e la perdita dell'oggetto amato non è risarcita neppur dall'immaginazione. Anzi neanche dalla disperazione, o dal riposo sopra lo stesso eccesso del dolore, come nel caso di morte. Ma questa perdita è tale, che il pensiero e il sentimento non vi si può adagiar sopra in nessuna maniera.  480 Da ogni lato ella presenta acerbissime punte. (8. Gen. 1821.).

[481,1]  Quanta sia la forza d'immaginazione nei fanciulli, e com'ella sia tale che le concezioni derivatene nella prima età, influiscono grandemente anche nel resto della vita, si può vedere ancora in questa osservazione minuziosa. Noi da fanciulli per lo più concepiamo una certa idea, un certo tipo di ciascun nome di uomo: e la natura di questo tipo deriva dalle qualità delle prime o a noi più cognite e familiari persone che hanno portato quei tali nomi. Formatoci nella fantasia questo tipo (il quale ancora corrisponde alle circostanze particolari di quelle persone relativamente  482 a noi, alle nostre simpatie, antipatie ec.) sentendo dare lo stesso nome ad un'altra persona diversa da quella su cui ci siamo formati il detto tipo, noi concepiamo subito di quella persona un'idea conforme al detto tipo. E il nome può essere elegantissimo, e quella tal persona bellissima: se quel tipo è stato da noi immaginato e formato sopra una persona odiosa o brutta; anche quell'altra bellissima, ci pare che di necessità debba esser tale: almeno troviamo una contraddizione tra il nome e il soggetto; o proviamo una ripugnanza a credere quel soggetto diverso da quel tipo e da quell'idea ec. Così viceversa e relativamente alle varie qualità dei nomi e delle persone. Ed anche da grandi, e dopo che l'immaginazione ha perduto il suo dominio, dura per lungo tempo e forse sempre questo tale effetto, almeno riguardo ai primi momenti, e proporzionatamente alla forza dell'impressione ricevuta da fanciulli, e dell'immagine concepita. Io da fanciullo ho conosciuto familiarmente una Teresa vecchia, e secondo che mi pareva, odiosa. Ed allora e oggi che son grande provo una certa ripugnanza a persuadermi che {il nome di} Teresa possa appartenere  483 ad una giovane, o bella, o amabile: o che quella che porta questo nome, possa aver questa qualità: e insomma sentendo questo nome, provo sempre un impressione e prevenzione sfavorevole alla persona che lo porta. E ordinariamente l'idea che noi abbiamo dell'eleganza, grazia, dolcezza, amabilità di un nome, non deriva dal suono materiale di esso nome, nè dalle sue qualità proprie e assolute, ma da quelle delle prime persone chiamate con quel nome, conosciute o trattate da noi nella prima età. Anche però viceversa potrà accadere che noi da fanciulli concepiamo idea della persona, dal nome che porta, massime se si tratta di persone lontane, o da noi conosciute solamente per nome: e giudichiamo della persona, secondo l'effetto che ci produce il nome col suono materiale, o col significato che può avere, o con certe relazioni con altre idee. E questo ci avviene ancora da grandi, sia per conseguenza dell'idea concepita nella fanciullezza, sia anche assolutamente: perchè è certo che noi non ascoltiamo il nome, ovvero il cognome di persona a noi tanto ignota, che sopra quella denominazione non ci  484 formiamo una tal quale idea sì dell'esterno che dell'interno di quella persona. Idea più o meno confusa, più o meno viva, secondo le circostanze; ma ordinariamente chiarissima e vivissima ne' fanciulli, sebbene per lo più falsissima. E massimamente i fanciulli (sempre lontani dall'indifferenza), secondo questa idea, si determinano all'odio o all'amore, a un certo genio o contraggenio verso quelle tali persone, non conosciute se non per nome. (10. Gen. 1821.).

[503,1]  In luogo che un'anima grande ceda alla necessità, non è forse cosa che tanto la conduca all'odio atroce, dichiarato, e selvaggio contro se stessa, e la vita, quanto la considerazione della necessità e irreparabilità de' suoi mali, infelicità, disgrazie  504 ec. Soltanto l'uomo vile, o debole, o non costante, o senza forza di passioni, sia per natura, sia per abito, sia per lungo uso ed esercizio di sventure e patimenti, ed esperienza delle cose e della natura del mondo, che l'abbia domato e mansuefatto; soltanto costoro cedono alla necessità, e se ne fanno anzi un conforto nelle sventure, dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare e combatterla ec. Ma gli antichi, sempre più grandi, magnanimi, e forti di noi, nell'eccesso delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato, e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, nè ammansati, nè meno, anzi tanto più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore. Di ciò si hanno molti esempi nelle storie. Il fatto di Giuliano moribondo, non so se sia storia o favola. Di Niobe, dopo la sua sventura,  505 si racconta, se non fallo, come bestemmiava gli Dei, e si professava vinta, ma non cedente. Noi che non riconosciamo nè fortuna nè destino, nè forza alcuna di necessità personificata che ci costringa, non abbiamo altra persona da rivolger l'odio e il furore (se siamo magnanimi, e costanti, e incapaci di cedere) fuori di noi stessi; e quindi concepiamo contro la nostra persona un odio veramente micidiale, come del più feroce e capitale nemico, e ci compiaciamo nell'idea della morte volontaria, dello strazio di noi stessi, della medesima infelicità che ci opprime, e che arriviamo a desiderarci anche maggiore, come nell'idea della vendetta, contro un oggetto di odio e di rabbia somma. Io ogni volta che mi persuadeva della necessità e perpetuità del mio stato infelice, e che volgendomi disperatamente e freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio possibile, nè speranza nessuna; in luogo di cedere, o di consolarmi colla considerazione dell'impossibile, e della necessità indipendente da me,  506 concepiva un odio furioso di me stesso, giacchè l'infelicità ch'io odiava non risiedeva se non in me stesso; io dunque era il solo soggetto possibile dell'odio, non avendo nè riconoscendo esternamente altra persona colla quale potessi irritarmi de' miei mali, e quindi altro soggetto capace di essere odiato per questo motivo. Concepiva un desiderio ardente di vendicarmi sopra me stesso e colla mia vita della mia necessaria infelicità inseparabile dall'esistenza mia, e provava una gioia feroce ma somma nell'idea del suicidio. L'immobilità delle cose contrastando colla immobilità mia; nell'urto, non essendo io capace di cedere, ammollirmi e piegare; molto meno le cose; la vittima di questa battaglia non poteva essere se non io. Oggidì (eccetto nei mali derivati dagli uomini) non si riconosce persona colpevole delle nostre miserie, o tale che la Religione c'impedisce in tutti i modi di creder colpevole, e quindi degna di odio. Tuttavia anche nella Religione di oggidì, l'eccesso dell'infelicità indipendente  507 dagli uomini e dalle persone visibili, spinge talvolta all'odio e alle bestemmie degli enti invisibili e Superiori: e questo, tanto più quanto più l'uomo (per altra parte costante e magnanimo) è credente e religioso. Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita ec. (15. Gen. 1821.).

[512,1]  Difficilmente il dolor solo dell'animo, ha forza di uccidere, o cagionare un'estrema malattia, ed è più facile il fingere questi casi nei romanzi, che trovarne esempi reali nella vita: sebbene  513 molte volte si attribuiscono a dolor d'animo quelle infermità che vengono da tutt'altro, o almeno, anche da altre cause. E massimamente è difficile e strano che il dolor d'animo, una sventura non corporale ec. cagionino morte o malattia lungo tempo dopo nato, o avvenuta la detta sventura ec. e che in somma la vita dell'uomo si vada consumando e si spenga a poco a poco per le sole malattie particolari dell'animo. (non dico le generali, perchè certamente il cattivo stato del nostro animo influisce in genere moltissimo sulla durata della vita, la salute il vigore ec.) Qual è la cagione? Che il tempo medica tutte le piaghe dell'animo. Ma come? Coll'assuefazione, lo so, e grandemente, ma non già con questa sola. Una gran cagione del detto effetto, è ancora che le illusioni poco stanno a riprender possesso e riconquistare l'animo nostro, anche malgrado noi; e l'uomo {(purchè viva)} torna infallibilmente a sperare quella felicità che avea disperata; prova quella consolazione  514 che avea creduta e giudicata impossibile; dimentica e discrede quell'acerba verità, che avea poste nella sua mente altissime radici; e il disinganno più fermo, totale, e ripetuto, e anche giornaliero, non resiste alle forze della natura che richiama gli errori e le speranze. (16. Gen. 1821.).

[514,1]  Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una pittura, un suono ec. {un racconto, una descrizione, una favola, un'immagine poetica, un sogno,} ci piace e diletta, quel piacere e quel diletto è sempre vago e indefinito: l'idea che ci si desta è sempre indeterminata e senza limiti: ogni consolazione, ogni piacere, ogni aspettativa, {ogni disegno, illusione ec. (quasi anche ogni concezione)} di quell'età tien sempre all'infinito: e ci pasce e ci riempie l'anima indicibilmente, anche mediante i minimi oggetti. Da grandi, o siano piaceri e oggetti maggiori, o quei medesimi che ci allettavano da fanciulli, come una bella prospettiva, campagna, pittura ec. proveremo un piacere, ma non sarà più simile in nessun modo all'infinito, o certo non sarà così intensamente, sensibilmente, durevolmente ed essenzialmente vago e indeterminato. Il piacere {di quella sensazione} si determina subito e si circoscrive: appena comprendiamo  515 qual fosse la strada che prendeva l'immaginazione nostra da fanciulli, per arrivare con quegli stessi mezzi, e in quelle stesse circostanze, o anche in proporzione, all'idea ed al piacere indefinito, e dimorarvi. Anzi osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei; o in genere, o anche in ispecie; vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec. perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze. Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un'immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica. E ciò accade frequentissimamente. (Così io, nel rivedere quelle stampe piaciutemi vagamente da fanciullo,  516 quei luoghi, {spettacoli, incontri,} ec. nel ripensare ai[a] quei racconti, favole, letture, sogni ec. nel risentire quelle cantilene udite nella fanciullezza o nella prima gioventù ec.) In maniera che, se non fossimo stati fanciulli, tali quali siamo ora, saremmo privi della massima parte di quelle poche sensazioni indefinite che ci restano, giacchè la proviamo se non rispetto e in virtù della fanciullezza.

[527,1]  I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto.

[528,1]  Come i piaceri così anche i dolori sono molto più grandi nello stato primitivo e nella fanciullezza, che nella nostra età e condizione. E ciò per le stesse ragioni per le quali è maggiore il diletto. Primieramente (massime ne' fanciulli) manca l'assuefazione al bene e al male. Il bene dunque e il male dev'essere molto più sensibile ed energico relativamente all'animo loro, che al nostro. Poi (e questo è il punto principale, e comune a tutti gli uomini naturali) il dolore, la disgrazia ec. nel fanciullo, e nel primitivo, sopravviene all'opinione della felicità possibile, o anche presente; contrasta vivissimamente coll'aspetto del bene, creduto e reale e grande, del bene o già provato, o sperato con ferma speranza, o veduto attualmente negli altri; è l'opposto e la privazione di quella felicità che si crede vera, importante, possibilissima, anzi destinata all'uomo, posseduta dagli altri,  529 e che sarebbe posseduta da noi, se quell'ostacolo non ce l'impedisse, o per ora, o per sempre. Ed anche l'idea del male assoluto, cioè indipendentemente dalla comparazione del bene, è forse maggiore in natura, che nello stato di civiltà e di sapere.

[532,1]  Quid dulcius, quam habere, quicum omnia audeas sic loqui, ut tecum? Quis esset tantus fructus in prosperis rebus, nisi haberes, qui illis aeque, ac tu ipse, gauderet? * Cic. {Lael. sive} de Amicitia. Cap. 6. (20. Gen. 1821.).

[612,3]  E per la stessa ragione non è sommo in veruna professione chi non è modesto; e la modestia, e lo stimarsi da non molto, e il credere intimamente e sinceramente di non aver conseguito tutto quel merito che si potrebbe e dovrebbe conseguire, questi dico sono segni e  613 distintivi dell'uomo grande, o certo sono qualità inseparabili da lui. Perchè quanto più si possiede e si conosce a fondo una qualunque (ancorchè piccola) professione, tanto più se ne sentono e valutano le difficoltà; si conosce quanto la perfezione e la sommità sia difficile in essa: perchè le difficoltà della perfezione si sanno e si conoscono generalmente in ogni cosa, ma non si sentono così vivamente e precisamente, come in una professione intimamente posseduta: tanto più si comprende e vede e tocca con mano, quanto sia facile l'andar sempre più oltre, e il perfezionare anche ciò che si crede perfetto. In somma quanto più l'uomo apprezza e stima una buona professione: e l'apprezza e stima quanto meglio la conosce; tanto meno apprezza se stesso. Perchè mettendosi in confronto non già cogli altri cultori di quella professione (i quali forse gli cederanno), ma colla professione stessa; resta sempre malcontento del paragone, si trova lontano dall'uguaglianza, e riabbassa sempre più l'idea di se stesso. (5. Feb. 1821.).

[614,2]  È cosa notabile come l'uomo sommamente sventurato, o scoraggito della vita, e deposta già e complorata la speranza della propria felicità, ma non perciò ridotto a quella disperazione che non si acquieta se non colla morte; naturalmente, e senza veruno sforzo sia portato a servire e beneficar gli altri, anche quelli che o gli sono del tutto indifferenti, o anche odiosi. E non già per vigore di eroismo, chè l'uomo in tale stato non è capace di nessun vigore d'animo; ma in certo modo, come non avendo più interesse nè speranza per te, trasporti l'interesse e la speranza agli affari altrui, e così cerchi di riempiere l'animo tuo, di occuparlo, e di rendergli i due sopraddetti sentimenti, cioè cura di qualche cosa, {ossia scopo,} e speranza, senza  615 i quali la vita non è vita, non si conosce, manca del senso di se stessa. Il fatto sta che quando l'uomo si trova in tali circostanze, cioè disperato in maniera, non da odiarsi, (ch'è la ferocia della disperazione) ma da noncurarsi, e metter se stesso fuori della sfera de' suoi pensieri; non solo prova compiacenza nel servir gli altri, ma prende anche per gli affari loro (ancorchè, come ho detto di persone indifferenti) una certa affezione, un certo impegno, un desiderio ec. tutto languido bensì, perchè l'animo suo non è più capace di sentimento vivo e forte, ma pur tale, ch'egli non è stato mai animato verso {il bene altrui} così sensibilmente. E ciò accade anche appena l'uomo si riduce alla detta condizione, così che avviene in lui come un cangiamento improvviso: ed accade anche negli uomini stati infetti di egoismo. In somma la persona degli altri sottentra nell'animo suo, quasi intieramente, alla persona propria, ch'è sparita, e messa in non cale e per perduta, come quella che non può più sperare, e non è più capace della felicità, senza cui la vita manca del suo fine, e scopo. E il desiderio e la cura  616 e la speranza della felicità, che non possono più diriggersi alla felicità propria, riconosciuta impossibile, e nel cercar la quale sarebbero vane, e quindi non più sufficienti all'animo umano; si rivolgono alla felicità altrui: e ciò spontaneamente, e senz'ombra di eroismo. E l'animo dell'uomo che mancatogli lo scopo della felicità, è moralmente morto, risorge a una languida vita, ma tuttavia risorge e vive in altrui, cioè nello scopo dell'altrui felicità, divenuto lo scopo suo. Come quei corpi di sangue corrotto e malsano, e quindi incapaci di vita, che alcuni medici spogliavano {(o proponevano di spogliare)} del sangue proprio, e restituivano ad una certa salute, colla introduzione del sangue altrui, o di qualche animale; quasi cangiando la persona, e trasformando quella che non poteva più vivere, in un'altra capace di vita: e così conservando la vita di una persona, per se stessa inetta a vivere.

[633,1]  Quand on est jeune, on ne songe qu'à vivre dans l'idée d'autrui: il faut établir sa réputation, et se donner une place honorable dans l'imagination des autres, et être heureux même dans leur idée: notre bonheur n'est point réel; ce n'est pas nous que nous consultons, ce sont les autres. Dans un autre âge, nous revenons à nous; et ce retour a ses douceurs, nous commençons à nous consulter et à nous croire. * M.me la Marquise de Lambert, Traité de la Vieillesse, verso la fine: dans ses Oeuvres complètes, Paris 1808. 1.re édit. complète. p. 150. Il vient un temps dans la vie qui est consacré à la vérité, qui est destiné à connoître les choses selon leur juste valeur. La jeunesse et les passions fardent tout. Alors nous revenons aux plaisirs simples; nous commençons à nous consulter  634 et à nous croire sur notre bonheur. * Ib. p. 153. Queste riflessioni sono osservabili. Non solo nella vecchiezza, ma nelle sventure, ogni volta che l'uomo si trova senza speranza, o almeno disgraziato nelle cose che dipendono dagli uomini, comincia a contentarsi di se stesso, e la sua felicità, e soddisfazione, o almeno consolazione a dipender da lui. Questo ci accade anche in mezzo alla società, o agli affari del mondo. Quando l'uomo vi si trova male accolto, o annoiato, o disgraziato, o in somma trova quello che non vorrebbe, ricorre a se stesso, e cerca il bene e il piacere nell'anima sua. L'uomo sociale, finch'egli può, cerca la sua felicità e la ripone nelle cose al di fuori e appartenenti alla società, e però dipendenti dagli altri. Questo è inevitabile. Solamente o principalmente l'uomo sventurato, e massime quegli che lo è senza speranza, si compiace della sua compagnia, e di riporre la sua felicità nelle cose sue proprie, e indipendenti dagli altri; e insomma segregare la sua felicità, dall'opinione e dai vantaggi che ci risultano dalla società, e ch'egli non può conseguire, o sperare. Forse per questo, o anche  635 per questo, si è detto che l'uomo che non è stato mai sventurato non sa nulla. L'anima, i desideri, i pensieri, i trattenimenti dell'uomo felice, sono tutti al di fuori, e la solitudine non è fatta per lui: dico la solitudine o fisica, o morale e del pensiero. Vale a dire che se anche egli si compiace nella solitudine, questo piacere, e i suoi pensieri e trattenimenti in quello stato, sono tutti in relazioni colle cose esteriori, e dipendenti dagli altri, non mai con quelle riposte in lui solo. Non è però che la felicità o consolazione dell'uomo sventurato o vecchio, sieno riposte nella verità, e nella meditazione e cognizione di lei. Che piacere o felicità o conforto ci può somministrare il vero, cioè il nulla? (se escludiamo la sola Religione). Ma altre illusioni, forse più savie perchè meno dipendenti, e perciò anche più durevoli, sottentrano a quelle relative alla società. E questo è in somma quello che si chiama contentarsi di se stesso, e omnia tua in te posita ducere, * con che Cicerone (Lael. sive de Amicit. c. 2.) definisce la sapienza. Un sistema, un complesso, un ordine, una vita d'illusioni indipendenti, e perciò stabili: non altro. (9. Feb. 1821.).

[636,1]   636 "La solitude" dit un grand homme, "est l'infirmerie des ames". * Mme. Lambert, lieu cité ci-dessus, p. 153. fine.

[636,2]  Nous ne vivons que pour perdre et pour nous détacher. * Mme. Lambert, lieu cité ci-dessus, p. 145. alla metà del Traité de la Vieillesse. Così è. Ciascun giorno perdiamo qualche cosa, cioè perisce, o scema qualche illusione, che sono l'unico nostro avere. {L'esperienza e la verità ci spogliano alla giornata di qualche parte dei nostri possedimenti.} Non si vive se non perdendo. L'uomo nasce ricco di tutto, crescendo impoverisce, e giunto alla vecchiezza si trova quasi senza nulla. Il fanciullo è più ricco del giovane, anzi ha tutto; ancorchè poverissimo e nudo {e sventuratissimo,} ha più del giovane più fortunato; il giovane è più ricco dell'uomo maturo, la maturità più ricca della vecchiezza. Ma Mad. Lambert dice questo in altro senso, cioè rispetto alle perdite {così dette} reali, che si fanno coll'avanzar dell'età. (9. Feb. 1821.) Ma siccome nessuna cosa si possiede realmente, così nulla si può perdere. Bensì quel detto è vero per quest'altra parte, relativamente alla condizione presente degli uomini, e  637 dello spirito umano, e della società. (10. Feb. 1821.).

[643,2]  Les enfans aiment à être traités en personnes raisonnables. * Mme. de Lambert, Lettre à madame la supérieure de la Madeleine de Tresnel, sur l'éducation d'une jeune demoiselle: ou Lettre III. dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p. 633.) p. 356.

[644,1]  Non c'è forse persona tanto indifferente per te, la quale salutandoti nel partire per qualunque luogo, o lasciarti in qualsivoglia maniera, e dicendoti, non ci rivedremo mai più, per poco d'anima che tu abbia, non {ti} commuova, non ti produca una sensazione più o meno trista. L'orrore e il timore che l'uomo ha, per una parte, del nulla, per l'altra, dell'eterno, si manifesta da per tutto, e quel mai più non si può udire senza un certo senso. Gli effetti naturali bisogna ricercarli nelle persone naturali, e non ancora, o poco, o quanto meno si possa, alterate. Tali sono i fanciulli: quasi l'unico soggetto dove si possano esplorare, {notare,} e notomizzare oggidì, le qualità, le inclinazioni, gli affetti veramente naturali. Io dunque da fanciullo aveva questo costume. Vedendo partire una persona, quantunque a me indifferentissima, considerava  645 se era possibile o probabile ch'io la rivedessi mai. Se io giudicava di no, me le poneva intorno a riguardarla, ascoltarla, e simili cose, e la seguiva o cogli occhi o cogli orecchi quanto più poteva, rivolgendo sempre fra me stesso, e addentrandomi nell'animo, e sviluppandomi alla mente questo pensiero: ecco l'ultima volta, non lo vedrò mai più, o, forse mai più. E così la morte di qualcuno ch'io conoscessi, e non mi avesse mai interessato in vita, mi dava una certa pena, non tanto per lui, o perch'egli mi interessasse allora dopo morte, ma per questa considerazione ch'io ruminava profondamente: è partito per sempre - per sempre? sì: tutto è finito rispetto a lui: non lo vedrò mai più: e nessuna cosa sua avrà più niente di comune colla mia vita. E mi poneva a riandare, s'io poteva, l'ultima volta ch'io l'aveva o veduto, o ascoltato ec. e mi doleva di non avere allora saputo che fosse l'ultima volta, e di non  646 essermi regolato secondo questo pensiero. (11. Feb. 1821.).

[653,2]  Plus il y a de monde * , (cioè, più gente ci sta d'intorno, più ci troviamo in mezzo al mondo attualmente) et plus les passions acquièrent d'autorité. * Ib. p. 81. Un philosophe  654 assuroit: ".... que plus il avoit vu de monde, plus les passions acquéroient d'autorité...." * Mme Lambert, Lettre à madame de ***, ou Lettre XV. dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, p. 395. Così è generalmente: ma all'uomo veramente sventurato accade tutto il contrario. Ogni volta ch'egli si presenta nel mondo, vedendosi respinto, il suo amor proprio mortificato, i suoi desideri frustrati, o contrariati, le sue speranze deluse, non solamente non concepisce veruna passione fuorchè quella della disperazione, ma per lo contrario, le sue passioni si spengono. E nella solitudine, essendo lontane le cose e la realtà, le passioni, i desiderii, le speranze se gli ridestano. (13. Feb. 1821.).

[662,1]  Je crois que son estime * (si parla di una persona amata, ma da cui non si spera nulla, e alla quale non si è mai dichiarato il proprio amore) doit être le prix de tout ce que je fais de bien; et je fais encore plus  663 grand cas d'elle * (de son estime) que de tous les sentimens les plus tendres que je pourrois lui supposer. * (Quella che parla è una donna, e l'amato è un uomo). Mme. Lambert, Lieu cité ci-dessus, p. 234.

[666,1]  Je sentis que c'étoit quelque chose de bien douloureux, que de savoir ce que l'on aime attaché à quelque chose de parfait: * (cioè la persona amata, a qualche altra persona perfetta, e degna dell'amor suo: e in questo senso lo dice Mad. Lambert) mais loin que mon intérêt ait pris sur la justice que je devois à mon amie, * (amata da colui ch'era amato dalla persona che parla, ed è una donna) ma délicatesse et la crainte de lui manquer ont augmenté son mérite à mes yeux. * Mme. de Lambert, lieu cité ci-dessus, (p. 661. fine), p. 265. fine.

[667,1]  Quello che ho detto in altro pensiero pp. 481-84 intorno all'idea che i fanciulli si formano dei nomi, si deve estendere assai, perchè ordinariamente e generalmente, il fanciullo dal primo individuo che vede, si forma l'idea di tutta la specie o genere, in ogni sorta di cose; dal primo soldato, l'idea di tutti i soldati, dal primo tempio, l'idea di tutti i tempii ec. E se la forma vivamente e durevolmente, se però altri individui della stessa specie, non vengono frequentemente o nella stessa fanciullezza, o poi, a scancellare l'idea concepita sul primo individuo. Senza ciò, e massimamente se le idee di altri individui non sottentrano a quella del primo durante la fanciullezza, l'idea del primo si conserva per lunghissimo tempo anche nelle altre età, e serve nella nostra mente di tipo, a tutti gli altri individui della stessa specie di cui ci dobbiamo formare un'idea per relazione o cosa tale, e che non ci cadono sotto i sensi. P. e. avendo io {di} due anni veduto un colonnello, l'idea  668 ch'io mi formo naturalmente della persona di questo o di quel colonnello, ch'io non conosco di veduta, e in astratto, del colonnello, è ancora modellata su quella figura, quelle maniere ec. Anche da ciò si deve inferire quanto sieno importanti le benchè minime impressioni della fanciullezza, e quanto gran parte della vita dipenda da quell'età; e quanto sia probabile che i caratteri degli uomini, le loro inclinazioni, questa o quell'altra azione ec. derivino bene spesso da minutissime circostanze della loro fanciullezza; e come i caratteri ec. e le opinioni massimamente (dalle quali poi dipendono le azioni, e quasi tutta la vita) si diversifichino bene spesso per quelle minime circostanze, e accidenti, e differenze appartenenti alla fanciullezza, mentre se ne cercherà la cagione e l'origine in tutt'altro, anche dai maggiori conoscitori dell'uomo. (16. Feb. 1821.). {{V. p. 675. principio.}}

[676,3]  Enfin elles aiment l'amour, et non pas l'amant. Ces personnes se livrent à toutes les passions {les plus} ardentes. Vous les voyez occupées du jeu, de la table: tout ce qui porte la livrée du plaisir est bien reçu. * Parla di quelle donne galanti qui ne cherchent et ne veulent que les plaisirs de l'amour, * di quelle che ne cherchent dans l'amour que les plaisirs des sens, * (o della galanteria dell'ambizione ec.) que celui d'être fortement occupées et entraînées, et que celui d'être aimées; * di quelle che  677 possono associer d'autres passions à l'amour, * e lasciare du vide dans * (leur) son coeur, * e che après avoir tout donné, * possono non essere uniquement * (occupées) occupé de ce qu'on aime; * di quelle che se font une habitude de galanterie, et ne savent point joindre la qualité d'amie à celle d'amant * ; di quelle che ne cherchent que les plaisirs, et non pas l'union des coeurs * , e conseguentemente échappent à tous les devoirs de l'amitié * : in somma delle donne d'oggidì tutte quante, e in fatti ancor ella sebbene distingue le donne amanti in tre specie, conchiude il discorso di questa specie, così: Voilà l'amour d'usage et d'à-présent, et où les conduit une vie frivole et dissipée. * Mme. de Lambert, Réflexions nouvelles sur les femmes, dans ses oeuvres complètes, citées ci-dessus (p. 633.) p. 179. (18. Febbraio 1821).

[678,1]   678 Il faut convenir que les femmes sont plus délicates que les hommes en fait d'attachement. * Il n'appartient qu'à elles de faire sentir par un seul mot, par un seul regard, tout un sentiment. * Mme. de Lambert, lieu cité ci-dessus, p. 187.

[678,3]  Nous n'avons qu'une portion d'attention et de sentiment; dès que nous nous livrons aux objets extérieurs, le sentiment dominant s'affoiblit: nos desirs ne sont-ils pas plus vifs et plus forts dans la retraite? * Mme. de Lambert, lieu cité ci-derrière (p. 677. fine) p. 188.  679 La solitudine è lo stato naturale di gran parte, o piuttosto del più degli animali, e probabilmente dell'uomo ancora. Quindi non è maraviglia se nello stato naturale, egli ritrovava la sua maggior felicità nella solitudine, e neanche se ora ci trova un conforto, giacchè il maggior bene degli uomini deriva dall'ubbidire alla natura, e secondare quanto oggi si possa, il nostro primo destino. Ma anche per altra cagione la solitudine è oggi un conforto all'uomo nello stato sociale al quale è ridotto. Non mai per la cognizione del vero in quanto vero. Questa non sarà mai sorgente di felicità, nè oggi; nè era allora quando l'uomo primitivo se la passava in solitudine, ben lontano certamente dalle meditazioni filosofiche; nè agli animali la felicità della solitudine deriva dalla cognizione del vero. Ma anzi per lo contrario questa consolazione della solitudine deriva all'uomo oggidì, e derivava primitivamente dalle illusioni. Come ciò fosse primitivamente, in quella vita occupata o da continua  680 sebben solitaria azione, o da continua attività {interna} e successione d'immagini {disegni ec.} ec. e come questo accada parimente ne' fanciulli, l'ho già spiegato più volte. Come poi accada negli uomini oggidì, eccolo. La società manca affatto di cose che realizzino le illusioni per quanto sono realizzabili. Non così anticamente, e anticamente la vita solitaria fra le nazioni civili, o non esisteva, o era ben rara. Ed osservate che quanto si racconta de' famosi solitari cristiani, cade appunto in quell'epoca, dove la vita, l'energia, la forza, la varietà originata dalle antiche forme di reggimento e di stato pubblico, e in somma di società, erano svanite o sommamente illanguidite, col cadere del mondo sotto il despotismo. Così dunque torna per altra cagione ad esser proprio degli stati e popoli corrotti, quello ch'era proprio dell'uomo primitivo, dico la tendenza dell'uomo alla solitudine: tendenza stata interrotta dalla prima energia della vita sociale. Perchè oggidì è così la cosa. La presenza e l'atto della società spegne le illusioni,  681 laddove anticamente le fomentava e accendeva, e la solitudine le fomenta o le risveglia, laddove non primitivamente, ma anticamente le sopiva. Il giovanetto ancora chiuso fra le mura domestiche, o in casa di educazione, o soggetto all'altrui comando, è felice nella solitudine per le illusioni, i disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe: e questo ancorchè egli sia d'ingegno penetrante, e istruito, ed anche, quanto alla ragione, persuaso della nullità del mondo. L'uomo disingannato, stanco, esperto, esaurito di tutti i desideri, nella solitudine appoco appoco si rifa, ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno vivamente, a ogni modo risorge, ancorchè penetrantissimo d'ingegno, e sventuratissimo. Come questo? forse per la cognizione del vero? Anzi per la dimenticanza del vero, pel diverso e più vago aspetto che prendono per lui, quelle cose già sperimentate e vedute, ma che ora essendo lontane dai sensi e dall'intelletto, tornano a passare per la immaginazione sua, e quindi abbellirsi. Ed egli torna a sperare  682 e desiderare, e vivere, per poi tutto riperdere, e morire di nuovo, ma più presto assai di prima, se rientra nel mondo.

[703,3]  Allo sviluppo ed esercizio della immaginazione è necessaria la felicità o abituale o presente e momentanea; del sentimento, la sventura. Esempio me stesso: e il mio passaggio dalla facoltà immaginativa, alla sensitiva, essendo quella in me presso ch'estinta. (28. Feb. 1821).

[712,1]  Non vale il dire che i piaceri, i beni, le felicità di questo mondo, sono tutti inganni. Che resta levati via questi inganni? E chi per le sue sventure manca di questi benchè ingannosi piaceri e beni, che altro gode o spera quaggiù? In somma l'infelice è veramente e positivamente infelice; {+quando anche il suo male non consista che in assenza di beni;} laddove è pur troppo vero che non si dà vera nè soda felicità, e che l'uomo felice, non è veramente tale. (3. Marzo 1821.)

[714,1]   714 Spesse volte il troppo o l'eccesso è padre del nulla. Avvertono anche i dialettici che quello che prova troppo non prova niente. Ma questa proprietà dell'eccesso si può notare ordinariamente nella vita. L'eccesso delle sensazioni o la soprabbondanza loro, si converte in insensibilità. Ella produce l'indolenza e l'inazione, anzi l'abito ancora dell'inattività negl'individui e ne' popoli; e vedi in questo proposito quello che ho notato con Mad. di Staël, Floro ec. p. 620 fine - 625 principio. Il poeta nel colmo dell'entusiasmo, della passione ec. non è poeta, cioè non è in grado di poetare. All'aspetto della natura, mentre tutta l'anima sua è occupata dall'immagine dell'infinito, mentre le idee segli affollano al pensiero, egli non è capace di distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna: in somma non è capace di nulla, nè di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni: dico nessun frutto o di considerazione e di massima, ovvero di uso e di scrittura; di teoria nè di pratica. L'infinito non si  715 può esprimere se non quando non si sente: bensì dopo sentito: e quando i sommi poeti scrivevano quelle cose che ci destano le ammirabili sensazioni dell'infinito, l'animo loro non era occupato da veruna sensazione infinita; e dipingendo l'infinito non lo sentiva. {I sommi dolori corporali non si sentono, perchè o fanno svenire, o uccidono.} Il sommo dolore non si sente, cioè finattanto ch'egli è sommo; ma la sua proprietà, e[è] di render l'uomo attonito; confondergli, sommergergli, oscurargli l'animo in guisa, ch'egli non conosce nè se stesso, nè la passione che prova, nè l'oggetto di essa; rimane immobile, e senza azione esteriore, nè {si può dire}, interiore. E perciò i sommi dolori non si sentono nei primi momenti, nè tutti interi, ma nel successo dello spazio e de' momenti, e per parti, come ho detto p. 366. - 368. Anzi non solo il sommo dolore, ma ogni somma passione, ed anche ogni sensazione, ancorchè non somma, tuttavia tanto straordinaria, e, per qualunque verso, grande, che l'animo nostro non sia capace di contenerla  716 tutta intera simultaneamente. Così sarebbe anche la somma gioia.

[718,1]  L'uomo d'immaginazione di sentimento e di entusiasmo, privo della bellezza del corpo, è verso la natura appresso a poco quello ch'è verso l'amata un amante ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell'amore. Egli si slancia fervidamente verso la natura, ne sente profondissimamente tutta la forza, tutto l'incanto, tutte le attrattive, tutta la bellezza, l'ama con ogni trasporto, ma quasi che egli non fosse punto corrisposto, sente ch'egli non è partecipe di questo bello che ama ed ammira, si vede fuor della sfera della bellezza, come l'amante  719 escluso dal cuore, dalle tenerezze, dalle compagnie dell'amata. Nella considerazione e nel sentimento della natura e del bello, il ritorno sopra se stesso gli è sempre penoso. Egli sente subito e continuamente che quel bello, quella cosa ch'egli ammira ed ama e sente, non gli appartiene. Egli prova quello stesso dolore che si prova nel considerare o nel vedere l'amata nelle braccia di un altro, o innamorata di un altro, e del tutto noncurante di voi. Egli sente quasi che il bello e la natura non è fatta per lui, ma per altri (e questi, cosa molto più acerba a considerare, meno degni di lui, anzi indegnissimi del godimento del bello e della natura, incapaci di sentirla e di conoscerla ec.): e prova quello stesso disgusto e finissimo dolore di un povero affamato, che vede altri cibarsi dilicatamente, largamente, e saporitamente, senza speranza nessuna di poter mai gustare altrettanto. Egli insomma  720 si vede e conosce {escluso senza speranza, e} non partecipe dei favori di quella divinità che non solamente, ma gli è anzi così presente così vicina, ch'egli la sente come dentro se stesso, e vi s'immedesima, dico la bellezza astratta, e la natura. (5. Marzo 1821.).

[722,1]  Lo sventurato non bello, e maggiormente se vecchio, potrà esser compatito, ma difficilmente pianto. Così nelle tragedie, ne' poemi, ne' romanzi ec. come nella vita. (6. Marzo 1821.)

[724,2]  L'uomo è così inclinato alla lode, che anche in quelle cose dov'egli non ha mai nè cercato nè curato di esser lodevole, e ch'egli stima di nessun pregio, ancora in queste l'esser lodato lo compiace. Anzi spesso lo indurrà a cercar di rialzare presso se stesso il pregio e l'opinione di quella tal cosa minima nella quale è stato lodato; e a persuadersi che essa, o l'essere lodevole in essa, non sia del tutto minimo nell'opinione altrui. (7. Marzo 1821.).

[829,1]  La ingiuria eccita in tutti gli animi il desiderio di vederla punita, {ma} negli alti il desiderio di punirla. (20. Marzo 1821).

[930,1]  Oggi l'uomo è nella società quello ch'è una colonna d'aria rispetto a tutte le altre e a ciascuna di loro. S'ella cede, o per rarefazione, o per qualunque conto, le colonne lontane premendo le vicine, {e queste premendo nè più nè meno in tutti i lati,} tutte accorrono ad occupare e riempiere il suo posto. Così l'uomo nella società egoista. L'uno premendo l'altro, quell'individuo che cede in qualunque maniera, o per mancanza di abilità, o di forza, o per virtù, e perchè lasci un vuoto di egoismo, dev'esser sicuro di esser subito calpestato dall'egoismo che ha dintorno per tutti i lati: e di essere stritolato come una macchina {pneumatica} dalla quale, senza le debite precauzioni, si fosse sottratta l'aria. (11. Aprile 1821.).

[958,1]  Una delle principali cagioni per cui l'infelicità rende l'uomo inetto al fare, e lo debilita e snerva, onde l'infelicità toglie la forza, non è altra se non che l'infelicità debilità[debilita] l'amor di se stesso. E intendo massimamente della infelicità grave e lunga. La quale col continuo contrasto che oppone all'amor di se stesso che era nel paziente, {colla battaglia ostinatissima e fortissima che gli fa,} e coll'obbligarlo ad uno stato contrario del tutto a quello ch'è scopo, oggetto e desiderio di questo amore, finalmente illanguidisce questo amore, rende l'uomo meno tenero di se stesso, siccome avvezzo a sentirsi infelice malgrado gli sforzi che ci opponeva. Anzi una tale infelicità, se non riduce l'uomo alla disperazion viva, e al suicidio o all'odio di se stesso {ch'è il sommo grado, e la somma intensità dell'amor proprio in tali circostanze,} lo deve ridurre per necessità ad uno stato opposto, cioè alla freddezza e indifferenza verso se stesso; giacchè s'egli continuasse ad essere così infiammato verso se medesimo, com'era da principio, in che modo potrebbe sopportare la vita, o contentarsi di sopravvivere, vedendo e sentendo sempre infelice questo oggetto del suo sommo amore, e di tutta la sua vita sotto tutti i rispetti?

[960,2]  Le sopraddette considerazioni possono portare ad una gran generalità, e semplicizzare l'idea che abbiamo del sistema delle cose umane, {o la teoria dell'uomo,} facendo conoscere come sotto tutti i riguardi, ed in tutte le circostanze possibili della vita, agisca quell'unico principio ch'è l'amor proprio, e come tutti gli effetti della vita umana sieno proporzionati alla maggiore o minor forza, maggiore o minor debolezza, e diversa direzione di quel solo movente: per quanto i detti effetti si presentino a prima vista, come derivati da diverse cagioni. (19. Aprile 1821.).

[1011,1]  Il sentimento moderno è un misto di sensuale e di spirituale, di carne e di spirito; è la santificazione della carne (laddove la religion Cristiana è la santificazione dello spirito); e perciò siccome il senso non si può mai escludere dal vivente, questa sensibilità che lo santifica e purifica, è riconosciuto pel più valevole rimedio e preservativo contro di lui, e contro delle sue bassezze. (4. Maggio 1821.).

[1028,1]   1028 La cosa più durevolmente e veramente piacevole è la varietà delle cose, non per altro se non perchè nessuna cosa è durevolmente e veramente piacevole. (10. Maggio 1821.).

[1044,2]  La rimembranza del piacere, si può paragonare alla speranza, e produce appresso a poco gli stessi effetti. Come la speranza, ella piace più del piacere; è assai più dolce il ricordarsi del bene (non mai provato, ma che in lontananza sembra di aver provato) che il goderne, come è più dolce lo sperarlo, perchè in lontananza sembra di poterlo gustare. La lontananza giova egualmente all'uomo nell'una e nell'altra situazione; e si può conchiudere che il peggior tempo della vita è quello del piacere, o del godimento. (13. Maggio 1821.).

[1075,2]  Quelli che non sogliono mai far nulla, e che per conseguenza hanno più tempo libero, e da potere impiegare, sono {ordinariamente} i più difficili a trovare il tempo per una  1076 occupazione, ancorchè di loro premura, a ricordarsi di una cosa che bisogni fare, di una commissione che loro sia stata data, e che anche prema loro di eseguire. Al contrario quelli che hanno la giornata piena, e quindi meno tempo libero, e più cose da ricordarsi. La cagione è chiara, cioè l'abito di negligenza nei primi, e di diligenza nei secondi (22. Maggio 1821.). {+E lo stesso differente effetto si vede anche in una stessa persona, secondo i diversi abiti e metodi temporanei di attività e diligenza, o inattività e negligenza.}

[1083,1]   1083 Alla considerazione della grazia derivante dallo straordinario, spetta in parte il vedere che uno de' mezzi più frequenti e sicuri di piacere alle donne, è quello di trattarle con dispregio e motteggiarle ec. Il che anche deriva da un certo contrasto ec. che forma il piccante. {+E ancora dall'amor proprio messo in movimento, e renduto desideroso dell'amore e della stima di chi ti dispregia, perch'ella ti pare più difficile, e quindi la brami di più ec. E così accade anche agli uomini verso le donne o ritrose, o motteggianti ec.} (24. Maggio 1821.).

[1103,1]   1103 La poca memoria de' bambini e de' fanciulli, che si conosce anche dalla dimenticanza in cui tutti siamo de' primi avvenimenti della nostra vita, e giù giù proporzionatamente e gradatamente, non potrebbe attribuirsi (almeno in gran parte) alla mancanza di linguaggio ne' bambini, e alla imperfezione e scarsezza di esso ne' fanciulli? Essendo certo che la memoria dell'uomo è impotentissima (come il pensiero e l'intelletto) senza l'aiuto de' segni che fissino le sue idee, e reminiscenze. (V. Sulzer ec. nella Scelta di Opusc. interessanti. Milano 1775. p. 65. fine, e segg.) Ed osservate che questa poca memoria non può derivare da debolezza di organi, mentre tutti sanno che l'uomo si ricorda perpetuamente, e più vivamente che mai, delle impressioni della infanzia, ancorchè abbia perduto la memoria per le cose vicinissime e presenti. E le più antiche reminiscenze sono in noi le più vive e durevoli. Ma elle cominciano giusto da quel punto dove il fanciullo ha già acquistato un linguaggio sufficiente, ovvero da quelle {prime} idee, che noi concepimmo unitamente ai loro segni, e che noi potemmo fissare colle parole. Come la prima mia ricordanza è di alcune pere moscadelle che io vedeva, e sentiva nominare al tempo stesso. (28. Maggio 1821.).

[1163,1]  Il miglior uso ed effetto della ragione e della riflessione, è distruggere o minorare nell'uomo la ragione e la riflessione, e l'uso e gli effetti loro. (13. Giugno 1821.).

[1165,2]  Tutti quanti i giovani, benchè qual più qual meno, sono per natura disposti all'entusiasmo, e ne provano. Ma l'entusiasmo de' giovani oggidì, coll'uso del mondo, e coll'esperienza delle cose che {quelli} da principio vedevano da lontano, si spegne non in altro modo nè per diversa cagione, che una facella per difetto di alimento: anche durando la gioventù, e la potenza naturale dell'entusiasmo. (13. Giugno 1821.).

[1169,1]  L'ardore giovanile è la maggior forza, l'apice, la perfezione, l'ἀκμή della natura umana. Si consideri dunque la convenienza di quei sistemi politici, nei quali l'ἀκμή dell'uomo, cioè l'ardore e la  1170 forza giovanile, non è punto considerata, ed è messa del tutto fuori del calcolo, come ho detto in altro pensiero pp. 195-96. (15. Giugno 1821.).

[1176,1]  Ho detto altrove p. 714 che il troppo, spesse volte è padre del nulla. Osserviamolo ora nel genio e nelle facoltà della mente. Certi ingegni straordinarissimi che la natura alcune volte ha prodotti quasi per miracolo, sono stati o del tutto o quasi inutili, appunto a cagione della soverchia forza o del loro intelletto o della loro immaginazione, che finiva nel non potersi risolvere in nulla, nè dare alcun frutto determinato.

[1254,4]  Io nel povero ingegno mio, non ho riconosciuto altra differenza dagl'ingegni volgari, che una facilità  1255 di assuefarlo a quello ch'io volessi, e quando io volessi, e di fargli contrarre abitudine forte e radicata, in poco tempo. Leggendo una poesia, divenir facilmente poeta; un logico, logico; un pensatore, acquistar subito l'abito di pensare nella giornata; uno stile, saperlo subito o ben presto imitare ec.; {+una maniera di tratto che mi paresse conveniente, contrarne l'abitudine in poco d'ora ec. ec. {+v. p. 1312.} Il volgo che spesso indovina, e nelle sue metafore esprime, senza saperlo, delle grandi verità, e dei sensi piuttosto propri che metaforici, sebben tali nell'intenzione, chiama fra noi, (e s'usa dire familiarmente anche fra i colti, ed anche scrivendo) testa o cervello duro (cioè {organi} non pieghevoli, e quindi non facili ad assuefarsi) chi non è facile ad imparare. L'imparare non è altro che assuefarsi.}

[1260,2]  A quello che altrove pp. 461-62 pp. 714-16 ho detto circa l'impossibilità di far bene quello che si fa con troppa cura, si può aggiungere quello che dice l'Alfieri {nella sua Vita} della matta attenzione ch'egli poneva a tutte le minuzie nelle sue prime letture e studi de' Classici: e quello che ci avviene p. e. nello studio delle lingue. Nel quale osservate che da principio per la somma attenzione che ponete a ogni menoma cosa, leggendo in quella tal lingua, vi riescono gli scrittori sempre (più o meno) difficili. Laddove bene spesso, se si dà il caso, che  1261 voi abbiate intralasciato per qualche tempo lo studio di quella lingua, e perduto l'abito di quella minuta attenzione, ripigliando poi a leggere in detta lingua qualche pagina, e credendo di trovarci maggior difficoltà per l'interrompimento dell'esercizio, vi trovate al contrario molto più spedito di prima. Così pure, senza averla intralasciata, ma solamente pigliando a leggere qualche cosa in detta lingua non con animo di studio o di esercizio, ma solo di passare il tempo, o divertirvi, o in qualunque modo con intenzione alquanto, più o meno, rilasciata. Così dopo avere o credere di aver già imparata quella lingua, quando leggiamo non più come scolari, ma disinvoltamente e come semplici lettori. Nel qual tempo trovando forse difficoltà reali maggiori di quando leggevamo per istudio, non ci fanno gran caso, nè c'impediscono {e trattengono} più che tanto, nè ci tolgono una spedita facilità. In somma non si arriva mai a leggere speditamente una lingua nuova, se non quando si lascia l'intenzione di studioso per prendere quella di lettore, e durando la prima, solamente per sua cagione, ed anche senza veruna difficoltà reale,  1262 si trovano sempre intoppi, che altri non troverà nelle stesse circostanze, e colla stessa perizia, ma con diversa intenzione. {Così non si trova piacere, nè facilità, nella semplice lettura, anche in nostra lingua, quando si legge con troppo studio ec.} ({1-2.} Luglio 1821.).

[1315,1]  Il successivo cambiamento delle disposizioni dell'animo di ciascun uomo secondo l'età, è una fedele e costante immagine del cambiamento delle generazioni umane nel processo de' secoli. {+(E così viceversa).} Eccetto che è sproporzionamente[sproporzionatamente] rapido, massimamente oggidì, perchè il giovane di venticinque anni non serba più somiglianza alcuna col tempo antico, nè veruna qualità, opinione, disposizione, inclinazione antica, come l'immaginazione, la virtù ec. ec. ec. (13. Luglio 1821.).

[1319,1]  Del resto quanto la pura opinione indipendente dall'assuefazione stessa e da ogni altra cosa, influisca sul giudizio e senso del bello, si potrebbe mostrare con mille prove le più quotidiane, quantunque perciò appunto meno avvertite. Chi non sa che una bellezza mediocre, ci par grande, s'ella ha gran fama? E che ci sentiamo più inclinati, e proviamo il senso della bellezza molto più vivo nel mirare una donna famosa per la  1320 beltà, che nel mirarne una più bella, ma ignota, o meno famosa. Così pure se una donna non è bella, ma ha nome di esserlo o è celebre per avventure galanti, o è stata contrastata ec. ec. ec. {+Così dico degli uomini rispetto alle donne ec. ec.} Così negli scrittori: il senso del bello è molto maggiore, più intimo, più frequente, più minuto, quando leggiamo p. e. un poeta già famoso, e di merito già riconosciuto, che quando ne leggiamo uno, del cui merito abbiamo da giudicare, sia pur egli più bello di molti altri che sommamente ci dilettano. Il formare il gusto, in grandissima parte non è altro che il contrarre un'opinione. Se il tal gusto, il tal genere ec. è disprezzato, o se tu in particolare lo disprezzi, quell'opera di quel tal gusto o genere ec. non piace. Nel caso contrario, e se tu cambi opinione, ecco che quella stessa opera ti dà sommo piacere, e ci trovi infinite bellezze di cui prima neppur sospettavi. Questo caso è frequentissimo in ogni genere di cose. Pochissimi trovavano piacere nella lettura del buono stile italiano, durante l'ultima metà del secolo passato, e i primi anni di questo. Oggi moltissimi; e quei medesimi che non vi trovavano alcun diletto, {anzi noia ec.,} oggi se ne pascono con gran piacere, perchè l'opinione in italia è cambiata. Fra questi così cambiati, sono ancor io.

[1328,1]  L'azione viva e straordinaria, è sempre, o bene spesso, cagione d'allegria, purchè non abbatta il corpo. (15. Luglio 1821.).

[1347,1]  Io non avendo mai letto scrittori metafisici, e occupandomi di tutt'altri studi, e null'avendo imparato di queste materie alle scuole (che non ho mai vedute), aveva già ritrovata la falsità delle idee innate, indovinato l'Ottimismo  1348 del Leibnizio, e scoperto il principio, che tutto il progresso delle cognizioni consiste in concepire che un'idea ne contiene un'altra; il quale è la somma della tutta nuova scienza ideologica. Or come ho potuto io povero ingegno, senza verun soccorso, e con poche riflessioni, trovar da me solo queste profondissime, e quasi ultime verità, che ignorate per 60. secoli, hanno poi mutato faccia alla metafisica, e quasi al sapere umano? Com'è possibile che {di} tanti sommi geni, in tutto il detto tempo, nessuno abbia saputo veder quello, ch'io piccolo spirito, ho veduto da me, ed anche con minori cognizioni in queste materie, di quelle che molti di essi avranno avuto?

[1387,2]  I giovani massime alquanto istruiti prima di entrare nel mondo, credono facilmente e fermamente in generale, quello che sentono o leggono delle cose umane, ma nel particolare non mai. E il frutto dell'esperienza è persuadere a' giovani, {quanto alla vita umana,} che il generale si verifica effettivamente in tutti o in quasi tutti i particolari, e in ciascuno di essi. (25. Luglio 1821.).

[1393,1]   1393 A volere che il ridicolo primieramente giovi, secondariamente piaccia vivamente, e durevolmente, cioè la sua continuazione non annoi, deve cadere sopra qualcosa di serio, e d'importante. Se il ridicolo cade sopra bagattelle, e sopra, dirò quasi, lo stesso ridicolo, oltre che nulla giova, poco diletta, e presto annoia. Quanto più la materia del ridicolo è seria, quanto più importa, tanto il ridicolo è più dilettevole, anche per il contrasto ec. Ne' miei dialoghi io cercherò di portar la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i principii fondamentali delle calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale, e alla filosofia, l'andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della società, della civiltà presente, le disgrazie e le rivoluzioni e le condizioni del mondo, i vizi e le infamie non degli uomini ma dell'uomo, lo stato delle nazioni ec. E credo che le armi del ridicolo, massime in questo {ridicolissimo e} freddissimo tempo, e anche per la loro natural forza, potranno giovare più di quelle della passione, dell'affetto, dell'immaginazione dell'eloquenza; e anche più di quelle del ragionamento,  1394 benchè oggi assai forti. Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi dell'affetto e dell'entusiasmo e dell'eloquenza e dell'immaginazione nella lirica, e in quelle prose letterarie ch'io potrò scrivere; le armi della ragione, della logica, della filosofia, ne' Trattati filosofici ch'io dispongo; e le armi del ridicolo ne' dialoghi e novelle Lucianee ch'io vo preparando.
Iliaci cineres, et flamma extrema meorum,
Testor, in occasu vestro, nec tela, nec ullas
Vitavisse vices Danaum; et, si fata fuissent,
Ut caderem, meruisse manu
*
(Virg. Aen. 2. 431. seqq.).
(27. Luglio. 1821.).

[1401,1]  Mi dicono che io da fanciullino di tre o quattro anni, stava sempre dietro a questa o quella persona perchè mi raccontasse delle favole. E mi ricordo ancor io che in poco maggior età, era innamorato dei racconti, e del maraviglioso che si percepisce coll'udito, o colla lettura (giacchè seppi leggere, ed amai di leggere, assai presto). Questi, secondo me, sono indizi notabili d'ingegno non ordinario e prematuro. Il bambino quando nasce, non è disposto ad altri piaceri che di succhiare il latte, dormire, e simili. Appoco appoco, mediante la sola assuefazione, si rende capace di altri piaceri sensibili, e finalmente va per gradi avvezzandosi, fino a provar piaceri meno dipendenti dai sensi. Il piacere dei racconti, sebbene questi vertano sopra cose sensibili e materiali, è però tutto intellettuale, o appartenente alla immaginazione, e per nulla corporale nè spettante ai sensi. L'esser divenuto capace di questi piaceri assai di buon'ora, indica manifestamente una felicissima disposizione, pieghevolezza ec. degli organi intellettuali, o mentali,  1402 una gran facoltà e vivezza d'immaginazione, una gran facilità di assuefazione, e pronto sviluppo delle facoltà dell'ingegno ec. (28. Luglio 1821.).

[1421,2]  L'attendere {e il riflettere} non è altro che il fissare la mente o il pensiero, il fermarlo ec. Abito che produce la scienza, l'invenzione, l'uomo riflessivo ec. Abito puro, come facilmente può considerare ciascun uomo riflessivo in se stesso, e notare ch'egli esercita quest'abito anche senz'avvedersene, e nelle cose che meno gl'importano, e giornalmente. Abito però poco comune, e però poco frequenti sono i pensatori, e i riflessivi ec. (31. Luglio 1821.). {{V. p. 1434. princip.}}

[1436,1]  Mirabile disposizione della natura! Il giovane non crede alle storie, benchè sappia che son vere, cioè non crede che debbano avverarsi ne' particolari della sua vita, degli uomini ch'egli conosce, {e} tratta, o conoscerà e tratterà, e spera di trovare il mondo assai diverso, almeno in quanto a se stesso, e per modo di eccezione. E crede pienamente a' poemi e romanzi, benchè sappia che sono falsi, cioè se ne lascia persuadere che il mondo sia fatto e vada in quel  1437 modo, e crede di trovarlo così. Di maniera che le storie che dovrebbero fare per lui le veci dell'esperienza, e così pure gl'insegnamenti filosofici ec. gli restano inutili, non già per capriccio, nè ostinazione, nè piccolezza d'ingegno, ma per opera universale e invincibile della natura. E solo quando egli è dentro a questo mondo sì cambiato dalla condizione naturale, l'esperienza lo costringe a credere quello che la natura gli nascondeva, perchè neppur nel fatto era conforme alle di lei disposizioni. Segno che il mondo è tutto il rovescio di quello che dovrebbe, poichè il giovane che non ha altra regola di giudizio, se non la natura, e quindi è giudice competentissimo, giudica sempre ed inevitabilmente vero il falso, e falso il vero. (2. Agosto. 1821.).

[1448,1]  È vero che la poesia propria de' nostri tempi è la sentimentale. Pure un uomo di genio, giunto a una certa età, quando ha il cuor disseccato dall'esperienza e dal sapere, può più facilmente scriver belle poesie d'immaginazione che di sentimento, perchè quella si può in qualche modo comandare, questo no, o molto meno. E se il poeta scrivendo non  1449 è riscaldato dall'immaginazione, può felicemente fingerlo, aiutandosi della rimembranza di quando lo era, e richiamando, raccogliendo, e dipingendo le sue fantasie passate. Non così facilmente quanto alla passione. E generalmente io credo che il poeta vecchio sia meglio adattato alla poesia d'immaginazione, che a quella di sentimento proprio, cioè ben diverso dalla filosofia, dal pensiero ec. E di ciò si potrebbero forse recare molti esempi di fatto, antichi e moderni, contro quello che pare a prima vista, perchè l'immaginazione è propria de' fanciulli, e il sentimento degli adulti. (3. Agosto. 1821.). {{V. p. 1548.}}

[1450,1]  Da quanto ho detto altrove p. 1254 che l'ingegno è facilità di assuefarsi, e che questa facilità include quella di mutare assuefazioni, di contrarne delle nuove in pregiudizio delle passate ec. risulta che i grandi ingegni denno ordinariamente esser mutabilissimi (di opinioni, di gusti, di stili, di modi, ec. ec.) non già per  1451 quella volubilità che nasce da leggerezza, e questa da poca forza d'ingegno e di concezioni e sensazioni ec. ma per la facilità di assuefarsi, e quindi di far progressi. Però la mutabilità, quando conduca sempre più avanti, ancorchè produca nell'uomo delle condizioni tutte contrarie alle passate, è sempre indizio di grande ingegno, anzi sua necessaria qualità. Ed infatti grandissima differenza si suol trovare p. e. tra le prime e le ultime opere di un grande scrittore (sia nel genere, sia nello stile, sia nelle opinioni, sia ne' pregi particolari o qualità ec. sia in tutte queste cose insieme), e nessuna o pochissima in quelle de' mediocri, o degl'infimi. Paragonate il Rinaldo del Tasso, o la prima Tragedia del Metastasio o dell'Alfieri colle ultime ec. Così pure nelle inclinazioni della vita o degli studi, ne' gusti letterarii ec. Così dico anche rispetto alle sue assuefazioni e abilità materiali ec. (4. Agos. 1821.).

[1472,2]  Non hanno torto i padri e le madri che amano la vita metodica, senza varietà, senza  1473 commozioni, senza troppe fatiche, la pace domestica ec. I loro gusti, le loro inclinazioni possono ben difendersi, e v'è tanto da dire per la morte come per la vita, dice la Staël. Ma il gran torto {degli educatori} è di volere che ai giovani piaccia quello che piace alla vecchiezza o alla maturità; che la vita giovanile non differisca dalla matura; di voler sopprimere la differenza di gusti di desiderii ec. che la natura invincibile e immutabile ha posta fra l'età de' loro allievi, e la loro, o {non} volerla riconoscere, o volerne affatto prescindere; di credere che la gioventù de' loro allievi debba o possa riuscire essenzialmente, e {quasi} spontaneamente diversa dalla propria loro, e da quella di tutti i passati presenti e futuri; di volere che gli ammaestramenti, i comandi, e la forza della necessità suppliscano all'esperienza ec. (9. Agos. 1821.).

[1473,1]  Quel giovane che fu d'animo eroico nella virtù (come sogliono essere tutti quelli che nascono con grande e forte immaginazione e sentimento), se per forza dell'esperienza, delle  1474 sventure, degli esempi, disingannato della virtù, arriva a lasciarla, diviene eroico nel vizio, e capace di molto maggiori errori, che non sono gli altri ec. Non già per una continuazione di entusiasmo applicato al male, ma per un eccesso di freddezza che è sempre compagna della malvagità. Egli diviene un eroe di freddezza, e tanto più intrepido, duro, ghiacciato, quanto era stato più fervido. Come quei vapori che si convertono in grandine, i quali non si stringerebbero nel più duro, denso, e sodo ghiaccio che possa formarsi nell'aria, se straordinario calore non gli avesse innalzati a straordinaria sublimità. In tutte le cose gli eccessi si toccano assai più fra loro, che col loro mezzo, e l'uomo eccessivo in qualunque cosa, è molto più inclinato e proclive all'eccesso contrario che al mezzo. Ed è molto più facile, conseguente, e naturale per la forza e la qualità di un'indole eccessiva, il saltare dall'uno all'opposto estremo, che il recarsi e fermarsi nel mezzo ec. ec. (9. Agos. 1821.)

[1510,1]  Il bambino non ha idea veruna di quello che significhino le fisonomie degli uomini, ma cominciando a impararlo coll'esperienza, comincia a giudicar bella quella fisonomia che indica un carattere o un costume piacevole ec. e viceversa. E bene spesso s'inganna giudicando bella e bellissima una fisonomia d'espressione piacevole, ma per se bruttissima, e dura in questo inganno lunghissimo tempo, e forse sempre (a causa della prima impressione); e non s'inganna per altro se non perchè ancora non ha punto l'idea distinta ed esatta del bello, e del regolare, cioè di quello ch'è universale, il che egli ancora non può conoscere. Frattanto questa significazione delle fisonomie, ch'è del tutto diversa dalla bellezza assoluta, e non è altro che un rapporto messo  1511 dalla natura fra l'interno e l'esterno, fra le abitudini ec. e la figura; questa significazione dico, è una parte principalissima della bellezza, una delle capitali ragioni per cui questa fisonomia ci produce la sensazione del bello, e quella il contrario. Non è mai bella fisonomia veruna, che {non} significhi qualche cosa di piacevole (non dico di buono nè di cattivo, e il piacevole può bene spesso, secondo i gusti, e le diverse modificazioni dello spirito, del giudizio, e delle inclinazioni umane esser anche cattivo): ed è sempre brutta quella fisonomia che indica cose dispiacevoli, fosse anche regolarissima. Si conosce ch'ella è regolare, cioè conforme alle proporzioni universali ed a cui siamo avvezzi, e nondimeno si sente che non è bella. Ma ordinariamente, com'è naturale, la regolarità perfetta della fisonomia indica qualità piacevoli, a causa della corrispondenza che la natura ha posto fra la regolarità interna e l'esterna. Ed è quasi certo che una tal fisonomia appartiene sempre a persona di carattere naturalmente perfetto ec. Ma siccome  1512 l'interno degli uomini perde il suo stato naturale, e l'esterno più o meno lo conserva, perciò la significazione del viso è per lo più falsa; e noi sapendo ben questo allorchè vediamo un bel viso, e nondimeno sentendocene egualmente dilettati (e forse talvolta egualmente commossi), crediamo che questo effetto sia del tutto indipendente dalla significazione di quel viso, e derivi da una causa del tutto segregata ed astratta, che chiamiamo bellezza. E c'inganniamo interamente perchè l'effetto {particolare} della bellezza umana sull'uomo {+(parlo specialmente del viso che n'è la parte principale, e v. ciò che ho detto altrove in tal proposito pp. 1379-81)} deriva sempre essenzialmente dalla significazione ch'ella contiene, e ch'è del tutto indipendente dalla sfera del bello, e per niente astratta nè assoluta: perchè se le qualità piacevoli fossero naturalmente dinotate da tutt'altra ed anche contraria forma di fisonomia, questa ci parrebbe bella, e brutta quella che ora ci pare l'opposto. Ciò è tanto vero che, siccome l'interno dell'uomo, come ho detto, si cambia, e la fisonomia non corrisponde alle sue qualità (per la maggior parte acquisite), perciò accade che quella tal fisonomia irregolare  1513 irregolare in se, ma che ha acquistata o per arte, o per altro, una significazione piacevole, ci piace, e ci par più bella di un'altra regolarissima che per contrarie circostanze abbia acquistata una significazione non piacevole; nel qual caso ella può anche arrivarci a dispiacere e parer brutta. E se una fisonomia è fortemente irregolare, ma o per natura (che talvolta ha eccezioni e fenomeni, come accade in un sì vasto sistema), o per arte, o per la effettiva piacevolezza della persona che influisce pur sempre sull'aria del viso, ha una significazione notabilmente piacevole; noi potremo accorgerci della sproporzione e sconvenienza colle forme universali, ma non potremo mai chiamar brutta quella fisonomia, e talvolta non ci accorgeremo neppure della irregolarità, e se non la consideriamo attentamente, la chiameremo bella. (17. Agos. 1821.). {{V. p. 1529. capoverso 2.}}

[1540,1]  Come tutto sia assuefazione ne' viventi, si può anche vedere negli effetti della  1541 lettura. Un uomo diviene eloquente a forza di legger libri eloquenti; inventivo, originale, pensatore, matematico, ragionatore, poeta, a forza ec. Sviluppate questo pensiero, applicandovi l'esempio mio, e distinguendolo secondi[secondo] i gradi di adattabilità, e formabilità naturale o acquisita degl'individui. Quei romanzieri la cui fecondità ec. d'invenzione ci fa stupire, hanno per lo più letto gran quantità di romanzi, racconti ec. e quindi {la loro immaginazione ha} acquistata una facoltà che qualunque ingegno, in parità di circostanze esteriori e indipendenti dalla sua natura, sarebbe capace di acquistare, in grado per lo meno somigliante. (21. Agos. 1821.).

[1541,1]  Lo stesso dico degli altri studi indipendenti dalla lettura. Ed è tanto vero che le dette facoltà vengono dall'assuefazione, ch'elle si acquistano, e si perdono coll'interruzione dell'esercizio, e tale che poco fa era dispostissimo a ragionare, oggi non lo è più. E s'egli da' ragionatori, passa agli scrittori d'immaginazione, la sua mente, mutato abito,  1542 acquista una facoltà d'immaginare ec. ec. ec. Così m'è accaduto mille volte. Bensì, com'è naturale, questi abiti si possono (mediante sempre l'assuefazione) confermare in modo che anche interrotto l'esercizio, non si perdano, benchè s'indeboliscano; o si possano presto ripigliare ec. ec. ec. Questo effetto è generale in tutte le assuefazioni. (21. Agos. 1821.).

[1542,1]  Un altr'abito bisogna ancora contrarre e massimamente nella fanciullezza. Quello cioè di applicare le dette assuefazioni alla pratica, quello di metterle a frutto, e di farle servire all'esecuzione di cose proprie. P. e. molti vi sono, che hanno squisito giudizio, moltissima lettura, cognizione ec. Non manca loro altro che il detto abito per essere insigni scrittori: ma stante questa mancanza, metteteli a scrivere, essi non sanno far nulla. Essi non hanno l'abito, e quindi la facoltà dell'applicazione, e dell'esecuzione propria ec. Perciò un uomo il quale (volendo seguitare l'esempio di sopra) abbia letto molti romanzi, e sia d'ottimo giudizio ec. ec. può benissimo non saperne nè scrivere nè concepire, perchè non ha l'abito  1543 dell'applicazione, e del fissare la mente a tirar profitto coll'opera propria da quelle assuefazioni; non ha l'esercizio dello scrivere, nè del pensare a questo fine, nè del mirare a ciò nell'assuefarsi ec. ec. ec. {+non ha l'abito dell'attendere e del riflettere alle minuzie, ch'è necessario per assuefarsi a porre in opera le {altre} assuefazioni; non ha l'abito della fatica ec. E perciò molti ancora, anzi i più, leggono anche moltissimo, non solo senza contrarne abilità d'eseguire (ch'è insomma abilità d'imitazione), ma neppur di pensare, e senza guadagnar nulla, nè contrarre quasi verun'abitudine, cioè attitudine. {v. p. 1558.}} (22. Agos. 1821.).

[1543,1]  Tutti più o meno (massimamente le persone che hanno coltivato il loro intelletto, e sviluppatene le qualità, e quelle che sono ammaestrate da molta esperienza ec.) concepiscono in vita loro delle idee, delle riflessioni, delle immagini ec. o nuove, o sotto un nuovo aspetto, o tali insomma che bene {e convenientement}e espresse nella scrittura, potrebbero esser utili o piacevoli, e separar quello scrittore, se non altro, dal numero de' copisti. Ma perchè gl'ingegni (massime in italia) non hanno l'abito di fissar fra se stessi, circoscrivere, e chiarificare le loro idee, perciò queste restano per lo più nella loro mente in uno stato incapace di esser consegnate e adoperate nella scrittura; e i più, quando si mettono a scrivere, non trovando niente del loro che faccia al caso, si contentano di copiare, o compilare, o travestire l'altrui; e neppur si ricordano, nè credono, nè  1544 s'immaginano, nè pensano in verun modo a quelle idee proprie che pur hanno, e di cui potrebbero far sì buon uso. Mancano pure dell'abito di saper convenientemente esprimere idee nuove, o in nuova maniera, cioè di applicare per la prima volta la parola e l'espressione conveniente ad un'idea, di fabbricarle una veste adattata alla scrittura; e perciò, quando anche le concepiscano chiaramente, le lasciano da banda, non sapendo darle giorno, e disperando, anzi neppur desiderando di potere, e si rivolgono alle idee altrui che hanno già le loro vesti belle e fatte. Che se essi talvolta si lasciano portare a volere esprimere le dette idee proprie, per la mancanza di abilità acquistata coll'esercizio, lo fanno miserabilmente. Questo esercizio è tanto necessario, che io per l'una parte loderò moltissimo, per l'altra piglierò sempre buonissima speranza di un fanciullo o di un giovane, il quale ponendosi a scrivere e comporre, vada sempre dietro alle idee proprie, e voglia a ogni costo esprimerle, siano pur frivole com'è naturale nei principii della riflessione, e malamente espresse, com'è naturale ne' principii dello scrivere e dell'applicare  1545 i segni ai pensieri. A me pare ch'io fossi uno di questi. (22 Agos. 1821.).

[1554,2]  In questo presente stato di cose, non abbiamo gran mali, è vero, ma nessun bene; e questa mancanza è un male grandissimo, continuo, intollerabile, che rende penosa tutta quanta la vita, laddove i mali parziali, ne affliggono solamente una parte. L'amor proprio, e quindi il desiderio ardentissimo della felicità, perpetuo ed essenzial compagno della vita  1555 umana, se non è calmato da verun piacere {vivo,} affligge la nostra esistenza crudelmente, quando anche non v'abbiano altri mali. E i mali son meno dannosi alla felicità che la noia ec. anzi talvolta utili alla stessa felicità. L'indifferenza non è lo stato dell'uomo; è contrario dirittamente alla sua natura, e quindi alla sua felicità. V. la mia teoria del piacere, applicandola a queste osservazioni, che dimostrano la superiorità del mondo antico sul moderno, in ordine alla felicità, come pure dell'età fanciullesca o giovanile sulla matura. (24. Agos. 1821.).

[1555,1]  Consideriamo la natura. Qual è quell'età che la natura ha ordinato nell'uomo alla maggior felicità di cui egli è capace? Forse la vecchiezza? cioè quando le facoltà dell'uomo decadono visibilmente; quando egli si appassisce, indebolisce, deperisce? Questa sarebbe una contraddizione, che la felicità, cioè la perfezione dell'essere, dovesse naturalmente trovarsi nel tempo della decadenza e quasi corruzione di detto essere. Dunque la gioventù, cioè il fior dell'età, quando le facoltà dell'uomo sono in pieno vigore ec. ec.  1556 Quella è l'epoca della perfezione e quindi della possibile felicità sì dell'uomo che delle altre cose. Ora la gioventù è l'evidente immagine del tempo antico, la vecchiezza del moderno. Il giovane e l'antico presentano grandi mali, congiunti a grandi beni, passioni vive, attività, entusiasmo, follie non poche, movimento, vita d'ogni sorta. Se dunque la gioventù è visibilmente l'età destinata dalla natura alla maggior felicità, l'ἀκμή della vita, e per conseguenza della felicità ec. ec. se il nostro intimo senso ce ne convince (che nessun vecchio non desidera di esser giovane, e nessun giovane vorrebbe esser vecchio); se la considerazione del sistema e delle armonie della natura ce lo dimostra a primissima vista; dunque l'antico tempo era più felice del moderno; dunque che cosa è la sognata perfettibilità dell'uomo? dunque ec. ec. Quest'osservazione si può stendere a larghissime conseguenze. (24. Agos. 1821.).

[1572,3]  Quanto l'uomo sia invincibilmente inclinato a misurar gli altri da se stesso, si può vedere anche nelle persone le più pratiche del mondo. Le quali se, p. e. sono fortemente morali, per quanto conoscano, e sentano e vedano, non si persuaderanno mai intimamente che la moralità non esista più, e  1573 sia del tutto esclusa dai motivi determinanti l'animo umano. Lo dirà ancora, lo sosterrà, in qualche accesso di misantropia arriverà a crederlo, ma come si crede momentaneamente a una viva e conosciuta illusione, e non se ne persuaderà mai nel fondo dell'intelletto. (Lascio i giovani i quali essendo ordinariamente virtuosi, non si convincono mai prima dell'esperienza, che la virtù sia nemmeno rara.) Così viceversa ec. ec. ec. Esempio, mio padre. (27. Agosto. 1821.).

[1573,1]  Dice Cicerone (il luogo lo cita, se ben mi ricordo, il Mai, prefazione alla versione d'isocrate, de Permutatione) che gli uomini di gusto nell'eloquenza non si appagano mai pienamente nè delle loro opere nè delle altrui, e che la mente loro semper divinum aliquid atque infinitum desiderat, * a cui le forze dell'eloquenza non arrivano. Questo detto è notabilissimo riguardo all'arte, alla critica, al gusto.

[1580,1]  Dalla mia teoria del piacere si conosce per qual ragione si provi diletto in questa vita, quando senza aspettarne nè desiderarne vivamente nessuno, l'animo riposato e indifferente, si getta, per così dire, alla ventura in mezzo alle cose, agli avvenimenti, e agli stessi divertimenti ec. Questo stato non curante de' piaceri nè de' dolori, è forse uno de' maggiori piaceri, non solo per altre cagioni, ma per se stesso.

[1586,1]  La scienza non supplisce mai all'esperienza, cosa generalissima ed evidentissima. Il medico colla sola teorica non sa curar gli ammalati; il musico fornito della sola teoria della sua professione, non sa nè comporre nè eseguire una melodia; il letterato che non ha mai scritto, non sa scrivere; il filosofo che non  1587 ha veduto il mondo da presso, non lo conosce. I principi pertanto non conoscono mai gli uomini, perchè non ne ponno mai pigliare esperienza, vedendo sempre il mondo sotto una forma ch'egli non ha. Lascio le adulazioni, le menzogne, le finzioni ec. de' cortigiani; ma prescindendo da questo, il principe non ha cogli altri uomini se non tali relazioni, che essi non hanno con verun altro. Ora le relazioni ch'egli ha con gli uomini, sono l'unico mezzo ch'egli ha di acquistarne esperienza. Dunque egli non può mai conoscer {la vera natura di} coloro a' quali comanda, e de' quali deve regolar la vita. Io ho molto conosciuto una Signora che non essendo quasi mai uscita dal suo cerchio domestico, ed avvezza a esser sempre ubbidita, non aveva imparato mai a comandare, non aveva la menoma idea di quest'arte, nutriva in questo proposito mille opinioni assurde e ridicole, e se talvolta non era ubbidita, perdeva la carta del navigare. Ell'era frattanto di molto spirito e talento, sufficientemente istruita, e studiosamente educata. Ella si figurava gli uomini affatto diversi da quel che sono:  1588 il principe che ne vede e tratta assai più, benchè li veda assai più diversi da quelli che sono, tuttavia potrà conoscerli forse alquanto meglio; ma proporzionatamente parlando, e attesa la tanto maggior cognizione degli uomini che bisogna a governare una nazione, di quella che a governare una famiglia, io credo che un principe sappia tanto regnare, quanto quella dama comandare a' figli e a' domestici. Sotto questo riguardo il regno elettivo sarebbe assai preferibile all'ereditario. Vero è però che niuno conosce gli uomini interamente, come bisognerebbe per ben governarli. Connaître un autre parfaitement serait l'étude d'une vie entière; qu'est-ce donc qu'on entend par connaître les hommes? les gouverner, cela se peut, mais les comprendre, Dieu seul le fait. * (Corinne. l. 10. ch. 1. t. 2. p. 114.) (30. Agos. 1821.)

[1588,1]  La manière de vivre des Chartreux suppose, dans les hommes qui son[sont] capables de la mener, ou un esprit extrêmement borné, ou la plus noble et la plus continuelle exaltation des sentiments religieux. * (Corinne. lieu cité ci-dessus. p. 113.). Così è: l'inattività e la monotonia non conviene che agli spiriti menomi  1589 o sommi. Gli uni e gli altri per diversissima ragione cercano il metodo e il riposo. Gli uni per sopire i desiderii che li tormentano, gli altri perchè non ne hanno. Gli uni perchè la vita non basta loro, si rifuggono alla morte, gli altri perchè il loro animo non vive. Gli uni ancora perchè non hanno bisogno di vita esterna, vivendo assai internamente, gli altri perchè non abbisognano d'alcuna vita. Gli spiriti mediocri, cioè la massima parte degli uomini, sono incompatibili con questo stato, e infelicissimi in esso, o in altro che lo somigli. V. la p. 1584. fine. (30. Agos. 1821.).

[1589,1]  Chi ha perduto la speranza d'esser felice, non può pensare alla felicità degli altri, perchè l'uomo non può cercarla che per rispetto alla propria. Non può dunque neppure interessarsi dell'altrui infelicità. (30. Agos. 1821.).

[1594,2]  La bellezza è naturalmente compagna della virtù. L'uomo senza una lunga esperienza non si avvezza a credere che un bel viso possa coprire un'anima malvagia. Ed ha ragione, perchè la natura ha posto un'effettiva corrispondenza tra le forme esteriori e le interiori, e se queste non corrispondono, sono per lo più alterate da quelle ch'erano naturalmente. Pure è certo che i belli sono per lo più cattivi. Lo stesso dico degli altri vantaggi naturali o acquisiti. Chi li possiede, non è buono. Un brutto, un uomo sprovvisto di pregi e di vantaggi, più facilmente s'incammina alla virtù. Gli uomini senza talento sono più ordinariamente buoni, che quelli che ne son ricchi. E tutto ciò è ben naturale nella società. L'uomo insuperbisce del vantaggio che si accorge  1595 di avere sugli altri, e cerca di tirarne per se tutto quel partito che può. S'egli è più forte, fa uso della sua forza. Il più debole si raccomanda, e segue la strada che più giova e piace agli altri, per cattivarseli. Il forte non abbisogna di questo. Ecco l'abuso de' vantaggi. Abuso inevitabile e certo, posta la società. Così dico de' potenti ec. i quali non ponno essere virtuosi. Ne' privati a me pare che non si trovi vera affabilità, vera {e costante} amabilità e facilità di costumi, interesse per gli altri ec. se non che nei brutti, in chi ha qualche svantaggio, è nato in bassa condizione ed assuefattoci da piccolo, ancorchè poi ne sia uscito, è povero o lo fu, ovvero negli sventurati.

[1610,2]  L'uomo il più dotto, erudito, letterato, del gusto e giudizio il più fino, dell'ingegno il più fecondo ec. ec. ma poco avvezzo a trattare, saprà egregiamente e fecondissimamente scrivere, e non saprà parlare neppur di cose appartenenti a' suoi studi. E ciò non già per sola soggezione, ma effettivamente gli mancheranno le parole e i concetti. Tutto è esercizio nell'uomo. Ed è ordinario il veder uomini studiosi non saper parlare, appunto perchè avvezzi allo studio, non sono abituati a parlare ma a tacere; oltre ch'essi contraggono sovente e  1611 per questa e per altre ragioni un carattere di taciturnità, parimente acquisito. Del resto s'ingannano assai coloro che dal vedere che il tale non sa parlare, concludono ch'egli non sa pensare, non è coltivato ec. Si può parlare come uno scimunito, {+con freddezza e frivolezza estrema ec.} ed essere il primo scienziato, pensatore, scrittore del mondo. (2. Sett. 1821.).

[1628,1]  La disperazione, in quanto è mancanza, o piuttosto languore e insensibilità di speranza, è un piacere per se, e perchè l'uomo non sentendo la speranza, appena sente la vita, e la sua anima è abbandonata a una specie di torpore, benchè il corpo possa essere in grande attività, e spesso in tal circostanza lo sia. Tutto ciò risulta dalla mia teoria del piacere. (4. Sett. 1821.).

[1648,1]   1648 Pare assurdo, ma è vero che l'uomo forse il più soggetto a cadere nell'indifferenza e nell'insensibilità (e quindi nella malvagità che deriva dalla freddezza del carattere), si è l'uomo sensibile, pieno di entusiasmo e di attività interiore, e ciò in proporzione appunto della sua sensibilità ec. {Quasi si verifica in questo senso e modo ciò che quel vecchio disse a Pico p. 1178, della stupidità dei vecchi stati spiritosi straordinariamente da fanciulli.} Massime s'egli è sventurato; ed in questi tempi dove la vita esteriore non corrisponde, non porge alimento nè soggetto veruno all'interiore, dove la virtù e l'eroismo sono spenti, e dove l'uomo di sentimento e d'immaginazione e di entusiasmo è subito disingannato. La vita esteriore degli antichi era tanta che avvolgendo i grandi spiriti nel suo vortice arrivava piuttosto a sommergerli, che a lasciarsi esaurire. Oggi un uomo quale ho detto, appunto per la sua straordinaria sensibilità, esaurisce la vita in un momento. Fatto ciò, egli resta vuoto, disingannato profondamente e stabilmente, perchè ha tutto profondamente e vivamente provato: non si è fermato alla superficie, non si va affondando a poco a poco; è andato subito al fondo, ha tutto abbracciato, e tutto rigettato come effettivamente indegno e frivolo: non gli resta altro a vedere,  1649 a sperimentare, a sperare. Quindi è che si vedono gli spiriti mediocri, ed alcuni sensibili e vivi sino a un certo segno, durar lungo tempo ed anche sempre, nella loro sensibilità, suscettibili di affetto, capaci di cure e di sacrificj per altrui, non contenti del mondo, ma sperando di esserlo, facili ad aprirsi all'idea della virtù, a crederla ancora qualche cosa ec. (Essi non hanno ancora perduto la speranza della felicità). Laddove quei grandi spiriti che ho detto, fin dalla gioventù cadono in un'indifferenza, languore, freddezza, insensibilità mortale, e irrimediabile: che produce un egoismo noncurante, una somma incapacità di amare ec. La sensibilità e l'ardore dell'animo è così fatto, che s'egli non trova pascolo nelle cose circostanti, consuma se stesso, e si distrugge e perde in poco d'ora, lasciando l'uomo tanto al disotto della magnanimità ordinaria, quanto prima l'avea messo al disopra. Laddove la mediocre sensibilità si mantiene, perchè abbisogna di poco alimento. Quindi è che le virtù grandi non sono pe' nostri tempi.  1650 (7. Sett. 1821.). {{Puoi vedere p. 1653. fine.}}

[1651,1]  Qual cosa è più potente nell'uomo, la natura o la ragione? Il filosofo non vive mai nè pensa giornalmente, e intorno a ciò che lo riguarda, {nè vive con se stesso (se anche vivesse cogli altri)} da vero filosofo; nè il religioso da vero e perfetto religioso. Non v'è uomo così certo della malizia delle donne ec. che non senta un'impressione dilettevole, e una vana speranza all'aspetto di una beltà che gli usi qualche piacevolezza. (Meno impressione, e forse anche niuna, potrà provarne chi vi sia troppo avvezzo, e questo sarà principalmente il caso dell'uomo di mondo, la cui anima allora si porterà più filosoficamente assai di quella del maggior filosofo, non già per forza di ragione, ma di natura che ha dato all'assuefazione la proprietà d'illanguidire e anche distruggere le sensazioni. Massime se il filosofo non vi sarà assuefatto. Tanto più egli sarà soggetto a peccare o coll'opera o col pensiero contro i principii suoi.) Egli è sempre {più o meno} soggetto a ricadere in tutte le stravagantissime illusioni dell'amore, ch'egli ha conosciuto {e sperimentato} impossibile, immaginario, vano. Non v'è uomo così profondamente persuaso della nullità delle  1652 cose, della certa e inevitabile miseria umana, il cui cuore non si apra all'allegrezza anche la più viva, (e tanto più viva quanto più vana) alle speranze le più dolci, ai sogni ancora i più frivoli, se la fortuna gli sorride un momento, o anche al solo aspetto di una festa, di una gioia della quale altri si degni di metterlo a parte. Anzi basta un vero nulla per far credere {immediatamente} al più profondo e sperimentato filosofo, che il mondo sia qualche cosa. Basta una parola, uno sguardo, un gesto di buona grazia o di complimento che una persona anche di poca importanza faccia all'uomo il più immerso nella disperazione della felicità, e nella considerazione di essa, per riconciliarlo colle speranze, e cogli errori. Non parlo del vigore del corpo, non parlo del vino, al cui potere cede e sparisce la più radicata e invecchiata filosofia. {+Lascio ancora le passioni, che se non altro, ne' loro accessi si ridono del più lungo e profondo abito filosofico.} Un menomo bene inaspettato, un nuovo male ancora che sopraggiunga, ancorchè piccolissimo, basta a persuadere il filosofo che la vita umana non è un niente. V. Corinne t. 2. liv. 14. ch. 1. pag. ult. cioè 341. {+Ciò che dico del filosofo, dico pure del religioso, non ostante che la religione, tenendo dell'illusione e quindi della natura, abbia tanta più forza effettiva nell'uomo.} (8. Sett. dì della natività di Maria SS. 1821.)

[1655,1]   1655 L'uomo si addomestica alla continua novità come alla uniformità, e allora l'oggetto nuovo gli è tanto familiare, quanto un oggetto vecchio, e la novità in genere gli è più familiare e ordinaria, che la uniformità. ec. (8. Sett. 1821.).

[1673,1]  L'uomo inesperto del mondo, come il giovane ec. sopravvenuto da qualche disgrazia o corporale o qualunque, {dov'egli non abbia alcuna colpa,} non pensa neppure che ciò debba essere agli altri, oggetto di riso sul suo conto, di fuggirlo, di spregiarlo,  1674 di odiarlo, di schernirlo. Anzi se egli concepisce verun pensiero intorno agli altri, relativamente alla sua disgrazia, non se ne promette altro che compassione, ed anche premura, o almen desiderio di giovarlo; insomma non li considera se non come oggetti di consolazione e di speranza per lui; tanto che talvolta arriva per questa parte a godere in certo modo della sua sventura. Tale è il dettame della natura. Quanto è diverso il fatto! Anche le persone le più sperimentate, ne' primi momenti di una disgrazia, sono soggette a cadere in questo errore, e in questa speranza, almeno confusa e lontana. Non par possibile all'uomo che una sventura non meritata gli debba nuocere presso i suoi simili, nell'opinione, nell'affetto, ec. ma egli tien per fermissimo tutto l'opposto; e s'egli è inesperto non si guarda di nascondere agli altri (potendo) la sua disgrazia; anzi talvolta cerca di manifestarla: laddove la principale arte di vivere consiste ordinariamente nel non confessar mai di esser  1675 disgraziato, o di avere alcuno svantaggio rispetto agli altri ec.

[1688,1]  Le immaginazioni calde (come son quelle de' fanciulli più o meno) in forza della somma tendenza dell'animale a' suoi simili, trovano da per tutto delle forme simili alle umane. Ma notate che sebbene si troverebbe facilmente maggiore analogia fra le altre parti dell'uomo e i diversi oggetti materiali, che fra questi e la fisonomia umana, nondimeno l'immaginazione trova sempre in essi oggetti, maggiore analogia col volto dell'uomo che colle altre parti, anzi a queste neppur pensa. V. il mio discorso sui romantici. Tanto è vero che la principal parte dell'uomo riguardo all'uomo è il volto. (13. Sett. 1821.).

[1690,1]  Alla p. 1656. principio. La malinconia per es. fa veder le cose e le verità (così dette) in aspetto diversissimo e contrarissimo a quello in cui le fa veder l'allegria. {+V'è anche uno stato di mezzo che le fa pur vedere al suo modo, cioè la noia.} E l'allegro e il malinconico {ec.} (sieno pur due pensatori e filosofi, o uno stesso filosofo in due diversi tempi e stati) sono persuasissimi di  1691 vedere il vero, ed hanno le loro convincenti ragioni per crederlo. Vero è pur troppo che astrattamente parlando, l'amica della verità, la luce per discoprirla, la meno soggetta ad errare è la malinconia {e soprattutto la noia}; ed il vero filosofo nello stato di allegria non può far altro che persuadersi, non che il vero sia bello o buono, ma che il male cioè il vero si debba dimenticare, e consolarsene, {+o che sia conveniente di dar qualche sostanza alle cose, che veramente non l'hanno.} (13. Sett. 1821.). {{V. p. 1694. fine.}}

[1714,1]  Quando l'uomo è in un certo abito di pensare e riflettere, il che avviene perch'egli ha pensato e riflettuto, per qualunque ragione, ogni menomo accidente e sensazione della giornata, anche disparatissime, lo muovono a riflettere. Cessato quest'abito, dirò così, attuale, anche senza notabile cagione, come spesso accade, (e basta il sonno della notte a distorne l'uomo pel dì seguente) e massime, se per qualunque motivo, s'è contratto un leggero ed effimero abito di distrazione, le più gravi circostanze della vita, e le più straordinarie sensazioni, non bastano bene spesso a promuovere la riflessione. Molto  1715 più notabile è questo effetto e differenza, ne' differenti, ma più radicati abiti di distrazione o di riflessione, che una stessa persona contrae vicendevolmente e perde; e anche più nelle diverse persone, benchè d'ingegno ugualissimamente capace. (16. Sett. 1821.).

[1715,1]  Le illusioni non possono esser condannate, spregiate, perseguitate se non dagl'illusi, e da coloro che credono che questo mondo sia {o possa essere} veramente qualcosa, e qualcosa di bello. Illusione capitalissima: e quindi il mezzo filosofo combatte le illusioni perchè appunto è illuso, il vero filosofo le ama {e predica,} perchè non è illuso: e il combattere le illusioni in genere è il più certo segno d'imperfettissimo e insufficientissimo sapere, e di notabile illusione. (16. Sett. 1821.).

[1719,1]   1719 Quanto il corpo influisca sull'anima. Un abito di attività o di energia che abbia contratto il corpo per qualunque cagione, dà dell'attività, dell'energia, della prontezza ec. anche allo spirito, sia pure il meno esercitato in se stesso. E siccome il detto abito può essere effimero e passeggero, così anche il detto effetto è molte volte giornaliero, ed anche di sole ore. Questa osservazione si può molto stendere tanto in se stessa, quanto applicandola ad altri generi di assuefazioni ed abiti corporali costanti o passeggeri, che parimente producono una simile assuefazione o abito o facoltà nello spirito, ancorchè esso non entri punto e non prenda veruna parte in quella del corpo: come se io, senza alcuna riflessione o azione del pensiero, mi trovo oggi in circostanza di agire assai e far molto esercizio corporalmente e materialmente. Molti esempi di ciò si potrebbero addurre, tanto individuali, quanto anche nazionali, ed applicabili a spiegare molti diversi caratteri di diversi popoli. (17. Sett. 1821.).

[1723,1]  Chi ha disperato di se stesso, o per qualunque ragione, si ama meno vivamente, è meno invidioso, odia meno i suoi simili, ed è quindi più suscettibile di amicizia {{per questa}} parte, o almeno in minor contraddizione con lei. Chi più si ama meno può amare. Applicate questa osservazione alle nazioni, ai diversi gradi di amor patrio sempre proporzionali a' diversi gradi di odio nazionale; alla necessità di render l'uomo egoista di una patria perch'egli possa amare i suoi simili a cagion di se stesso, appresso a poco come dicono i teologi che l'uomo deve amar se stesso e i suoi prossimi in Dio, e  1724 per l'amore di Dio. (17. Sett. 1821.).

[1724,1]  L'odio dell'uomo verso l'uomo si manifesta principalmente, ed è confermato da ciò che accade nelle persone di una medesima professione {ec.} fra le quali, sebben la perfetta amicizia astrattamente considerata è impossibile e contraddittoria alla natura umana, nondimeno anche la possibile amicizia è difficilissima, rarissima, incostantissima ec. Schiller uomo di gran sentimento era nemico di Goëthe (giacchè non solo fra tali persone non v'è amicizia, o v'è minore amicizia, ma v'è più odio che fra le persone poste in altre circostanze) ec. ec. ec. Le donne godono del mal delle donne, anche loro amicissime. I giovani del male de' giovani ec. ec. V. Corinne t. p. liv. ch. Non solo in una stessa professione, ma anche in una stessa età ec. ec. l'amicizia è minore e l'odio è maggiore. Eccetto l'esaltamento delle illusioni che favorisce assai l'amicizia de' giovani, è certo, massime oggi che le grandi e belle illusioni non si trovano, che l'amicizia è più facile tra un vecchio o maturo, e un giovane, che tra giovane e giovane; tra  1725 due vecchi che tra due giovani; perchè oggi, sparite le illusioni, e non trovandosi più la virtù ne' giovani, i vecchi sono più a portata di amarsi meno, di essere stanchi dell'egoismo perchè disingannati del mondo, e quindi di amare gli altri.

[1727,2]  L'uomo il più certo della malizia degli uomini, si riconcilia col genere umano, e ne pensa alquanto meglio, se anche momentaneamente ne riceve qualche buon trattamento, sia pur di pochissimo rilievo. L'individuo da te più conosciuto per malvagio, se ti usa distinzioni e cortesie che lusinghino il tuo amor proprio, divien subito qualche cosa di meno male nella tua fantasia. Molto più la donna coll'uomo, o l'uomo (anche il più brutto, anche quello di cui s'ha peggiore idea, anzi pure avversione particolare) colla donna: e però è massima, specialmente degli uomini, che  1728 per qualunque ripulsa, idea, opinione, ostacolo, costume, non si dee mai disperare di venire a capo di una donna. Si potrebbe parimente dire in genere, che l'uomo non dee mai disperare di venire a capo di qualunque persona. Ecco quanta è la gran forza della ragione nell'uomo! (18. Sett. 1821.).

[1741,2]  Le circostanze mi avevan dato allo studio delle lingue, e della filologia antica. Ciò formava tutto il mio gusto: io disprezzava quindi la poesia. Certo non mancava d'immaginazione, ma non credetti d'esser poeta, se non dopo letti parecchi poeti greci. {+(Il mio passaggio però dall'erudizione al bello non fu subitaneo, ma gradato, cioè cominciando a notar negli antichi e negli studi miei qualche cosa più di prima ec. Così il passaggio dalla poesia alla prosa, dalle lettere alla filosofia. Sempre assuefazione.)} Io non mancava nè d'entusiasmo, nè di fecondità, nè di forza d'animo, nè di passione; ma non credetti d'essere eloquente, se non dopo letto Cicerone.  1742 Dedito tutto e con sommo gusto alla bella letteratura, io disprezzava ed odiava la filosofia. I pensieri di cui il nostro tempo è così vago, mi annoiavano. Secondo i soliti pregiudizi, io credeva di esser nato per le lettere, l'immaginazione, il sentimento, e che mi fosse al tutto impossibile l'applicarmi alla facoltà tutta contraria a queste, cioè alla ragione, alla filosofia, alla matematica delle astrazioni, e il riuscirvi. Io non mancava della capacità di riflettere, di attendere, di paragonare, di ragionare, di combinare, della profondità ec. ma non credetti di esser filosofo se non dopo lette alcune opere di Mad. di Staël.

[1750,1]  Dicevami taluno com'egli avea molto conosciuto e trattato sin dalla prima fanciullezza una persona già matura, delle più brutte che si possano vedere, ma di maniere, di tratto, d'indole, sì verso lui, che verso tutti gli altri, amabilissime, politissime, franche, disinvolte, d'ottimo garbo. E che sentendo una volta (mentr'egli era ancora fanciullo, ma grandicello) notare da un forestiero  1751 l'estrema bruttezza di quella persona, s'era grandemente maravigliato, non vedendo com'ella potesse esser brutta, ed avendo sempre stimato tutto l'opposto. Questa medesima persona era già vecchia quando io nacqui, la conobbi da fanciullo, mi parve bella quanto può essere un vecchio (giacchè il fanciullo distingue pur facilmente la beltà giovenile dalla senile), e non seppi ch'ella fosse bruttissima, se non dopo cresciuto, cioè dopo ch'ella fu morta. E l'idea ch'io ne conservo, è ancora di persona piuttosto bella benchè vecchia. (C. Galamini.) Così m'è accaduto intorno ad altre persone parimente bruttissime. (V. Ferri.{)} Della bruttezza di altre non mi sono accorto, se non crescendo in età ed osservandole coll'occhio più esercitato ad attendere, e quindi a distinguere, e più assuefatto alle proporzioni ordinarie ec. (G. Masi.) {V. il principio del pensiero antecedente.} Tale è l'idea del bello e del brutto ne' fanciulli. Spiegate questi effetti, e deducetene le conseguenze opportune. Probabilmente mi saranno anche parse bruttissime  1752 delle persone che poi crescendo avrò saputo o conosciuto essere o essere state belle (20. Sett. 1821.) {e anche bellissime.}

[1787,3]  Chi vuole o dee fare un mestiere al mondo, se vuol trarne alcun frutto, non può scegliere se non quello dell'impostore, in qualunque genere. La letteratura è stato sempre il più sterile di tutti i mestieri. Il  1788 vero letterato (se non mescola alla verità l'impostura) non guadagna mai nulla. Eppur l'impostore arriva a render fecondo anche questo campo infruttifero, e uno de' maggior miracoli dell'impostura si è di render fruttuosa la letteratura. L'impostura è una condizione necessaria per tutti i mestieri o veri o falsi. Se le lettere e la dottrina frutta mai nulla, ciò {è} all'impostore, e in virtù non della verità (quando anche vi sia mescolata), ma dell'impostura. (25. Sett. 1821.).

[1788,1]  Gl'illetterati che leggono qualche celebrato autore, non ne provano diletto, non solo perchè mancano delle qualità necessarie a gustar quel piacere ch'essi possono dare, ma anche perchè si aspettano un piacere impossibile, una bellezza, un'altezza di perfezione di cui le cose umane sono incapaci. Non trovando questo, disprezzano l'autore, si ridono della {sua} fama, e lo considerano come un uomo ordinario, persuadendosi di aver fatto essi questa scoperta per la prima volta. Così accadeva a me nella prima giovanezza  1789 leggendo Virgilio, Omero ec. (25. Sett. 1821.)

[1800,2]  Il vigore o costante o effimero, produce nell'uomo un gran sentimento di se  1801 stesso, lo rende nella sua immaginazione superiore alle cose, agli altri uomini, alla stessa natura; lo fa sfidare il potere delle disgrazie, le persecuzioni, i pericoli, le ingiustizie ec. ec.; lo fa pieno di coraggio ec. ec. in somma l'uomo vigoroso si sente, si giudica padrone del mondo, e di se medesimo, e veramente uomo. (28. Sett. 1821.)

[1802,1]  Anche gli organi esteriori, perduta l'assuefazione generale, divengono generalmente inabili, quando anche una volta fossero stati abilissimi. Io aveva da fanciullo una sufficiente abilità generale di mano, a causa dell'esercizio, lasciato il quale dopo alcuni anni, non so più far nulla con quest'organo, se non le cose ordinarie; ed ho quindi affatto perduta la sua abilità, {+tanto per quello ch'io già sapeva fare, quanto per qualunque nuova operazione che allora mi sarebbe riuscito facile di apprendere.} Ecco un'immagine della natura del talento. (28. Sett. 1821.).

[1815,1]  La noia è la più sterile delle passioni umane. Com'ella è figlia della nullità, così è madre del nulla: giacchè non solo è sterile per se, ma rende tale tutto ciò a cui si mesce o avvicina ec. (30. Sett. 1821.).

[1860,1]  Ho detto pp. 1548-51 che l'immaginazione può risorgere o durare anche ne' vecchi e disingannati. Aggiungo che l'immaginazione e il piacere che ne deriva, consistendo in gran parte nelle rimembranze, lo stesso aver perduto l'abito della continua immaginativa, contribuisce ad accrescere il piacere delle rimembranze, giacch'elle, se fossero presenti ed abituali, 1. non sarebbero, o sarebbero meno rimembranze, 2. non sarebbero così dilettevoli, perchè il presente non illude mai, bensì il lontano, e quanto è più lontano. Onde non è dubbio che le immagini della vita degli antichi, non riescano più dilettevoli a noi per cui sono rimembranze lontanissime, che agli stessi antichi per cui erano o presenze, o ricordanze poco lontane. Del resto la rimembranza quanto più è lontana, e meno abituale, tanto più innalza, stringe, addolora dolcemente, diletta  1861 l'anima, e fa più viva, energica, profonda, sensibile, e fruttuosa impressione, perch'essendo più lontana, è più sottoposta all'illusione; e non essendo abituale nè essa individualmente, nè nel suo genere, va esente dall'influenza dell'assuefazione che indebolisce ogni sensazione. Ciò che dico dell'immaginativa, si può applicare alla sensibilità. Certo è però che tali lontane rimembranze, quanto dolci, tanto separate dalla nostra vita presente, e di genere contrario a quello delle nostre sensazioni abituali, ispirando della poesia ec. non ponno ispirare che poesia malinconica, come è naturale, trattandosi di ciò che si è perduto; all'opposto degli antichi a cui tali immagini, poteano ben far minore effetto a causa dell'abitudine, ma erano sempre proprie, presenti, si rinnovavano tuttogiorno, nè mai si consideravano come cose perdute, o riconosciute per vane; quindi la loro poesia dovea esser lieta, come quella che verteva sopra dei beni e delle dolcezze da  1862 loro ancor possedute, e senza timore. (7. Ott. 1821.).

[1863,1]  Si può dir che l'effetto della filosofia non è il distruggere le illusioni (la natura è invincibile) ma il trasmutarle di generali in individuali. Vale a dire che ciascuno si fa delle illusioni per se; cioè crede  1864 che quelle tali speranze ec. siano vane generalmente, ma spera sempre per se, o in quel tal caso di cui si tratta, un'eccezione favorevole. Le illusioni così non sono meno generali, comuni, ed uguali in tutti, benchè ciascuno le restringa a se solo. Al sistema di creder belle e buone le cose umane, sottentra quello di credere {o sperar} tali le proprie, {+e quelle che in qualunque modo vi appartengono (come di creder buone le persone che vi circondano ec. ec.).} L'effetto presso a poco è lo stesso. Tanto è sperare o credere una cosa ordinaria, quanto sperare o creder sempre la stessa cosa come straordinaria, e come eccezion della regola. Tale è il caso inevitabile di tutti i giovani i meglio istruiti.

[1913,1]  Oggi chi conoscendo ed avendo sperimentato il mondo, non è divenuto egoista, se ha niente niente di senso e d'ingegno, non può esser divenuto che misantropo. (14. Ott. 1821.).

[1914,1]  Le persone che nella fanciullezza ci hanno trattati bene, sono state solite a prestarci dei servigi, ci hanno fatto buona cera, ci hanno divertiti, ci hanno cagionato dei piaceri colla loro presenza, ci hanno regalati ec. non ci sono parse mai brutte mentre eravamo in quell'età, per bruttissime che fossero; anzi tutto l'opposto. E coll'andar del tempo se abbiamo rettificata quest'idea, non l'abbiamo quasi mai fatto interamente, massime in ordine al tempo della nostra fanciullezza. Effetto ordinarissimo, che ciascheduno può notare in se, e raccontare, e sentirselo raccontare, come ho sentito io le mille volte, con un certo stupore di chi lo raccontava. (14. Ott. 1821.).

[1927,2]  Quello che altrove ho detto pp. 1744-47 sugli effetti della luce, o degli oggetti visibili, in riguardo all'idea dell'infinito, si deve applicare parimente al suono, al canto, a tutto ciò che  1928 spetta all'udito. È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un'idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il più spregevole) udito da lungi, {o che paia lontano senza esserlo,} o che si vada appoco appoco allontanando, e divenendo insensibile; {+o anche viceversa (ma meno), o che sia così lontano, in apparenza o in verità, che l'orecchio e l'idea quasi lo perda nella vastità degli spazi;} un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza ec. dove voi non vi troviate però dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s'ode suonare per le valli, senza però vederli, e così il muggito degli armenti ec. {Stando in casa, e udendo tali canti o suoni per la strada, massime di notte, si è più disposti a questi effetti, perchè nè l'udito nè gli altri sensi non arrivano a determinare nè circoscrivere la sensazione, e le sue concomitanze.} È piacevole qualunque suono (anche vilissimo) che largamente e vastamente si diffonda, come {in} taluno dei detti casi, massime se non si vede l'oggetto da cui parte. A queste considerazioni appartiene il piacere che può dare e dà (quando non sia vinto dalla paura) il fragore del tuono, massime quand'è più sordo, quando è udito  1929 in aperta campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi, quando freme confusamente in una foresta, o tra i vari oggetti di una campagna, o quando è udito da lungi, o dentro una città trovandosi per le strade ec. Perocchè oltre la vastità, e l'incertezza e confusione del suono, non si vede l'oggetto che lo produce, giacchè il tuono e il vento non si vedono. E[È] piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec. che ripeta il calpestio de' piedi, o la voce ec. Perocchè l'eco non si vede ec. E tanto più quanto il luogo e l'eco e[è] più vasto, quanto più l'eco vien da lontano, quanto più si diffonde; e molto più ancora se vi si aggiunge l'oscurità del luogo che non lasci determinare la vastità del suono, nè i punti da cui esso parte ec. ec. E tutte queste immagini in poesia ec. sono sempre bellissime, e tanto più quanto più negligentemente son messe, e toccando il soggetto, senza mostrar  1930 l'intenzione per cui ciò si fa, anzi mostrando d'ignorare l'effetto e le immagini che son per produrre, e di non toccarli se non per ispontanea, e necessaria congiuntura, e indole dell'argomento ec. V. in questo proposito Virg. Eneide 7. v. 8. seqq. La notte, o l'immagine della notte è la più propria ad aiutare, o anche a cagionare i detti effetti del suono. Virgilio da maestro l'ha adoperata. (16. Ott. 1821.).

[1939,1]  Come il giovane non si persuade mai del vero prima dell'esperienza, così i genitori e quelli che hanno cura della gioventù {(malgrado la prova che n'hanno in se stessi)} non si persuadono mai che l'insegnamento non possa ne' giovani supplire all'esperienza. Non si persuadono dico se non dopo aver fatto essi pure esperienza di ciò; e pur troppo (siccome le persone d'ingegno e di talento facilmente assuefabile e persuadibile, son rare) non basta loro una o due o più esperienze, ma hanno sempre bisogno di un'esperienza individuale intorno a quel tal giovane che loro è commesso. Del resto come il giovane fa sempre eccezione di se stesso e de' casi suoi, dalle regole e dall'ordine generale ch'egli spesso conosce assai bene; così gli educatori fanno eccezione di  1940 ciascun giovane dall'ordine generale, e dalla natura de' suoi coetanei. (18. Ott. 1821.).

[1961,3]  {Alla p. 1856.} Quell'anima che non è aperta se non al vero puro, è capace di poche verità, poco può scoprir di vero, poche verità può conoscere e sentire nel loro vero aspetto,  1962 pochi veri e grandi rapporti delle medesime, poco bene può applicare i risultati delle sue osservazioni e ragionamenti. Lo dimostra anche l'esperienza usuale, nelle stesse nostre parti meridionali e immaginose, e gl'immensi spropositi o di opinione o di condotta ec. che tutto giorno si leggono o ascoltano o vedono, ne' freddi ragionatori, inaccessibili ad ogni illusione. Cercando il puro vero, non si trova. La ricerca delle verità, massime delle più grandi, e sopra tutto di quelle che spettano alla scienza dell'uomo ha bisogno della mescolanza, ed equilibrato temperamento di qualità contrarissime, immaginazione, sentimento, e ragione, calore e freddezza, vita e morte, carattere vivo e morto, gagliardo e languido ec. ec. (21. Ott. 1821.).

[1970,2]  Gli spiriti mediocri sono sempre facilmente persuadibili {+a credere o a fare,} e in qualunque modo riducibili all'uomo di talento, o al furbo, o a chi per qualsivoglia circostanza ha, o sa prendere su di loro un certo ascendente. L'ostinazione è propria degli spiriti piccoli e dei grandi, o degli spiriti più o meno inferiori o superiori alla mediocrità, ma di quelli più che di questi. {+Lo stesso dico in ordine alla suscettibilità di esser consolati. Se non che gli spiriti grandi ne sono meno suscettibili dei piccoli, perchè il vero, ch'essi ben intendono, non è mai consolante, e perchè il consolatore non li può facilmente ingannare, ch'è l'unico modo di consolare.} (22. Ott. 1821.).

[1974,1]  Se mancassero altre prove che il vero è tutto infelice, non basterebbe il vedere che gli uomini sensibili, di carattere e d'immaginazione profonda, incapaci di pigliar le cose per la superficie, ed avvezzi a ruminare sopra ogni accidente della vita loro, sono irresistibilmente e sempre strascinati verso la infelicità? Onde ad un giovane sensibile, per quanto le sue circostanze paiano prospere, si può senz'altro dubbio predire che sarà  1975 presto o tardi infelice, o indovinare ch'egli è tale. (23. Ott. 1821.).

[1975,1]  Un uomo di forte e viva immaginazione, avvezzo a pensare ed approfondare, in un punto di straordinario e passeggero vigore corporale, di entusiasmo, {+di disperazione, di vivissimo dolore o passione qualunque, di pianto, insomma di quasi ubbriachezza, e furore,} ec. scopre delle verità che molti secoli non bastano alla pura e fredda e geometrica ragione per iscoprire; e che annunziate da lui non sono ascoltate, ma considerate come sogni, perchè lo spirito umano manca tuttavia delle condizioni necessarie per sentirle, e comprenderle come verità, e perch'esso non può universalmente fare in un punto tutta la strada che ha fatto quel pensatore, ma segue necessariamente la sua marcia, e il suo progresso gradato, senza sconcertarsi. Ma l'uomo in quello stato vede tali rapporti, passa da una proposizione all'altra così rapidamente, ne comprende così vivamente e facilmente il legame, accumula in un momento  1976 tanti sillogismi, e così ben legati e ordinati, e così chiaramente concepiti, che fa d'un salto la strada di più secoli. E forse esso stesso dopo quel punto, non crede più alle verità che allora avea concepite e trovate, cioè o non si ricorda, o non vede più con egual chiarezza, i rapporti, le proposizioni, i sillogismi, e le loro concatenazioni che l'avevano portato a quelle conseguenze. Il mondo alla fine è sempre in istato di freddo, e le verità scoperte nel calore, per grandi che siano non mettono radici nella mente umana, finchè non sono sanzionate dal placido progresso della fredda ragione, arrivata che sia dopo lungo tempo a quel segno. Grandi verità scoprivano certamente gli antichi colla lor grande immaginazione, grandi salti facevano nel cammino della ragione, ridendosi della lentezza, e degl'infiniti mezzi che abbisognano al puro raziocinio ed esperienza per avanzarsi altrettanto, grandi spazi occupati poi da' loro posteri, preoccupavano essi e  1977 conquistavano in un baleno, ma questi progressi restavano necessariamente individuali, perchè molto tempo abbisognava a renderli generali; queste conquiste non si conservavano, anzi erano piuttosto viaggi che conquiste, perchè l'individuo penetrava solamente in quei nuovi paesi, e li riconosceva, senza esser seguito dalla moltitudine che vi stabilisse il suo dominio; i progressi de' grandi individui non giovavano gli uni agli altri, perchè mancanti di una disposizione generale e comune nel mondo, che li rendesse intelligibili gli uni agli altri, mancanti anche di una lingua atta a stabilire, dar corpo, determinare e render a tutti egualmente chiaro quello che ciascun individuo scopriva. Così che gli antichi grandi spiriti penetravano nelle terre della verità, ciascuno isolatamente, e senza aiutarsi l'un l'altro, e quando anche si scontrassero nel cammino, o giungessero ad un medesimo  1978 punto, e quivi casualmente si riunissero, non si riconoscevano; e tornati dalla loro corsa, e narrandola altrui, non s'accorgevano di dir le stesse cose, nè il pubblico se n'avvedeva, perchè non le dicevano allo stesso modo, mancando di un linguaggio filosofico, uniforme; oltre che le stesse ragioni che impedivano all'universale di riconoscere quelle proposizioni per pienamente vere, gl'impediva altresì di scoprire l'uniformità che esisteva tra le proposizioni e i sentimenti di questo e di quel grand'uomo. E così le grandi scoperte de' grandi antichi, appassivano, e non producevano frutto, e non erano applicate, mancando i mezzi e di coltivarle, e di aiutare e legare una verità coll'altra mediante il commercio de' pensieri, e della società pensante. (23. Ott. 1821.).

[1987,1]  Per la copia e la vivezza ec. delle rimembranze sono piacevolissime e e poeticissime tutte le imagini che tengono del fanciullesco, e tutto ciò che ce le desta (parole, frasi, poesie, pitture, imitazioni o realtà ec.). Nel che tengono il primo luogo gli antichi poeti, e fra questi Omero. Siccome le impressioni, così le ricordanze della fanciullezza in qualunque età, sono più vive che quelle di qualunque altra età. E son piacevoli per la loro vivezza, anche le ricordanze d'immagini e di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose, o spaventose ec. E per la stessa ragione ci è piacevole nella vita anche la ricordanza dolorosa, e quando bene la cagion del dolore non sia passata, e quando pure la ricordanza lo cagioni o l'accresca, come nella morte de' nostri  1988 cari, il ricordarsi del passato ec. (25. Ott. 1821.).

[1988,3]  L'uomo che a tutto si abitua, non si abitua mai alla inazione. Il tempo che tutto alleggerisce, indebolisce, distrugge, non distrugge mai nè indebolisce il disgusto e la fatica che l'uomo prova nel non far nulla. L'assuefazione  1989 intanto può influire sull'inazione, in quanto può trasportare l'azione dall'esterno all'interno, e l'uomo forzato a non muoversi, o in qualunque modo a non operare al di fuori, acquista appoco appoco l'abito di operare al di dentro, di farsi compagnia da se stesso, di pensare, d'immaginare, di trattenersi insomma vivamente col proprio solo pensiero (come fanno i fanciulli, come si avvezzano a fare i carcerati ec.). Ma la pura noia, il puro nulla, nè il tempo nè alcuna forza possibile (se non quella che intorpidisce o estingue o sospende le facoltà umane, come il sonno, l'oppio, il letargo, una totale prostrazione di forze ec.) non basta a renderlo meno intollerabile. Ogni momento di pura inazione è tanto grave all'uomo dopo dieci anni {di assuefazione,} quanto la prima volta. La nullità, il non fare, il non vivere, la morte, è l'unica cosa di cui l'uomo sia incapace, e  1990 alla quale non possa avvezzarsi. Tanto è vero che l'uomo, il vivente, e tutto ciò che esiste, è nato per fare, e per fare tanto vivamente, quanto egli è capace, vale a dire che l'uomo è nato per l'azione esterna ch'è assai più viva dell'interna. {+Tanto più che l'interna nuoce al fisico quanto ell'è maggiore e più assidua, e l'esterna viceversa. Quanto all'azione interna dell'immaginazione, essa sprona e domanda impazientemente l'esterna, e riduce l'uomo a stato violento, se questa gli è impedita.} E quella infatti agognano i giovani, i primitivi, gli antichi, e non si può loro impedire senza metter la loro natura in istato violento. Ciò non per altro se non perchè l'uomo {e il vivente} tende sempre naturalmente alla vita, e a quel più di vita che gli conviene. (26. Ott. 1821.).

[1998,1]  L'uomo riflessivo ha spessissimo bisogno di esser determinato da un uomo irriflessivo o per natura o per abito, o da circostanze imperiose, ec. Egli ha più bisogno di consiglio che qualunque altro, non perchè non veda abbastanza da se, ma perchè troppo vede,  1999 dal che segue un'irresoluzione abituale e penosissima. (27. Ott. 1821.).

[1999,1]  La velocità p. es. de' cavalli o veduta, o sperimentata, cioè quando essi vi trasportano (v. in tal proposito l'Alfieri nella sua Vita, sui principii) è piacevolissima per se sola, cioè per la vivacità, l'energia, la forza, la vita di tal sensazione. Essa desta realmente una quasi idea dell'infinito, sublima l'anima, la fortifica, la mette in una indeterminata azione, o stato di attività più o meno passeggero. E tutto ciò tanto più quanto la velocità è maggiore. In questi effetti avrà parte anche lo straordinario. (27. Ott. 1821.)

[2032,1]   2032 L'uomo inesperto delle cose, è sempre di spirito e d'indole più o meno poetica. Ella diventa prosaica coll'esperienza. Ma bene spesso colui che da giovane fu per assuefazione o per natura più notabilmente poetico, tanto più presto (anche nella stessa gioventù) e più gagliardamente diviene prosaico coll'esperienza. Un eccesso tira l'altro, perchè gli eccessi; contro quello che a prima vista apparisce sono più affini, amici e vicini fra loro, che con quello che è fra loro di mezzo. Colui che per avere uno spirito gagliardamente poetico, sente fortemente, fortemente {e presto} deve sentire la nullità e la malvagità degli uomini e delle cose. Egli diviene fortemente disingannato, perchè fu capace di essere fortemente ingannato, e lo fu infatti. Prima della cognizione egli prova gagliarde illusioni, dopo la cognizione, gagliardi, e pronti, e costanti ed interi disinganni. La stessa forza della sua natura  2033 o delle sue facoltà acquisite, che dava risalto ed energia alle sue illusioni, ne rende altrettanta a' suoi disinganni. E perciò la vecchiezza del poeta, è forse (almeno spessissimo) assai più prosaica in tutti i sensi, che quella dell'uomo d'indole primitivamente fredda, e tanto più quanto la sua giovanezza, prima della sufficiente esperienza, fu più vivamente e veramente poetica in qualunque senso. Giacchè per poetica intendo anche inclinata alla virtù, all'eroismo, magnanimità ec. ancorchè non applicata punto alla poesia, ma solamente ai fatti, ai desiderii, alle passioni ec. (2. Nov. 1821.). {{V. p. 2039.}}

[2043,1]  L'inclinazione dell'uomo al suo simile, è tanto maggiore quanto l'uomo (e così ogni vivente) è vicino allo stato naturale, e tanto più vivi e più numerosi sono gli svariatissimi effetti (da me in diversi luoghi osservati p. 1688 pp. 1823-24 pp. 1847-48) di questa essenzialissima inclinazione, figlia immediata dell'amor proprio, anch'esso tanto più vivo ed energico, almeno ne' suoi effetti, e nell'aspetto che piglia, quanto il  2044 vivente è più naturale. Tutti p. e. amano l'imitazione dell'uomo e delle cose umane nelle arti, nella poesia, ec. più che quella di qualunque altro oggetto. Ma questa preferenza è più notabile nel fanciullo, il quale tra' suoi pupazzi si compiace soprattutto di quelli che rappresentano uomini, e nelle favole o novelle che legge, di quelle che trattano d'uomini. - ec. ec. ec. Quando anche abbia p. es. delle figure d'animali assai più ben fatte, che quelle d'uomini ec. ec.

[2102,1]   2102 Espressione degli occhi. Perchè si ha cura {{fino ab antico}} di chiuder gli occhi ai morti? Perchè con gli occhi aperti farebbero un certo orrore. E questo orrore da che verrebbe? Non da altro che da un contrasto fra l'apparenza della vita, e l'apparenza e la sostanza della morte. Dunque la significazione degli occhi è tanta, ch'essi sono i rappresentanti della vita, e basterebbero a dare una sembianza di vita agli estinti. Egli è certo che la sede dell'anima quanto all'esteriore, son gli occhi, e quell'animale o quell'uomo estinto, a cui non si vedono gli occhi, facilmente si crede che non viva; ma finattanto che gli occhi se gli vedono, si ha pena a credere che l'anima non alberghi in essi, (quasi fossero inseparabili da lei), e il contrasto fra quest'apparenza, questa specie di opinione, e la certezza del contrario, cagiona un raccapriccio, massime trattandosi de' nostri simili, perchè ogni sensazione è viva, ogni contrasto è notabile in tali soggetti (cioè morte del nostro simile); eccetto  2103 {il caso di} abitudine formata a tali sensazioni, ec. (15. Nov. 1821.).

[2107,1]  Ho detto pp. 1648-49 pp. 2039-41 che l'uomo di gran sentimento è soggetto a divenire insensibile più presto e più fortemente degli altri, e soprattutto di quegli di mediocre sensibilità. Questa verità si deve estendere ed applicare a tutte quelle parti, generi ec. ne' quali il sentimento  2108 si divide e si esercita, come la compassione ec. ec. Sebbene è verissimo che l'uomo di sentimento è destinato all'infelicità nondimeno assai spesso accade ch'egli nella sua giovanezza, divenga insensibile al dolore e alla sventura, e che tanto meno egli sia suscettibile di dolor vivo dopo passata una certa epoca, e un certo giro di esperienza, quanto più violento e terribile fu il suo dolore e la sua disperazione ne' primi anni, e ne' primi saggi ch'egli fece della vita. Egli arriva sovente assai presto ad un punto, dove qualunque massima infelicità non è più capace di agitarlo fortemente, e dall'eccessiva suscettibilità di essere eccessivamente turbato, passa rapidamente alla qualità contraria, cioè ad un abito di quiete e di rassegnazione sì costante, e di disperazione così poco sensibile, che qualunque nuovo male gli riesce indifferente (e questa si può  2109 dire l'ultima epoca del sentimento, e quella in cui la più gran disposizione naturale all'immaginazione alla sensibilità, divengono quasi al tutto inutili, e il più gran poeta, o il più dotato di eloquenza che si possa immaginare, perde quasi affatto e irrecuperabilmente queste qualità, e si rende incapace a poterle più sperimentare o mettere in opera per qualunque circostanza. Il sentimento è sempre vivo fino a questo tempo, anche in mezzo alla maggior disperazione, e al più forte senso della nullità delle cose. Ma dopo quest'epoca, le cose divengono tanto nulle all'uomo sensibile, ch'egli non ne sente più nemmeno la nullità: ed allora il sentimento e l'immaginazione son veramente morte, e senza risorsa.) Nessuna cosa violenta è durevole. Laddove gli uomini di mediocre sensibilità, restano più o meno suscettibili d'  2110 infelicità viva per tutta la vita, e sempre capaci di nuovo affanno, da vecchi poco meno che da giovani, come si vede negli uomini ordinarii tuttogiorno. (17. Nov. 1821.).

[2132,1]  La facoltà inventiva è una delle ordinarie, e principali, e caratteristiche qualità e parti dell'immaginazione. Or questa facoltà appunto è quella che fa i grandi filosofi, e i grandi scopritori delle grandi verità. E si può dire che da una stessa sorgente,  2133 da una stessa qualità dell'animo, diversamente applicata, e diversamente modificata e determinata da diverse circostanze e abitudini, vennero i poemi di Omero e di Dante, e i Principii matematici della filosofia naturale di Newton. Semplicissimo è il sistema e l'ordine della macchina umana in natura, pochissime le molle, e gli ordigni di essa, e i principii che la compongono, ma noi discorrendo dagli effetti che sono infiniti e infinitamente variabili secondo le circostanze, le assuefazioni, e gli accidenti, moltiplichiamo gli elementi, le parti, le forze del nostro sistema, e dividiamo, e distinguiamo, e suddividiamo delle facoltà, dei principii, che sono realmente unici e indivisibili, benchè producano e possano sempre produrre non solo nuovi, non solo diversi, ma dirittamente contrarii effetti. L'immaginazione per tanto è la sorgente della ragione, come del sentimento, delle  2134 passioni, della poesia; ed essa facoltà che noi supponiamo essere un principio, una qualità distinta e determinata dell'animo umano, o non esiste, o non è che una cosa stessa, una stessa disposizione con cento altre che noi ne distinguiamo assolutamente, e con quella stessa che si chiama riflessione o facoltà di riflettere, con quella che si chiama intelletto ec. Immaginazione e intelletto è tutt'uno. L'intelletto acquista ciò che si chiama immaginazione, mediante gli abiti e le circostanze, e le disposizioni naturali analoghe; acquista nello stesso modo, ciò che si chiama riflessione ec. ec. (20. Nov. 1821.)

[2134,1]  La perfezion della traduzione consiste in questo, che l'autore tradotto, non sia p. e. greco in italiano, greco o francese in tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese. Questo è il difficile, questo è ciò che non in  2135 tutte le lingue è possibile. In francese è impossibile, tanto il tradurre in modo che p. e. un autore italiano resti italiano in francese, quanto in modo che egli sia tale in francese qual è in italiano. In tedesco è facile il tradurre in modo che l'autore sia greco, latino italiano francese in tedesco, ma non in modo ch'egli sia tale in tedesco qual è nella sua lingua. Egli non può esser mai tale nella lingua della traduzione, s'egli resta greco, francese ec. Ed allora la traduzione per esatta che sia, non è traduzione, perchè l'autore non è quello, cioè non pare p. e. ai tedeschi quale nè più nè meno parve ai greci, o pare ai francesi, e non produce di gran lunga nei lettori tedeschi quel medesimo effetto che produce l'originale nei lettori francesi ec.

[2150,2]  A quello che ho detto altrove pp. 139-40 pp. 271-72 circa il modo da tenersi nel consolare, aggiungete che in ultima analisi l'unica consolazione dei mali, massimamente grandi, è il persuadersi o almeno il credere confusamente, ch'essi o non sieno reali, o meno gravi che non parevano,  2151 o che abbiano rimedio, o compenso ec. Le forti afflizioni non si consolano finalmente se non in questo modo: e il tempo consolatore, adopra anch'esso in gran parte questo metodo. (23. Nov. 1821.).

[2159,1]  Lo stato di disperazione rassegnata, ch'è l'ultimo passo dell'uomo sensibile, e il finale sepolcro della sua sensibilità, de' suoi piaceri, e delle sue pene, è tanto mortale alla sensibilità, ed alla poesia  2160 (in tutti i sensi, ed estensione di questo termine), che sebbene la sventura, e il sentimento attuale di lei, pare ed è (escluso il detto stato) la più micidial cosa possile[possibile] alla poesia (nè solo la sventura attuale, ma anche l'abituale, che deprime miseramente l'immaginazione, il sentimento, l'animo); contuttociò se può succedere che nel detto stato, una nuova e forte sventura, cagioni all'uomo qualche senso, quel punto, per una tal persona, è il più adattato ch'egli possa mai sperare, alla forza dei concetti, al poetico, all'eloquente dei pensieri, ai parti dell'immaginazione e del cuore, già fatti infecondi. Il {nuovo} dolore in tal caso è come il bottone di fuoco che restituisce qualche senso, qualche tratto di vita ai corpi istupiditi. Il cuore dà qualche segno di vita, torna per un momento a sentir se medesimo, giacchè la proprietà e l'impoetico della disperazione rassegnata consiste appunto, nel non esser più  2161 visitato nè risentito {neppur} dal dolore.

[2171,1]  Non solo alla lingua francese, (come osserva la Staël) ma anche a tutte le altre moderne, pare che la prosa sarebbe più confacente del verso alla poesia moderna. Ho mostrato altrove pp. 734-35 in che cosa debba questa essenzialmente consistere, e quanto ella sia più prosaica che poetica. Infatti laddove leggendo le prose antiche, talvolta desideriamo quasi il numero e la misura, per la poeticità delle idee che contengono (non ostante che e per numero e per ogni altra qualità, la prosa antica tenga tanto della versificazione); per lo contrario leggendo i versi moderni, anche gli ottimi, e molto più quando ci proviamo a mettere noi stessi in verso de' pensieri poetici, veramente propri e moderni, desideriamo la libertà, la scioltezza, l'abbandono, {+la scorrevolezza, la facilità, la chiarezza, la placidezza, la semplicità, il disadorno, l'assennato, il serio e sodo,} {la posatezza}, il piano della prosa,  2172 come meglio armonizzante con quelle idee che non hanno quasi niente di versificabile ec. (26. Nov. 1821.).

[2184,1]  Non solo l'uomo è opera delle circostanze, in quanto queste lo determinano a tale o tal professione ec. ec. ma anche in quanto al genere, al modo, al gusto di quella tal professione a cui l'assuefazion sola e le circostanze l'hanno determinato. P. e. io finchè non lessi se non autori francesi, l'assuefazione parendo natura, mi pareva che il mio stile naturale fosse quello solo, e che là mi conducesse l'inclinazione. Me ne disingannai, passando a diverse letture, ma anche in queste, e di mese in mese, variando il gusto degli autori ch'io leggeva, variava l'opinione ch'io mi formava circa la mia propria  2185 inclinazione naturale. E questo anche in menome e determinatissime cose, appartenenti o alla lingua, o allo stile, o al modo e genere di letteratura. Come, avendo letto fra i lirici il solo Petrarca, mi pareva che dovendo scriver cose liriche, la natura non mi potesse portare a scrivere in altro stile ec. che simile a quello del Petrarca. Tali infatti mi riuscirono i primi saggi che feci in quel genere di poesia. I secondi meno simili, perchè da qualche tempo non leggeva più il Petrarca. I terzi dissimili affatto, per essermi formato ad altri modelli, o aver contratta, a forza di moltiplicare i modelli, le riflessioni ec. quella specie di maniera o di facoltà, che si chiama originalità. (Originalità quella che si contrae? e che infatti non si possiede mai se non s'è acquistata? Anche Mad. di Staël dice che bisogna leggere più che si possa per divenire  2186 originale. Che cosa è dunque l'originalità? facoltà acquisita, come tutte le altre, benchè questo aggiunto di acquisita ripugna dirittamente al significato e valore del suo nome.) (28. Nov. 1821.).

[2208,2]  Ho detto pp. 1648-49 pp. 2039-41 pp. 2107-09 che l'uomo di gran sentimento più presto degli altri è soggetto a divenire indifferente sì nel resto, sì quanto alle sventure. Ciò vuol dire ch'egli forma l'abito delle sventure (così dite del resto)  2209 più facilmente e prontamente degli altri. E per due cagioni. 1. Perchè più soffre essendo più sensibile, onde le cause dell'assuefazione che sono l'esercizio, e la ripetizion delle sensazioni, essendo in lui maggiori che negli altri, più presto la cagionano. {+Oltre ch'egli più vivamente le sente ond'è soggetto a sventure maggiori e per numero e per grado di forza ec.} 2. Perch'egli è anche per se stesso e indipendentemente dalle circostanze, più assuefabile degli altri. {+(Massime a questi generi di cose.)} Ond'egli impara la sventura più presto degli altri, come gli uomini di talento (che per lo più sono anche di sentimento) imparano le discipline, o quella tale a cui sono inclinati ec. più presto degli altri, e più presto e facilmente intendono, concepiscono ec. perchè più attendono ec. Quindi è che gli uomini di poco o mediocre sentimento, e generalmente i mediocri spiriti, dopo un numero o una massa di sventure, maggiore assai di quella che ha bastato ad assuefare e  2210 rendere imperturbabile l'uomo di gran sentimento, non vi sono ancora assuefatti, sono sempre aperti all'afflizione al dolore, sempre sensibili al male, sempre egualmente teneri e molli (sebbene quegli ch'era assai più molle, sia già del tutto indurato), e restano bene spesso tali per tutta la vita, tanto capaci di soffrire nella decrepitezza, quanto appresso a poco nella prima giovanezza. Anzi di più, perchè meno distratti nelle loro sensazioni, e meno aiutati dalla forza naturale. Laddove all'uomo di sentimento lo stesso esser poco capace di distrazione, lo stesso attender vivamente alle sensazioni, facilita l'assuefazione, e l'acquisto della insensibilità, e incapacità di più attendervi. (1. Dic. 1821.).

[2217,1]  Didone, Aen. 4. 659. seg.
Moriemur inultę,
Sed moriamur, ait. Sic sic iuvat ire sub umbras. *

Virgilio volle qui esprimere (fino e profondo sentimento, e degno di un uomo conoscitore de' cuori, ed esperto delle passioni e delle sventure, come lui) quel piacere che l'animo prova nel considerare e rappresentarsi non solo vivamente, ma minutamente, intimamente, e pienamente la sua disgrazia, i suoi mali; nell'esagerarli, anche, a se stesso,  2218 se può (che se può, certo lo fa), nel riconoscere, o nel figurarsi, ma certo persuadersi e proccurare con ogni sforzo di persuadersi fermamente, ch'essi sono eccessivi, senza fine, senza limiti, senza rimedio nè impedimento nè compenso nè consolazione veruna possibile, senza alcuna circostanza che gli alleggerisca; nel vedere insomma e sentire vivacemente che la sua sventura è propriamente immensa e perfetta e quanta può essere per tutte le parti, e precluso e ben serrato ogni adito o alla speranza o alla consolazione qualunque, in maniera che l'uomo resti propriamente solo colla sua intera sventura. Questi sentimenti si provano negli accessi di disperazione, nel gustare il passeggero conforto del pianto, (dove l'uomo si piglia piacere a immaginarsi più infelice che può), talvolta anche nel primo punto e sentimento o novella ec. del suo male ec.

[2228,1]  È cosa facilmente osservabile che nel comporre ec. giova moltissimo, e facilita ec. il leggere abitualmente in quel tempo degli autori di stile, di materia ec. analoga a quella che abbiamo per le mani ec. Da che cosa crediamo noi che ciò derivi? forse dal ricevere quelle tali letture, quegli autori ec. come modelli, come esempi di ciò che dobbiamo fare, dall'averli più in pronto, per mirare in essi, e regolarci nell'imitarli? ec. non già, ma dall'abitudine materiale che la mente acquista a quel tale stile ec. la quale abitudine le rende molto più facile l'eseguir ciò che ha da fare. Tali letture in tal tempo non sono studi, ma esercizi, come la lunga abitudine del comporre facilita la composizione. Ora tali letture fanno appunto allora l'uffizio di quest'abitudine, la facilitano, esercitano insomma la mente in quell'operazione  2229 ch'ella ha da fare. E giovano massimamente quando ella v'è già dentro, e la sua disposizione e[è] sul traine[train] di eseguire, di applicare al fatto ec. Così leggendo un ragionatore, per quei giorni si prova una straordinaria tendenza, facilità, frequenza ec. di ragionare sopra qualunque cosa occorrente, anche menoma. Così un pensatore, così uno scrittore d'immaginazione, di sentimento (esso ci avvezza per allora a sentire anche da noi stessi), originale, inventivo ec. E questi effetti li producono essi non in forza di modelli (giacchè li producono quando anche il lettore li disprezzi, o li consideri come tutt'altro che modelli), ma come mezzi di assuefazione. E però, massime nell'atto di comporre, bisogna fuggir le cattive letture, sia in ordine allo stile, o a qualunque altra cosa; perchè la mente senz'avvedersene si abitua a quelle maniere, per quanto le condanni, e per quanto sia abituata già a maniere diverse, abbia formato una maniera  2230 propria, ben radicata nella di lui assuefazione ec. (6. Dic. 1821.).

[2230,1]  Quanto sia vero che la scienza ed ogni facoltà umana non deriva che da pure assuefazioni, e queste quando son relative in qualunque modo all'intelletto, hanno bisogno dell'attenzione. L'uomo di gran talento, è avvezzo soprammodo ad attendere, ed assuefarsi, si trova bene spesso inespertissimo e ignorante di cose che i meno attenti, e più divagati animi conoscono ottimamente. Ciò viene perch'egli in tali cose non suol porre attenzione. Ho detto altrove pp. 1062-63 ch'egli suol essere ignorantissimo di tutte le arti ec. della buona compagnia. Osservatelo ancora nel senso materiale del gusto. Gl'ignoranti l'avranno finissimo, e capacissimo di discernere le menome differenze, pregi, difetti de' sapori e de' cibi. Egli al contrario, e se talvolta vi attende, si maraviglia di non capir nulla di ciò che gli altri conoscono benissimo, e gli dimostrano. Eppur questo è un senso materiale. Ma non esercitato da lui con l'attenzione,  2231 benchè materialmente esercitato da lui come dagli altri. Che vuol dir ciò? tutte le facoltà umane le più materiali, e apparentemente naturali, abbisognano di assuefazione ec. (6. Dic. 1821.).

[2233,1]  Ho detto altrove pp. 227-28 che nel giudizio che il lettore pronunzia sulle poesie (così proporzionatamente si può dire d'ogni altro genere di scrittura), dipende ed è influito moltissimo dall'attuale disposizione del suo animo, e soggetto perciò ad esser falsissimo (sì nel favorevole come nello sfavorevole), per molto che il lettore sia giudizioso, ingegnoso, sensibile, capace di entusiasmo, insomma giudice al tutto competente. Osservate infatti. In una disposizion d'animo fredda e indifferente, ovvero  2234 distratta, o gravata d'altre cure, o scoraggiata, o disingannata ec. sia ella tale attualmente per qualunque cagione, o abitualmente, acquisita o naturale ec. le più belle scene della natura ec. ec. non producono, neppure all'uomo il più sensibile del mondo, il menomo effetto, e quindi nessun piacere; e non però elle sono men belle. Così viceversa. Similmente dunque deve accadere, e similmente si deve discorrere del giudizio che gli uomini, anche i più capaci, pronunziano e concepiscono delle poesie, cose di eloquenza, di sentimento d'immaginazione ec. Giudizio diversissimo e nelle diverse persona[persone], e in una stessa in diversi tempi, {e momenti anche della giornata,} e molto più in diverse nazioni ec. Aggiungete la sazietà, la scontentezza, il vôto dell'animo, la noia; aggiungete le circostanze degli studi, il trovarsene sazio o annoiato in quel  2235 tal momento, il venire da uno studio o lettura che ti ha stancato o annoiato ec. il che può rendere il giudizio tanto più favorevole del giusto, quanto anche (assai spesso) più sfavorevole.

[2242,2]  Ogni uomo sensibile prova un sentimento di dolore, o una commozione, un senso di malinconia, fissandosi col pensiero in una cosa che sia finita per sempre, massime s'ella è stata al tempo suo, e familiare a lui. Dico di qualunque cosa soggetta  2243 a finire, come la vita o la compagnia della persona la più indifferente per lui (ed anche molesta, anche odiosa), la gioventù della medesima; un'usanza, un metodo di vita. ec. Fuorchè se questa cosa per sempre finita, non è appunto un dolore, una sventura ec. {+o una fatica, o se l'esser finita, non è lo stesso che aver conseguito il suo proprio scopo, esser giunta dove per suo fine mirava ec.} Sebbene anche, nel caso che a questa ci siamo abituati, proviamo ec. Solamente della noia non possiamo dolerci mai che sia finita.

[2258,1]  Altra somiglianza fra il mondo e le donne. Quanto più sinceramente queste e quello si amano, quanto più si ha vera e forte intenzione di giovar loro, e sacrificarsi per loro, tanto più bisogna esser certi di non riuscire a nulla presso di essi. Odiarli, disprezzarli, trattarli al solo fine de' proprii vantaggi e piaceri, questo è l'unico e indispensabil mezzo di far qualche cosa nella galanteria, come in qualunque carriera mõdana[mondana], con qualunque persona, o società, in qualunque parte della vita, in qualunque scopo ec. ec. (18. Dic. 1821.).

[2271,1]  Il partire, il restare contenti di una persona, non vuol dire, e non è altro in sostanza che il restar contenti di se medesimi. Noi amiamo la conversazione, usciamo soddisfatti dal colloquio ec. di coloro che ci fanno restar contenti di noi medesimi, in qualunque modo, o perchè essi lo proccurino, o perchè non sappiano altrimenti, ci diano campo di figurare. ec. Quindi è che quando tu resti contento di un altro, ciò vuol dire in ultima analisi che tu ne riporti l'idea di te stesso superiore all'idea di colui. Così che se questo può giovare all'amore verso quella tal persona, ordinariamente però non giova nè alla stima, nè al timore, nè al peso, nè al conto, nè all'alta opinione ec. cose che gli uomini in società desiderano di riscuotere dagli altri uomini assai più che l'amore.  2272 (E con ragione, perchè l'amore verso gli altri è inoperoso, non così il timore, l'opinione, il buon conto ec.) E però volendo farsi largo nel mondo, solamente i giovanetti e i principianti cercano sempre di lasciar la gente soddisfatta di se. Chi ben pensa, proccura tutto il contrario, e sebben pare a prima vista che quegli il quale parte malcontento di voi porti con se de' sentimenti a voi sfavorevoli, nondimeno il fatto è che egli suo malgrado, e senza punto avvedersene, {+anzi e desiderando e cercando e credendo il contrario,} porta de' sentimenti a voi favorevolissimi secondo il mondo, giacchè l'esser malcontento di voi, non è per lui altro che esser malcontento di se stesso rispetto a voi, e quindi in un modo o nell'altro tu nella sua idea resti superiore a lui stesso (che è quello appunto che gli dà pena); e gl'impedisci di ecclissar la opinione di te, con l'opinione e l'estimazione di se. Ne seguirà l'odio, ma non mai il disprezzo  2273 (neppur quando tu l'abbia fatto scontento con maniere biasimevoli, ed anche villane); e il disprezzo, o la poca opinione, è quello che in società importa soprattutto di evitare; e il solo che si possa evitare, perchè l'odio non è schivabile; essendo innato nell'uomo e nel vivente l'odiare gli altri viventi, e massime i compagni; non è schivabile per quanta cura si voglia mai porre nel soddisfare a tutti colle opere, colle parole, colle maniere, e nel ménager, e cattivare, e studiare, e secondare l'amor proprio di tutti. Laddove il disprezzo verso gli altri non è punto innato nell'uomo: bensì egli desidera di concepirlo, e lo desidera in virtù dell'odio che porta loro; ma dipendendo esso dall'intelletto, e da' fatti, e non dalla volontà, si può benissimo impedire. {+Tutti questi effetti sono maggiori oggidì di quello che mai fossero nella società, a causa del sistema di assoluto e universale e accanito e sempre crescente egoismo, che forma il carattere del secolo.} (22. Dic. 1821.).

[2274,1]  Se tu prendi a leggere un libro qualunque, il più facile ancora, o ad ascoltare un discorso il più chiaro del mondo, con un'attenzione eccessiva, e con una smodata contenzione di mente; non solo ti si rende difficile il facile, {+non solo ti maravigli tu stesso e ti sorprendi e ti duoli di una difficoltà non aspettata,} non solo tu stenti assai più ad intendere, di quello che avresti fatto con minore attenzione, non solo tu capisci meno, ma se l'attenzione e il timore di non intendere o di lasciarsi sfuggire qualche cosa, è propriamente estremo, tu non intendi assolutamente nulla, come se tu non leggessi, e non ascoltassi, e come se la tua mente fosse del tutto intesa ad un'[un] altro affare: perocchè dal troppo viene il nulla, e il troppo attendere ad una cosa equivale effettivamente al non  2275 attenderci, e all'avere un'altra occupazione tutta diversa, cioè la stessa attenzione. Nè tu potrai ottenere il tuo fine se non rilascerai, ed allenterai la tua mente, ponendola in uno stato naturale, e rimetterai, ed appianerai la tua cura d'intendere, la quale solo in tal caso sarà utile. (22. Dic. 1821.). {{v. p. 2296.}}

[2315,1]  L'animo umano è sempre ingannato nelle sue speranze, e sempre ingannabile: sempre deluso dalla speranza medesima, e sempre capace  2316 di esserlo: aperto non solo, ma posseduto dalla speranza nell'atto stesso dell'ultima disperazione, nell'atto stesso del suicidio. La speranza è come l'amor proprio, dal quale immediatamente deriva. L'uno e l'altra non possono, per essenza e natura dell'animale, abbandonarlo mai finch'egli vive, cioè sente la sua esistenza. (31. Dic. 1821.).

[2342,1]   2342 Il mondo deride chi fedelmente e sinceramente osserva i suoi doveri, o prova effettivamente e segue i sentimenti dettati dalla natura e dalla morale; e si scandolezza e biasima chi trascura pubblicamente i medesimi doveri, chi mostra di disprezzarli, chi pienamente non gli adempie in faccia al pubblico, quando anche egli abbia i suoi giustissimi motivi per non farlo, e non seguire il costume in questa parte. Una donna è derisa s'ella piange sinceramente il suo marito recentemente morto, se a chi la tratta, dà segno di sentir vivo e vero dolore della sua perdita; ma s'ella, anche per circostanze imperiose, trascura il menomo dei doveri che il costume impone in questi casi, s'ella un giorno più presto del tempo prescritto dall'uso si fa vedere in pubblico, s'ella, anche a solo fine di portar qualche alleggerimento al suo vero dolore, si permette prima del detto tempo, qualche menomo spasso o distrazione, il mondo severissimamente la giudica, e inesorabilmente la condanna, senz'aver riguardo a ragioni nè circostanze, per reali che possano essere, e non lascia di mordere  2343 e di riprendere la più piccola violazione dei doveri apparenti, mentre è prontissimo a schernire chi gli osservi di buona fede ec. (10. Gen. 1822.).

[2363,2]  Quei pochissimi {poeti} italiani che in questo o nel passato secolo hanno avuto qualche barlume di genio e natura poetica, qualche poco di forza nell'animo  2364 o nel sentimento, qualche poco di passione, sono stati tutti malinconici nelle loro poesie. (Alfieri, Foscolo ec.) Il Parini tende anch'esso nella malinconia, specialmente nelle odi, ma anche nel Giorno, per ischerzoso che paia. Il Parini però non aveva bastante forza di passione e sentimento, per esser vero poeta. E generalmente non è che la pura debolezza del sentimento, la scarsezza della forza poetica dell'animo, che {può} permettere ai nostri poeti italiani d'oggidì (ed anche degli altri secoli, e anche d'ogni altra nazione), a quei medesimi che più si distinguono, e che per certi meriti di stile, o di stiracchiata immaginazione, son tenuti poeti, l'essere allegri in poesia, ed anche inclinarli e sforzarli a preferir l'allegro al malinconico. Ciò che dico della poesia dico proporzionatamente delle altre parti della bella letteratura. Dovunque non regna il malinconico nella letteratura moderna, la sola debolezza n'è causa. (27. Gen. 1822.).

[2378,1]   2378 Che non si dà ricordanza, nè si mette in opera la memoria senz'attenzione. Prendete a caso uno o due o tre versi di chi vi piaccia, in modo che possiate, leggendoli una volta sola, tenerli tanto a memoria da poterli poi ripeter subito fra voi, il che è ben facile in quello stesso momento che si son letti: e ripeteteli fra voi stesso dieci o quindici volte, ma con tutta materialità, come si fa un'azione ordinaria, senza pensarvi e senza porvi la menoma attenzione. Di lì ad un'ora non ve ne ricorderete più, volendo ancora richiamarli con ogni sforzo. Al contrario leggeteli solamente una o due volte con attenzione, e intenzione d'impararli, o che vi restino impressi; ovvero poniamo caso che da se stessi v'abbiano fatto una decisa impressione, ed eccitata per questo mezzo la vostra mente ad attendervi, anche senza intenzione alcuna d'impararli. Non li ripetete neppure fra voi, o ripetendoli, fatelo solo una o due volte con attenzione. Di lì a più ore vi risovverranno anche spontaneamente, e molto più se voi lo vorrete; e se allora di nuovo ci farete attenzione, in modo che quella reminiscenza  2379 non sia puramente materiale, ve ne ricorderete poi anche più a lungo per un certo tempo. Dico tutto ciò per esperienza, trovando d'essermi scordato più volte d'alcuni versetti ch'io per ricordarmene avea ripetuto meccanicamente fra me una ventina di volte, e di averne ritenuto degli altri ripetuti una sola o due volte, con decisa attenzione alle parti ec. E così d'altre cose ec. E chi sa che queste o simili osservazioni non fossero il fondamento di quell'arte della memoria che fra gli antichi s'insegnava e si professava come ogni altra disciplina, siccome apparisce da molte testimonianze, e fra le altre da Senofonte nel Convito c. 4. §. 62.

[2381,1]   2381 Giovanette di 15. o poco più anni che non hanno ancora incominciato a vivere, nè sanno che sia vita, si chiudono in un monastero, professano un metodo, una regola di esistenza, il cui unico scopo diretto e immediato si è d'impedire la vita. E questo è ciò che si procaccia con tutti i mezzi. Clausura strettissima, fenestre disposte in modo che non se ne possa vedere persona, a costo della perdita dell'aria e della luce, che sono le sostanze più vitali all'uomo, e che servono anche, e sono necessarie alla comodità giornaliera delle sue azioni, e di cui gode liberamente tutta la natura, tutti gli animali, le piante, e i sassi. Macerazioni, perdite di sonno, digiuni, silenzio: tutte cose che unite insieme nocciono alla salute, cioè al ben essere, cioè alla perfezione dell'esistenza, cioè sono contrarie alla vita. Oltrechè escludendo assolutamente l'attività, escludono la vita, poichè il moto e l'attività è ciò che distingue il vivo dal morto: e la vita consiste nell'azione; laddove lo scopo diretto della vita monastica anacoretica ec. è l'inazione, e il guardarsi dal fare, l'impedirsi di fare. Così che la monaca o il monaco  2382 quando fanno professione, dicono espressamente questo: io non ho ancora vissuto, l'infelicità non mi ha stancato nè scoraggito della vita; la natura mi chiama a vivere, come fa a tutti gli esseri creati o possibili: nè solo la natura mia, ma la natura generale delle cose, l'assoluta idea e forma dell'esistenza. Io però conoscendo che il vivere pone in grandi pericoli di peccare, ed è per conseguenza pericolosissimo per se stesso, e quindi per se stesso cattivo (la conseguenza è in regola assolutamente), son risoluto di non vivere, di fare che ciò che la natura ha fatto, non sia fatto, cioè che l'esistenza ch'ella mi ha dato, sia fatta inutile, e resa (per quanto è possibile) nonesistenza. S'io non vivessi, o non fossi nato, sarebbe meglio in quanto a questa vita presente, perchè non sarei in pericolo di peccare, e quindi libero da questo male assoluto: s'io mi potessi ammazzare sarebbe parimente meglio, e condurrebbe allo stesso fine; ma poichè non ho potuto a meno di nascere, e la mia legge mi comanda di fuggir la vita, e nel tempo stesso mi vieta di terminarla, ponendo la morte volontaria fra gli altri peccati per cui la vita  2383 è pericolosa, resta che (fra tante contraddizioni) io scelga il partito ch'è in poter mio, e l'unico degno del savio, cioè schivare quanto io posso la vita, contraddire e render vana quanto posso la nascita mia, insomma esistendo annullare quanto è possibile l'esistenza, privandola di tutto ciò che la distingue dal suo contrario e la caratterizza, e soprattutto dell'azione che per una parte è il primo scopo e carattere ed uffizio ed uso dell'esistenza, per l'altra è ciò che v'ha in lei di più pericoloso in ordine al peccare. E se con ciò nuocerò al mio ben essere, e mi abbrevierò l'esistenza, non importa; perchè lo scopo di essa non dev'esser altro che fuggir se medesima, come pericolosa; e l'essere non è mai tanto bene, quanto allorchè in qualunque maggior modo possibile è lontano dal pericolo di peccare, cioè lontano dall'essere e dall'operare ch'è l'impiego dell'esistenza.

[2390,1]   2390 L'attenzione de' fanciulli è scarsa 1. per la moltitudine e forza delle impressioni in quell'età, conseguenza necessaria della novità ed inesperienza: le quali impressioni tirando fortemente l'attenzione loro in mille parti e continuamente, l'impediscono di esser sufficiente in nessuna: e questa è la distrazione che s'attribuisce ai fanciulli, tanto più distratti, quanto più suscettibili di sensazioni vive e profonde: 2. perchè anche la facoltà di attendere non si acquista senz'assuefazione ec: 3. perchè la natura ha provveduto in modo che fin che l'uomo è nello stato naturale, come sono i fanciulli, poco e insufficientemente attende, essendo l'attenzione la nutrice della ragione, e la prima ed ultima causa della corruzione ed infelicità umana. (16. Feb. 1822.)

[2391,1]   2391 Ma nulla fa chi troppe cose pensa. * Tasso Aminta, Atto 2. scena 3. v. ult. (20. Feb. primo di Quaresima. 1822.).

[2401,3]  Non è da far mai pompa della propria infelicità. La sola fortuna fa fortuna tra gli uomini, e la sventura non fu mai fortunata; nè si può far traffico, e ritrarre utilità dalla miseria, quando ella sia vera. Nessuno fu mai più stimato o più gradito per esser più infelice degli altri. E però allo sventurato, volendo esser bene accolto ed accetto, o  2402 farsi tenere in pregio, non solamente conviene dissimulare le proprie disgrazie, ma fingersi del numero de' fortunati, pretendere a questo titolo, combatter la fama o chiunque glie lo neghi, e mettere ogni studio per ingannar gli altri in questo punto. (23. Aprile. 1822.). {{V. p. 2415.}} {{2485.}}

[2405,1]  Essendo vissuto lunghissimo tempo in città piccola, e fra gente lontanissima da quel che si chiama buon tuono, e spirito di mondo, quantunque io non abbia più che tanta pratica della così detta buona società, mi par nondimeno  2406 di avere in mano bastanti comparazioni per potere affermare che ne' paesi piccoli, e fra gli uomini e le società di piccolo spirito, si apprende assai più della natura umana, e {} del carattere generale, sì de' caratteri accidentali degli uomini, di quello che si possa fare nelle grandi città, e nella perfetta conversazione. Perchè, oltre che in queste gli uomini son sempre mascherati, e d'apparenze lontanissime dalla sostanza, e dai caratteri loro individuali; oltre che sono tanto più lontani dalla natura, e dal vero carattere generale dell'uomo, e lo sono, non solo per finzione, ma anche per carattere acquisito; il principale è che son tutti appresso a poco d'una forma, sì ciascuno di essi, come ciascuna di tali società rispetto alle altre. Laonde veduto e conosciuto un uomo solo, si può dir che tutti, poco più poco meno, sieno veduti e conosciuti. Al contrario di quel che succede nelle città piccole, e nella piccola società, dove non è individuo, che non offra qualche nuova scoperta circa le qualità di cui la natura umana è capace. Maggior varietà si trova fra questi tali uomini che nelle stesse campagne (o fra' selvaggi, o non inciviliti ec.)  2407 perchè gli uomini affatto o quasi affatto incolti, sono abbastanza vicini alla natura (ch'è una qualità e un tipo generale) per rassomigliarsi moltissimo scambievolmente, mediante la stessa natura. Questi sono simili fra loro, quelli che sono perfettamente o quasi perfettamente colti, si può dir che sieno uguali gli {uni agli} altri, in virtù dell'incivilimento che tende per essenza ad uniformare. Lo stato di mezzo è il più vario, il più suscettivo di diverse qualità, e il più conformabile secondo le circostanze relative e individuali. Queste osservazioni si possono estendere, e distinguere in diversi modi. P. e. si conosce assai meglio la natura umana e la sua capacità di forme, esaminando un uomo volgare, che un dotto, un filosofo, uno esperimentato negli affari, o vissuto nel gran mondo ec. ec.; assai meglio esaminando il carattere di una società piccola, che d'una grande; assai meglio esaminando una nazione non perfettamente colta, che una perfettamente civile (spagnuoli, tedeschi-italiani- francesi); assai meglio esaminando lo spirito di quella tal nazione civile, o delle sue parti, lontano dalla capitale, o dal centro  2408 della società nazionale, ch'esaminando la società di essa capitale ec. Così dico ancora del carattere nazionale, il quale p. e. rispetto ai francesi, si conoscerà molto meglio esaminando la società della Bretagna, o della Provenza, che quella di Parigi. (30. Aprile. 1822.).

[2415,2]  La vita è fatta naturalmente per la vita, e non per la morte. Vale a dire è fatta per l'attività, e per tutto quello che v'ha di più vitale nelle funzioni de' viventi. (5. Maggio. 1822.).

[2419,2]  L'animo forte ed alto resiste anche alla necessità, ma non resiste al tempo, vero ed unico trionfatore di tutte le cose terrene. Quel dolore profondissimo e ostinatissimo, che sdegnava e calpestava la consolazione volgare  2420 della sventura, cioè l'inevitabilità, e l'irreparabilità della medesima, e il non poterne altro, che rinasceva ogni giorno e talvolta con maggior forza di prima, che per lunghissimo spazio, era sembrato indomabile e inestinguibile, e piuttosto pareva accrescersi di giorno {in giorno} che scemarsi; per tutto ciò non può far che ricusi e non ammetta la consolazione del tempo, e dell'assuefazione che il tempo insensibilmente e dissimulatissimamente introduce, e che in ultimo, dopo ostinatissima guerra non si trovi vinto e morto, e che quell'animo feroce non pieghi il collo, e non s'adatti a strascinare il suo male senza sdegno, e senza forza di dolersene. E ben può egli avere sdegnato e rifiutato per lungo tempo anche la consolazione del tempo, ma non perciò l'ha potuta sfuggire. (5. Maggio. 1822.). {{Si può ricusare la consolazione della stessa necessità, ma non quella del tempo.}}

[2429,1]   2429 A voler esser lodato o stimato dagli altri, bisogna per necessità intuonar sempre altamente e precisamente alle orecchie loro: io vaglio assai più di voi: acciocchè gli altri dicano: colui vale alquanto più di noi, o quanto noi. La fama di ciascheduno in qualsivoglia genere, {o propriamente o almeno metaforicamente parlando,} è sempre incominciata dalla bocca propria. Se tu fai nel cospetto di quanta gente tu vuoi, un'azione o una produzione ec. la più degna e la più lodevole che si possa immaginare; t'inganni a partito se credi che quell'azione ec. essendo manifestissima, e manifestissimamente lodevolissima, gli altri debbano aprir la bocca spontaneamente, e cominciare essi a dir bene di te. Guardano, e tacciono eternamente, se tu non rompi il silenzio, e se non hai l'arte o il coraggio d'essere il primo a far questo. Ciò massimamente in questi tempi di perfezionato e purificato egoismo. Chi vuol vivere, si scordi della modestia. (7. Maggio. 1822.).

[2429,2]  Che società, che amicizia, che commercio potresti tu avere con un cieco e sordo, o egli con te?  2430 Al quale nè coi gesti nè colle parole potresti communicare alcuno de' tuoi sentimenti, nè egli a te i suoi? e per conseguenza qual comunione di spirito, cioè di vita e di sentimento potresti aver seco lui? qual sentimento di te penseresti d'aver destato, o di poter mai destare nell'animo suo? E nondimeno tu sai pur ch'egli vive, ed oltracciò di vita umana e d'un genere medesimo colla tua; ed egli potrebbe forse in qualche modo darti ad intendere i suoi bisogni, e beneficato esteriormente da te, o in altro modo influito, potrebbe aver qualche senso della tua esistenza, e formarsi di te qualche idea; anzi è certo che ti considererebbe come suo simile, non ch'egli n'avesse alcuna prova certa, ma appunto per la scarsezza delle sue idee; come fanno i fanciulli, che sempre inclinano a creder tutto animato, e simile in qualche modo a loro, non conoscendo, nè sapendo neppure insufficientemente concepire altra forma d'esistenza che la propria, non ostante ch'essi pur vedano la differenza della figura, e delle qualità esteriori.

[2431,1]   2431 Or se contuttociò, tu non crederesti di poter aver con costui nessuna o quasi nessuna società, e non ti soddisfaresti nè ti compiaceresti in alcun modo del suo commercio, che dovremo dire di quella società che i filosofi tedeschi e romantici, vogliono che il poeta supponga, anzi ponga e crei fra l'uomo e il resto della natura? La qual società vogliono che sia tale che tutto per immaginazione si supponga vivo bensì, ma non di vita umana, anzi diversissima secondo ciascun genere di esseri? Non è questa una società peggiore e più nulla di quella col cieco e sordo? Il quale finalmente è uomo. Ma qui sebben tu creda, e poeticamente t'immagini che le cose vivano, non supponendo che questa vita abbia nulla di comune colla tua, che sentimento di te puoi presumere di destare in loro, o qual sentimento della vita loro puoi presumere di ricever da essi, non potendo neppur concepire altra forma di vita se non la propria? Che giova alla tua immaginazione e alla tua sensibilità il figurarti che la natura viva? Che relazione può la tua fantasia fabbricarsi  2432 colla natura per questo? Ella è cieca e sorda verso te, e tu verso lei. Non basta al sentimento e al desiderio innato di quasi tutti i viventi che li porta verso il loro simile, il figurarsi che le cose vivano, ma solamente che vivano di vita simile per natura alla propria. Tolta questa non v'è società fra viventi, come non vi può esser società fra cose dissimili, e molto meno fra cose che in nessun modo si possono intendere l'une coll'altre, nè comunicarsi alcun sentimento, nè farsi scambievolmente verun segno di se, e neppur concepire o formarsi nessuna idea del genere di vita l'una dell'altra. Fra le bestie e l'uomo non è di gran lunga così, e perciò qualche società può passare e passa fra questo e quelle, e maggiore, quanto più la loro vita, e il loro spirito è simile al nostro, e quanto più esse {mostrano} {di} concepire le cose nostre, e noi le loro; e maggiore eziandio generalmente perchè l'immaginazione nostra (e probabilmente anche la loro) entra in questo commercio altresì, e ce le dipinge molto più simili a noi che forse non sono, e noi a loro parimente.  2433 Certo è poi che grandissima affinità e somiglianza passa tra la vita degli animali e la nostra, tra le loro passioni (radicalmente parlando) e fra le nostre ec. Affinità e somiglianza che non si trova o non apparisce fra l'esistenza delle cose inanimate e la nostra; che l'immaginazione antica, e fanciullesca, e, più o meno, quella di tutti i tempi, non vedendola, la suppone e la crea; che i bravi tedeschi non vogliono che si supponga, e che non per tanto s'immagini e si conservi un commercio scambievole fra le cose inanimate e l'uomo. (8. Maggio. 1822.).

[2434,2]  Che le passioni antiche fossero senza comparazione più gagliarde delle moderne, e gli effetti loro più strepitosi, più risaltati, più materiali,  2435 più furiosi, e che però nell'espression loro convenga impiegare colori e tratti molto più risentiti che in quella delle passioni moderne, è cosa già nota e ripetuta pp. 76. sgg. Ma io credo che una differenza notabile bisogni fare tra le varie passioni, appunto in riguardo alla maggiore o minor veemenza loro fra gli antichi e i moderni comparativamente; e per comprenderle tutte sotto due capi generali, io tengo per fermo (come fanno tutti) che il dolore antico fosse di gran lunga più veemente, più attivo, più versato al di fuori, più smanioso e terribile (quantunque forse per le stesse ragioni più breve) del moderno. Ma in quanto alla gioia, ne dubiterei, e crederei che, se non altro in molti casi, ella potesse esser più furiosa e violenta presso i moderni che presso gli antichi, e ciò non per altro se non perch'ella oggidì è appunto più rara e breve che fosse mai, come lo era nè più nè meno il dolore anticamente. Questa osservazione potrebbe forse servire al tragico, al pittore, ed altri imitatori delle passioni. Vero è che nel fanciullo e la gioia e il dolore sono del pari  2436 più violenti, ed altresì per la stessa ragione più brevi che nell'adulto. Ed è vero ancora che l'abitudine dell'animo de' moderni li porta a contenere dentro di se, ed a riflettere sullo spirito, senza punto o quasi punto lasciarla spargere ed operare al di fuori, qualunque più gagliarda impressione e affezione. Contuttociò credo che la detta osservazione possa essere di qualche rilievo, massime intorno alle persone non molto o non interamente colte e disciplinate, sia nella vita civile, sia nelle dottrine e nella scienza delle cose e dell'uomo; e intorno a quelle che dall'esperienza e dall'uso della vita, della società, e de' casi umani non sono {stati} bastantemente ammaestrati ad uniformarsi col generale, nè accostumati a quell'apatia e noncuranza di se stesso e di tutto il resto, che caratterizza il nostro secolo. (9. Maggio. 1822.).

[2436,1]  Il mondo, o la società umana nello stato di egoismo (cioè di quella modificazione dell'amor proprio così chiamata) in cui si trova presentemente, si può rassomigliare al sistema  2437 dell'aria, le cui colonne (come le chiamano i fisici) si premono l'une l'altre, ciascuna a tutto potere, e per tutti i versi. Ma essendo le forze uguali, e uguale l'uso delle medesime in ciascuna colonna, ne risulta l'equilibrio, e il sistema si mantiene mediante una legge che par distruttiva, cioè una legge di nemicizia scambievole continuamente esercitata da ciascuna colonna contro tutte, e da tutte contro ciascuna.

[2451,1]  Beato colui che pone i suoi desiderii, e si pasce e si contenta de' piccoli diletti, e spera sempre da vantaggio, senza mai far conto della propria esperienza in contrario, nè quanto al generale, nè quanto ai particolari. E per conseguenza beati gli spiriti piccoli, o distratti, e poco esercitati a riflettere. (30. Maggio 1822.).

[2453,1]   2453 Se l'uomo sia nato per pensare o per operare, e se sia vero che il miglior uso della vita, come dicono alcuni, sia l'attendere alla filosofia ed alle lettere (quasi che queste potessero avere altro oggetto e materia che le cose e la vita umana, e il regolamento della medesima, e quasi che il mezzo fosse da preferirsi al fine), {+{+} Il fine della letteratura è principalmente il regolar la vita dei non letterati; è insomma l'utilità loro, ed essi se n'hanno a servire. Ora io non ho mai saputo che la condizione di chi è servito, fosse peggiore e inferiore che non è quella di chi serve.} osservatelo anche da questo. Nessun uomo fu nè sarà mai grande nella filosofia o nelle lettere, il quale non fosse nato per operare più, e più gran cose degli altri; non avesse in se maggior vita e maggior bisogno di vita che non ne hanno gli uomini ordinarii; e per natura ed inclinazione sua primitiva, non fosse più disposto all'azione e all'energia dell'esistenza, che gli altri non sogliono essere. La Staël lo dice dell'Alfieri (Corinne, t. 1. liv. dern.), anzi dice ch'egli non era nato per iscrivere, ma per fare, se la natura de' tempi suoi (e nostri) glielo avesse permesso. E perciò appunto egli fu vero scrittore, a differenza di quasi tutti i letterati o studiosi italiani del suo e del nostro tempo. Fra' quali siccome nessuno o quasi nessuno è nato per fare (altro che fagiolate), perciò nessuno o quasi nessuno è  2454 vero filosofo, nè letterato che vaglia un soldo. Al contrario degli stranieri, massime degl'inglesi e francesi, i quali (per la natura de' loro governi e condizioni nazionali) fanno, e sono nati per fare più degli altri. E quanto più fanno, o sono naturalmente disposti a fare, tanto meglio e più altamente e straordinariamente pensano e scrivono. (30. Maggio 1822.).

[2471,1]  Alla inclinazione da me più volte notata e spiegata pp. 85-86 p. 230 pp. 339-40 pp. 486-88 pp. 1535-37, che gli uomini hanno a partecipare con altri i loro godimenti o dispiaceri, e qualunque sensazione alquanto straordinaria, si dee riferire in parte la difficoltà di conservare il secreto che s'attribuisce ragionevolmente alle donne e a' fanciulli, e ch'è propria altresì di qualunque altro è meno capace o per natura o per assuefazione di contrastare e vincere e reprimere le sue inclinazioni. Ed è anche proprio pur troppe volte degli uomini prudenti ed esercitati a stare sopra se stessi, i quali ancora provano, se non altro, qualche difficoltà a tenere il segreto, e qualche voglia interna di manifestarlo (anche con danno loro), quando sono sull'andare del confidarsi con altrui, o semplicemente del conversare, o discorrere,  2472 o chiaccherare. {+Dico lo stesso anche di quando il segreto non è d'altrui ma nostro proprio, e quando noi vediamo che il rivelarlo fa danno solamente o principalmente a noi, e come tale, ci eravamo proposto di tacerlo, e poi lo confidiamo per isboccataggine.}

[2473,1]   2473 Alle ragioni da me recate in altri luoghi pp. 1473-74 pp. 1648-49 pp. 2039-41, per le quali il giovane per natura sensibile, e magnanimo e virtuoso, coll'esperienza della vita, diviene e più presto degli altri, e più costantemente e irrevocabilmente, e più freddamente e duramente, e insomma più eroicamente vizioso, aggiungi anche questa, che un giovane della detta natura, e del detto abito, deve, entrando nel mondo, sperimentare e più presto e più fortemente degli altri la scelleraggine degli uomini, e il danno della virtù, e rendersi ben tosto più certo di qualunque altro della necessità di esser malvagio, e della inevitabile e somma infelicità ch'è destinata in questa vita e in questa società agli uomini di virtù vera. {{Perocchè gli altri non essendo virtuosi, o non essendolo al par di lui, non isperimentano tanto nè così presto la scelleraggine degli uomini, nè l'odio e persecuzione loro per tutto ciò ch'è buono, nè le sventure di quella virtù che non possiedono. E sperimentando ancora le soverchierie e le persecuzioni degli altri, non si trovano così nudi e disarmati per combatterle e respingerle, come si trova il virtuoso.  2474 In somma il giovane di poca virtù non può concepire un odio così vivo verso gli uomini, {nè così presto,} com'è obbligato a concepirlo il giovane d'animo nobile. Perchè colui trova gli uomini e meno infiammati contro di se, e meno capaci di nuocergli, e meno diversi da lui medesimo.}} {{Per lo che, non arrivando mai ad odiare fortemente gli uomini, e odiarli per massima nata e confermata e radicata immobilmente dall'esperienza, non arriva neppure così facilmente a quell'eroismo di malvagità fredda, sicura e consapevole di se stessa, ragionata, inesorabile, immedicabile {ed eterna,} a cui necessariamente dee giungere {(e tosto)} l'uomo d'ingegno al tempo stesso e di virtù naturale. (13. Giugno. 1822.)}}

[2479,1]   2479 Quanto prevaglia nell'uomo la materia allo spirito, si può considerare anche dalla comparazione dei dolori. Perocchè i dolori dell'animo non sono mai paragonabili ai dolori del corpo, ragguagliati secondo la stessa proporzione di veemenza relativa. E sebben paia molte volte a chi è travagliato da grave pena dell'animo, che sarebbe più tollerabile altrettanta pena nel corpo; l'esperienza ragguagliata dell'una e dell'altra può convincere facilmente chiunque sa riflettere che tra' dolori dell'animo e quelli del corpo, supponendoli ancora, relativamente, in un medesimo grado, non v'è alcuna proporzione. E quelli possono esser superati dalla grandezza o forza dell'animo, dalla sapienza ec. (lasciando stare che il tempo consola ogni cosa), ma questi hanno forza d'abbattere e di vincere ogni maggior costanza. (15. Giugno 1822.).

[2481,2]  Grazia dal contrasto. La medesima insipidezza o del carattere, o delle maniere, o de' discorsi, o degli scherzi, sentimenti ec. in una persona bella, fa molte volte effetto, ed è un charme tanto nelle donne rispetto agli uomini, come viceversa. La stessa rozzezza, o una certa poca delicatezza di modi ec. è spesse volte e per molti graziosa e attraente in una persona di forme delicate ec. (17. Giugno. 1822.).

[2481,3]  Ho discorso altre volte p. 72 p. 2040 della ferocia cagionata nell'uomo virtuoso, nel giovane, ec. dalla risoluzione di commettere a occhi aperti  2482 un primo delitto. Ho anche ragionato pp. 80-81 pp. 710-11 del danno involontariamente recato dal Cristianesimo e dallo stabilimento e perfezionamento della morale, stante che gli uomini (sempre inevitabilmente cattivi) operando oggi più chiaramente e decisamente contro coscienza, sono peggiori degli antichi, e calpestando il timore che hanno de' gastighi dell'altra vita, ne divengono più feroci e più terribili nel malfare, come persone condannate e disperate, ec. Aggiungo che l'uomo il quale per la prima volta s'è risoluto a commettere un delitto, ha dovuto con gran fatica e pena trionfare della propria coscienza, e delle proprie abitudini: e si trova allora nell'atto di aver riportato questo trionfo. Il che è cagione di una gran ferocia, simile a quella che dicono del leone, o d'altra tal bestia salvatica, che va in furore, ed è più che mai terribile appena ch'ell'ha gustato, o veduto il sangue d'altro animale. Perocchè l'uomo in quel punto è come sparso e macchiato di sangue, cioè omicida  2483 della propria coscienza. E generalmente l'esecuzione di qualunque proposito è tanto più efficace ed energica {ed infiammata} ed avventata e pronta, quanto la risoluzione è stata più faticosa e difficile, e quanta maggior pena e contrasto è costato a formarla. Perocchè l'uomo teme di pentirsi, e s'avventa nell'esecuzione, come fuggendo con grand'impeto e fretta e spavento dal proprio pensiero, che dandogli luogo a discorrere ancora, potrebbe distorlo, o precipitarlo di nuovo nell'irresoluzione, che l'uomo teme e odia naturalmente, e ch'è uno de' principali travagli dell'animo. Massime quando l'effetto della risoluzione (o sia il piacere, o sia l'utile, o sia la vendetta, o sia la soddisfazione di qualsivoglia passione umana) lo tira e lo invita gagliardamente, ed egli teme che il proprio pensiero gl'impedisca di cercarlo e di conseguirlo{{, e d'altra parte desidera vivamente di non perderlo, e non privarsene per proprio difetto. (17. Giugno. 1822.).}}

[2484,2]  Quanto sia vero che i talenti in gran parte son opera delle circostanze, vedasi che ne' paesi piccoli è infinitamente maggiore che nelle[ne'] grandi, il numero delle persone di grado agiato e comodo e (negli altri luoghi) colto {e civile,} che non hanno il senso comune, e da' quali non si può fidare l'esecuzione o il maneggio del menomo affare ec. Lo stesso dico proporzionatamente delle città meno grandi, rispetto alle più grandi, delle meno colte o socievoli rispetto alle più colte, delle capitali dove tutti son obbligati  2485 a conversare, a trattar negozi ec. rispetto alle città di provincia ec. (19. Giugno. 1822.).

[2491,1]  Or p. e. l'ira o l'impazienza del proprio male, non è ella modificabilissima e diversissima, non solo in diverse specie, o individui, ma in un medesimo individuo, secondo le circostanze? Ponetelo nelle sventure ed assuefatecelo. Sia pure impazientissimo per natura; col tempo e coll'assuefazione, diviene pazientissimo. (Testimonio io per ogni parte di questa proposizione). {+Fate che questo medesimo non abbia mai provato sventure, o assuefatelo di nuovo alla prosperità, o supponete in una di queste due circostanze un altro individuo,} e sia egli di natura mansuetissima. Ogni menomo male lo pone in impazienza. Or qual effetto più sostanziale dell'amor proprio, che l'impazienza del male di questo che si ama? E pur questa  2492 impazienza è maggiore e minore secondo le nature, le specie, gl'individui, e le circostanze e le assuefazioni di un medesimo individuo. Così dunque l'amor proprio del qual essa è opera. (22. Giugno. 1822.).

[2493,1]  Nè il titolo di filosofo nè verun altro simile è tale che l'uomo se ne debba pregiare, nemmeno fra se stesso. L'unico titolo conveniente all'uomo, e del quale egli s'avrebbe a pregiare, si è quello di uomo. E questo titolo porterebbe che chi meritasse di portarlo, dovesse esser uomo vero, cioè secondo natura. In questo modo {e con questa condizione} il nome d'uomo è veramente da pregiarsene, vedendo ch'egli è la principale opera della natura terrestre, o sia del nostro pianeta, ec. (24. Giugno. dì del Battista. 1822.).

[2523,2]  Il giovane istruito da' libri o dagli uomini e dai discorsi prima della propria esperienza, non solo si lusinga sempre e inevitabilmente  2524 che il mondo e la vita per esso lui debbano esser composte d'eccezioni di regola, cioè la vita di felicità e di piaceri, il mondo di virtù, di sentimenti, d'entusiasmo; ma più veramente egli si persuade, se non altro, implicitamente e senza confessarlo pure a se stesso, che quel che gli è detto e predicato, cioè l'infelicità, le disgrazie della vita, della virtù, della sensibilità, i vizi, la scelleraggine, la freddezza, l'egoismo degli uomini, la loro noncuranza degli altri, l'odio e invidia de' pregi e virtù altrui, disprezzo delle passioni grandi, e de' sentimenti vivi, nobili, teneri ec. sieno tutte eccezioni, e casi, e la regola sia tutto l'opposto, cioè quell'idea ch'egli si forma della vita e degli uomini naturalmente, e indipendẽtemente dall'istruzione, quella che forma il suo proprio carattere, ed è l'oggetto delle sue inclinazioni e desiderii, {e speranze,} l'opera e il pascolo della sua immaginazione. (29. Giugno, dì di S. Pietro. 1822.).

[2526,1]  Τοὺς δὲ * (χώρους) μὴ ἔχοντας ἐπίδοσιν * (agros qui incrementum nullum haberent, cioè così {ben} coltivati già quando si comprano, che non si  2527 possano far migliori) οὐδὲ ἡδονὰς ὁμοίας ἐνόμιζε παρέχειν∙ ἀλλὰ πᾶν κτῆμα καὶ ϑρέμμα τὸ ἐπὶ {τὸ} βέλτιον ἰόν, τοῦτο καὶ εὐϕραίνειν μάλιστα ᾤετο * . Dice queste cose Iscomaco di suo padre, il quale non voleva che si comprassero fondi ben coltivati, ma trascurati dal possessore, e le dice a Socrate presso Senofonte Del governo della casa, cap. 20. §. 23. Così tutto il piacere umano consiste nella speranza e nell'aspettativa del meglio, e posseduto non è piacere, e quello stato che non si può migliorare, benchè ottimo e desideratissimo per se, è sempre infelicissimo, come fu presso a poco quello d'Augusto {divenuto} padrone di tutto il mondo, e malcontento com'egli s'espresse. (29. Giugno 1822.).

[2583,1]  Adesso chi nasce grande, nasce infelice. Non così anticamente, quando il mondo abbondava e di pascolo (cioè di spettacolo e trattenimento), e di esercizio, e di fini, e di premi all'anime grandi. Anzi a quei tempi era fortuna il nascer grande come oggi il nascer nobile e ricco. Perocchè siccome nella monarchia quelli che nascono di grande e ricca famiglia, ricevono le dignità, gli onori, le cariche dalla mano dell'ostetrice (per servirmi di un'espressione di Frontone), {ad Ver.[Verum] l. 2. ep. 4. p. 121.} così nè più nè meno accadeva anticamente ai grandi e magnanimi {e valorosi} ingegni. I quali nelle circostanze, nell'attività e nell'immensa vita di quei tempi, non potevano mancare di svilupparsi, coltivarsi e formarsi; e sviluppati, formati e coltivati non potevano mancar di prevalere e primeggiare; come oggidì possono esser certi di tutto il contrario.  2584 Lascio che quanto gli animi erano più grandi, tanto meglio erano disposti a godere della vita, la quale in quei tempi non mancava, e di tanto maggior vita erano capaci, e quindi di tanto maggior godimento; e perciò ancora era da riputarsi a vera fortuna e privilegio della natura il nascer grand'uomo, e s'aveva a considerare come un effettivo e realizzabilissimo mezzo di felicità: all'opposto di quello che oggi interviene. (26. Luglio, dì di S. Anna. 1822.).

[2596,1]   2596 Quanta sia l'influenza dell'opinione e dell'assuefazione anche sui sensi, l'ho notato altrove p. 1733 coll'esempio del gusto, che pur sembra uno de' sensi più difficili ad essere influiti da altro che dalle cose materiali. Aggiungo una prova evidente. Io mi ricordo molto bene che da fanciullo mi piaceva effettivamente e parevami di buon sapore tutto quello che (per qualunque motivo ch'essi s'avessero) m'era lodato per buono da chi mi dava a mangiare. Moltissime delle quali cose, ch'effettivamente secondo il gusto dei più, sono cattive, ora non solo non mi piacciono, ma mi mi dispiacciono. Nè per tanto il mio gusto intorno ai detti cibi s'è mutato a un tratto, ma appoco appoco, cioè di mano in mano che la mente mia s'è avvezzata a giudicar da se, e s'è venuta rendendo indipendente dal giudizio e opinione degli altri, e dalla prevenzione che preoccupa la sensazione. La qual assuefazione ch'è propria dell'uomo, e ch'è generalissima, potrà essere ridicolo, ma pur è verissimo il dire che influisce anche in queste minuzie, e determina il giudizio  2597 del palato sulle sensazioni che se gli offrono, e cambia il detto giudizio da quello che soleva essere prima della detta assuefazione. In somma tutto nell'uomo ha bisogno di formarsi; anche il palato: ed è cosa facilissimamente osservabile che il giudizio de' fanciulli sui sapori, e sui pregi e difetti dei cibi relativamente al gusto, è incertissimo, {confusissimo} e imperfettissimo: e ch'essi in moltissimi, anzi nel più de' casi non provano punto nè il piacere che gli {uomini fatti} provano nel gustare tale o tal cibo, nè il dispiacere nel gustarne tale o tal altro. Lascio i villani, e la gente avvezza a mangiar poco, o male, o di poche qualità di cibi, il cui giudizio intorno ai sapori (anzi il sentimento ch'essi ne provano) è poco meno imperfetto e dubbio che quel dei fanciulli. Tutto ciò a causa dell'inesercizio del palato.

[2602,1]  Ἔργα νέων, βουλαὶ δὲ μέσων, εὺχαὶ δὲ γερόντων. * Verso di non so qual poeta antico, applicabile {e proporzionabile} alle diverse età del genere umano, come lo è qualunque cosa si possa dire intorno alle diverse età dell'individuo. E infatti del secol nostro non è proprio altro che il desiderio (eternamente inseparabile dall'uomo {+anche il più inetto, e debole, e inattivo e non curante;} per cagione dell'amor proprio che spinge alla felicità, la qual mai non s'ottiene) e il lasciar fare. (7. Agosto. 1822.).

[2607,1]  Così tosto come il bambino è nato, convien che la madre che in quel punto lo mette al mondo, lo consoli, {accheti il suo pianto,} e gli alleggerisca il peso di quell'esistenza che gli dà. E l'uno de' principali uffizi de' buoni genitori nella fanciullezza e nella prima gioventù de' loro figliuoli, si è quello di consolarli, {d'incoraggiarli alla vita;} perciocchè i dolori e i mali e le passioni riescono in quell'età molto più gravi, che non a quelli che per lunga esperienza, o solamente per esser più lungo tempo vissuti, sono assuefatti a patire. E in verità conviene che il buon padre e la buona madre studiandosi di racconsolare i loro figliuoli, emendino alla meglio, ed alleggeriscano il danno che loro hanno fatto col procrearli. Per Dio! perchè dunque nasce l'uomo? e perchè genera? per poi racconsolar quelli che ha generati del medesimo essere stati generati? (13. Agosto 1822.).

[2610,1]  Dicasi quel che si vuole. Non si può esser grandi se non pensando e operando contro ragione, e in quanto si pensa e opera contro ragione, e avendo la forza di vincere la propria riflessione, o di lasciarla superare dall'entusiasmo, che sempre e in qualunque caso trova in essa un ostacolo, e un nemico mortale, e una virtù estinguitrice, e raffreddatrice. (22. Agosto 1822.).

[2628,1]  Isocrate nel Panegirico p. 133. cioè prima del mezzo, (quando entra a parlare delle due guerre Persiane) lodando i costumi e gl'istituti di coloro che ressero Atene e Sparta innanzi al tempo d'esse guerre, dice, ἴδια μὲν ἄστη τὰς ἑαυτῶν πόλεις ἡγούμενοι, κοινὴν δὲ πατρίδα τὴν ῾Eλλάδα νομίζοντες εἶναι * . (30. Settembre 1822.)

[2629,3]  Le sensazioni o fisiche o massimamente morali che l'uomo può provare, sono, niuna di vero piacere, ma indifferenti o dolorose. Quanto alle indifferenti la sensibilità non giova nulla. Restano solo le dolorose. Quindi la sensibilità, benchè  2630 assolutamente considerata sia disposta indifferentemente a sentire ogni sorta di sensazioni, in sostanza però non viene a esser altro che una maggior capacità di dolore. Quindi è che necessariamente l'uomo sensibile, sentendo più vivamente degli altri, e quel che l'uomo può vivamente sentire in sua vita non essendo altro che dolore, dev'esser più infelice degli altri. Egli più capace d'infelicità, e questa capacità non può mancar d'esser empiuta nell'uomo. (5. Ottobre 1822.).

[2643,1]   2643 L'amor della vita cresce quasi come l'amor del danaio, e, com'esso, cresce in proporzione che dovrebbe scemare. Perciocchè i giovani disprezzano e prodigano la vita loro, ch'è pur dolce, e di cui molto avanza loro; e non temono la morte: e i vecchi la temono sommamente, e sono gelosissimi della propria vita, ch'è miserabilissima, e che ad ogni modo poco hanno a poter conservare. E così il giovane scialacqua il suo, come s'egli avesse a morire fra pochi dì, e il vecchio accumula e conserva e risparmia come s'avesse a provvedere a una lunghissima vita che gli restasse. (24. Ottob. 1822.).

[2645,2]  La storia greca, romana ed ebrea contengono le reminiscenze delle idee acquistate da ciascuno nella sua fanciullezza. Ciascun nome, ciascun fatto delle dette storie, e massime i principali e più noti ci richiamano idee quasi primitive per noi, e sono in certo modo legati alla storia della vita, e della fanciullezza  2646 massimente[massimamente], delle cognizioni, de' pensieri di ciascuno di noi. Quindi l'interesse che ispirano le dette storie, e loro parti, e tutto ciò che loro appartiene; interesse unico nel suo genere, come fu osservato da Chateaubriand (Génie ec.); interesse che non può esserci mai ispirato da verun'altra storia, sia anche più bella, varia, grande, e per se più importante delle sopraddette; sia anche più importante per noi, come le storie nazionali. Le suddette tre sono le più interessanti perchè sono le più note; perchè sono le più domestiche, familiari, pratiche, e quasi strette parenti di ciascun uomo civile e colto, ancorchè di patria diversissimo da queste tre nazioni. E perciò elle sono le più, anzi le sole, feconde di argomenti {storici} veramente propri d'epopea, di tragedia, ec.  2647 e all'interesse dei detti argomenti, massime nella poesia, non si può supplire in verun conto, nè con veruna industria, cavando argomenti {o dall'immaginazione, o} dalle altre storie, neppur dalle patrie. Aggiungasi alle tre dette storie, quella della guerra troiana, la quale interessa sommamente per le dette ragioni, anzi più delle altre tre, perchè i poemi d'Omero e di Virgilio, l'hanno resa più nota e familiare a ciascuno, che verun'altra, e perch'ella a cagione dei detti poemi, delle favole ec. è più legata alle ricordanze della nostra fanciullezza, che non sono la storia greca e romana, e neanche l'ebrea. Tutto ciò è relativo, e l'interesse delle dette storie non deriva particolarmente dalle loro proprie e intrinseche qualità, ma dalla circostanza estrinseca dell'essere le medesime familiari  2648 a ciascuno fin dalla sua fanciullezza; tolta la qual circostanza, che ben si potrebbe togliere, dipendendo dalla educazione ec., questo interesse o si confonderebbe e agguaglierebbe con quello delle altre storie, e argomenti storici, o sarebbe anche superato. (Roma. 25. Nov. 1822.).

[2661,1]  Et quamquam optatissimum est, perpetuo fortunam quam florentissimam permanere; illa tamen aequabilitas vitae non tantum habet sensum, * (mallem sensus 2do casu, quod magis tullianum est) quantum cum ex saevis et perditis rebus ad meliorem statum fortuna revocatur. * Cic. ap. Ammian. Marcell. XV. 5. (23. Dic. antivigilia di Natale 1822.)

[2673,2]  Pianger si de' il nascente ch'incomincia Or a solcare il mar di tanti mali, E con gioia al sepolcro s'accompagni L'uscito de' travagli della vita. * Poeta antico appo Plutarco Come debba il giovane udir le poesie, volgarizzamento di Marcello Adriani il giovane, pagina ultima, cioè p. 169. del tomo primo Opuscoli morali di Plutarco volgarizzati da Marcello Adriani il giovine stampati per la prima volta in Firenze, Piatti, 1819. (19. Feb. 1823.). {{V. la p. seg. [p. 2674,3]}}

[2673,3]  Dei beni umani il più supremo colmo È sentir meno il duolo. * Sentenza che racchiude la somma di tutta la filosofia morale e antropologica. Poeta antico nel luogo citato qui sopra. (19. Feb. 1823.).

[2683,3]  L'excès de la raison et de la vertu, est presque aussi funeste que celui des plaisirs (Aristot. de mor. II. 2. t. 2. p. 19.); la nature nous a donné des goûts qu'il est aussi dangereux d'éteindre que d'épuiser. * Même ouvrage ch. 78. t. 6. p. 456. (29. Marzo. Sabato Santo. 1823.).

[2684,1]   2684 L'uomo sarebbe felice se le sue illusioni giovanili {(e fanciullesche)} fossero realtà. Queste sarebbero realtà, se tutti gli uomini le avessero, e durassero sempre ad averle: perciocchè il giovane d'immaginazione e di sentimento, entrando nel mondo, non si troverebbe ingannato della sua aspettativa, nè del concetto che aveva fatto degli uomini, ma li troverebbe e sperimenterebbe quali gli aveva immaginati. Tutti gli uomini più o meno (secondo la differenza de' caratteri), e massime in gioventù, provano queste tali illusioni felicitanti: è la sola società, e la conversazione scambievole, che civilizzando e istruendo l'uomo, e assuefacendolo a riflettere sopra se stesso, a comparare, a ragionare, disperde immancabilmente queste illusioni, come negl'individui, così ne' popoli, e come ne' popoli, così nel genere umano ridotto allo stato sociale. L'uomo isolato non {le} avrebbe mai perdute; ed elle son proprie del giovane in particolare non tanto a causa del calore immaginativo, naturale a quell'età, quanto della inesperienza, e del vivere isolato che fanno i giovani. Dunque se l'uomo avesse continuato a vivere isolato, non avrebbe mai perdute le sue illusioni giovanili, e tutti gli uomini le  2685 avrebbero e le conserverebbero per tutta la vita loro. Dunque esse sarebbero realtà. Dunque l'uomo sarebbe felice. Dunque la causa originaria e continua della infelicità umana è la società. L'uomo, secondo la natura sarebbe vissuto isolato e fuor della società. Dunque se l'uomo vivesse secondo natura, sarebbe felice. (Roma 1. Aprile. Martedì di Pasqua. 1823.).

[2685,2]  A noi pare bene spesso di provar del piacere dicendo, o fra noi stessi o con altri, che noi ne abbiamo provato. Tanto è vero che il piacere non può mai esser presente, e quantunque da ciò segua ch'esso non può neanche mai esser passato, tuttavia si può quasi dire ch'esso può piuttosto esser passato che presente. (Roma. 12. Aprile 1823.).

[2702,1]   2702 Materia della pigrizia non sono propriamente le azioni faticose, ma quelle, faticose o no, nelle quali non è piacere presente, o vogliamo dire opinione di piacere. Niuno è pigro al bere o al mangiare. Lo studio è cosa faticosissima. Ma se l'uomo vi prova piacere, ancorchè pigro ad ogni altra cosa, non sarà pigro a studiare, anzi travaglierà nello studio gl'interi giorni. E forse la massima parte delle persone assolutamente studiose, sono infingarde, e pure nello studio operano e si affaticano continuamente. Il fine dei pensieri e delle azioni dell'uomo è sempre e solo il piacere. Ma i mezzi di conseguir quello che l'uomo si propone come piacere, ora hanno piacere in se stessi, ora no. Questi ultimi sono materia della pigrizia, ancorchè domandino pochissima fatica, ancorchè il piacere a cui condurrebbero sia vicinissimo e prontissimo e certissimo, ancorchè l'uomo faccia molta stima di questo piacere e lo desideri, ancorchè finalmente il fine al quale questi mezzi conducono sia necessario, o molto  2703 utile ad ottenere altri piaceri. Così l'uomo si astiene di comparire a una festa (dove crede che si sarebbe trovato con piacere) per non assettarsi; e se si fosse trovato all'ordine, o se non se gli fosse richiesto d'assettarsi, sarebbe andato alla festa: la qual era pure un piacer vicino e pronto, e che si otteneva certamente con un'ora di pochissima fatica. Così la pigrizia ritiene ancora da quei travagli che sono necessari a procacciarsi il mangiare e il bere, perchè essi in se non hanno piacere. Così da cento altre azioni utili, cioè conducenti più o men tosto al piacere (giacchè questo è il significato di utile), ma non piacevoli in se: e tanto più quanto più è lontano il piacere ch'esse procacciano, e quanto elle sono più faticose, più lunghe, e meno piacevoli. (20. Maggio 1823.).

[2736,1]  È cosa indubitata che i giovani, almeno nel presente stato degli uomini, dello spirito umano e delle nazioni, non solamente soffrono più che i vecchi (dico quanto all'animo), ma eziandio (contro quello che può parere, e che si è sempre detto e si crede comunemente), s'annoiano più che i vecchi, e sentono molto più di questi il peso della vita, e la fatica e la pena e la difficoltà di portarlo e di strascinarlo. E questa si è una conseguenza dei principii posti nella mia teoria del piacere. Perciocchè ne' giovani è  2737 più vita o più vitalità che nei vecchi, cioè maggior sentimento dell'esistenza e di se stesso; e dove è più vita, quivi è maggior grado di amor proprio, o maggiore intensità e sentimento e stimolo {e vivacità} e forza del medesimo; e dove è maggior grado o efficacia di amor proprio, quivi è maggior desiderio e bisogno di felicità; e dove è maggior desiderio di felicità, quivi è maggiore appetito e smania ed avidità e fame {e bisogno} di piacere: e non trovandosi il piacere nelle cose umane è necessario che dove n'è maggior desiderio quivi sia maggiore infelicità, ossia maggior sentimento dell'infelicità; {quivi maggior senso di privazione e di mancanza e di vuoto; quivi} maggior noia, maggior fastidio della vita, maggior difficoltà e pena di sopportarla, maggior disprezzo e noncuranza della medesima. Quindi tutte queste cose debbono essere in maggior grado ne' giovani che ne' vecchi; siccome  2738 sono, massime in questa presente mortificazione e monotonia della vita umana, che contrastano colla vitalità ed energia della giovanezza; in questa mancanza di distrazioni violente che stacchino il giovine da se medesimo, e lo tirino fuori del suo interno; in questa impossibilità di adoperare sufficientemente la forza vitale, di darle sfogo ed uscita dall'individuo, di versarla fuori, e liberarsene al possibile; in somma in questo ristagno della vita al cuore e alla mente e alle facoltà interne dell'uomo, e del giovane massimamente.

[2796,1]  Καὶ μοι δοκεῖ, εἴ τις τῶν ϑεῶν πάντας ἀνϑρώπους εἰς ἕνα που χῶρον συναγαγών, ἕκαστον ἀπαιτήσει τὴν ἑαυτοῦ διηγήσασϑαι τύχην, εἶτα πάντων εἰπόντων, ἑκάστου πύϑοιτο πάλιν, ποίαν ἔχειν ἕλοιτο; πάντας ἂν ἀποροῦντας σιγῆσαι μηδένα ζηλωτὸν ϑεωμένους. ᾽Eντεῦϑεν ἄρα τινές, Tραύσους οἶμαι τὸ γένος * (nationem hanc) προσαγορεύουσι, τικτομένου μέν τινος ὠλοϕύροντο σκοποῦντες, εἰς ὀσα ἦλϑε κακά, ἀπιόντος δὲ πανήγυριν * (festum) ἦγον, ὅσων ἠλευϑέρωται δυσχερῶν ἐννοόυμενοι. * Χορικίου Σοϕιστοῦ ᾽Eπιτάϕιος ἐπὶ Προκοπίῳ Σοϕιστῇ Γάζης. Oratio funebris in Procopium Sophistam-Gazaeum (§. 35. p. {{859.}}) primum edita gr. et lat. a Fabric. in B. G. edit. vet. t. 8. p. 841-63. lib. 5. c. 31. (19. Giugno 1823).

[2861,1]  In ciascun punto della vita, anche nell'atto del maggior piacere, anche nei sogni, l'uomo {+o il vivente} è in istato di desiderio, e quindi non v'ha un solo momento nella vita (eccetto quelli di totale assopimento e sospensione dell'esercizio de' sensi e di quello del pensiero, da qualunque cagione essa venga) nel quale l'individuo non sia in istato di pena, tanto maggiore quanto egli o per età, o per carattere e natura, o per circostanze mediate o immediate, o abitualmente o attualmente, è in istato di maggior sensibilità {ed esercizio della vita,} e viceversa. (30. Giugno 1823.). {{V. p. 3550.}}

[2862,1]   2862 L'amicizia, non che la piena ed intima confidenza tra' fratelli, rade volte si conserva all'entrar che questi fanno nel mondo, ancorchè siano stati allevati insieme, ed abbiano esercitato l'estremo grado di questa confidenza sino a quel momento; e di più seguano ancora a convivere. E pure se l'uomo è capace di piena ed intima confidenza, e s'egli dovrebbe conservarla perpetuamente verso qualcuno, questo dovrebb'essere verso i fratelli coetanei, ed allevati con lui nella fanciullezza: e dico dovrebb'essere, non per forza naturale {della} {congiunzione di sangue,} la qual forza è nulla e immaginaria, e niente ha che fare nel produr quella confidenza o nel conservarla, ma per forza naturale dell'abitudine e dell'abitudine contratta {nel} primo principio delle idee e delle abitudini dell'individuo, e nella prima capacità di contrarle, {e conservata} tutto quel tempo che dura la maggiore intensità e disposizione {ed ampiezza,} e il maggior esercizio di questa capacità. Nondimeno questa confidenza così fortemente stabilita e radicata si perde per la varietà che s'introduce nel carattere de' fratelli mediante il commercio cogli altri individui della società. Ma se questo  2863 commercio non avesse avuto luogo, quella confidenza sarebbe stata perpetua, com'ella non è mai cessata fino a quell'ora. Che vuol dir ciò, se non che nei caratteri degli uomini, novantanove parti son opera delle circostanze? e che per diversissimi ch'essi appariscano, come spesso accade anche tra fratelli, in questa diversità non è opera della natura, se non una parte così menoma che saria stata impercettibile? È quasi impossibile il caso che tutte le minute circostanze e avvenimenti che incontrano all'un de' fratelli nell'uso della società, incontrino all'altro, o sieno uguali a quelle che incontrano all'altro, ancorchè postogli da vicino. Questa diversità diversifica due caratteri {che parevano affatto, ed erano quasi affatto, compagni,} e com'ella è inevitabile, così la diversificazione di {questi} caratteri nella società non può mancare. E ho detto le minute circostanze, contentandomi di queste, perchè {anche} la somma di cose minutissime basta a produrre grandissimi e visibilissimi effetti sull'indole degli uomini, massime allora ch'eglino sono principianti nel mondo, e che {in essi} la capacità delle abitudini e delle opinioni, ossia la formabilità dell'indole, è ancor  2864 {molta e} grande e in buon essere. (30. Giugno. 1823.).

[2876,1]  L'uomo si rassegna a soffrire {passivamente,} o a non godere, ma niuno si rassegna a faticare invano e senza niuna speranza, o a faticar molto per cose da nulla; niuno si rassegna a soffrire attivamente senz'alcun frutto. Quindi è che dall'abito della rassegnazione sempre nasce {noncuranza, negligenza,} indolenza, inattività, e finalmente pigrizia, e torpidezza, e insensibilità, e quasi immobilità. (2. Luglio. 1823.).

[2883,1]  Io provo {presentemente} un piacere, io vorrei che la condizione di tutta la mia vita, di tutta l'eternità, fosse uguale a quella in cui mi trovo in questo momento. Questo è ciò che nessun uomo dice mai nè può dire di buona fede, neppur per un solo momento, neppure nell'atto del maggior piacere possibile. Ora se egli in quel momento provasse in verità un piacer presente e perfetto (e se non è perfetto, non è piacere), egli dovrebbe naturalmente desiderare di provarlo sempre, perchè il fine dell'uomo è il piacere; e quindi desiderare che tutta la sua vita fosse tale qual è per lui {quel} momento, e di più desiderare di viver sempre, per sempre godere. Ma egli è certissimo che  2884 nessun uomo ha concepito nè formato mai questo desiderio nemmeno nel punto più felice della sua vita, e nemmeno durante quel solo punto: egli è certissimo che non ha concepito nè mai concepirà questo desiderio per un solo istante neppur l'uomo, qualunque sia, che fra tutti gli uomini ha provato o è per provare il massimo possibile piacere. E ciò perchè nemmeno in quel punto niuno mai si trovò pienamente soddisfatto, nè lasciò nè sospese {{punto}} il desiderio nè anche {la speranza di} un maggiore ed assai maggior piacere. Con che egli non venne in quel punto a provare un vero e presente piacere. Bensì dopo passato quel tal punto l'uomo spesse volte desidera che tutta la sua vita fosse conforme a quel punto, ed esprime questo desiderio con se stesso e cogli altri di buona fede. Ma egli ha il torto, perchè ottenendo il suo desiderio, lascerebbe di approvarlo ec. (3. Luglio 1823.).

[2936,1]   2936 Le cose ch'esistono non sono certamente per se nè piccole nè vili: {+nè anche una gran parte di quelle fatte dall'uomo.} Ma esse e la grandezza e le qualità loro sono di un altro genere da quello che l'uomo desidererebbe, che sarebbe, o ch'ei pensa esser necessario alla sua felicità, ch'egli s'immaginava nella sua fanciullezza e {prima} gioventù, e ch'ei s'immagina ancora tutte le volte ch'ei s'abbandona alla fantasia, e che mira le cose da lungi. Ed essendo di un altro genere, benchè grandi, e forse talora più grandi di quello che il fanciullo o l'uomo s'immaginava, l'uomo nè il fanciullo non è giammai contento ogni volta che giunge loro dappresso, che le vede, le tocca, o in qualunque modo ne fa sperienza. E così le cose esistenti, e niuna opera della natura nè dell'uomo, non sono atte alla felicità dell'uomo. (10. Luglio. 1823.). Non ch'elle sieno cose da nulla, ma non sono di quella sorta che l'uomo indeterminatamente vorrebbe, e ch'egli confusamente giudica, prima di sperimentarle. Così elleno son nulla alla felicità dell'uomo, non essendo un nulla per se medesime. E chi potrebbe chiamare un nulla la  2937 miracolosa e stupenda opera della natura, e l'immensa egualmente che artificiosissima macchina e mole dei mondi, benchè a noi per verità ed in sostanza nulla serva? poichè non ci porta in niun modo mai alla felicità. Chi potrebbe disprezzare l'immensurabile e arcano spettacolo dell'esistenza, di quell'esistenza di cui non possiamo nemmeno stabilire nè conoscere o sufficientemente immaginare nè i limiti, nè le ragioni, nè le origini; qual uomo potrebbe, dico, disprezzare questo per la umana cognizione infinito e misterioso spettacolo della esistenza e della vita delle cose, benchè nè l'esistenza e vita nostra, nè quella degli altri esseri giovi veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici? ed essendo per noi l'esistenza così nostra come universale scompagnata dalla felicità, ch'è la perfezione e il fine {dell'esistenza,} anzi l'unica utilità che l'esistenza rechi a quello ch'esiste? e quindi esistendo noi e facendo parte della università della esistenza, senza niun frutto per noi? Ma con tutto ciò come possiamo chiamar vile e nulla quell'opera di cui non vediamo  2938 nè potremo mai vedere nemmeno i limiti? nè arrivar mai ad intendere nè anche a sufficientemente ammirare l'artifizio e il modo? anzi neppur la qualità della massima parte di lei? cioè la qualità dell'esistenza della più parte delle cose comprese in essa opera; o vogliamo dir la massima parte di esse cose, cioè degli esseri ch'esistono. Pochissimi de' quali, a rispetto della loro immensa moltitudine, son quelli che noi conosciamo pure in qualunque modo, anche imperfettamente. Senza parlar delle ragioni e maniere occulte dell'esistenza che noi non conosciamo nè intendiamo punto, neppur quanto agli esseri che meglio conosciamo, e neppur quanto alla nostra specie e al nostro proprio individuo. (10. Luglio. 1823.).

[2938,1]  Questo ch'io dico delle opere della natura, dicasi eziandio proporzionatamente di molte o grandi o belle o per qualunque cagione notabili e maravigliose opere degli uomini, o sieno materiali, o appartengano puramente alla ragione; o di mano o d'intelletto o d'immaginativa; scoperte, invenzioni, scienze, speculazioni ec. ec.  2939 discipline pratiche o teoriche; navigazioni, manifatture, edifizi, costruzioni d'ogni genere, opere d'arte ec. ec. (11. Luglio. 1823.).

[2941,1]  Il principal difetto della ragione non è, come si dice, di essere impotente. In verità ella può moltissimo, e basta per accertarsene il paragonare l'animo e l'intelletto di un gran filosofo con quello di un selvaggio o di un fanciullo, o di questo medesimo filosofo avanti il suo primo uso della ragione: e così il paragonare il mondo civile presente sì materiale che morale, col mondo selvaggio presente, e più col primitivo. Che cosa non può la ragione umana nella speculazione? Non penetra ella fino all'essenza delle cose che esistono, ed anche di se medesima? non ascende fino al trono di Dio, e non  2942 giunge ad analizzare fino ad un certo segno la natura del sommo Essere? (vedi quello che ho detto altrove in questo proposito pp. 1627-28) La ragione dunque per se, e come ragione, non è impotente nè debole, anzi per facoltà di un ente finito, è potentissima; ma ella è dannosa, ella rende impotente colui che l'usa, e tanto più quanto maggiore uso ei ne fa, e a proporzione che cresce il suo potere, scema quello di chi l'esercita e la possiede, e più ella si perfeziona, più l'essere ragionante diviene imperfetto: ella rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello, e per così dir la stessa esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto più impiccoliscono quanto ella cresce; e quanto è maggiore la sua esistenza in intensità e in estensione, tanto {l'esser delle cose} si scema e restringe ed accosta verso il nulla. Non diciamo che la ragione vede poco. In effetto la sua vista si stende quasi in infinito, {+ed è acutissima sopra ciascuno oggetto,} ma essa vista ha questa proprietà che lo spazio e gli oggetti le appariscono tanto più piccoli quanto ella più si stende  2943 e quanto meglio e più finamente vede. Così ch'ella vede sempre poco, e in ultimo nulla, non perch'ella sia grossa e corta, ma perchè gli oggetti e lo spazio tanto più le mancano quanto ella più n'abbraccia, e più minutamente gli scorge. Così che il poco e il nulla è negli oggetti e non nella ragione, {+1. (benchè gli oggetti sieno, e sieno grandi a qualunqu'altra cosa, eccetto solamente ch'alla ragione).} Perciocch'ella per se può vedere assaissimo, ma in atto ella tanto meno vede quanto più vede. Vede però tutto il visibile, e in tanto in quanto esso è e può mai esser visibile a qualsivoglia vista. (11. Luglio 1823.).

[2944,1]  Gridano che la poesia debba esserci contemporanea, cioè adoperare il linguaggio e le idee e dipingere i costumi, e fors'anche gli accidenti de' nostri tempi. Onde condannano l'uso delle antiche finzioni, opinioni, costumi, avvenimenti. {Puoi vedere la p. 3152.} Ma io dico che tutt'altro potrà esser contemporaneo a questo secolo fuorchè la poesia. Come può il poeta adoperare il linguaggio e seguir le idee e mostrare i costumi d'una generazione d'uomini per cui la gloria è un fantasma, la libertà la patria l'amor patrio non esistono, l'amor vero è una  2945 fanciullaggine, e insomma le illusioni son tutte svanite, le passioni, non solo grandi e nobili e belle, ma tutte le passioni estinte? Come può, dico, ciò fare, ed esser poeta? Un poeta, una poesia, senza illusioni senza passioni, sono termini che reggano in logica? Un poeta in quanto poeta può egli essere egoista e metafisico? e il nostro secolo non è tale caratteristicamente? come dunque può il poeta essere caratteristicamente contemporaneo in quanto poeta?

[2965,1]  Così discorrere del fanciullo. Il quale neanche si può così semplicemente dire che trovi piacevole a vedere la gioventù, appena, e la prima volta ch'ei la vede; che gli paia, come si dice, bella assolutamente e per se, e più bella della vecchiezza, al primo vederla.  2966 Ho notato altrove pp. 1198-99 pp. 1750-52 quanto spesso una persona giovane gli paia, e sia da lui espressamente giudicata bruttissima, e una persona vecchia bellissima (ancorchè ella sia a tutti gli altri brutta, eziandio per vecchia), e ciò per varie circostanze. E i sopraddetti effetti non hanno luogo nel fanciullo, o non v'hanno luogo costantemente e sicuramente nè in modo che non sia accidentale e di circostanza, se non dopo essersi sviluppata in lui la inclinazione naturale verso la gioventù, massime in ordine agl'individui della propria specie; il quale sviluppo, specialmente ne' paesi meridionali, accade nel fanciullo assai presto, e molto prima ch'egli sia in grado ec. V. l'Alfieri nella sua Vita. Accade, dico, almeno in parte. E anche circa il cieco nato che acquisti improvvisamente il vedere, dubito molto che egli ne' primi momenti, e anche ne' primi giorni, trovi assolutamente bello, come si dice, l'aspetto della giovanezza per se medesimo, e più bello che quello della vecchiezza. ec. Del resto il cieco nato, restando pur cieco, troverà certo più piacevole  2967 p. e. la voce giovanile che la senile, e tutte le altre sensazioni che gli verranno da persone giovani, in parità di circostanze, le troverà più piacevoli di quelle che gli verranno da persone vecchie; e l'idea ch'egli concepirà della giovanezza, qualunque ella sia, sarà per lui più piacevole, e, come si dice, più bella che la contraria, e piacevole e bella per se medesima. Ma tutto ciò sarà effetto della inclinazione, e non derivato originalmente dall'intelletto. ec.

[2987,3]  La gioventù non era fra gli antichi un bene inutile, e un vantaggio di cui niun frutto si potesse cavare, nè la vecchiezza era uno incomodo e uno  2988 svantaggio che niun bene, {niun comodo,} niun godimento togliesse, e niuna privazione recasse seco. Quindi e molto meno frequente che a' tempi nostri era il numero di quelli che in gioventù si uccidevano, e molti più vecchi suicidi si trovano commemorati nell'antichità che non si veggono al presente. Come dire Pomponio Attico e molti filosofi greci e romani. Perocchè al presente le contrarie cagioni producono effetto contrario. Il giovane moltissimo desidera e nulla ha, neppure ha come distrarre, divertire, ingannare il suo desiderio, e occupare la sua forza vitale, adoperarla, sfogarla. Quindi più giovani suicidi oggidì che fra gli antichi non pur giovani solamente, ma giovani e vecchi insieme. Il vecchio nulla perde per la vecchiezza, e poco, o meno ferventemente e impetuosamente e smaniosamente, desidera. Quindi è così raro un vecchio suicida oggidì, che parrebbe quasi miracolo. E pure il giovane che si uccide, privasi della gioventù, e rinunzia a una vita, ch'ei si può ancora promettere,  2989 di molti anni. Il vecchio si priva della vecchiezza (qual privazione Dio buono) e rinunzia a pochi anni o mesi di vita. Nonpertanto per mille giovani suicidi appena e forse neanche si troverà oggi un solo vecchio suicida, e questo, se pur si troverà, sarà forse tale per qualche estrema disgrazia, in qualche caso ove la vita fosse già disperata, e per salvarsi da una morte più trista, e sicura. Ma neanche nell'estreme sventure è costume de nostri vecchi il ricorrere volontariamente alla morte. Applicate queste considerazioni a quello che ho detto altrove p. 294 p. 2643 circa l'amor della vita nei vecchi, l'amore e la cura della vita crescenti in proporzione che per l'aumento dell'età scema il valore d'essa vita. (18. Luglio 1823.).

[3027,2]  Ho discorso altrove p. 826 di quel luogo di Cic. nella Vecchiezza, dove dice che l'animo nostro, non si sa come, sempre mira alla posterità ec. e ne deduce ch'egli abbia un sentimento naturale della sua propria eternità e indestruttibilità. Ho mostrato come questo effetto viene dal desiderio dell'infinito, ch'è una conseguenza dell'amor proprio, e dal continuo ricorrer che l'uomo fa colla speranza  3028 al futuro, non potendo esser mai soddisfatto del presente, nè trovandovi piacere alcuno, e d'altronde non rinunziando mai alla speranza, fino a trapassar con essa di là dalla morte, non trovando più in questa vita dove ragionevolmente fermarla. Ma il suddetto effetto non è naturale. Esso viene dall'esperienza già fatta, che la memoria degli uomini insigni si conserva, dal veder noi medesimi conservata presentemente e celebrata la memoria di tali uomini, e dal conservarla e celebrarla noi stessi. Onde introdotta nel mondo questa fama superstite alla morte, essa è stata ed è bramata e cercata, come tanti altri beni {+o di opinione o qualunque,} di cui la natura niun desiderio ci aveva ispirato, e che sono comparsi nel mondo di mano in mano per varie circostanze, non da principio, nè creati dalla natura. Nei primissimi principii della società, quando ancor non v'era esempio di rammemorazioni e di lodi tributate ai morti, neppur gli uomini coraggiosi e magnanimi, quando anche desiderassero la stima de' loro compagni e contemporanei, pensarono mai  3029 a travagliare per la posterità, nè, molto meno, a trascurare il giudizio de' presenti per proccurarsi quello de' futuri, o rimettersi alla stima de' futuri. Che se il tempo che ho detto, colle circostanze che ho supposte non v'è mai stato, supponendo però ch'egli sia stato o sia mai per essere in alcun luogo, certamente ne verrebbe l'effetto che ho ragionato, cioè che niuno benchè magnanimo, benchè insigne tra' suoi connazionali o compagni, avrebbe o concepirebbe alcuna cura o pensiero della posterità. (25. Luglio. dì di San Giacomo. 1823.).

[3040,1]  L'uomo in cui concorressero grande {e colto} ingegno, e risolutezza, si può affermare senz'alcun dubbio che farebbe {e otterrebbe} gran cose nel mondo, e che certo non potrebbe restare oscuro, in qualunque condizione l'avesse posto la fortuna della nascita. Ma l'abito della prudenza nel deliberare esclude ordinariamente la facilità e prontezza del risolvere, ed anche la fermezza nell'operare. Di qui è che gli uomini d'ingegno grande ed esercitato sono per lo più, anzi quasi sempre prigionieri, per così dire, dell'irresolutezza, {+difficili a risolvere, timidi, sospesi, incerti, delicati, deboli nell'eseguire.} Altrimenti essi dominerebbero il mondo, il quale, perchè la risolutezza per se può sempre più che la prudenza sola, fu {ed è} e sarà sempre in balia degli uomini mediocri. (26. Luglio, dì di S. Anna. 1823.).

[3058,2]  Corruptio optimi pessima. Questo proverbio si verifica nominatamente negli uomini, negli spiriti sensibilissimi che col tempo e coll'uso del mondo divengono più insensibili degl'insensibilissimi per natura, come ho detto altrove pp. 1473-74 pp. 1648-49 pp. 2039-41 pp. 2107-110 pp. 2208-210 pp. 2473-74, e danno nell'eccesso contrario ec. (28. Luglio. 1823.)

[3061,1]  Niuna cosa nella società è giudicata, nè {{infatti riesce}} più vergognosa del vergognarsi. (29. Luglio. 1823.).

[3078,1]  La più bella e fortunata età dell'uomo, la sola che potrebb'esser felice oggidì, ch'è la fanciullezza, è tormentata in mille modi, con mille angustie, timori, fatiche dall'educazione e dall'istruzione, tanto che l'uomo adulto, anche in mezzo all'infelicità che porta la cognizion del vero, il disinganno, la noia della vita, l'assopimento della immaginazione, non accetterebbe di tornar fanciullo colla condizione di soffrir quello stesso che nella fanciullezza ha sofferto. E perchè così tormentata  3079 e fatta infelice quella povera età, nella quale l'infelicità parrebbe quasi impossibile a concepirsi? Perchè l'individuo divenga colto e civile, cioè acquisti la perfezione dell'uomo. Bella perfezione, e certo voluta dalla natura umana, quella che suppone necessariamente la {somma} infelicità di quel tempo che la natura ha manifestamente ordinato ad essere la più felice parte della nostra vita. Torno a domandare. Perchè fatta così infelice la fanciullezza? E rispondo più giusto. Perchè l'uomo acquisti a spese di tale infelicità quello che lo farà infelice per tutta la vita, cioè la cognizione di se stesso e delle cose, le opinioni, i costumi le abitudini contrarie alle naturali, e quindi esclusive della possibilità di esser felice; perchè colla infelicità della fanciullezza si compri e cagioni quella di tutte le altre età; o vogliamo dire perch'ei perda colla felicità della fanciullezza, quella che la natura avea destinato {e preparato} siccome a questa, così a ciascun'altra età dell'uomo, {+e ch'altrimenti egli avrebbe ottenuta in effetto.} (1. Agosto. 1823.).

[3107,1]  Altra proprietà dell'uomo si è che laddove la superiorità, laddove la virtù congiunta colla fortuna non produce se non un interesse debole, cioè l'ammirazione; per lo contrario la sventura in qualunque {caso}, ma molto più la sventura congiunta colla virtù, produce un interesse vivissimo, durevole e dolcissimo. Perocchè l'uomo si compiace nel sentimento della compassione, perchè nulla sacrificando, ottiene con essa quel sentimento che in ogni cosa e in ogni occasione gli è gratissimo, cioè una quasi coscienza di proprio eroismo e nobiltà d'animo. La sventura è naturalmente cagione di dispregio e anche d'odio verso lo sventurato, perchè l'uomo per natura odia, come il dolore, così le idee dolorose. Mirando dunque, malgrado la sciagura, alla virtù dello sciagurato, e non {abbominandolo nè} disdegnandolo quãtunque[quantunque] tale, e finalmente giungendo a compassionarlo, cioè a voler coll'animo entrare a parte de' suoi  3108 mali, pare all'uomo di fare uno sforzo sopra se stesso, di vincere la propria natura, di ottenere una prova della propria magnanimità, di avere un argomento con cui possa persuadere a se medesimo di esser dotato di un animo superiore all'ordinario; tanto più ch'essendo proprio dell'uomo l'egoismo, e il compassionevole interessandosi per altrui, stima con questo interesse che niun sacrifizio gli costa, mostrarsi a se stesso straordinariamente magnanimo, singolare, eroico, più che uomo, poichè può non essere egoista, e impegnarsi seco medesimo per altri che per se stesso. L'uomo nel compatire s'insuperbisce e si compiace di se medesimo: quindi è ch'egli goda nel compatire, e ch'ei si compiaccia della compassione. {Veggansi le pagg. 3291-97. e 3480-2.} L'atto della compassione è un atto d'orgoglio che l'uomo fa tra se stesso. Così anche la compassione che sembra l'affetto il più lontano, anzi il più contrario, all'amor proprio, e che sembra non potersi in nessun modo e per niuna parte ridurre o riferire a questo amore, non  3109 deriva in sostanza (come tutti gli altri affetti) se non da esso, anzi non è che amor proprio, ed atto di egoismo. {+Il quale arriva a prodursi e fabbricarsi un piacere col persuadersi di morire, o d'interrompere le sue funzioni, applicando l'interesse dell'individuo ad altrui. Sicchè l'egoismo si compiace perchè crede di aver cessato o sospeso il suo proprio essere di egoismo. V. p. 3167.}

[3154,1]  2. Poco ai tempi d'Omero valeva ed operava quello che negli uomini si chiama cuore, moltissimo l'immaginazione. Oggi per lo contrario (e così a' tempi di Virgilio) l'immaginazione  3155 è generalmente sopita, agghiacciata, intorpidita, estinta; difficilissimo è ravvivarla anche al gran poeta, il quale altresì difficilmente può esser oggi gagliardamente ispirato dalla immaginativa, ed esser grande per quella parte che propriamente spetta all'immaginazione e per ciò che da lei deriva, come furono Omero e Dante. Se l'animo degli uomini colti è ancor capace d'alcuna impressione, d'alcun sentimento vivo, sublime e poetico, questo appartien propriamente al cuore. Ed infatti oggidì appresso gli altri poeti di verso e di prosa, il cuore è sottentrato universalmente e quasi del tutto all'immaginazione, quello gl'ispira, quello essi mirano a commuovere, e su quello realmente operano sempre ch'ei sono atti a riuscire nel loro intento. I poeti d'immaginazione oggidì, manifestano sempre lo stento e lo sforzo e la ricerca, e siccome non fu la immaginazione che li mosse a poetare, ma essi che si espressero dal cervello e dall'ingegno,  3156 e si crearono e fabbricarono una immaginazione artefatta, così di rado o non mai riescono a risuscitare e riaccendere la vera immaginazione, già morta, nell'animo de' lettori, e non fanno alcun buono effetto. Così dico di quelle parti che ne' moderni {scrittori} sono di pura immaginazione. Lord Byron è un'eccezione di regola, forse unica, per se stesso. {V. p. 3477.} Quanto all'effetto delle sue poesie sopra i lettori, dubito ch'elle debbano essere eccettuate dal numero delle altre poesie d'immaginazione. {V. p. 3821.} L'animo nostro è troppo diverso dal suo. Male ei ci può restituire quella immaginativa ch'egli ha conservata, ma che noi abbiamo per sempre perduta. {#1. Anche Omero e Dante hanno assai che fare per ridestar la nostra immaginazione. Contuttociò, quantunque la fantasia di L. Byron sia certo naturalmente straordinaria, nondimeno è pur vero che anch'ella è in grandissima parte artefatta, o vogliamo dire spremuta a forza, onde si vede chiaramente che il più delle poesie di L. Byr. vengono dalla volontà e da un abito contratto dal suo ingegno, piuttosto che da ispirazione e da fantasia spontaneamente mossa.} Ora tra i poeti epici egli è pure strano che Omero antichissimo abbia tanto mirato al cuore, e che Virgilio e i moderni non si sieno proposti per oggetto finale ed essenziale de' loro poemi che di muovere l'immaginazione. Perocchè il soggetto essenziale e unico principale de' loro poemi si è un Eroe felice e un'impresa felicemente  3157 terminata. Ora la felicità non vale che per la maraviglia, la quale spetta all'immaginazione e nulla al cuore. Tanto possono fare errare i più grandi spiriti le regole e l'arte, e tanto nascondere la natura dell'uomo, de' tempi, delle cose, traviarli dal vero, travisar loro e occultare il proprio scopo e la propria essenza di quelle cose medesime ch'essi intraprendono ed alle quali esse regole appartengono. {Veramente di tutti i poemi epici, il più antico, cioè l'iliade, è, quanto all'insieme, allo scopo totale e non parziale, al tutto e non alle parti, all'intenzion finale e primaria, non episodica, addiettiva e secondaria e quasi estrinseca, accidentale ec.; è, dico il più sentimentale, anzi il solo sentimentale; cosa veramente strana a dirsi, e che par contraddittoria ne' termini, ed è infatti mostruosa ed opposta alla natura de' progressi e della storia dello spirito umano e degli uomini, e delle differenze de' tempi, alla natura rispettivamente dell'antico al moderno, e viceversa ec. È anche il poema più Cristiano. Poichè interessa pel nemico, pel misero ec. ec.}

[3158,1]  4. Oggi, come ho già detto p. 564 pp. 3141. sgg., e proporzionatamente eziandio a' tempi di Virgilio, si può dir che più non esista interesse pubblico, se non in quei pochi che le cose pubbliche amministrano, e che il pubblico rappresentano,  3159 anzi, si può dir, lo compongono {e} costituiscono. Ed è ben cosa ragionevole e consentanea che l'interesse pubblico negli altri più non esista (e chi governa non legge poemi). Ora dunque i poemi il cui soggetto non è che qualche felicità {e gloria} nazionale, poco possono oggidì interessare, o certo assai meno che a' tempi d'Omero. Ma la sventura, e massime degl'immeritevoli, è sempre dell'interesse privato di ciascheduno uomo. Niuno è che non si stimi infelice e conseguentemente nol sia, e niuno è parimente che non si reputi immeritevole della infelicità ch'ei sostiene. Queste disposizioni benchè comuni a tutti i tempi, sono massimamente sensibili oggidì, poichè {+per le circostanze politiche} la vita non ha più come {vivamente} occuparsi e distrarsi, e {d'altronde} il lume della filosofia dissipa ben tosto, o soffoca nel nascere, o impedisce del tutto qualunque illusione di felicità. Quindi eziandio indipendentemente dalla compassione, egli era  3160 tanto più conveniente oggidì che a' tempi d'Omero il far molto giuocare ne' poemi epici le sventure degli uomini, quanto che oggi il sentimento della infelicità nelle nazioni civili è più vivo che fosse mai nel genere umano, ed {è} il sentimento e il pensiero per così dir dominante, {+da cui niuno oramai trova più come distrarsi.} E la infelicità individuale degli uomini è, per così dire, il carattere o il segno di questo secolo. Tutto al contrario di quel d'Omero, il quale forse godette di quella maggior felicità o minore infelicità che possa godersi dall'uomo nello stato sociale, e che sempre risulta dalla grande attività della vita e dalle grandi {e forti} illusioni, cose proprissime di quel tempo, massime nella Grecia. Or dunque oggidì le sventure cantate da' poeti, non possono non interessar grandemente, e più che in ogni altro tempo, e tutti; essendo il sentimento della propria sventura l'universale e più continuo sentimento degli uomini d'oggidì, ed amando naturalmente gli uomini di parlare e  3161 udir parlare delle cose proprie, e riguardando ciascheduno la infelicità come propria sua cosa, e dilettandosi gli uomini singolarmente di quelli che loro più si assomigliano, nè potendosi trovar somiglianza più universale che quella della infelicità, e compiacendosi ciascheduno di vedere in altrui o di legger ne' poeti i suoi propri sentimenti, e contando per somma ventura ogni volta ch'egli incontra o nella vita o ne' libri qualche notabile conformità o di casi o di circostanze o di opinioni o di carattere o di pensieri o d'inclinazioni o di modi o di vita e abitudini, colle sue proprie; e consolandosi ciascheduno delle sue sventure coll'esempio vivamente rappresentato, e più col vederle quasi celebrate e piante in altrui {+(e ciò in soggetto e circostanze e persone e avvenimenti illustri, come son quelli cantati ne' poemi epici),} innalzando il concetto di se stesso quasi il canto del poeta avesse per soggetto la di lui stessa infelicità, ed intenerendosi nella lettura quasi sui proprii mali. Chè in verità qualora leggendo i poeti (versificatori o prosatori) {o le storie} noi ci sentiamo  3162 commuovere da quelle vere o finte calamità, e ci lasciamo andare alle lagrime, crediamo forse di piangere le miserie altrui ma più spesso e più veramente, o più intensamente piangiamo in quel med. punto le nostre proprie, o mescoliamo il pensiero di queste al pensiero di quelle, e questa mescolanza (ch'è vera e propria e debita arte, e dev'essere scopo, del poeta l'occasionarla) è principal cagione di quelle nostre lagrime. E ci accade allora (e così ne' teatri ec.) come ad Achille piangente sul capo di Priamo il suo vecchio padre e la breve vita a se destinata ec. ec. sublimissimo e bellissimo e naturalissimo quadro di Omero. {+Le sventure, quando sieno nazionali, o in altra maniera più {particolarmente} appartenenti ai lettori, interesseranno sempre più, per la maggior somiglianza e prossimità, che non è quella dello sventurato in generale, e perchè sarà tanto più facile e pronto il passaggio dell'animo del lettore da quelle calamità alle sue proprie ec. Onde sarà sempre importantissimo che il soggetto del poema sia nazionale, e questi soggetti saranno sempre preferibili agli altri, e la nazionalità conferirà moltissimo all'interesse.}

[3171,1]   3171 Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell'umano intelletto, nè l'altezza e nobiltà dell'uomo, che il poter l'uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de' mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch'è minima parte d'uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell'esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener  3172 col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose. Certo niuno altro essere pensante su questa terra giunge mai pure a concepire o immaginare di esser cosa piccola o in se o rispetto all'altre cose, eziandio ch'ei sia, quanto al corpo, una bilionesima parte dell'uomo, per nulla dire dell'animo. E veramente quanto gli esseri più son grandi, quale sopra tutti gli esseri terrestri si è l'uomo, tanto sono più capaci della conoscenza e del sentimento della propria piccolezza. Onde avviene che questa conoscenza e questo sentimento anche tra gli uomini sieno infatti tanto maggiori e più vivi, ordinari, continui e pieni, quanto l'individuo è di maggiore e più alto e più capace {intelletto} ed ingegno. (12. Agosto. dì di S. Chiara. 1823.).

[3183,1]  Gli uomini che nel mondo sono stimati e sono tenuti da quanto gli altri o da più degli altri, lo sono per l'ordinario in quanto coll'uso della società essi si sono allontanati dalla natura lor propria e dagli abiti naturali dell'uomo generalmente, ed hanno in se oscurata e coperta la natura, o sanno, sempre che vogliono, coprirla. E quanto più è oscurata in loro e coperta e mutata sì la natura individuale e lor propria, vale a dire il loro natural carattere, e gli abiti a che essa {particolar natura} gli avrebbe condotti, sì la natura generale degli uomini, tanto la stima generale verso di essi è maggiore. Voglio dir che la più parte delle qualità che negli uomini ottengono stima appo il mondo, o sono totalmente acquisite e per nulla naturali, anzi spesso contrarie alla natura lor propria o generale; ovvero sono talmente svisate  3184 dal naturale che per naturali non si ravvisano, e più che sono svisate, più, per l'ordinario, si stimano. Perocchè egli è ben raro che una qualità semplicemente naturale, e tale qual ella è da natura, sia stimata punto nella società, e quando pur sialo, questa stima non è nè durevole, nè salda, nè generale, nè molta, {ed} è sempre inferiore a quella delle qualità acquisite o snaturate, le quali si apprezzano per regola, stabilmente e seriamente, ma le naturali quasi per gioco, per rarità, per variare, per passatempo, momentaneamente. Quelle si stimano come gravi, serie, e da negozio; queste come lievi, di poca importanza ed utilità, da {semplice} trattenimento e da ozio: e la società presto se ne annoia.

[3197,1]  In molti luoghi di questi miei pensieri pp. 1370-72 pp. 1432-33 pp. 1455-56 pp. 1628-29 pp. 1828-30 pp. 2151-52 pp. 2268-69 pp. 2484-85 pp. 2569-72 ho dimostrato come l'uomo debba quasi tutto alle circostanze, all'assuefazione, all'esercizio; quanta parte di ciò che si chiama talento naturale, e diversità o superiorità o inferiorità di talenti, non sia per verità altro che assuefazione, esercizio, ed opera di circostanze non naturali nè necessarie ma accidentali, e diversità di assuefazioni e di circostanze, maggiore o minore assuefazione, e maggiore o minor favore o disfavore di circostanze e di accidenti secondarii: la diversità delle quali cose accresce a dismisura le piccole differenze e le piccole superiorità o inferiorità di facoltadi che si trovano naturalmente {e primitivamente} tra questo e quello ingegno di questo o quello individuo o nazione, in questo o quel secolo. Io però non intendo con ciò di negare che non v'abbiano diversità naturali fra i vari talenti, le varie facoltà, i vari primitivi caratteri degli uomini; ma solamente affermo e dimostro che tali diversità assolutamente naturali, innate, e primitive sono molto  3198 minori di quello che altri ordinariamente pensa. Del resto che gl'intelletti, gli spiriti, insomma gli animi degli uomini differiscano naturalmente e primitivamente gli uni dagli altri, con minute differenze bensì, ma pur vere ed effettive e notabili differenze; e che varie sieno le loro naturali disposizioni, maggiori in altri, in altri minori, ed ordinate in quelli a certi oggetti, in questi a certi altri, è cosa, come da tutti e sempre creduta, così vera e reale, e dimostrata da molte osservazioni, le quali, o alcune di esse, verrò qui sotto segnando per capi, sommariamente però, ed in modo che sopra ciascun capo potrà e dovrà molto più estendersi il discorso di quello che io sia per estenderlo.

[3265,1]   3265 Si può dire che le viste, i disegni, {i proponimenti, i fini,} le speranze, i desiderii dell'uomo, tutto ciò in somma che ne' suoi pensieri ha relazione al futuro, tanto più si stendono, cioè tanto più mirano e tendono, o giungono, lontano, quanto minore naturalmente è lo spazio di vita che gli rimane, {e viceversa.} Niun pensiero del bambino appena nato ha relazione al futuro, se non considerando come futuro l'istante che dee succedere al presente momento, perocchè il presente non è in verità che istantaneo, e fuori di un solo istante, il tempo è sempre e tutto o passato o futuro. Ma considerando il presente e il futuro non esattamente e matematicamente, ma in modo largo, secondo che noi siamo soliti di concepirlo e chiamarlo, si dee dire che il bambino non pensa che al presente. Poco più là mira il fanciullo; ond'è che proporre al fanciullo (p. e. negli studi) uno scopo lontano (come la gloria e i vantaggi ch'egli acquisterà nella maturità della vita o nella vecchiezza, o anche pur nella giovanezza), è assolutamente inutile per muoverlo (onde è sommamente giusto ed utile l'adescare il fanciullo allo studio col proporgli onori o vantaggi ch'egli  3266 possa e debba conseguire ben tosto, e quasi di giorno in giorno, che è come un ravvicinare a' suoi occhi lo scopo della gloria e della utilità {degli studi,} senza il quale ravvicinamento è impossibile ch'ei fissi mai gli occhi in detto scopo, e per conseguirlo si assoggetti volentieri alle fatiche e alle sofferenze ripugnanti alla natura, che gli studi richieggono). Più si stendono le viste del giovane, ma meno assai di quelle dell'uomo maturo e riposato, i cui calcoli sul futuro oltrepassano bene spesso, senza ch'ei se n'avvegga, lo spazio di vita naturalmente concesso ai mortali. Perciocchè l'uomo maturo comincia già a compiacersi supremamente e contentarsi della speranza, e pascerne la sua vita. Della quale speranza si nutre parimente, e con essa favella e delira anche il giovane, e il fanciullo altresì; ma non in modo che d'essa si contentino, e che non cerchino di prontamente effettuarla e recarla in opera, e venire al fatto. Il che nasce dall'ardore di quelle età, dall'attività dell'animo unita e cospirante con quella del corpo, dalla  3267 freschezza e forza del loro amor proprio, e quindi dall'energia ed efficacia de' loro desiderii impazienti d'indugio, e però non sofferenti di proporsi un oggetto ch'ei non possano o ch'ei non credano di potere in poco spazio e dentro un picciolo termine conseguire; finalmente dall'inesperienza ch'egli hanno intorno alla vanità delle umane speranze, alla difficoltà che l'uomo prova in condurle a fine, e alla nullità eziandio degli stessi beni sperati, la quale inevitabilmente apparisce così tosto com'ei sono posseduti. Le contrarie cagioni producono la lunghezza e lontananza delle viste nell'uomo maturo; e l'eccesso di dette contrarie qualità producono l'eccesso del contrario effetto nella vecchiezza, la quale ridotta a non potersi ragionevolmente promettere più che un brevissimo avanzo di vita, pure nella estensione delle sue viste supera {+di gran lunga} tutte le altre età dell'uomo. Perocchè il vecchio per la debolezza di corpo e d'animo, e pel disinganno de' beni umani già provati, e per lo illanguidimento dell'amor proprio che va di pari colla quasi diminuzione e raffreddamento  3268 della vita, non è capace se non di fievoli desiderii, e quindi si contenta di propor loro uno scopo lontano e in esso fermarli, e i suoi desiderii si contentano di rimanervi; per la {diuturna} esperienza fatta della vanità e del tristo esito delle speranze, con un quasi stratagemma, le indirizza a luoghi così lontani ch'elle non possano se non assai tardi o non mai, avvicinandosi a quelli e giungendovi, scomparire; per la irresoluzione propria dell'età sua, rimettendo ogni azione al dipoi, e costretto di rimettere eziandio e quasi differire le sue speranze, e gli oggetti de' suoi desiderii e il loro conseguimento ch'ei si propone, o ch'ei si compiace, per dir meglio, di vagheggiare; e per {l'abito della} tardità e lentezza nell'operare a cui la gravezza e l'impotenza dell'età lo costringe, e per la pigrizia e negligenza e torpore dell'animo che ne deriva {+e n'è pur cagione,} i suoi desiderii altresì e le sue speranze ne divengono tarde e pigre e lente e quasi trascurate (benchè sempre però bastantemente vive per mantenerlo e quasi allattarlo, come alla vita umana  3269 indispensabilmente ricercasi), ed ei giunge a persuadersi fra se stesso non con l'intelletto, ma con l'immaginazione e con la non ragionata abitudine dell'altre facoltà del suo spirito, che il tempo e la natura {e le} cose sian {divenute} ed abbiano a riuscir così lente e pigre com'esso {necessariamente} è. (26. Agosto. 1823.)

[3269,1]  Il poeta lirico nell'ispirazione, il filosofo nella sublimità della speculazione, l'uomo d'immaginativa e di sentimento nel tempo del suo entusiasmo, l'uomo qualunque nel punto di una forte passione, nell'entusiasmo del pianto; ardisco anche soggiungere, mezzanamente riscaldato dal vino, vede e guarda le cose come da un luogo alto {+e superiore a quello in che la mente degli uomini suole ordinariamente consistere.} Quindi è che scoprendo in un sol tratto molte più cose ch'egli non è usato di scorgere a un tempo, e d'un sol colpo d'occhio discernendo e mirando una moltitudine di oggetti, ben da lui veduti più volte ciascuno, ma non mai tutti insieme (se non in altre simili congiunture), egli è in grado di scorger con essi i loro rapporti scambievoli, e per la novità di quella moltitudine  3270 di oggetti tutti insieme rappresentantisegli, egli è attirato e a considerare, benchè rapidamente, i detti oggetti meglio che per l'innanzi non avea fatto, e ch'egli non suole; e a voler guardare e notare i detti rapporti. Ond'è ch'egli ed abbia in quel momento una straordinaria facoltà di generalizzare (straordinaria almeno relativamente a lui ed all'ordinario del suo animo), e ch'egli l'adoperi; e adoperandola scuopra di quelle verità generali e perciò veramente grandi e importanti, che indarno fuor di quel punto e di quella ispirazione {e quasi μανία e furore} o filosofico o passionato o poetico o altro, indarno, dico, con lunghissime e pazientissime {+ed esattissime} ricerche, esperienze, confronti, studi, {ragionamenti,} meditazioni, esercizi della mente, dell'ingegno, della facoltà di pensare di riflettere di osservare di ragionare, indarno, ripeto, non solo quel tal uomo o poeta o filosofo, ma qualunqu'altro o poeta o ingegno qualunque o filosofo acutissimo e penetrantissimo, anzi pur molti filosofi insieme cospiranti, e i secoli stessi col successivo avanzamento dello spirito umano, cercherebbero di scoprire, {o} d'intendere, o {di} spiegare, siccome  3271 colui, mirando a quella ispirazione, facilmente e perfettamente e pienamente fa a se stesso in quel punto, e di poi {a se stesso ed} agli altri, purch'ei sia capace di ben esprimere i propri concetti, ed abbia bene e chiaramente e distintamente presenti le cose allora concepite e sentite. (26. Agos. 1823.).

[3271,1]  Secondo ch'io osservo e che si potrà spiegare colle ragioni da me recate in altri luoghi pp. 97-99 p. 1589 p. 1605, l'abito di compatire, quello di beneficare, o di operare in qualunque modo per altrui, e, mancando ancora la facoltà, l'inclinazione alla beneficenza e all'adoperarsi in pro degli altri, sono sempre (supposta la parità delle altre circostanze di carattere o indole, educazione, coltura di spirito, o rozzezza, e simili cose) in ragion diretta della forza, della felicità, del poco o niun bisogno che l'individuo ha dell'opera e dell'aiuto altrui, ed in proporzione inversa della debolezza, della infelicità, dell'esperienza delle sventure e dei mali, sieno passati, o massimamente presenti, del bisogno che l'uomo ha degli altrui soccorsi ed uffici. {Veggansi le pagg. 3765-68.} Quanto più l'uomo è in istato di esser  3272 soggetto di compassione, o di bramarla, o di esigerla, e quanto più egli la brama o l'esige, anche a torto, e si persuade di meritarla, tanto meno egli compatisce, perocch'egli allora rivolge in se stesso tutta la natural facoltà, e tutta l'abitudine che forse per lo innanzi egli aveva, di compatire. Quanto l'uomo ha maggior bisogno della beneficenza altrui, tanto meno egli è, non pur benefico, ma inclinato a beneficare; tanto meno egli non solo esercita, ma ama in se quella beneficenza che dagli altri desidera o pretende, e crede a torto o a ragione di meritare, o di abbisognarne. L'uomo debole, e sempre bisognoso di quegli uffici maggiori o minori che si ricevono e si rendono nella società, e che sono il principale oggetto a cui la società è destinata, o quello a cui principalmente dovrebbe servire la scambievole comunione degli uomini; pochissimo o nulla inclina a prestar la sua opera altrui, e di rado o non mai, o bene scarsamente la presta, ancor dov'ei può, ed {ancora} agli uomini più deboli e più bisognosi di lui. L'uomo assuefatto alle sventure, e  3273 massime quegli a cui la vita è sinonimo e compagno del patimento, nulla sono mossi, o del tutto inefficacemente, dalla vista o dal pensiero degli altri mali e travagli e dolori. L'amor proprio in un essere infelice è troppo occupato perch'egli possa dividere il suo interesse tra questo essere e i di lui simili. Assai egli ha da esercitarsi quando egli ha le sue proprie sventure; sieno pur molto minori di quelle che se gli rappresentano in qualunque modo in altrui. Se le proprie sventure sono presenti, la compassione, come ho detto, tutta rivolta e impiegata sopra se stesso, in esso lui si consuma, e nulla n'avanza per gli altri. Se sono passate, posto ancora che piccolissime fossero, la rimembranza di esse fa che l'uomo non trovi nulla di straordinario nè di terribile ne' patimenti e disastri degli altri, nulla che meriti di farlo {come} rinunziare al suo amor proprio per impiegarlo in altrui beneficio; come già pratico del soffrire, egli si contenta di consigliar tacitamente e fra se stesso agl'infelici, che si rassegnino alla lor sorte, e si crede in diritto di esigerlo, quasi  3274 egli medesimo n'avesse già dato l'esempio; perocchè ciascuno in qualche modo si persuade di aver tollerato o di tollerare le sue disgrazie e le sue pene virilmente al possibile, e con maggior costanza, che gli altri, o almeno il più degli uomini, nel caso suo, non farebbero o non avrebbero fatto; nella stessa guisa che ciascuno si pensa sopra tutti gli altri essere o essere stato indegno de' mali ch'ei sostiene o sostenne. Oltre di che l'abito d'insensibilità verso l'altrui sciagure, contratto nel tempo ch'ei fu sventurato, non è facile a dispogliarsene, sì perch'esso è troppo conforme all'amor proprio, che vuol dire alla natura dell'uomo; sì perchè grande e profonda è l'impressione che fa nel mortale la sventura, e quindi durevole l'effetto che produce e che lascia, e ben sovente decisivo del suo carattere per tutta la vita, e perpetuo.

[3301,1]  Come l'uomo sia quasi tutto opera delle circostanze e degli accidenti: quanto poco abbia fatto in lui la natura: quante di quelle medesime qualità che in lui più naturali si credono, anzi di quelle ancora che non d'altronde mai si credono poter derivare che dalla natura, nè per niun modo acquistarsi, e necessariamente in lui svilupparsi e comparire, non altro sieno in effetto che acquisite, e {tali che} nell'uomo posto in diverse circostanze, non mai si sarebbero sviluppate, nè sarebbero comparse, nè per niun modo esistite: come la natura non ponga quasi  3302 nell'uomo altro che disposizioni, ond'egli possa essere tale o tale, ma niuna o quasi niuna qualità ponga in lui; di modo che l'individuo non sia mai tale quale egli è, per natura, ma solo per natura possa esser tale, e ciò ben sovente in maniera che, secondo natura, tale ei non dovrebb'essere, anzi pur tutto l'opposto: come insomma l'individuo divenga (e non nasca) quasi tutto ciò ch'egli è, qualunque egli sia, cioè sia divenuto. Qual cosa pare più naturale, più inartifiziale, {più spontanea,} meno fattizia, più ingenita, meno acquistabile, più indipendente e più disgiunta dalle circostanze e dagli accidenti, che quel tal genere di sensibilità con cui l'uomo suol riguardare la donna, e la donna l'uomo, ed essere trasportato l'uno verso l'altra; quel tal genere, dico, di affetti e di sentimenti che l'uomo, e massimamente il giovane nella prima età, senz'ombra di artifizio, senza intervento di volontà, anzi tanto più quanto egli è più giovane, più semplice ed inesperto, e quanto meno il suo carattere  3303 è stato modificato e influito dall'uso del mondo e dalla conversazione degli uomini e pratica della società, suol provare alla vista {+o al pensiero} di donne giovani e belle, o nel trattenersi seco loro; e così le donne giovani cogli uomini giovani e belli? quel tressaillement, quell'emozione, quell'ondeggiamento e confusione di pensieri e di sentimenti tanto più indistinti e indefinibili quanto più vivi, che parte par che abbiano del materiale, parte dello spirituale, ma molto più di questo, in modo che par ch'egli appartengano interamente allo spirito, anzi alla più alta e più pura e più intima parte di esso? Or questo genere di sentimenti e di affetti e di pensieri, questa qualità del giovane, cioè questa tale sensibilità, e la facoltà ed abito di provare questi siffatti sentimenti, non è per niun modo naturale nè innata, ma acquisita, ossia prodotta di pianta dalle circostanze, e tale che se queste non fossero state, l'uomo neppur conoscerebbe nè potrebbe pur concepire questa qualità, nè anche sospettare d'esserne capace.  3304 Il genere umano naturalmente è nudo, e, seguendo la natura, almeno in molte parti del globo, egli non avrebbe mai fatto uso de' vestimenti, siccome le vesti sono affatto ignote p. e. ai Californii. {Nè l'uomo nè} il giovane non avrebbe mai veduto {nè immaginato} nelle donne (e così la donna negli uomini) nulla di nascosto. E nulla vedendo di nascosto, {{}} {potendo desiderare o sperar di vedere,} e ben conoscendo fin dal principio la nudità {e la forma} dell'altro sesso, egli non avrebbe mai provato per la donna altro affetto, altro sentimento, altro desiderio, che quello che per le {lor} femmine provano gli altri animali; nè avrebbe concepito intorno a lei altro pensiero che quello di mescersi seco lei carnalmente; nè l'aspetto o il pensiero o la compagnia della donna avrebbe in lui cagionato, neppur nella primissima gioventù, verun altro effetto che un desiderio il più puramente e semplicemente sensuale che possa mai dirsi, {un impeto a soddisfare tal desiderio,} ed un piacere (molto languido in se stesso per l'abitudine {+e l'assuefazione} incominciata sin dalla nascita, e sempre continuata) altrettanto carnale {che quel desiderio,} e interamente, unicamente  3305 e manifestissimamente materiale, cioè appartenente e derivante dalla sola materia e dal senso, nè più nè meno che quel piacere che in lui avrebbe prodotto la vista di un color rosso bello e vivo o altra tal sensazione; se non solamente che quel diletto sarebbe stato per natura maggiore di questi; siccome tra gli altri diletti, {o} naturalmente {{o per circostanze,}} qual è maggiore qual è minore, non in se, ma rispetto agli uomini e agli animali, insomma agli esseri che li provano, e ne' quali essi diletti nascono ed hanno l'essere.

[3318,1]   3318 Un francese, un inglese, un tedesco che ha coltivato il suo ingegno, e che si trova in istato di pensare, non ha che a scrivere. Egli trova una lingua nazionale moderna già formata, stabilita e perfetta, imparata la quale, ei non ha che a servirsene. Nè dal principio della loro letteratura in poi, è stato mai bisogno ad alcuno scrittore di queste nazioni, qual ch'ei si fosse, il formarsi una lingua moderna, cioè tale che volendo scrivere, come ognun deve, alla moderna, ei potesse col di lei mezzo esprimere i suoi concetti in qualsivoglia genere. Come dal principio delle loro letterature in poi, quelle nazioni non hanno mai intermesso di coltivar esse medesime gli studi in esse introdotti; o creando e inventando nuovi generi o discipline, con esse hanno naturalmente e sin dal loro principio creato o formato il linguaggio che loro si conveniva; o accettando generi o discipline forestiere, non mai per ancora in esse nazioni conosciute o trattate, insieme con essi generi e discipline accettarono senza contrasto alcuno quei modi e quei vocaboli, ancorchè forestieri, che con esse erano congiunte, e che a volerle trattare indispensabilmente si richiedevano; così non è stato mai tempo alcuno in  3319 cui gli scrittori di quelle nazioni, avendo che scrivere, non avessero come scrivere; mai tempo alcuno in cui quelle nazioni non avessero lingua nazionale moderna per qualunque genere di letteratura e per qualsivoglia disciplina da loro trattata.

[3347,1]  La stagione e il clima freddo dà maggior forza di agire, e minor voglia di farlo, maggior contentezza del presente, inclinazione all'ordine, al metodo, e fino all'uniformità. Il caldo scema le forze di agire, e nel tempo stesso ne ispira ed infiamma il desiderio, rende suscettibilissimi della {{noia,}} intolleranti dell'uniformità della vita, vaghi di novità, malcontenti di se stessi e del presente. Sembra che il freddo fortifichi il corpo e leghi l'animo: che il caldo addormenti e ammollisca e illanguidisca e intorpidisca il corpo, eccitando e svegliando e sciogliendo l'animo. L'attività del corpo è propria de' settentrionali, de' meridionali quella dell'animo. {Nel freddo si ha la forza di agire, ma non senza incomodo. La temperatura dell'aria che vi circonda, opponendosi à ce que voi possiate uscir di casa e di camera senza patimento, vi consiglia l'inazione e l'immobilità nel tempo stesso che vi dà la forza dell'azione e del moto. Si può dir che se ne sente la forza e la difficoltà nel tempo stesso. Nel caldo tutto l'opposto. Si sente la facilità dell'azione e del moto nel tempo stesso che se ne scarseggiano le forze. L'uomo prova espressamente un senso di libertà fisica che viene dall'amicizia dell'aria e della natura che lo circonda, un senso che lo invita al movimento e all'azione, ch'egli talora confonde con quello della forza, ma che n'è ben differente, come l'uomo si può avvedere, quando cedendo all'inquietezza che quel senso gl'ispira, e dandosi all'azione, la totale mancanza di forze che gli sopraggiunge, gli toglie quel senso di libertà, e l'obbliga a desiderare e cercare il riposo. Anche per se medesima la debolezza e il rilasciamento prodotto da causa non morbosa, come dal caldo, dà una certa facilità di determinarsi all'azione al movimento al travaglio, più che la tensione prodotta dal freddo. Può parere un paradosso, ma l'esperienza anche individuale lo prova. Pare che il corpo rilasciato sia più maneggiabile a se medesimo. Bensì la sua capacità di travagliare è poco durevole. ec.} Ma il corpo non opera se non mosso dall'animo. Quindi è che i settentrionali sebbene senza controversia sia lor propria l'attività e laboriosità, pur sono veramente i più quieti popoli della terra; e i meridionali i più inquieti, benchè sia lor propria l'infingardaggine. I settentrionali hanno bisogno di grandissimo impulso a muoversi, a sollevarsi, a cercar novità: ma  3348 mossi che sieno, non sono facili a racquietare. Vedesi nelle loro storie, nelle quali, massime nelle moderne, e massime in quelle della Germania, pochissime rivoluzioni si troveranno (specialmente a paragone di quelle de' meridionali) ma queste lunghissime, come quella di religione mossa da Lutero, e convertita ben tosto in rivoluzione politica. Sopportano facilmente la tirannia, finch'ella non gli spinge à bout, come gli Svizzeri. Ubbidiscono volentieri, e comandati travagliano (anche eccessivamente) più volentieri che se operassero spontaneamente. Vedesi nella loro milizia. I meridionali sono facili e pronti e frequenti a muoversi, rivoltosi, poco tolleranti della tirannide, poco amici dell'ubbidire, ma facilissimi ancora a racquietare, facilissimi a ritornare in riposo; mobili, volubili, instabili, vaghi di novità politiche, incapaci di mantenerla[mantenerle]; vaghi di libertà, incapaci di conservarla; al contrario de' settentrionali che di rado la cercano, {poco} se ne curano; cercata o comunque acquistata, lunghissimamente la conservano. Infatti essi, e in particolare i tedeschi o teutoni, sono i soli in europa che serbino qualche vestigio di libertà, qualche immagine  3349 delle antiche repubbliche; i soli appo cui le repubbliche si veggano per esperienza poter durare anche a' tempi moderni. Verbigrazia gli Svizzeri, le città libere di Germania, le repubblichette de' Fratelli Moravi ec. Nel mezzogiorno d'Europa non esiste più neppure un'ombra di repubblica in alcun luogo, fuori di San-Marino. In Germania ve n'ha non poche, ed alcuni piccoli principati di colà si governano oggi, o per volontà del principe (come Saxe-Gotha) o per costituzione, quasi a maniera di repubblica e stato franco.

[3360,1]  Tanto l'uomo è gradito e fa fortuna nella conversazione e nella vita, quanto ei  3361 sa ridere. (5. Sett. 1823.).

[3382,2]  È tanto mirabile quanto vero, che la poesia la quale cerca per sua natura {e proprietà} il bello, e la filosofia ch'essenzialmente ricerca il vero, cioè la cosa più contraria al bello; sieno le facoltà le  3383 facoltà le più affini tra loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi nè l'uno nè l'altro non può esser nel gener suo nè perfetto nè grande, s'ei non partecipa {+più che mediocremente} dell'altro genere, quanto all'indole primitiva dell'ingegno, alla disposizione naturale, alla forza dell'immaginazione. Di ciò ho detto altrove p. 1383 p. 1650 pp. 3269-71. Le grandi verità, e massime nell'astratto e nel metafisico o nel psicologico ec. non si scuoprono se non per un quasi entusiasmo della ragione, nè da altri che da chi è capace di questo entusiasmo. (Eccetto ch'elle sieno scoperte appoco appoco, piuttosto dal tempo e dai secoli, che dagli uomini, in guisa che a nessuno in particolare possa attribuirsene il ritrovamento, il che spesso accade). La poesia e la filosofia sono entrambe del pari, quasi le sommità dell'umano {spirito,} le più nobili e le più difficili facoltà a cui possa applicarsi l'ingegno umano. E malgrado di ciò, e dell'esser l'una di loro, cioè la poesia, la più utile veramente di tutte le facoltà, sì la poesia,  3384 come la filosofia sono del pari le più sfortunate e dispregiate di tutte le facoltà dello spirito. Tutte l'altre dánno pane, molte di loro recano onore {anche} durante la vita, aprono l'adito alle dignità ec.: tutte l'altre, dico, fuorchè queste, dalle quali non v'è a sperar altro che gloria, e soltanto dopo la morte. Povera e nuda vai, filosofia. * {#1. Petr. Son. La gola, il sonno.} Della sorte ordinaria de' poeti mentre vivono, non accade parlare. Chi s'annunzia per medico, per legista, per matematico, per geometra, per idraulico, per filologo, per antiquario, per linguista, per perito anche in una sola lingua; il pittore eziandio e lo scultore e l'architetto; il musico, non solo compositore ma esecutore, tutti questi son ricevuti nelle società con piacere, trattati nelle conversazioni e nella vita civile con istima, ricercati ancora, onorati, invitati, e quel ch'è più premiati, arricchiti, elevati alle cariche e dignità. Chi s'annunzia solo per poeta o per filosofo, ancorch'egli lo sia veramente, e in sommo grado, non trova chi faccia caso di lui, non ottiene neppure ch'altri gli parli con leggiere testimonianze di stima. La ragione si è che tutti si credono esser filosofi,  3385 ed aver quanto si richiede ad esser poeti, sol che volessero metterlo in opera, o poterlo facilissimamente acquistare e adoperare. Laddove chi non è matematico, pittore, musico ec. non si crede di esserlo, e riguarda come superiori per questo conto a lui ed al comune degli uomini, quei che lo sono. Il genio, da cui principalmente pende e nasce la facoltà poetica e la filosofica, non si misura a palmi, come ciò che si richiede a esser medico o geometra. Quindi nasce che quello ch'è più raro tra gli uomini tutti si credano possederlo. E quindi è che le due più nobili, più {difficili} e più rare, {+anzi straordinarie,} facoltà, la poesia e la filosofia, tutti credano possederle, o poterle acquistare a lor voglia. Oltre che il genio non può essere nè giudicato, nè sentito, nè conosciuto, nè aperçu che dal genio. Del quale mancando quasi tutti, nol sentono nè se n'avveggono quand'ei lo trovano. E il gustare, e potere anche mediocremente estimare il valor delle opere di poesia e di filosofia, non è che de' veri poeti e de' veri filosofi, a differenza delle opere dell'altre facoltà. ec.

[3410,1]  Gli uomini che vivono in solitudine sono inclinatissimi al metodo. Ma non tanto quelli che nella solitudine sono occupati, o che perciò appunto vivono in solitudine, (ne' quali, {+siccome in tutti quelli che sono molto occupati,} il metodo e l'ordine dell'azioni sarebbe ragionevolissimo, perchè l'ordine così di luogo come di tempo è sempre risparmio dell'uno o dell'altro, e il disordine al contrario) quanto in quelli che nulla hanno da fare, come malati cronici, carcerati, vecchi ritirati per cagionevolezza dell'età, per debolezza, o per abito di pigrizia. Questi sogliono esser metodici fino all'ultimo eccesso. Pare che l'uomo sia tanto più  3411 geloso di ordinare la sua vita quanto meno ha da occuparla, o quanto meno la occupa. {Intendo per occupazioni anche le distrazioni gli spassi ec.} Non potendo o non volendo impiegare il tempo, si occupa a regolarlo e partirlo e distinguerlo. L'ordinare le sue operazioni diviene l'unica sua operazione e occupazione. (11. Sett. 1823.). Io {ho} conosciuto uno di questi che dal capo al piè della giornata non aveva una sola cosa da fare, e lagnavasi della brevità del tempo, e che il giorno non bastava alle sue occupazioni quotidiane; e perciò sopportava di mala voglia qualunque straordinaria distrazione o altro, che gli occupasse alcun poco di tempo. (11. Sett. 1823.)

[3430,2]  Natura insegna il curare e onorare i cadaveri di quelli che in vita ci furon cari o conoscenti per sangue o per circostanze ec. e l'onorar quelli di chi fu in vita onorato ec. {Veggasi a questo proposito la Parte primera de la Chronica del Peru di Pedro de Cieça de Leon. en Anvers 1554. 8.vo piccolo. cap. 53. fine. a car. 146. p. 2. cap. 62. 63. 100. 101. principio.} Ma ella non insegna di seppellirli nè di abbruciarli, nè di torceli in altro modo davanti agli occhi. Anzi a questo la natura ripugna, perchè il separarci perpetuamente da' cadaveri de' nostri è, naturalmente parlando, separazione più dolorosa che la morte loro, la qual non facciam noi, ma questa è volontaria ed opera nostra, e quella è quasi insensibile a chi si trova presente, e accade bene spesso a poco a poco; questa è manifestissima e si fa in un punto. E separarsi da' cadaveri tanto è quasi in natura quanto separarsi dalle persone di chi essi furono, perchè degli uomini non si vede che il corpo, il quale, ancor morto, rimane, ed è, naturalmente, tenuto per la persona stessa, benchè mutata (piuttosto che in luogo di  3431 quella), e per tutto ciò ch'avanza di lei. Ma d'altra parte il lasciare i cadaveri imputridire sopra terra e nelle proprie abitazioni, volendoseli conservare dappresso e presenti, è mortifero, e dannoso ai privati e alla repubblica. I poeti, oltre all'avere insegnato che nella morte sopravvive una parte dell'uomo, anzi la principale e quella che costituisce la persona, e che questa parte va in luogo a' vivi non accessibile e a lei destinato, onde vennero a persuadere che i cadaveri de' morti, non fossero i morti stessi, nè il solo nè il più che di loro avanzava; oltre, dico, di questo, insegnarono che l'anime degl'insepolti erano in istato di pena, non potendo niuno, mentre i loro corpi non fossero coperti di terra, passare al luogo destinatogli nell'altro mondo. Così vennero a fare che il seppellire i morti o le loro ceneri, e levarsegli dinanzi, fosse, com'era utile e necessario ai vivi, così stimato utile e dovuto ai morti, e desiderato da loro; che paresse opera d'amore verso i morti quello che per se sarebbe stato segno di disamore, e opera d'egoismo; che l'amore  3432 così consigliato e persuaso imponesse quello ch'esso medesimo naturalmente vietava; {+che venisse ad esser secondo natura e suggerito dall'amor naturale, quello che per se aveva al tutto dello snaturato;} e che fosse inumanità e spietatezza il trascurar quello che senza ciò sarebbesi tenuto per inumano e spietato. Così gli antichi e primi poeti e sapienti facevano servire l'immaginazione de' popoli, e le invenzioni e favole proprie a' bisogni e comodi della società, conformando quelle a questi, e si verifica il detto di Orazio nella poetica ch'essi furono gl'istitutori e i fondatori del viver cittadinesco e sociale, onde Orfeo ed Anfione furono eziandio tenuti per fondatori di città. E così gli antichi dirigevano la religione al ben pubblico e temporale, e secondo che questo richiedeva la modellavano, e di questo facevano la ragione e il principio e l'origine de' dogmi di essa: opponendola alla natura dove questa si opponeva alle convenienze della vita sociale; e vincendo la natura fortissima, coll'opinione ancor più forte, massime l'opinion religiosa. (15. Settembre. 1823.). {+Chi riguarda come legge naturale il seppellire o abbruciare ec. i cadaveri, troverà forse in queste osservazioni di che mutar sentenza.}

[3432,1]  Per molte cagioni, anche lievi, l'uomo si getta al pericolo, anche della morte; di più sacrifica  3433 determinatamente se stesso, danari, robba, comodità, speranze ec. Ma ben pochi si trovano che per cagioni anche gravi, anche per vive passioni, per amore ardente ec. si sottopongano o sieno veramente capaci di sottoporsi a un dolore corporale, anche non grande. S'incontra spesso e facilmente, a occhi veggenti e volontariamente il pericolo della morte, e quegli stessi non son capaci d'incontrar volontariamente e scientemente un dolor corporale certo. (15. Sett. 1823.)

[3435,1]  L'immaginazione e le grandi illusioni onde gli antichi erano governati, e l'amor della gloria che in lor bolliva, li facea sempre mirare alla posterità ed all'eternità, e {cercare} in ogni loro opera la perpetuità {+e proccurar sempre l'immortalità loro e delle opere loro.} Volendo onorare un defonto[defunto] innalzavano un monumento che contrastasse coi secoli, e che ancor dura forse, dopo migliaia d'anni. Noi spendiamo sovente nelle stesse occasioni quasi altrettanto in un apparato funebre, che dopo il dì dell'esequie si disfa, e non ne resta vestigio. La portentosa solidità delle antiche fabbriche d'ogni genere, fabbriche che ancor vivono, mentre le nostre, {anche pubbliche,} non saranno certo vedute da posteri molto lontani; le piramidi, gli obelischi, gli archi di trionfo,  3436 la profondissima impronta delle antiche {medaglie e} monete, che passate per tante mani, dopo tante vicende, tanti secoli ec. ancor si veggono belle e fresche, e si leggono, dove i coni delle nostre monete di cent'anni fa son già scancellati; tutte queste e tant'altre simili cose sono opere, effetti, e segni delle antiche illusioni e dell'antica forza e dominio d'immaginazione. Se fabbricavano per fasto i monumenti del loro fasto dovevano durare in eterno, e il loro orgoglio non si appagava dell'ammirazione di un secolo, ma tutti in perpetuo dovevano esser testimoni della sua potenza e {contribuire a} pascere la sua vanità: se per diletto, per bellezza, ornamento ec. tutto questo s'aveva da propagare nel futuro in perpetuo; se per utile tutte le generazioni avvenire avevano a partecipare di quella utilità; se il principe, se il comune, se i privati, se per comodo, {per onore, per vantaggio} particolare o pubblico; se in memoria di successi ricordevoli o privati o pubblici; se in ricompensa di virtù, di belle azioni, di beneficii pubblici o privati; se in onor privato o pubblico, di vivi o di morti; se in testimonianza d'amore ec. ec. qualunque fine si proponessero, qualunque  3437 effetto dovesse seguitare a quell'opera, esso aveva ad essere eterno, s'aveva a stendere in tutto l'avvenire, non aveva {a} cessar mai. Le grandi illusioni onde gli antichi erano animati non permettevano loro di contentarsi di un effetto piccolo e passeggero, di proccurare un effetto che avesse a durar poco, instabile, breve; di soddisfarsi d'una idea ristretta a poco più che a quello ch'essi vedevano. L'immaginazione spinge sempre verso quello che non cade sotto i sensi. Quindi verso il futuro e la posterità, perocchè il presente è limitato e non può contentarla; è misero ed arido, ed ella si pasce di speranza, e vive promettendo sempre a se stessa. Ma il futuro per una immaginazione gagliardissima non debbe aver limiti; altrimenti non la soddisfa. Dunque ella guarda e tira verso l'eternità.

[3440,1]  Il giovane innanzi la propria esperienza, per qualunque insegnamento udito o letto, di persone stimate da lui o no, amate o disamate, credute o non credute, {ec.} non si persuaderà mai efficacemente che il mondo non sia una bella cosa, nè deporrà il desiderio e la speranza ch'egli ha della vita e degli uomini e de' piaceri sociali, nè l'opinione favorevolissima, e nel fondo del cuore,  3441 fermissima, della possibilità, anzi probabilità di esser felice pigliando parte alla vita, all'azione ec. Perchè? perchè quest'opinione, desiderio, speranza, non è capriccio ma natura, nè si estirpa dall'animo, come le opinioni o passioni accidentali, nè val tenerezza e pieghevolezza e docilitate d'età nè d'indole a render queste cose estirpabili. Altrimenti sarebbe estirpabile la natura stessa, la quale ha provvveduto di speranza alla fanciullezza e alla gioventù, e agguagliato colla speranza il desiderio di quelle età. (15. Sett. 1823.).

[3443,1]  Quante volte diss'io Allor pien di spavento, Costei per {fermo} nacque in paradiso. * Petr. Canz. Chiare fresche e dolci acque. Καὶ γελάϊς δ᾽ ἱμερόεν∙ τό μοι ᾽μὰν Καρδίαν ἐν στήϑεσιν ἐπτόασεν * Saffo ap. Longin. sezione 10. È proprio dell'impressione che fa la bellezza  3444 (e così la grazia e l'altre illecebre, ma la bellezza massimamente, perch'ella non ha bisogno di tempo per fare impressione, e come la causa esiste tutta in un tempo, così l'effetto {è} istantaneo) è proprio, dico, della impressione che fa la bellezza su quelli d'altro sesso che la veggono o l'ascoltano o l'avvicinano, lo spaventare; e questo si è quasi il principale e il più sensibile effetto ch'ella produce a prima giunta, o quello che più si distingue e si nota e risalta. E lo spavento viene da questo, che allo spettatore o spettatrice, in quel momento, pare impossibile di star mai più senza quel tale oggetto, e nel tempo stesso gli pare impossibile di possederlo com'ei vorrebbe; perchè neppure il possedimento carnale, che in quel punto non gli si offre affatto al pensiero, anzi questo n'è propriamente alieno; ma neppur questo possedimento gli parrebbe poter soddisfare e riempiere il desiderio ch'egli concepisce di quel tale oggetto; col quale ei vorrebbe diventare una cosa stessa (come profondamente, benchè in modo scherzevole osserva Aristofane nel Convito di Platone): ora ei non vede che questo possa mai essere.  3445 La forza del desiderio ch'ei concepisce in quel punto, l'atterrisce per ciò ch'ei si rappresenta {subito} tutte in un tratto, benchè confusamente, al pensiero le pene che per questo desiderio dovrà soffrire; perocchè il desiderio è pena, e il vivissimo e sommo desiderio, vivissima e somma, e il desiderio perpetuo e non mai soddisfatto è pena perpetua. Ora a lui pare e che quel desiderio non sarà mai soddisfatto (o non ne vede il come, e gli par cosa troppo ardua e difficile e improbabile), e ch'esso non sarà mai per estinguersi da se medesimo, come quando proviamo un dolor vivissimo, ci pare a prima giunta ch'ei sarà perpetuo, e che ne sia impossibile la consolazione, e che niuna cosa mai lo consolerà. Tutto questo accade principalmente (ed oggimai unicamente) ai giovani prima d'entrar nel mondo, o sul loro primo ingresso (talvolta, e non di rado, ancora ai fanciulli). I quali e son più suscettibili di vivezza d'impressione e di vivezza di desiderio ec., e sono inesperti del quanto presto e facilmente l'amore  3446 o si dilegui o si soddisfaccia, e del come; e che al mondo non v'ha cosa veramente amabile; e di quanto sia facile ottenere ogni cosa ch'ei brama da quegli oggetti ch'ei stima inaccessibili ec. ec.

[3466,1]  Ces hommes qui existent ainsi * (les Chartreux de Rome) sont pourtant les mêmes à qui la guerre et toute son activité suffiraient à peine s'ils s'y étaient accoutumés. C'est un sujet inépuisable de réflexion que  3467 les différentes combinaisons de la destinée humaine sur la terre. Il se passe dans l'intérieur de l'ame mille accidents, il se forme mille habitudes qui font de chaque individu un monde et son histoire. Connaître un autre parfaitement serait l'étude d'une vie entière; qu'est-ce donc qu'on entend par connaître les hommes? les gouverner, cela se peut, mais les comprendre, Dieu seul le fait. * Corinne, livre 10. Chap. 1. t. 2. p. 114. Ciò vuol dire che l'uomo è sommamente e infinitamente o indeterminatamente conformabile, e non è possibile conoscer mai tutti i modi e tutte le differenze in cui lo spirito degl'individui, secondo la diversità delle circostanze (ch'è infinita o indeterminabile), si conforma o si può conformare; per la stessa ragione per cui non si possono conoscere tutte le circostanze possibili ad aver luogo, che possono influire sullo spirito degl'individui, nè tutte quelle che hanno effettivamente influito su tale o tale individuo determinato, nè le loro combinazioni scambievoli, nè le loro minute diversità che producono non piccole differenze di carattere ec.  3468 La maggior cognizione adunque che si possa avere dell'uomo è quella di sapere perfettamente e ragionatamente che gli uomini non si possono mai ben conoscere, perchè l'uomo è indefinitamente variabile negl'individui, e l'individuo stesso per se. E il più certo segno di tal cognizione si è quello di non maravigliarsi mai un punto, e di esser bene e ragionatamente e veramente disposto a non maravigliarsi di qualunque strana {e inaudita e nuova} indole, carattere, qualità, facoltà, azione di qualunque individuo umano noto o ignoto ci possa venire agli orecchi o agli occhi, ci accada o possa accader d'intendere o di vedere, {+in bene o in male.} Chi è veramente giunto a questa disposizione, e l'ha in se ben perfetta, radicata e costante, ed efficace, può dire di conoscer l'uomo il più ch'è possibile all'uomo. È[E] più infatti non può se non Dio, come ben dice la Staël, perchè Dio solo può conoscere e conosce tutti i possibili. Or gli uomini non si possono perfettamente {conoscere,} chi non conosca poco men che tutti i possibili, dico, i possibili di questa natura e di questa terra. (19. Sett. 1823.).

[3480,1]  Io notava un vecchio ributtantemente egoista, compiacersi di parlare di certi suoi piccolissimi sacrifizi e sofferenze volontarie (vere o false ch'elle fossero, e volontarie veramente o no), e farlo con una certa quasi verecondia, che ben dimostrava, massime a chi conoscesse il carattere della persona, lui essere persuaso di fare e sostener cose eroiche, e che quei sacrifizi e patimenti dimostrassero in lui una gran superiorità d'animo, e rinunzia di se stesso e del suo amor proprio. Egli aveva ben caro che così paresse agli  3481 altri, e a questo fine ne parlava, ma dava bene ad intendere che tale si era infatti la sua propria opinione. Tanto poteva in un animo il più radicato nel più schietto e completo egoismo, intollerante d'ogni menomo incomodo, e capace di sacrificar chi e che che sia ad una sua menoma comodità; tanto poteva, dico, in un animo qual esso era infatti, e di più totalmente inerte, solitario, e segregato affatto dalla società, il desiderio di parere sì agli occhi altrui, sì ancora a' suoi propri, capace di grandi sacrifizi, superiore all'amor proprio, il contrario di egoista, ed insomma eroe. E tanto è vero che non si trova quasi uomo così impudentemente e perfettamente egoista nel fatto, che non desideri grandemente di comparire almeno a se stesso, e non si persuada effettivamente, e non si compiaccia sommamente dell'opinione di essere un eroe. Perocchè a tutti è grato il fare stima di se, e si può esser certi che tutti, o in un modo o nell'altro, si stimano, e grandemente, e così continuamente come e' si amano, che vuol dir tuttafiata, senza intervallo alcuno,  3482 benchè la stima di se stesso (come anche l'amore, secondo che altrove s'è dimostrato pp. 2488-92 ) abbia in un medesimo individuo ora il più ora il manco, secondo diverse circostanze e cagioni. Del resto puoi vedere la {pag. {124}.} 3108-9. e pp. 3167-9. {+Questo che io dico dei vecchi {egoisti} si può applicare ai fanciulli, egoisti estremi, ignari ancora dell'eroismo, perchè niuno gliene ha parlato, e nondimeno vaghi di molte piccole glorie, come di star male o di farlo credere, perchè si parli di loro nella famiglia, e per aver qualche somiglianza cogli adulti, alla quale aspirano generalmente e continuamente in mille cose, solo per vanità o vogliamo dire ambizione ec. V. l'Alfieri di sè che facea gli esercizi militari da piccolo.} (20. Sett. vigilia della Festa di Maria Santissima Addolorata. 1823.).

[3488,2]  Molti sono timidi i quali sono insieme coraggiosissimi. Voglio dire che molti si perdono d'animo nella società, i quali nè fuggono nè temono ed anche volontariamente incontrano i pericoli  3489 {e i danni e le fatiche e le sofferenze ec.;} e non sostengono gli sguardi o le parole amichevoli o indifferenti di tali di cui sosterrebbero facilissimamente l'aspetto minaccioso e l'armi nemiche in battaglia o in duello. La timidità spetta per così dire ai mali dell'animo, il coraggio a quelli del corpo. L'una teme de' danni e delle pene interne, l'altro brava i danni e le sofferenze esteriori. L'una s'aggira intorno allo spirituale, l'altro al materiale. E tanto è lungi che la timidità escluda il coraggio, che anzi ella piuttosto lo favorisce, e da essa si può dedurre {con verisimiglianza} che l'uomo che n'è affetto sia coraggioso. Perocchè la timidità è abito di temer la vergogna, la quale assai facilmente e spesso incontra chi teme e fugge i pericoli. Onde il temer la vergogna, ch'è male, per così dire, interno e dell'animo, giacchè nulla nuoce al corpo nè alle cose esteriori, ed opera sul pensiero solo, ed ai sensi non dà noia; fa che l'uomo non tema i danni esteriori, e non fugga e, bisognando, affronti il pericolo {+ed eziandio la certezza} di soffrirli, preponendo i mali o i pericoli esterni e materiali agl'interni e spirituali,  3490 e l'anima, per così dire, al corpo; e volendo innanzi soffrire ne' sensi, nella roba ec. che nello spirito, e morire piuttosto che patir la {pena della} vergogna. Chè {in} questo e non altro consiste quel coraggio che viene da sentimento di onore, e gli effetti del medesimo. Il qual coraggio ha origine e fondamento, anzi è esso stesso una spezie di timidità, o certo {una spezie} di qualità contraria alla sfrontatezza, all'impudenza, all'inverecondia. (21. Sett. Festa della Beatissima Vergine Addolorata. 1823.). {{V. la pag. seg. [p. 3491,3].}}

[3497,1]  Le speranze che dà all'uomo il Cristianesimo sono pur troppo poco atte a consolare l'infelice e il travagliato in questo mondo, a dar riposo all'animo di chi si trova impediti quaggiù i suoi desiderii, ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l'adito ai piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla fortuna. La {promessa e l'aspettativa} {di} una felicità grandissima e somma ed intiera bensì, ma 1.o che l'uomo non può comprendere nè immaginare nè pur concepire o congetturare in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione, 2.o ch'egli sa bene di non poter mai nè concepire nè immaginare nè averne veruna idea finchè gli durerà questa vita, 3.o ch'egli sa espressamente esser di natura affatto diversa ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da quella che quaggiù gli è negata, da quella il cui desiderio e la cui privazione forma il soggetto e la causa della sua infelicità; una tal promessa, dico, e una tale  3498 espettativa è ben poco atta a consolare in questa vita l'infelice e lo sfortunato, a placare {e sospendere} i suoi desiderii, a compensare quaggiù le sue privazioni. La felicità che l'uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di questa vita e di questa esistenza, non di un'altra vita e di una esistenza che noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la perfezione e il fine dell'esistenza. Noi desideriamo di esser felici perocchè esistiamo. Così chiunque vive. È chiaro adunque che noi desideriamo di esser felici, non comunque si voglia, ma felici secondo il modo nel quale infatti esistiamo. {#1. L'uomo non desidera la felicità assolutamente, ma la felicità umana (così gli altri animali), nè la felicità qualch'ella sia, ma una tale, benchè non definibile, felicità. Ei la desidera somma e infinita, ma nel suo genere, non infinita in questo senso ch'ella comprenda la felicità del bue, della pianta, dell'Angelo e tutti i generi di felicità ad uno ad uno. Infinita è realmente la sola felicità di Dio. Quanto all'infinità, l'uomo desidera una felicità come la divina, ma quanto all'altre qualità ed al genere di essa felicità, l'uomo non potrebbe già veramente desiderare la felicità di Dio. L'uomo che invidia al suo simile un vestito, una vivanda, un palagio, non è propriamente mai tocco nè da invidia nè da desiderio dell'immensa e piena felicità di Dio, se non solo in quanto immensa, e più in quanto piena e perfetta. Veggasi la p. 3509. massime in margine.} È chiaro che la nostra esistenza desidera la perfezione e il fin suo, non già di un'altra esistenza, e questa a lei inconcepibile. La nostra esistenza desidera dunque la sua propria felicità; chè desiderando quella di un'altra esistenza, ancorch'ella in questa s'avesse poi a tramutare, desidererebbe, si può dire, una felicità non propria ma altrui,  3499 ed avrebbe per ultimo e vero fine non se stessa, ma altrui, il che è essenzialmente impossibile a qualsivoglia Essere in qualsivoglia operazione o inclinazione o pensiero ec. Laonde la felicità che l'uomo desidera è necessariamente una felicità conveniente e propria al suo presente modo di esistere, e della quale sia capace la sua presente esistenza. Nè egli può mai lasciare di desiderar questa felicità per niuna ragione, nè per niuna ragione può mai desiderare altra felicità che questa. E non è più possibile che l'uomo mortale desideri veramente la felicità de' Beati, di quello che il cavallo la felicità dell'uomo, o la pianta quella dell'animale; di quel che l'animale erbivoro invidii al carnivoro o la sua natura, o la carne di cui lo vegga cibarsi, all'uomo il piacere degli studi e delle cognizioni, piacere che l'animale non può concepire nè che possa esser piacere, nè come, nè qual piacere sia; e così discorrendo. E ben vero che nè l'uomo, nè forse l'animale nè verun altro essere, può esattamente definire {+nè a se stesso nè agli altri,} qual sia assolutamente e in generale la felicità ch'ei desidera; perocchè  3500 niuno forse l'ha mai provata, nè proveralla, e perchè infiniti altri nostri concetti, ancorchè ordinarissimi e giornalieri, sono per noi indefinibili. Massime quelli che tengono più della sensazione che dell'idea; che nascono più dall'inclinazione e dall'appetito, che dall'intelletto, dalla ragione, dalla scienza; che sono più materiali che spirituali. Le idee sono per lo più definibili, ma i sentimenti quasi mai; quelle si possono bene e chiaramente e distintamente comprendere ed abbracciare e precisar col pensiero, questi assai di rado o non mai. Ma ciò non ostante, sì l'animale che l'uomo sa bene e comprende, o certo sente, che la felicità ch'ei desidera è cosa terrena. Quell'infinito medesimo a cui tende il nostro spirito (e in qual modo e perchè, s'è dichiarato altrove pp. 165. sgg. pp. 179-81 pp. 3027-29), quel medesimo è un infinito terreno, bench'ei non possa aver luogo quaggiù, altro che confusamente nell'immaginazione e nel pensiero, o nel semplice desiderio ed appetito de' viventi. Oltre di ciò niuno è che viva senz'alcun desiderio determinato e chiaro e definibilissimo, negativo o positivo, nel conseguimento  3501 del quale o di più d'uno di loro, ei ripone sempre o espressamente o confusamente, benchè pur sempre per errore, la sua felicità e 'l suo ben essere. Quel trovarsi senz'alcun desiderio al mondo, se non quello di un non so che, {#1. quell'essere infelice senza mancare di niun bene nè patire assolutamente niun male,} è impossibile; e se Augusto diceva d'essere in questo caso, poteva parergli che così fosse, ma s'ingannava; e niuno mai si trovò veramente in tal caso nè è per trovarvisi, perchè a niuno mai mancò nè è per mancar materia di qualche desiderio determinato, più o men vivo, o ch'esso miri a cosa che ci manchi, o a cosa che noi abbiamo e ci dispiaccia. {#2. Anzi a nessuno è per mancar mai materia di molti e vivi desiderii determinati di questa specie.} Or tutti questi desiderii determinati che noi abbiamo, ed avremo sempre, e che non soddisfatti, ci fanno infelici, sono tutti di cose terrene. Promettere all'uomo, promettere all'infelice una felicità celeste, benchè intera e infinita, {e superiore senza paragone alla terrena, e a' piccoli beni ch'egli desidera,} si è come a un che si muor di fame e non può ottenere un tozzo di pane, preparargli un letto morbidissimo, o promettergli degli squisitissimi e beatissimi odori. Con questo divario che l'affamato concepirebbe pure il piacer che fosse per provare il suo odorato da quella sensazione,  3502 e questo piacere sarebbe della medesima natura di quello ch'ei desidera e non ottiene, cioè materiale e sensibile come l'altro. Non così possiamo dire de' piaceri celesti promessi a chi desidera e non ottiene i terreni, nel qual caso l'uomo si trova naturalmente e necessariamente sempre, e l'infelice massimamente, benchè tutti a rigore sono infelici, e lo sono perchè tutti e sempre si trovano nel detto caso. Ora i piaceri celesti, al contrario di ciò che s'è detto qui sopra, son di natura affatto diversi da quelli che noi desideriamo e non ottenghiamo, e non ottenendo siamo infelici; e questa lor natura non può da noi per verun modo mai essere conceputa. Onde segue che la consolazione che può derivare dallo sperarli, sia nulla in effetto; perchè a chi desidera una cosa si promette un'altra ch'è diversissima da quella; a chi è misero per un desiderio non soddisfatto, si promette di soddisfare un desiderio ch'ei non ha e non può per sua natura avere nè formare; a chi brama un piacer noto, e si duole di un male noto, si promette un piacere e un bene ch'ei non conosce nè può conoscere, {e} ch'ei non vede nè può vedere come sia per esser bene, {e} come possa piacergli;  3503 a chi è misero in questa vita, e desidera necessariamente la felicità di questa esistenza, ed altra esistenza non può concepire nè desiderarne la felicità, si promette la beatitudine di una tutt'altra esistenza e vita, di cui questo solo gli si dice, ch'ella è sommamente e totalmente e più ch'ei non può immaginare diversa dalla sua presente, e ch'ei non può figurarsi per niun conto qual ella sia. Come l'uomo non può nè collo intelletto nè colla immaginazione nè con veruna facoltà nè veruna sorta d'idee oltrepassare d'un sol punto la materia, e s'egli crede oltrepassarla, e concepire o avere un'idea qualunque di cosa non materiale, s'inganna del tutto; così egli non può col desiderio passare d'un sol punto i limiti della materia, nè desiderar bene alcuno che non sia di questa vita e di questa sorta di esistenza ch'ei prova; e s'ei crede desiderar cosa d'altra natura, s'inganna, e non la desidera, ma gli pare di desiderarla. Come dunque ei non può desiderar bene alcuno d'altra natura, così la promessa e la speranza di tali beni, non può per modo alcuno  3504 consolarlo realmente nè de' mali di questa vita nè della mancanza de' di lei beni, {+nè (quando e' non fosse infelice) rallegrarlo e dilettarlo e compiacerlo colla dolcezza dell'aspettativa, e intrattenerlo e contribuire quaggiù al suo contento.} Di più, l'uomo si pasce per verità e si sostiene e vive grandissima parte della sua vita, anzi pur tutta la vita sua, della speranza, ancorchè lontana, la qual è un piacere, ma come e perchè? Perchè l'uomo va immaginando e contemplando seco stesso {a parte} a parte il godimento ch'egli attende o spera, e prova diletto nel considerare e rappresentarsi il modo in che egli ne godrà, {+e le sue qualità e condizioni e circostanze,} anticipando ed {anzi} assaporando {effettivamente} colla immaginazione mille volte il piacer futuro. Ma questa contemplazione, questa rappresentazione, quest'anticipazione, questo gusto o assaggio, questo deliro o sogno che ci fa parere e ci rende infatti presente il piacer futuro, ancor più ch'ei nol sarà quando si troverà presente in effetto (se egli si troverà mai presente), come può aver luogo intorno a un piacere assolutamente inconcepibile, non solo nel più e nel meno, o nella specie, ma nel genere, di modo che le nostre idee non hanno alcun potere di abbracciarne o di avvicinarne nè pure una menoma parte? Come ci può per verun deliro {o veruno sforzo} dell'immaginazione {o dell'intelletto} parer presente  3505 quello a cui nè l'immaginazione nè l'intelletto non si possono {neppure} a grandissimo tratto avvicinare; quello che non è fatto nè per questa immaginazione nè per questo intelletto; quello ch'è di natura affatto diversa da ciò che l'immaginazione o l'intelletto può concepire o congetturare; quello che non sarebbe ciò ch'egli è, s'a noi fosse possibile pure il congetturarlo; quello che spetta a tutt'altra natura che la nostra presente? Come può per alcun modo o in alcuna parte entrar nella mente nostra {una tutt'}altra natura?

[3509,1]  Niente d'assoluto. - Veggasi il pensiero antecedente, {#1. in particolare p. 3498-9. margine.} nel quale si dimostra che {} l'uomo nè alcun vivente non desidera neppur la felicità assolutamente, ma relativamente, e solo s'ella conviene alla di lui propria natura, ed è richiesta dal di lui modo {particolare} di essere ec. e in quanto ella sia tale. ec. Nè perchè una cosa sia felicità, per questo solo ei la desidera, nè si compiace nello sperarla, quando ella non convenga al suo modo di essere ec. - {Si può però dire per un lato, che l'uomo desidera la felicità assolutamente. Veggasi la p. 3506. Ei non desidera tale o tale felicità, s'a lui non conviene: e dovendo desiderare una tale felicità, ei non può desiderar se non la conforme e propria al suo modo di essere. Ma la felicità assolutamente e indeterminatamente considerata, e s'ei così la considera, ei non può non bramarla, cioè in quanto felicità semplicemente.} Di qual cosa par che si possa ragionare più assolutamente che della lunghezza o estensione di una data porzione di tempo? la quale si misura {esattamente} coll'oriuolo, e si divide  3510 perfettamente in parti anche minutissime, non col pensiero solo, ma con gl'istrumenti da ciò, e come fosse quasi materia, e queste parti si annoverano e si raccolgono, e il loro numero si conosce colla certezza che dà l'aritmetica. Ora egli è certissimo che la lunghezza di una medesima quantità di tempo ad altri è {veramente} maggiore ad altri minore, e ad un medesimo individuo può essere, ed è, quando maggiore quando minore. Onde può dirsi con verità che una medesima data porzione di tempo or dura più or meno ad un medesimo individuo, ed a chi più a chi meno. Lasciamo stare che il tempo disoccupato, annoiato, {incomodato,} addolorato e simili, riesce e si sente esser più lungo che quel medesimo o altrettanto spazio di tempo, occupato, dilettevole, passato in distrazione e simili; {#1. Nella rimembranza è molte volte il contrario, che più corto pare il tempo passato senza occupazione e uniformemente, perchè allora nella memoria l'una ora l'un dì si confonde e quasi sovrappone coll'altro, in modo che molti paiono un solo, non avendovi differenza tra loro, nè moltitudine di azioni o passioni che si possa numerare, l'idea della qual moltitudine si è quella che produce l'idea della lunghezza del tempo, massime passato ec. Ma di questo pensiero {+altrove s'è scritto} pp.368-69} e ciò ad un medesimo individuo, o a diversi individui d'una sola specie in un tempo medesimo, o in tempi di versi[diversi.] Lasciando questo, si osservi che agli animali i quali vivono meno dell'uomo per lor natura, a quelli che vivono al più trent'anni, venti, dieci, cinqu'anni,  3511 un anno solo, alcuni mesi, un solo mese, alcuni giorni soltanto (chè egli v'ha {effettivamente} animali {{che rispondano}} a tutte queste differenze di durata, e a cento e mill'altre intermedie); a questi animali, dico, una data porzione di tempo è veramente più lunga e dura più che all'uomo, e tanto più quanto la lor vita naturale è più corta; e l'idea che ciascun d'essi si forma ed acquista naturalmente della durata {e quantità} di una tal porzione qualunque di tempo, è assolutamente maggiore di quella che l'uomo concepisce; {{e maggiore}} in ragione esattamente inversa della lunghezza ordinaria del viver loro. E s'egli è vero {+come dicono,} che nel fiume Apanis nella Scizia vi abbia degli animaletti, tra i quali, quei, i quali essendo nati il mattino, muojono la sera, sono i più vecchi, e muojono carichi di figli, di nipoti, di pronipoti, e di anni, a lor modo * (Genovesi, Meditazioni filosofiche sulla Religione e sulla Morale. Meditaz. 1. Piacere dell'esistenza. § o articolo 12. Bassano, Remondini 1783. p. 26. Vedilo dall'articolo 11. al fine della Meditazione);  3512 se questo, dico, è vero (che ben può essere, {#1. Se non è, può essere, e al nostro caso tanto è il poter essere quanto l'essere in fatto. Immaginiamo, se non è, che sia, e come di un'ipotesi discorriamo di quello che necessariamente seguirebbe se così fosse. Essendo l'ipotesi possibilissima e similissima al vero, l'argomento avrà la medesima forza, e tanto nel caso presente varrà e proverà l'immaginazione e la supposizione, quanto la verità, tanto il supposto e l'immaginato quanto il vero ed effettivo.} e se non d'essi animaletti, d'altri, visibili o invisibili; e se no, discorrasi proporzionatamente di quelli che, come di certo si sa, vivono pochissimi giorni), egli è certissimo che l'idea che questi animali si formano e naturalmente acquistano della durata e quantità p. e. di una mezz'ora di tempo, è tanto maggiore della nostra idea, che noi non possiamo pur concepire il quanto. E veramente una mezz'ora dùra per essi indefinibilmente più che per noi, stante la rapidità delle loro azioni, {sensazioni,} passioni ed eventi; il velocissimo succedersi di questi, gli uni agli altri; la inconcepibile prontezza del loro sviluppo; la rapidità, per così dire, della lor vita ed esistenza; e stante ch'essi in una mezz'ora, in un minuto, vivono ed esistono, si può ben dire, assai più che noi nè gli altri più macrobii animali, in quel medesimo spazio, non fanno; e la loro esistenza in un minuto è veramente di quantità e d'intensità ec. maggiore che la nostra non è, in altrettanto spazio, e che noi non possiamo pure immaginare. In contrario senso ragionisi dell'idea che dovettero aver gli uomini naturalmente della durata e quantità di una data porzione di tempo, quando la  3513 la lor vita naturale era strabocchevolmente più lunga della presente; e proporzionatamente dell'idea che debbono averne le nazioni (se ve n'ha) che vivono ordinariamente più di noi (siccome v'ha certo di quelle che vivono meno, e prestissimo giungono alla maturità, e ciò ne' climi caldi, come nell'America meridionale, ove le donne si maritano di 10 o 12 anni, e tra gli orientali ec. {V. p. 3898.} e vedi a questo proposito l'Indica di Arriano, c. 9. sect. 1-8. e Plinio se ha nulla ec.); e dell'idea che n'hanno gli animali più longevi dell'uomo, come l'elefante, il cervo, la cornice, la tartaruga, alla quale pigrissima e tardissima nelle sue operazioni, la natura diede, non lunghissima vita, ma moltissimi anni. E dico, non lunghissima vita, perch'ella stante la tardità de' suoi movimenti ed azioni, alla quale corrisponde quella del suo incremento e sviluppo naturale ec. e di tutta la sua natura, vive ed esiste in un dato spazio di tempo assai meno che l'uomo in altrettanto spazio non fa. E così proporzionatamente gli altri animali più longevi di noi. E dalle suddette osservazioni si raccoglie che la somma {e quantità} della vita, e però la  3514 durata e lunghezza della medesima, è generalmente e appresso a poco altrettanta in effetto negli animali ed esseri brachibiotati, che ne' macrobiotati e negl'intermedii, e niente {minore,} e così viceversa. Onde la durata di un medesimo spazio di tempo è naturalmente e generalmente {e costantemente} {+salve le varie circostanze della vita di una stessa specie e individuo, accennate di sopra, come la noia, il piacere ec. che variano l'idea e 'l sentimento della durata ec. sempre però dentro i limiti e la proporzione e in rispetto dell'idea d'essa durata, propria particolarmente della specie per sua natura ec.} per gli uni maggiore per gli altri minore ec. e non si può determinare ec. nè giudicarne assolutamente come noi facciamo ec. (24. Sett. 1823.).

[3517,1]   3517 Alla p. 3412. fine. Altrettanto però è certo che una società capace di repubblica durevole, non può essere che leggermente o mezzanamente corrotta; che una società pienamente corrotta (come la moderna) non è assolutamente capace d'altro stato durevole che del monarchico quasi assoluto; e che il non essere assolutamente capace se non di assoluta monarchia, e l'essere incapace di durevole stato franco, è certo segno di società pienamente corrotta. Così, apparentemente, si ravvicinano i due estremi, di società primitiva, di cui non è proprio altro stato che la monarchia; e di società totalmente guasta, di cui non è propria che l'assoluta monarchia. Colla differenza che questa società non è onninamente capace di altro stato durevole, quella sì; e che in questa non può durar che una monarchia assoluta cioè dispotica, in quella una tal monarchia non poteva assolutamente durare; ma l'era propria una monarchia piena bensì ed intera, ma non assoluta nè dispotica; una monarchia dove il re era padron di tutto, e il suddito niente manco libero. Del resto s'egli è  3518 proprio carattere sì della società primitiva come della più corrotta l'essere ambedue per natura monarchiche di governo, non è questo il solo capo in cui si veda che le cose umane ritornano dopo lungo circuito e dopo diversissimo errore ai loro principii, e giunte (come or pare che siano) al termine di lor carriera, o tanto più quanto a questo termine più s'avvicinano, si trovano di nuovo in gran parte cogli effetti medesimi, e nel medesimo luogo, stato ed essere che nel cominciar d'essa carriera. Bensì per cagioni ben diverse e contrarie a quelle d'allora: onde questi effetti e questo stato sono ben peggiori ritornando, che allora non furono; e se e dove furon buoni {e convenienti all'umana società ed alla felicità sociale} nel principio, son pessimi nel ritorno e nel fine {ec.} (25. Sett. 1823.).

[3520,1]  Tre stati e condizioni della vecchiezza rispetto alla giovanezza ed alle altre età. {+Puoi vedere la p. 3846.}1.o Quando il genere umano era appresso a poco incorrotto, o certo proclive ed abituato generalmente alla virtù, e quando l'esperienza insegnava all'individuo le cose utili {a se ed agli altri,} senza disingannarlo delle oneste, e delle inclinazioni virtuose, nobili, magnanime  3521 ec.; nè gli dimostrava la perversità degli uomini, che ancora non erano perversi, nè lo disgustava e faceva pentire della virtù, che ancor non era, se non altro, dannosa, e ch'egli per naturale istituto aveva intrapreso fin da principio di seguire, e seguiva; allora i vecchi, come più ricchi d'esperienza e più saggi, erano più venerabili e venerati, più stimabili e stimati, ed anche in molte parti più utili a' loro simili {e compagni} ed al corpo della società, che non i giovani e quelli dell'altre età. 2. Cominciata a corrompere la società umana e giunta la corruzione al mezzo, o più oltre, l'esperienza dovette fare tutto il contrario delle cose dette di sopra, e distruggendo le buone disposizioni naturali, e le qualità contratte ne' primi anni, render l'individuo tanto peggiore di carattere, d'animo, di costumi, di qualità, di azioni o di desiderii, quanto più egli avesse sperimentato. Allora dunque i vecchi furono (nella gran società) molto meno stimabili e stimati, quanto alla virtù ed all'onestà, che i giovani {ec.}; molto più tristi, svergognati,  3522 finti, coperti, furbi, traditori, malvagi insomma, {alieni dal ben fare,} e dannosi, o inclinati a far danno, a' compagni e alla società. Laddove quei dell'altre età, e massime i giovani, furono molto più degni di stima e molto più utili o men dannosi, perchè meno corrotti; più buoni perchè più naturali; più proprii a ben fare, più misericordiosi, più benefici, perchè men freddi, più generosi per natura dell'età, men guasti dall'esempio {e dalle cattive massime,} o non ancor guasti ec. 3. Passata che fu la corruzione sociale di gran lunga oltre il mezzo, e giunta, si può dire, al suo colmo, nel quale oggidì si trova e riposa, ed è, a quel che sembra per riposar lungamente o in perpetuo; non fu e non è bisogno di molta nè lunga esperienza nè d'assai mali esempi per corrompere negl'individui la sempre buona natura ed indole primitiva; nascono, si può dir, gli uomini già corrotti; il primitivo, e seco la virtù ed ogni sorta di bontà effettiva, è sparito quasi onninamente dal mondo; il giovane, anzi pure il fanciullo, in brevissimo tratto è maturo e vecchio di malizia,  3523 di frode, di malvagità, e conosce il mondo assai più che i vecchi stessi per lo passato non facevano ec. Quindi per ben contrarie cagioni {+e con ben contrari effetti veggasi la (p. 3517-8.)} son tornate le cose appresso a poco nel loro stato primiero. I giovani massimamente, sono ben più odiosi e dannosi de' vecchi, perchè in essi alla disposizione intera e alla decisa volontà di mal fare si aggiunge il potere e la facoltà; e l'ardor giovanile, e la forza e l'impeto e il fiore delle passioni, che un dì conduceva gli uomini al bene, ora conducendogli dirittamente e pienamente e decisamente al male, rende gl'individui tanto più {cattivi,} perniciosi ed odiabili, quanto esso ardore è più grande. Laddove i vecchi sono, non dirò già più stimabili nè venerabili, ma più tollerabili e meno da essere odiati e fuggiti che quelli dell'altre età, siccome meno potenti di mal fare, benchè a ciò solo inclinati; e siccome anche meno desiderosi di nuocere e di far bene a se e male altrui, perchè più freddi, e di più sedate passioni, e dalla lunga esperienza più disingannati  3524 de' piaceri e de' vantaggi di questa vita, e fatti meno avidi, e di desiderii men vivi: essendo la freddezza e l'esperienza che un dì furon cagione d'ogni male e malvagità, divenute oggi cagione, non già di bene nè di bontà, ma di minor male e cattiveria, che non il calor naturale e l'inesperienza che già furon cagioni principali di bontà, ed or sono cagioni di maggiore ribalderia. Da principio dunque fu la vecchiezza {rispetto} alla gioventù (e proporzionatamente all'altre età), come il meglio al bene; poscia come il cattivo al buono; in ultimo è (e probabilmente sarà sempre) come il manco male al male, o come il cattivo al pessimo.

[3526,1]  Sopravvenendo il pericolo, ridere, diventare allegro fuor dell'uso, o più che il momento prima non si era, o di malinconico farsi giulivo; divenir loquace essendo taciturno {di natura,} o rompere il silenzio fino allora per qualunque ragione tenuto; scherzare, saltare, cantare, e simili cose, non sono già segni di coraggio, come si stimano, ma per lo contrario son segni di timore. Perciocchè dimostrano che l'uomo ha bisogno di distrarsi dall'idea del pericolo, e particolarmente di scacciarla col darsi ad intendere ch'e' non sia pericolo, o non sia grave. E questo è ciò  3527 che l'uomo proccura di fare dando segni straordinarii d'allegrezza in tali occasioni; ingannar se stesso dimostrandosi di non aver nulla a temere, perocch'ei fa cose contrarie a quelle che il timore propriamente e immediatamente {suol} cagionare. Affine di non temere, l'uomo proccura di persuadersi ch'ei non teme, ond'ei possa dedurre che non v'è ragion sufficiente o necessaria di timore. Egli è un effetto molto ordinario di questa passione il muover l'uomo a cose contrarie a quelle {a} che immediatamente ella il moverebbe, ma e quelle e queste sono ugualmente effetti di vero timore. E quelle sono in gran parte, o sotto un certo aspetto, finte; queste veraci. Il timore muove l'uomo a far quasi una pantomima appresso se stesso. Per questo nelle solitudini e fra le tenebre e in luoghi, cammini, occasioni pericolose o che tali paiono, è uso naturale dell'uomo il cantare, non tanto ad effetto di figurarsi e fingersi una compagnia, o di farsi compagnia (come si dice) da se stesso; quanto perchè il cantare par proprio onninamente di chi non teme: appunto perciò chi teme, canta. (Vedi a tal  3528 proposito un luogo molto opportuno del Magalotti segnato da me nelle prime carte di questi pensieri, sul principio, se non erro, del 1819. p. 43). Dai medesimi principii (più che dal bisogno di distrazione) nasce che in un pericolo comune o creduto tale, e vero o immaginario assolutamente, piace, conforta, rallegra l'udire il canto degli altri, il vedergli intenti alle lor solite operazioni, l'accorgersi o il credere ch'essi o non istimino che vi sia pericolo, o nulla per sua cagione tralascino o mutino del loro ordinario, e di quello che infino allora facevano o che, senza il pericolo, avrebbero fatto; o che non lo temano, e sieno intrepidi ec. Il coraggio veduto o creduto negli altri, o l'opinione che non vi sia pericolo, veduta o creduta in essi, incoraggisce l'individuo che teme. Nello stesso modo il mostrar di non temere a se stesso è un farsi coraggio, o col persuadersi che non vi sia pericolo, o col dare a se stesso in se stesso un esempio di coraggio e di non temere questo pericolo, ancorchè vi sia. Or chi ha bisogno che gli sia fatto coraggio e di aver nello stesso pericolo esempi di coraggio, e altrimenti teme, non  3529 è certamente coraggioso, o in tale occasione non ha coraggio. E chi ha bisogno per non temere, di credere che non vi sia pericolo, cioè ragion di temere, o di sminuirsi l'opinion del pericolo, {e} di credere che questo pericolo, questa ragione sia piccola, o minore e più leggera ch'ella non è, ed altrimenti teme; non è coraggioso, perchè niun teme quello ch'ei non crede da temersi, e niun teme fuori dell'opinion del pericolo, vera o falsa, o ancor menoma ch'ella sia, {+o non ragionata, ma quasi istinto e passione} (come quella di cui vedi la p. 3518-20. e massime 3519. marg.)

[3545,1]  Il più deciso effetto, e quasi la somma degli effetti che produce in un uomo di raro ed elevato spirito la cognizione e l'esperienza degli uomini, si è il renderlo indulgentissimo verso qualunque maggiore e più {eccessiva} debolezza, piccolezza, sciocchezza, ignoranza, stoltezza, malvagità, vizio e difetto altrui, naturale o acquisito; laddove egli era verso queste cose severissimo prima di tal cognizione; e il renderlo facilissimo ad apprezzare e lodare le menome virtù e i piccolissimi pregi, che innanzi alla detta esperienza ei soleva dispregiare, non curare, stimare indegni di lode, e quasi confondere o non distinguere dalle  3546 imperfezioni; insomma il renderlo facilissimo e solito a stimare, e difficilissimo, insolito, anzi quasi dimentico del dispregiare e del non curare, tutto all'opposto di quel ch'egli era per lo innanzi. Tanto poco vagliono gli uomini. E da ciò si può dedurre e far {esatto} giudizio quanto sia il valor vero e la virtù vera degli uomini. (28. Sett. 1823.). {{v. p. 3720.}}

[3546,1]  In una città piccola, massime dove sia poca conversazione, non essendo determinato il tuono della società, {+(neppur un tuono proprio particolarmente d'essa città, qual sempre sarebbe in una città piccola, quando veggiamo che anche le grandi hanno sempre notabilissime nuances di tuono lor proprio, e differenze da quello dell'altre, anche dentro una stessa nazione)} ciascun fa tuono da se, e la maniera di ciascuno, qual ch'ella sia, è tollerata e giudicata per buona e conveniente. Così a proporzione in una nazione, dove non v'abbia se non pochissima società, come in italia. Il tuono sociale di questa nazione non esiste: ciascuno ha il suo. Infatti non v'è tuono di società che possa dirsi italiano. Ciascuno italiano ha la sua maniera di conversare, o naturale, o imparata dagli stranieri, o comunque acquistata. Laddove in una nazione socievole, e così a proporzione in una città grande, non è, non solo stimato, ma neppur tollerato, chi non si  3547 conforma alla maniera comune di trattare, e chi non ha il tuono degli altri, perchè questa maniera comune esiste, e il tuono di società è determinato, più o meno strettamente, e non è lecito uscirne senza esser messo, nella società ec., fuor della legge, e considerato come da men degli altri, perchè dagli altri diverso, diverso dai più. (28. Sett. 1823.).

[3552,2]  Alla p. 3388. Il vino (ed anche il tabacco e simili cose) e tutto ciò che produce uno straordinario vigore o del corpo tutto o della testa, non pur giova all'immaginazione, ma eziandio all'intelletto, ed all'ingegno generalmente, alla facoltà di ragionare, di pensare, e di trovar delle verità ragionando (come ho provato più volte per esperienza), all'inventiva ec. Alle volte per lo contrario giova sì all'immaginazione, sì all'intelletto, alla mobilità del pensiero e della mente, alla fecondità, alla copia, alla facilità e prontezza dello spirito, del parlare, del ritrovare, del raziocinare, del comporre, {#1. alla prontezza della memoria, alla facilità di tirare le conseguenze, di conoscere i rapporti ec. ec.} ec. una certa debolezza di corpo, di nervi ec.  3553 una rilasciatezza non ordinaria ec. come ho pure osservato in me stesso più volte. Altre volte all'opposto.

[3553,2]  Ho notato altrove p. 108 che la debolezza per se stessa è cosa amabile, quando non ripugni alla natura del subbietto in ch'ella si trova, o piuttosto al modo in che noi siamo soliti di vedere e considerare la rispettiva specie di subbietti; o ripugnando, non distrugga però la sostanza d'essa natura, e non ripugni più che tanto:  3554 insomma quando o convenga al subbietto, secondo l'idea che noi della perfezione di questo ci formiamo, e concordi colle {altre} qualità d'esso subbietto, secondo la stessa idea {+(come ne' fanciulli e nelle donne);} o non convenendo, nè concordando, non distrugga però l'aspetto della convenienza nella nostra idea, ma resti dentro i termini di quella sconvenienza che si chiama grazia (secondo la mia teoria della grazia), come può esser negli uomini, o nelle donne in caso ch'ecceda la proporzione ordinaria, ec. Ora l'esser la debolezza per se stessa, e s'altro fuor di lei non si oppone, naturalmente amabile, è una squisita provvidenza della natura, la quale avendo posto in ciascuna creatura l'amor proprio in cima d'ogni altra disposizione, ed essendo, come altrove ho mostrato pp. 872. sgg. , una necessaria e propria conseguenza dell'amor proprio in ciascuna creatura l'odio dell'altre, ne seguirebbe che le creature deboli fossero troppo sovente la vittima delle forti. Ma la debolezza essendo naturalmente amabile e dilettevole altrui per se stessa, fa che altri ami il subbietto in ch'ella si trova, e l'ami per amor proprio, cioè perchè da esso riceve diletto. {La debolezza ordinariamente piace ed è amabile e bella nel bello. Nondimeno può piacere ed esser bella ed amabile anche nel brutto, non in quanto nel brutto, ma in quanto debolezza, (e talor lo è) purch'essa medesima non sia {la} cagione della bruttezza nè in tutto nè in parte.} Senza ciò i fanciulli,  3555 massime dove non vi fossero leggi sociali che tenessero a freno il naturale egoismo degl'individui, sarebbero tuttogiorno écrasés dagli adulti, le donne dagli uomini, e così discorrendo. Laddove anche il selvaggio mirando un fanciullo prova un certo piacere, e {quindi} un certo amore; e così l'uomo civile non ha bisogno delle leggi per contenersi di por le mani addosso a un fanciullo, benchè i fanciulli sieno per natura esigenti ed incomodi, ed in quanto sono (altresì per natura) apertissimamente egoisti, offendano l'egoismo degli altri più che non fanno gli adulti, e quindi siano per questa parte naturalmente odiosissimi (sì a coetanei, sì agli altri). Ma il fanciullo è difeso {per se stesso} dall'aspetto della sua debolezza, che reca un certo piacere a mirarla, e quindi ispira naturalmente (parlando in genere) un certo amore verso di lui, perchè l'amor proprio degli altri trova in lui del piacere. E ciò, non ostante che la stessa sua debolezza, rendendolo assai bisognoso degli altri, sia cagione essa medesima di noia e di pena agli altri, che debbono provvedere in qualche modo a' suoi bisogni, e lo renda per natura molto esigente ec. Similmente discorrasi  3556 delle donne, nelle quali indipendentemente dall'altre qualità, la stessa debolezza è amabile perchè reca piacere ec. Così di certi animaletti o animali (come la pecora, {i cagnuolini, gli agnelli,} gli uccellini ec. ec.) in cui l'aspetto della lor debolezza rispettivamente a noi, in luogo d'invitarci ad opprimerli, ci porta a risparmiarli, a curarli, ad amarli, perchè ci riesce piacevole. {ec.} E si può osservare che tale ella riesce anche ad altri animali di specie diversa, che perciò gli risparmiano e mostrano talora di compiacersene e di amarli ec. Così i piccoli degli animali non deboli quando son maturi, sono risparmiati ec. dagli animali maturi della stessa specie (ancorchè non sieno lor genitori), ed eziandio d'altre specie (eccetto se non ci hanno qualche nimicizia naturale, o se per natura non sono portati a farsene cibo ec.); ed apparisce in essi animali una certa o amorevolezza o compiacenza verso questi piccoli. Similmente negli uomini verso i piccoli degli animali che cresciuti non son deboli. E di questa compiacenza non n'è solamente cagione la piccolezza per se (ch'è sorgente di grazia, come ho detto altrove), p. 200 pp. 1880-81 {#1. nè la sola sveltezza che in questi piccoli suole apparire (siccome ancora nelle specie piccole di animali) e che è cagion di piacere per la vitalità che manifesta e la vivacità ec. secondo il detto altrove p. 221 pp. 1716-17 p. 1999 pp. 2336-37 da me sull'amor della vita, onde segue quello del vivo ec.} ma v'ha la  3557 sua parte eziandio la debolezza. (29-30. Sett. 1823.). {{V. p. 3765.}}

[3568,2]  Δῆλον δ᾽ ὡς καρτεροῦσι πολλὴν κακοπάϑειαν οἱ πολλοὶ τῶν ἀνϑρώπων γλιχόμενοι τοῦ ζῆν, ὡς ἐνούσης τινὸς εὐημερίας (prosperitatis. Victorius) ἐν αὐτῷ, καὶ γλυκύτητος ϕυσικῆς * . Aristot. Polit. l. 3. ed. Flor. Iunt. 1576. p. 211. (1. Ottobre. 1823.)

[3596,1]  Ma Goffredo (e questo è un altro grandissimo, {ed intimo,} benchè poco o non mai osservato difetto della Gerusalemme, e benchè colpa della natura de' tempi moderni {e delle raffinate idee,} anzi che del Tasso), Goffredo è personaggio pochissimo interessante, e forse nulla, perchè i suoi pregi e 'l suo valore son troppo morali. Egli è persona troppo seria, troppo poco, anzi niente amabile, benchè per ogni parte stimabile. E come può essere amabile un uomo assolutamente privo d'ogni passione, e tutto ragione? {+un carattere freddissimo?} Difficilmente ancora può farsi amare chi non è o non apparisce  3597 capace per niun modo di amare. Ora il Tasso gli fa un pregio di questa incapacità. (c. 5. st. 61-4.) Achille è interessantissimo perch'egli è amabilissimo. Ed è amabilissimo non solamente a causa del suo sovrano valor personale, ma eziandio per la stessa ferocia, {+per la stessa intolleranza, per la stessa suscettibilità, veemenza ed impeto di carattere e di passioni, superbia, carattere e maniere disprezzanti (veri mezzi di farsi amare, e forse soli ec.) iracondo, incapace di sopportare un'ingiuria, soverchiatore, un poco étourdi, volage ec.} e per lo stesso capriccio, qualità che congiunte colla gioventù e colla bellezza, e di più col coraggio, {la forza e i tanti altri pregi, fortune, circostanze, e meriti reali di Achille,} sono sempre amabilissime, e fanno amatissimo chi le possiede. Ciò avviene anche oggidì {e sempre avverrà. (E veramente Achille è un personaggio completamente amabile: non sarebbe tale se mancasse dei detti difetti).} Nondimeno s'elle si trovassero oggi in una persona civile in quel grado in cui Omero le dipinge in Achille, esse parrebbero certamente eccessive, e mal riuscirebbero; ma ben bisogna distinguere i tempi antichissimi da' moderni, e la misura conveniente a nazioni semirozze da quella che può star bene nelle civili. {+Del resto poi il poema epico in qualunque secolo dee proporre un personaggio che sia singolare, e le cui qualità eccedano le ordinarie anche quanto alla misura. Questo personaggio non dev'esser solamente amabile ed ammirabile ma mirabilmente amabile, e singolarmente ammirabile.} Il Tasso si guardò bene dal dar negli eccessi per questa parte, rispetto a Rinaldo. Ei gli diede le dette qualità, per le quali lo fece amabile (mentre Goffredo non lo è) e perchè amabile, interessante assai più di Goffredo (quanto può essere quel leggiero interesse che si prende per uomini non isventurati, e in impresa che {non} può più starci a cuore, secondo il già detto in tal proposito. pp. 3126. sgg. pp. 3147-48  3598 Se il Tasso eccedette in Rinaldo, ciò fu piuttosto dal lato contrario. Cioè nel farlo ancor troppo ragionevole, troppo pio e devoto. Colle quali qualità ei si credette di ornarlo e renderlo più interessante, e si stimò in dovere di attribuirgliele, e facendo altrimenti avrebbe creduto di peccare, non solo contro la morale o la religione, ma contro la poesia e contro il buon giudizio e contro la proprietà del poema epico. Egli arriva sino a farlo confessare e far la sua penitenza sul monte Oliveto, prima di andare all'impresa del bosco (c. 18. stanza 6-17.). Egli avrebbe creduto lasciare una gran macchia nell'onor di Rinaldo e una grande mancanza nella stima de' lettori verso di lui, s'e' non gli avesse fatto purgar la coscienza ed assolverlo de' peccati dell'uccision di Gernando e delle fornicazioni con Armida. Contuttociò il carattere di Rinaldo riesce bene amabile. Ma Goffredo non ha nè ferocia, nè capriccio, nè impeto, nè passione veruna; non è giovane, non risplende per bellezza; il suo coraggio e la sua prodezza di cuore e di mano piuttosto si afferma di quello che si {dimostri e si} faccia operare; i suoi pregi eroici  3599 si riducono ad una somma pietà e devozione e {cura e} zelo religioso (ma non superstizioso nè passionato in niun modo) e quasi santità, {+1. sì di pensieri, sì di parole e sì di fatti} che lo fanno degno di visioni celesti e di conversar cogli Angeli e co' Beati, e d'impetrare o far miracoli (v. fra gli altri luoghi c. 13. st. 70 e segg.), e ad un eccellente senno; qualità niente amabili, perchè tutte, per così dire, immateriali. Adunque Goffredo non è amabile, ma stimabile solamente. Adunque non è che pochissimo interessante o nulla; massime oggidì ch'è svanito l'interesse dell'impresa, come ho già detto a suo luogo p. 3147, e quel zelo o fanatismo di religione, nel quale il Tasso lo fa singolare.

[3676,1]   3676 Alla p. 3349. Non è da trascurare una differenza che si trova fra il carattere, {il costume ec.} degli antichi settentrionali e abitatori de' paesi freddi, e quel de' moderni; differenza maggior di quella che suol trovarsi generalmente dagli antichi ai moderni. Perocchè gli antichi settentrionali ci sono dipinti dagli storici per ferocissimi, inquietissimi, attivissimi non solo di carattere, ma di fatto, {+per impazienti del giogo, sempre vaghi di novità, sempre macchinanti, sempre ricalcitranti e insorgenti,} e per quasi assolutamente indomabili e indomiti. Germani, Sciti ec. I moderni al contrario sono così domabili, che certo niun popolo meridionale lo è altrettanto. E tanto son lungi dalla ferocia, che non v'ha gente più buona, più mansueta, più ubbidiente, più tollerante di loro. E se v'ha parte d'europa dove meno si macchini, e si ricalcitri al comando, e si desideri novità e si odi la soggezione, ciò è per l'appunto fra i popoli settentrionali. In questa tanta diversità di effetti hanno certamente gran parte da un lato la diversità de' governi antico e moderno, dall'altro la poca coltura del popolo nelle regioni settentrionali. Ma grandissima parte v'ha certamente ancora la differenza materiale della vita. Gli antichi  3677 settentrionali, mal difesi contra le inclemenze dell'aria dalle spelonche, proccurantisi il vitto colla caccia (Georg. 3. 370. sqq. etc.), alcuni anche erranti e senza tetto, come gli Sciti ec., erano anche più ὑπαίθριοι di vita, che non sono i meridionali oggidì. Introdotti gli usi e i comodi sociali, i popoli {civilizzati} del Nord divennero naturalmente i più casalinghi della terra. Niuna cosa rende maggiormente quiete e pacifiche sì le nazioni che gl'individui, niuna men cupidi, anzi più nemici di novità, che la vita casalinga e le abitudini domestiche, le quali affezionano al metodo, rendono contenti del presente ec. come ho detto ne' pensieri citati in quello a cui questo si riferisce pp. 2752-55 pp. 2926-28. Quindi è seguíto che non per sole circostanze passeggere e accidentali, come la maggiore o più divulgata e comune coltura di spirito ec. ma naturalmente e costantemente, nel sistema di vita sociale, e dopo resa la civiltà comune al nord come al sud, i popoli del mezzogiorno, come meno casalinghi, sieno stati, sieno, ed abbiano a essere più inquieti e più attivi di quelli del settentrione, sì d'animo, sì di fatti,  3678 al contrario di quello che porterebbe la pura natura degli uni e degli altri comparativamente considerata. Ond'è che i settentrionali moderni e civili sieno in verità molto più diversi e mutati da' loro antichi, che non sono i meridionali dagli antichi loro, sì di carattere, sì di usi, di azioni ec.

[3684,1]   3684 Non v'è persona che riesca più intollerabile e che meno sia tollerata nella società, di uno intollerante. (14. Ott. 1823.).

[3745,2]  Il piacere è sempre passato o futuro, e non mai presente, nel modo stesso che la felicità è sempre altrui e non mai di nessuno, o sempre condizionata e non mai assoluta: e così è impossibile che altri dica con {pieno} sentimento di  3746 vero dire, e con piena sincerità e persuasione, io provo un piacere, ancorchè menomo, quantunque tutti dicono io n'ho provato e proverò; quanto è impossibile che alcun dica di cuore io son felice, o Beato me, quando però tutti dicono beato il tale o il tal altro, {e} io sarei felice se mi trovassi tale o tale, e beato me se ottenessi tale o tal cosa, e se fosse questo o questo. E le cagioni per cui sono impossibili parimente le due cose sopraddette, sono appresso a poco le stesse. E come il non esser niuno che dica me beato, dimostra che tutti s'ingannano quelli che dicono beato te o lui, e io sarei beato in tale o tal caso (e tutti gli uomini così parlano e parleranno sempre {+e di cuore}); così il non esser chi dica di vero animo io provo piacere presentemente, dimostra che niuno provò nè proverà mai piacere alcuno, benchè tutti si pensino e {moltissimi affermino} con sentimento di verità, di averne provato e di averne a provare. (21. Ott. 1823.).

[3765,1]  Alla p. 3557. principio. L'aspetto della debolezza riesce piacevole e amabile principalmente ai forti, sia della stessa specie sia di diversa. (forse per quella inclinazione che la natura ha messa, come si dice, ne' contrarii verso i contrarii). Quindi la debolezza in una donna riesce più amabile all'uomo che all'altre donne, in un fanciullo più amabile agli adulti che agli altri fanciulli. E la donna è più amabile all'uomo che all'altre donne, anche pel rispetto della debolezza ec. Ed all'uomo tanto più quanto egli è più forte, non solo per altre cagioni, ma anche per questa, che l'aspetto della debolezza gli riesce tanto più piacevole, quando è in un oggetto {{altronde}} amabile ec. Ed anche per questa causa i militari, e le  3766 nazioni militari generalmente sono più portate verso le donne, o verso τὰ παιδικά ec. (V. Aristot. Polit. 2. Flor. 1576. p. 142.). Le cose dette della debolezza si possono anche dire della timidità. Piace l'aspetto della timidità in un oggetto d'altronde amabile, e quando essa medesima non disconvenga. Piace p. e. ne' lepri, ne' conigli ec. Piace massimamente ai forti o assolutamente o per rispetto a quei tali oggetti. Piace ai più coraggiosi, e questo ancora si riferisca a quel che ho detto de' militari. Il veder che uno teme e ha ragion di temere, e ch'e' non si può difendere, è cosa amabile, e induce i forti e i coraggiosi, o della stessa specie o di diversa, a risparmiare quei tali oggetti; quando non v'abbia altra causa che operi il contrario, come nel lupo verso la pecora ec. Cause indipendenti dalla timidità e dal coraggio. E da ciò, almeno in parte, deriva che gl'individui e le nazioni forti e coraggiose sogliono naturalmente essere le più benigne; e in contrario è stato osservato che gl'individui e i popoli più deboli e timidi sogliono essere i più crudeli verso i viventi più deboli di loro, verso i loro {stessi} individui più deboli ec. Ed  3767 è proposizione costante e generale che la timidità la codardia e la debolezza amano molto di accompagnarsi colla crudeltà, colla inclemenza e spietatezza e durezza de' costumi e delle azioni ec. (Che il timore sia naturalmente crudele, perchè sommamente egoista, e così la viltà ec. l'ho notato in più luoghi pp. 2206-208 pp. 2387-89 p. 2630). Ciò non solo si osserva negli uomini, ma eziandio negli altri animali. E con molta verisimiglianza, se non anche con verità, si attribuisce al leone la generosità verso gli animali di lui più deboli e timidi ec. quando la natura, cioè una nimistà naturale, o la fame ec. non lo spinga ad opprimerli ec. o ve lo spinga talora, ma non in quel tal caso, o quando la natura non glieli abbia destinati particolarmente per cibo, chè allora sarà ben difficile ch'ei se ne astenga, o se ne astenga per altro che per sazietà. Si applichino queste osservazioni a quelle da me fatte circa la compassionevolezza naturale ai forti, e la naturale immisericordia e durezza dei deboli ec. e viceversa quelle a queste (p. 3271. segg.) Si suol dire, e non è senza esempio nelle storie che le donne  3768 divenute potenti {in qualunque modo,} sono state e sono generalmente come più furbe e triste, così più crudeli e meno compassionevoli verso i loro nemici, o generalmente ec. di quel che sieno stati o sieno, o che sarebbero stati o sarebbero, gli uomini, in parità d'ogni altra circostanza. Ed è ben noto che i Principi più deboli e vili sono sempre stati i più crudeli proporzionatamente alle varie qualità ed al vario spirito de' tempi a cui sono vissuti o vivono, e alle varie circostanze in cui si sono rispettivamente trovati o trovansi, e secondo le varie epoche e vicende della vita di ciascheduno ec. (24. Ott. 1823.).

[3769,1]  Ho detto in questo discorso come sia necessario che il soggetto dell'epopea sia nazionale, e come dannoso sarebbe ch'ei fosse universale ec. (se non nel modo usato dal Tasso ec.). Ma per altra parte la nazionalità del soggetto limita, quanto a se, l'interesse e il grand'effetto del poema, a una sola nazione. Non v'è altro modo di ovviare a questo gran male (il qual fa ancora che i posteri, dopo le tante mutazioni politiche che cagiona il tempo, distruttore o cangiatore delle nazioni, o de' loro nomi, ch'è tutt'uno,  3770 e loro carattere nazionale ec. non considerino più quegli antichi, nè possano considerarli, come lor nazionali, e che a lungo andare, immancabilmente, non vi sia più nazione a cui quel poema sia nazionale), se non di costringere l'immaginazion de' lettori qualunque a persuaderli di esser compatrioti e contemporanei de' personaggi del poeta, a trasportarli in quella nazione e in quei tempi ec. Illusione conforme a quella che deono proccurare i drammatici ec. Or tra tutti gli epici quel che meglio l'ha proccurata si è Omero nell'iliade, siccome fra tutti gli storici Livio. Vero è che questo viene in grandissima parte da quelle tante cagioni altrove da me esposte pp. 3125. sgg., le quali fanno che tutte le nazioni civili in tutti i tempi sieno {state e sieno per essere} connazionali e contemporanee de' troiani, greci {antichi} romani {antichi} ed ebrei {antichi.} Infatti dopo l'iliade, il poema epico che meglio proccura la detta illusione universale, si è l'Eneide, perchè di soggetto troiano e romano. Ma vero è ancora che, massime quanto ai troiani, le dette cagioni si riducono alla sola iliade (ed all'Eneide),  3771 onde l'illusione ch'essa proccura, non viene da cause a lei affatto estrinseche, anzi l'iliade è tanto più mirabile quanto essa sola, o essa principalmente (cioè aiutata dall'Eneide ec.), ha potuto rendere {e rende} tutti gli uomini civili d'ogni nazione e tempo compatrioti e contemporanei de' troiani. Questo ella consegue mediante le reminiscenze della fanciullezza ec. le quali l'accompagnano perchè sin da fanciulli conosciamo l'iliade, o i fatti da essa narrati e inventati, e la mitologia in essa contenuta, ec. e le prime nozioni della mitologia che apprendiamo, sono strettamente legate e in {buona} parte composte delle invenzioni d'Omero ec. ec. Ma tutto questo non sarebbe {nè sarebbe stato} se l'iliade non fosse sempre stata così celebre. Nè così celebre sarebbe stata sempre senza il suo sommo merito. Vero è che questo non ha che fare in particolare colla condotta ec. ec. (25. Ott. 1823.).

[3821,2]  Alla p. 3156. - quando eziandio il sentimentale di Lord Byron, quello che spetta al giuoco delle passioni, al cuore, all'espressione alla pittura all'imitazione de' caratteri e de' sentimenti degli uomini, alla scienza e considerazione dello spirito dell'uomo, dell'uomo interno ec. (del che le poesie di Lord Byron sommamente abbondano, anzi sono composte) pochissimo si communica a' lettori, e veramente è poco fatto per comunicarsi agli animi altrui. E ciò appunto perchè esso pare, e forse è, piuttosto dettato dall'immaginazione che dal sentimento e dal cuore, piuttosto immaginato che sentito, immaginato che vero, inventato che imitato o congetturato, creato che ritratto ed espresso, e {insomma ha certamente} più dell'immaginoso che del passionato e sentimentale, ed è per sua natura più atto e disposto ad operare sulla immaginazione che sul cuore di chi legge. E così parrebbe che Lord Byron avesse voluto, e così certo accade. E perciò il suo effetto è debole, {cioè} poco intimo, e quindi poco durevole, benchè possa esser fortissimo al primo tratto, il che non è incompatibile col superficiale. L'effetto delle poesie di Lord Byron, tanto e così perpetuamente ed estremamente sentimentali, l'effetto del sentimentale di esse, non è sentimentale per le dette ragioni. Or veggiamo che per ciò è poco intimo, e poco si comunica il movimento dell'autore e di esse, perchè questo non essendo {quasi} proprio ad agire che sull'immaginazione, l'  3822 immaginazione de' lettori oggidì è generalmente poco atta a ricevere forti, cioè intime e durevoli impressioni: il che è quello ch'io diceva, e il proposito di questo discorso. E quel movimento delle poesie e de' poeti che spetta solamente o principalmente all'immaginazione, sia che nasca da essa sola nel poeta, e in essa sola abbia avuto luogo, sia che in essa sola possa agir ne' lettori {+e ad essa sola comunicarsi,} (questo è più probabilmente il caso nostro, perchè io credo che Lord Byron veramente senta, non solo imagini, anzi l'eccesso e la straordinaria forza e qualità de' suoi sentimenti sia quel che gli noccia) difficilmente e in piccola parte e poco gagliardamente si comunica ai lettori d'oggidì. Diversamente certo accadeva negli antichi (lo vediamo infatti anche oggi ne' fanciulli e ne' giovani ancora inesperti del mondo, o nella prima gioventù, quando ella, in pratica, ancor non filosofa, come tutti fanno nell'altre età, o dopo l'esperienza; cioè tutti oggi filosofano, quanto alla vita ec. chi in teoria e in pratica, chi {in} questa sola). Oggi anche gli antichi sommi poeti presto ci stancano e lasciano in secco, se e quando non sono che immaginosi, ancorchè in questo medesimo sommi, straordinarii e pieni d'arte. Le poesie di Lord Byron molto più e più presto ci stufano e lascian freddi, per la grande uniformità che vi si sente, la quale può esser vera, e nascere da mancanza {della} vera {e sottile} arte poetica (sì bene e distintamente conosciuta e {sì eccellentemente e maestrevolmente} praticata dagli antichi); e può anche esser che sia apparente, e nasca solo dal continuo eccesso in ogni cosa, dalla continua intensità, dal continuo risalto  3823 straordinario di ciascuna parte. Il che da un lato produce l'effetto dell'uniformità, e lo è veramente, in quanto è continuo eccesso ec. benchè variato, quanto si voglia, ne' suoi subbietti, qualità ec. Dall'altro lato stanca come l'uniformità, perchè troppo affatica gli animi, {+che ben tosto non possono più tener dietro all'entusiasmo del poeta,} come la vista {presto} si stanca di colori tutti vivissimi, benchè e belli e varii; e perchè il molto {ed ἀϑρόον,} sia pur bonissimo, presto sazia; come chi bee ad un tratto un boccale di liquore, ha subito estinta la sete, nè perchè tu gli offra altro liquore diverso e squisitissimo, ha voglia di gustarlo, ma egli ha perduto per allora la facoltà di provar piacere dal bere, e da' grati liquori. Come nel corpo così nell'animo la facoltà {la virtù} di provar piacere è scarsa; bisogna risparmiarla, o ch'ella è ben tosto esaurita. Il corpo e l'animo cede e vien meno al soverchio piacere, come al soverchio dolore. Ben rare sono le cose piacevoli, e i piaceri ben piccoli. Ma fossero pur frequentissimi e grandissimi. Nè il corpo nè l'animo umano hanno la forza di goder più che tanto, e anche indipendentemente dall'assuefazione che rende indifferenti le sensazioni da principio piacevoli o dolorose, anche restando ai piaceri e ai dolori la lor forza, manca all'uomo la facoltà di sentirli, se e' son troppo grandi, {o se son troppi ec.} La facoltà di soffrire è assai maggiore nell'uomo. Pur se il dolore è soverchio, nè il corpo nè l'animo umano non è capace di sentirlo, e non soffre, o per poco spazio, dopo il quale la sua facoltà di soffrire vien meno. L'uomo non può molto godere, non solo perchè pochi e piccoli sono i piaceri,  3824 ma anche rispetto a se stesso, perchè egli è molto limitatamente capace del piacere, e quegli stessi che vi sono, così piccoli e pochi, bastano a vincere di gran lunga la sua capacità. Bacco e Venere sono piaceri, ma l'uomo dopo un quarto d'ora ec. diviene incapace di gustarli, e soccombe alla loro forza {niente meno che} a quella de' tormenti e de' morbi. (3. Nov. 1823.).

[3835,1]  L'esaltamento di forze proveniente da' liquori o da' cibi o da altro accidente (non morboso), se non cagiona, come suole sovente, un torpore e una specie di assopimento letargico (come diceva il Re di Prussia), essendo un accrescimento di vita, accresce l'effetto essenziale di essa, ch'è il desiderio del piacere, perocchè coll'intensità della vita cresce {quella del}l'amor proprio, e l'amor proprio è desiderio della propria felicità, e la felicità è piacere {#1. V. p. 3905.} {Puoi vedere la p. 3842. seg..} Quindi l'uomo in quello stato è oltre modo, e più ch'ei non suole, avido {e famelico} di sensazioni piacevoli, e inquieto per questo desiderio, e le cerca, e tende con più forza e più direttamente e immediatamente al vero fine della sua vita e del suo essere e di se stesso, e alla vera somma e sostanza ultima della felicità, ch'è il piacere, poco, {o men del suo solito,} curando le altre cose, che spesso son fini delle operazioni e desiderii umani, ma fini secondarii, benchè tuttogiorno si prendano per primarii {e per felicità}; perch'essi stessi tendono essenzialmente ad un altro fine, e tutti ad un fine medesimo, cioè a dire al piacere. In somma l'uomo è allora rispetto a se stesso ed al solito suo, quello che sono {sempre} i più forti rispetto agli altri, cioè più sitibondi della felicità, e più inquieti da' desiderii, cioè dal desiderio della propria felicità, e più immediatamente e specialmente, e in modo più espresso, sensibile e manifesto sì agli altri che a se medesimi, avidi del piacere  3836 (al quale tutti tendono e sempre, ma i più forti più, e più immediatamente e chiaramente, o ciò più spesso e più ordinariamente degli altri), perocch'essi sono {abitualmente} più vivi degli altri.

[3837,1]   3837 Il giovane che al suo ingresso nella vita, si trova, per qualunque causa e circostanza ed in qual che sia modo, ributtato dal mondo, innanzi di aver deposta la tenerezza verso se stesso, propria di quell'età, e di aver fatto l'abito {e il callo} alle contrarietà, alle persecuzioni e malignità degli uomini, agli oltraggi, punture, smacchi, dispiaceri che si ricevono nell'uso della vita sociale, alle sventure, ai cattivi successi nella società e nella vita civile; il giovane, dico, che o da' parenti, come spesso accade, o da que' di fuori, si trova ributtato ed escluso dalla vita, e serrata la strada ai godimenti (di qualsivoglia sorta) o più che agli altri o al comune de' giovani non suole accadere; o tanto che tali ostacoli vengano ad essere straordinari e ad avere maggior forza che non sogliono, a causa di una sua non ordinaria sensibilità, immaginazione, suscettibilità, {delicatezza di spirito e d'indole,} vita interna, e quindi straordinaria tenerezza verso se stesso, maggiore amor proprio, maggiore smania e bisogno di felicità e di godimento, maggior capacità e facilità di soffrire, maggior delicatezza sopra ogni offesa, ogni danno, ogn'ingiuria, ogni disprezzo, ogni puntura {ed ogni lesione} del suo amor proprio; un tal giovane trasporta e rivolge bene spesso tutto l'ardore {{e la {morale e fisica}}} forza o generale della sua età, o particolare della sua indole, o l'uno e l'altro insieme, tutta, dico, questa forza e questo ardore che lo spingevano verso la felicità, l'azione, la vita, ei la rivolge a proccurarsi l'infelicità, l'inattività, la morte morale.  3838 Egli diviene misantropo di se stesso e il suo maggior nemico, egli vuol soffrire, egli vi si ostina, i partiti {più tristi, più acerbi verso se stesso,} più dolorosi e più spaventevoli, e che prima di quella sua poca esperienza della vita egli avrebbe rigettati con orrore, divengono del suo gusto, ei li abbraccia con trasporto, dovendo scegliere uno stato, il più monotono, il più freddo, il più penoso per la noia che reca, il più difficile a sopportarsi perchè più lontano e men partecipe della vita, è quello ch'ei preferisce, ei vi si compiace tanto più quanto esso è più orribile per lui, egl'impiega tutta la forza del suo carattere e della sua età in abbracciarlo, e in sostenerlo, e in mantenere ed eseguire la sua risoluzione, e in continuarlo, {+e si compiace fra l'altre cose in particolare nell'impossibilitarsi a poter mai fare altrimenti, e nello abbracciar quei partiti che gli chiudano per sempre la strada di poter vivere, o soffrir meno, perchè con ciò ei viene a ridursi e a rappresentarsi come ridotto in uno estremo di sciagura, il che piace, come altrove ho detto p. 313 pp. 2217-21 , e se qualche cosa mancasse e potesse aggiungersi al suo male, ei non sarebbe contento ec.} egl'impiega tutta la sua vita morale in abbracciare, sopportare e mantenere {costantemente} la sua morte morale, tutto il suo ardore in agghiacciarsi, tutta la sua inquietezza in sostenere la monotonia e l'uniformità della vita, tutta la sua costanza in scegliere di soffrire, voler soffrire, continuare a soffrire, {+tutta la sua gioventù in invecchiarsi l'animo, e vivere esteriormente da vecchio, ed abbracciare e seguir gl'istituti, le costumanze, i modi, le inclinazioni, il pensare, la vita de' vecchi.} Come tutto ciò è un effetto del suo ardore e della sua forza naturale, egli va molto al di là del necessario: se il mondo a causa di suoi difetti o morali o fisici, o di sue circostanze, gli nega tanto di godimento, egli se ne toglie il decuplo; se la necessità l'obbliga a soffrir tanto, egli elegge di soffrire dieci volte di più; se gli nega un bene ei se ne interdice uno assai maggiore; se gli contrasta qualche godimento, egli si priva di tutti, e rinunzia affatto al godere.

[3854,2]  Quello che noi chiamiamo spirito nei caratteri, nelle maniere, ne' moti ed atti, nelle parole, ne' motti, ne' discorsi, nelle azioni, negli scritti e stili ec. ci piace, e ciò a tutti, perch'egli è vita, e desta sensazioni vive sotto qualche rispetto, {+o desta sensazioni {qualunque,} e molte, e spesse, il che è cosa viva, perchè il sentire lo è. Infatti lo spirito si chiama anche vivacità ec. o semplicemente, o vivacità di spirito, di carattere, stile, modi ec. ec..} Il suo contrario in certo modo è morte, e non desta sensazioni, o poche, leggere,  3855 non rapide, non varie, non rapidamente succedentisi e variantisi, il che è cosa morta. Noi lo chiamiamo spirito perchè siamo soliti di considerar la vita come cosa immateriale, e appartenente a cose non materiali, e di chiamare spirito ciò ch'è vivo e vive e cagiona la vita ec.; e la materia siamo soliti di considerarla come cosa morta, e non viva per se, nè capace di vita ec. (10. Nov. ottava del dì de' Morti. 1823.).

[3876,1]  Dico che l'uomo è sempre in istato di pena, perchè sempre desidera invano ec. Quando l'uomo si trova senza quello che positivamente si chiama dolore o dispiacere o cosa simile, la pena inseparabile dal sentimento della vita, gli è quando più, quando meno sensibile, secondo ch'egli è più o meno occupato o distratto {da checchessia e massime} da quelli che si chiamano piaceri, secondo che per natura o per abito o attualmente egli è più vivo e più sente la vita, ed ha maggior vita abituale o attuale ec. Spesso la detta pena è tale che, per qualunque cagione, e massime perch'ella è continua, e l'uomo v'è assuefatto fino dal primo istante della sua vita, non l'osserva, e non se n'avvede espressamente, ma non però è men vera. Quando l'uom se n'avvede, e ch'ella sia diversa da' positivi dolori, dispiaceri ec., ora ella ha nome di noia, ora la chiamiamo con altri nomi. Sovente essa pena, che non vien da altro se non dal desiderare invano, e che in questo solo consiste, e che per conseguenza tanto è maggiore {{e più sensibile}} quanto il desiderio abitualmente o attualmente è più vivo, sovente, dico, ella è maggiore nell'atto e nel punto medesimo del piacere, che nel tempo  3877 della indifferenza e quiete {e ozio} dell'animo, e mancanza di sensazioni {o concezioni ec. passioni ec.} determinatamente grate o ingrate; e talvolta maggiore eziandio che nel tempo del positivo dispiacere, o sensazione ingrata sino a un certo segno. Ella è maggiore, perchè maggiore e più vivo in quel tempo è il desiderio, come quello ch'è punto e infiammato dalla presente e attuale apparenza del piacere, a cui l'uomo continuamente sospira; {#1. dalla vicina anzi presente, straordinaria e fortissima, {+e fermissima e vivissima} anzi si può dir certa speranza} e quasi dal vedersi vicinissima e sotto la mano la felicità, ch'è il suo perpetuo e sovrano fine, senza però poterla afferrare, perocchè il desiderio è ben più vivo allora, ma non più fruttuoso nè più soddisfatto che all'ordinario. Il desiderio del piacere, nel tempo di quello che si chiama piacere è molto più vivo dell'ordinario, più vivo che nel tempo d'indifferenza. Non si può meglio definire l'atto del piacere umano, che chiamandolo un accrescimento del naturale e continuo desiderio del piacere, tanto maggiore accrescimento quanto quel preteso e falso piacere è più vivo, quella sembianza è sembianza di piacer maggiore. L'uomo desidera allora la felicità più che nel tempo d'indifferenza ec. e con {assolutamente} eguale inutilità. Dunque il desiderio essendo più vivo da un lato, ed egualmente vano dall'altro, la pena compagna naturale del sentimento della vita, la qual nasce appunto e consiste in questo desiderio di felicità e {quindi} di piacere, dev'esser maggiore e più sensibile nell'atto del piacere (così detto) che all'ordinario. Essa lo è infatti (se non quando e quanto la sensazione piacevole, o l'immaginazione  3878 piacevole, o quella qualunque cosa in cui consiste e da cui nasce il così detto piacere, serve e debb'esser considerata come una distrazione e una forte occupazione ec. dell'animo, {dell'amor proprio, della vita} e dello stesso desiderio; e questo è il migliore e più veramente piacevole effetto del piacere umano o animale; occupare l'animo, e, non soddisfare il desiderio ch'è impossibile, ma per una parte, e in certo modo, quasi distrarlo, e riempiergli quasi la gola, come la focaccia di Cerbero insaziabile). E l'uomo, che in uno stato ordinario bene spesso, anzi forse il più del tempo, appena si avvede di detta pena, nell'atto del piacere, se ne avvede sempre o quasi sempre, ma non sempre l'osserva nè ha campo di porvi mente, e ben di rado l'attribuisce alla sua vera cagione e ne conosce la vera natura; di radissimo poi {+nè in quel punto, nè mai, o ch'ei rifletta sul suo stato d'allora in qualche altro tempo, o che mai non lo consideri ec.} rimonta al principio e generalizza ec. nel qual caso egli ritroverebbe quelle {universali e grandi} verità che noi andiamo osservando e dichiarando, e che niuno forse ancora ha bene osservate, o interamente e chiaramente comprese e concepute ec. (13. Nov. 1823.).

[3879,1]  Alla p. 3715. Sono molte volte che la noia è un non so che di più vivo, che ha più sembianza perciò di passione, e quindi avviene che non sia sempre in tali casi chiamata noia, benchè filosoficamente parlando, ella lo sia, consistendo in quel medesimo in cui consiste quel che si chiama noia, cioè nel desiderio di felicità lasciato puro, senza infelicità nè felicità positiva, e differendo solo nel grado da quella che noia comunemente è chiamata. E differisce nel grado, in quanto ell'è noia, in certo modo più intensa, sensibile e viva, qualità che l'avvicinano all'infelicità così chiamata positivamente, e che paiono poco convenevoli  3880 alla noia. Ella infatti, benchè del genere stesso, è più passione è più penosa, che la noia, così comunemente chiamata, non è. Ed è tale perch'ella nasce e consiste in un desiderio più vivo, e al tempo stesso ugualmente vano. Questa sorta di passione è quella che provano generalmente i giovani quando sono in istato di non piacere e non dispiacere. Essi sono poco capaci della noia comunemente detta. Essi sono poco capaci di trovarsi giammai senza un'attuale, ancorchè indeterminata passione, {#1. Se non {in} quanto essi sono più capaci di occupazione e distrazion forte dell'animo, e quando essi si trovano attualmente in tale stato (che accade loro più frequentemente che agli altri per molte ragioni) del che vedi la pag. 3878. principio.} più viva d'essa noia, perchè il loro amor proprio, e quindi il lor desiderio di felicità e di piacere, ugualmente vano che nell'altre età, è molto più vivo, generalmente parlando. Incapaci di noia comunemente detta, benchè privi di piacere e dispiacere, sono ancora similmente quegli stati dell'individuo, di cui ho detto p. 3835.-6. 3876-8. e simili. Altresì lo stato di desiderio presente e vivo determinato a qual si sia cosa; benchè privo anche questo stato, di piacere e dispiacere positivo ec. E così discorrendo. Questa sorta di passione, diversa dalla noia comunemente detta, ma dello stesso genere ec., questa ancora io voglio comprendere sotto il nome di noia, e ad essa ancora si deve intendere ch'io abbia riguardo quando affermo che la noia corre immancabilmente e immediatamente a riempiere qualunque vuoto lasciato dal piacere o dispiacer così detto ec. e che l'assenza dell'uno e dell'altro è noia per sua natura, e che mancando essi, v'è la noia necessariamente, e che posta tal mancanza è posta la noia ec. come alle p. 3713-5. (13. Nov. 1823.).

[3881,4]  Il vino, il cibo ec. dà talvolta una straordinaria prontezza vivacità, rapidità, facilità, fecondità d'idee, di ragionare, d'immaginare, di motti, d'arguzie, sali, risposte ec. vivacità di spirito, furberie, risorse, trovati, sottigliezze grandissime di pensiero, profondità, verità astruse, tenacità  3882 e continuità ed esattezza di ragionamento anche lunghissimo e induzioni successive moltissime, senza stancarsi, facilità di vedere i più lontani e sfuggevoli rapporti, e di passare rapidamente dall'uno all'altro senza perderne il filo ec. volubilità somma di mente ec. Questo secondo le condizioni particolari delle persone, ed anche le loro circostanze sì attuali {in quel punto,} sì abituali in quel tempo, sì abituali nel resto della vita ec. Ma quello accrescimento di facoltà prodotto dal vino, {{ec.}} è indipendente per se stesso dall'assuefazione. E gli uomini più stupidi di natura, d'abito ec. divengono talora in quel punto spiritosi, ingegnosissimi ec. {+V. p. 3886.} Questo si applichi alle mie osservazioni p. 1553 pp. 1819-22 pp. 3197-206 pp. 3345-47 dimostranti che il talento {e le facoltà dell'animo ec.} essendo in gran parte cosa fisica, e influita dalle cose fisiche ec. la diversità de' talenti in gran parte è innata, e sussiste {anche} indipendentemente dalla diversità delle assuefazioni, esercizi, circostanze, coltura ec. (14. Nov. 1823.).

[3895,1]  Il sonno e tutto quello che induce il sonno, {ec.} è per se stesso piacevole, secondo la mia teoria del piacere ec pp. 172-73. Non c'è maggior piacere (nè maggior felicità) nella vita, che il non sentirla. (20. Nov. 1823.).

[3902,5]  L'uomo che ha molta capacità e quindi facilità, prontezza e moltiplicità di assuefazione, per questa medesima causa ha altrettanta capacità, facilità ec. di dissuefazione. Viceversa nel caso contrario. E sempre proporzionatamente, anzi sempre ugualmente, alla misura dell'una capacità risponde quella dell'altra. L'una  3903 e l'altra o sono la cosa stessa diversamente considerata, o due effetti gemelli d'una stessa causa, che non può produr l'uno senza produr l'altro nel medesimo grado. Dalle medesime cagioni fisiche, morali ec. che producono l'assuefabilità di un uomo o dell'uomo ec. nasce altrettanta sua dissuefabilità. E dall'una si può argomentare all'altra. L'uomo è assuefabile; dunque egli è dissuefabile; o viceversa. Il tale individuo ha tanta capacità di assuefazione; dunque tanta di dissuefazione nè più nè meno.

[3922,1]  Ma oltre di tutto ciò, bisogna accuratamente distinguere la forza dell'animo dalla forza del corpo. L'amor proprio risiede nell'animo. L'uomo è tanto più infelice generalmente, quanto è più forte e viva in lui quella parte che si chiama animo. Che la parte detta corporale sia più forte, ciò per se medesimo non fa ch'egli sia più infelice, nè accresce il suo amor proprio, se non in quanto il maggiore o minor vigore del corpo è per certe parti {+e rispetti, e in certi modi,} legato e corrispondente e proporzionato a quello della parte chiamata animo. Ma nel totale e sotto il più de' rispetti, tanto è lungi che la maggior forza del corpo sia cagione di maggiore amor proprio e infelicità, che anzi questa e quello sono {naturalmente} in ragione inversa della forza propriamente corporale, sia abituale sia passeggera. L'amor proprio e quindi l'infelicità sono in proporzione diretta del sentimento della vita. Ora accade, generalmente e naturalmente parlando, che ne' più forti di corpo la vita sia bensì maggiore, ma il sentimento della vita minore, e tanto minore quanto maggiore si è e la somma della vita e la forza. Ne' più deboli {di corpo} viceversa. O volendoci esprimere in altro modo, e forse più chiaramente, ne' più forti  3923 di corpo la vita esterna e{è} maggiore, ma l'interna è minore; e al contrario ne' più deboli di corpo. Infatti è cosa osservata che generalmente, naturalmente, e in parità di altre circostanze, le nazioni e gl'individui più deboli di corpo sono più disposti e meno impediti a pensare, riflettere, ragionare, immaginare, che non sono i più forti; e un individuo medesimo lo è più in uno stato e tempo di debolezza corporale o di minor forza, che in istato di forza corporale, o di forza maggiore. Gli uomini sensibili, di cuore, di fantasia; insomma di animo mobile, suscettibile, e più vivo in una parola che gli altri, sono delicati e deboli di complessione, e ciò così ordinariamente, che il contrario, cioè molta e straordinaria sensibilità ec. in un corpo forte, sarebbe un fenomeno. {#2. V. p. 3945.} La vita è il sentimento dell'esistenza. Questo è tutto in quella parte dell'uomo, che noi chiamiamo spirituale. Dunque la maggiore o minor vita, e quindi amor proprio e infelicità, si dee misurare dalla maggior forza non del corpo ma dello spirito. E la maggior forza dello spirito consiste nella maggior delicatezza, finezza ec. degli organi che servono alle funzioni spirituali. Delicatezza d'organi difficilmente si trova in una complessione non delicata; e viceversa ec. La delicatezza del fisico interno corrisponde naturalmente ed è accompagnata da quella dell'esterno. Di più la forza del corpo rende l'uomo più materiale, e quindi propriamente parlando, men vivo, perchè la vita, cioè il sentimento dell'esistenza, è nello spirito e dello spirito. {+Così le passioni ed azioni, le sensazioni e piaceri {ec.} materiali, tanto più quanto sono più forti; {#1. (rispettivamente alla capacità ed agli abiti fisici e morali, ec. dell'individuo)}; le attuali attualmente, le abituali abitualmente.} Le sensazioni materiali in un corpo forte, o in un individuo che per esercizio o per altra  3924 cagione ha acquistato maggior forza corporale ch'ei non aveva per natura, o in un corpo debole che si trovi in passeggero stato di straordinaria forza, sono più forti, ma non perciò veramente più vive, anzi meno perchè più tengono del materiale, e la materia (cioè quella parte delle cose e dell'uomo che noi più peculiarmente chiamiamo materia) non vive, e il materiale non può esser vivo, e non ha che far colla vita, ma solo colla esistenza, la quale considerata senza vita, non è capace nè di amor proprio nè d'infelicità. Così la materia non è capace di vita, e una cosa, un'azione, una sensazione ec. quanto è più materiale, tanto è men viva. Insomma ciascuna specie di viventi rispetto all'altre, ciascuno individuo rispetto a' suoi simili, ciascuna nazione rispetto all'altre, ciascuno stato dell'individuo sia naturale, sia abituale, sia attuale e passeggero, rispetto agli altri suoi stati, quanto ha più del materiale, e meno dello spirituale, tanto è, propriamente parlando, men vivo, tanto meno partecipa della vita e per quantità e per intensità e grado, tanto ha minor somma e forza di amor proprio, e tanto è meno infelice. Quindi tra' viventi le specie meno organizzate, avendo un'esistenza più materiale, e meno di vita propriamente detta, sono meno infelici. Tra le nazioni {umane} le settentrionali, più forti di corpo, men vive di spirito, sono meno infelici delle meridionali. Tra gl'individui umani i più forti di corpo, men delicati di spirito, sono meno infelici. Tra' vari stati degl'individui, quello p. e. di ebbrietà, benchè più vivo quanto al corpo, essendo però men vivo quanto  3925 allo spirito (che in quel tempo è obruto dalla materia, e le sensazioni spirituali dalle materiali, e le azioni stesse dello spirito, {{benchè più forti ec,}} hanno allora più del materiale che all'ordinario), e quindi la vita essendo allora più materiale, e quindi propriamente men vita (come in tempo di sonno o letargo, benchè questo sia inerte, e l'ebbrietà più svegliata ancora e più attiva talvolta che lo stato sobrio), è meno infelice.

[3941,3]  La facoltà d'imitazione non è che facoltà di assuefazione; perocchè chi facilmente si avvezza, vedendo o sentendo o con qualunque senso apprendendo, o finalmente leggendo, facilmente, ed anche in poco tempo, riducesi ad abito quelle tali sensazioni  3942 o apprensioni, di modo che presto, e ancor dopo una volta sola, e più o manco perfettamente, gli divengono come proprie; il che fa ch'egli possa benissimo e facilmente rappresentarle ed al naturale, esprimendole piuttosto che imitandole, poichè il buono imitatore deve aver come raccolto e immedesimato in se stesso quello che imita, sicchè la vera imitazione non sia propriamente imitazione, facendosi d'appresso se medesimo, ma espressione. {#1. Giacchè l'espressione de' propri affetti o pensieri {o} sentimenti o immaginazioni ec. comunque fatta, io non la chiamo imitazione ma espressione.} Or come la facoltà d'imitare sia qualità e parte principalissima e forse il tutto de' grandi ingegni, e così degli altri talenti in proporzione, è cosa da molti osservata è[e] spiegata. Dunque riconfermasi che l'ingegno è facoltà di assuefazione. (6. Dec. 1823.). {{V. p. 3950.}}

[3942,2]  Alla p. 3275. marg. Anzi molti di questi amano più di aver de' nemici che degli amici, son più contenti di essere odiati che amati, e si attaccano volentieri con chicchessia, non per sensibilità, neanche per misantropia, per l'odio naturale verso gli altri ec., ma perchè il loro stato naturale è lo stato di guerra, ed amano più di combattere che di stare in pace e posarsi, e più la vita inquieta che la tranquilla. E ciò semplicissimamente, senza malignità, senza carattere nè passioni nere e odiose. Infatti essi sono {apertissimi,} sincerissimi, compassionevolissimi, e beneficano più degli altri, ma le stesse persone che essi compatiscono o beneficano, amerebbero più  3943 di averle a combattere e di esserne odiati. E similmente cogli altri uomini i quali hanno più caro di averli contrarii che affezionati o indifferenti, e però tuttogiorno, senza passione alcuna, o ben leggera, e sopra menomissime bagattelle gli stuzzicano e provocano ed offendono o con parole o con fatti, per avere il piacer di combatterli e di stare in guerra. E come ciascuno s'immagina ordinariamente quello che più desidera, così essi ordinariamente si compiacciono in pensare che gli altri vogliano loro male, e in torcere ogni menoma azione e parola altrui verso loro a cattiva intenzione ed ostile, e pigliano occasione da tutto di entrare in lizza con chicchessia, anche coi più familiari, intrinseci, compagni ed amici. Torno a dire che tutto ciò è con grandissima semplicità ed anche nobiltà, o certo non doppiezza e non viltà, di carattere; senza umor tetro e malinconico (anzi questi tali sono per l'ordinario allegrissimi o tirano all'allegria) senza carattere atrabilare, nè quella che si chiama δυσκολία e morositas, carattere acre ec. {indole e costume puntiglioso,} {#1. Chi sia accorto, facilmente distingue e nella speculazione e nella pratica, e in ciascuna persona e caso particolare, e nel generale, il carattere e costume puntiglioso, e i fatti puntigliosi, dal carattere ec. ch'io qui descrivo (il quale non è neppur lo stesso che quello del Burbero benefico di Goldoni) che certo in realtà sono cose molto diverse e distinte.} anzi tutte queste cose son proprie degli uomini deboli e sfortunati (e quindi con verità si attribuiscono pariticolarmente a' vecchi, massime donne), {senza incontentabilità, malumore, scontentezza,} senza umore soverchiamente collerico ed accensibile. La forza del corpo {e dell'età} e la prosperità delle circostanze, dà a questi tali tanta confidenza in se stessi, che non che cerchino o curino il favor degli altri, sono più soddisfatti di averli contrarii, e godono di riguardar gli altri piuttosto come nemici che come amici o indifferenti, ed anche di averli veramente nemici più o meno, secondo la qualità delle occasioni  3944 e la forza fisica di questi tali. La loro conversazione e compagnia e convitto, massime a lungo andare, è veramente molto difficile e dispiacevole, benchè essi sieno incapaci di tradimento, e servizievoli e benefici e compassionevoli e generosi. Essi sono, malgrado questo, poco capaci di amare, e poco fatti per essere amici, ma essi sono altresì più capaci e desiderosi di aver de' nemici, che atti ad esserlo, perchè son più buoni all'ira che [all'ira che] all'odio, a combattere che a odiare, a vendicarsi che a perseguitare. Anzi costoro son quasi incapaci di odiare, e l'ira eziandio {propriamente presa} in essi è molto blanda e breve, forse perchè frequentissima. (6. Dec. 1823.).

[3952,1]   3952 Dal detto altrove pp. 109-11 pp. 1234-36 pp. 1701-706 circa le idee concomitanti annesse alla significazione o anche al suono stesso e ad altre qualità delle parole, le quali idee hanno tanta parte nell'effetto, massimamente poetico ovvero oratorio ec., delle scritture, ne risulta che necessariamente l'effetto d'una stessa poesia, orazione, verso, frase, espressione, parte qualunque, maggiore o minore, di scrittura, è, massime quanto al poetico, infinitamente vario, secondo gli uditori o lettori, e secondo le occasioni e circostanze anche passeggere e mutabili in cui ciascuno di questi si trova. Perocchè quelle idee concomitanti, indipendentemente ancora affatto dalla parola o frase per se, sono differentissime per mille rispetti, secondo le dette differenze appartenenti alle persone. Siccome anche gli effetti poetici {ec.} di mille altre cose, anzi forse di tutte le cose, variano infinitamente secondo la varietà e delle persone e delle circostanze loro, abituali o passeggere o qualunque. Per es. una medesima scena della natura diversissime sorte d'impressioni può produrre e produce negli spettatori secondo le dette differenze; come dire se quel luogo è natio, e quella scena collegata colle reminiscenze dell'infanzia ec. ec. se lo spettatore si trova in istato di tale o tal passione, ec. ec. E molte volte non produce impressione alcuna in un tale, al tempo stesso che in un altro la fa grandissima. Così discorrasi delle parole e dello stile che n'è composto e ne risulta, e sue qualità e differenze ec. e questa similitudine è molto a proposito.

[3956,3]  Si dice con ragione, massime delle cose umane, {+e terrene,} che tutto è piccolo. Ma con altrettanta ragione si potrebbe dire, anche delle menome cose, che tutto è grande, parlando cioè relativamente, come ancor parlano quelli che chiamano tutto piccolo, perchè nè piccola nè grande non è cosa niuna assolutamente. Sicchè non è per vero dire nè più ragionevole nè più filosofico il considerare qualsivoglia cosa umana o qualunque, come piccola, che il considerare essa medesima cosa come grande, e grandissima ancora, se così piace. E ben vi sono {quasi} altrettanti aspetti e riguardi, tutti egualmente  3957 degni di filosofo, altrettanti, dico, per la seconda affermazione che per la prima. Ed anche il mondo intero e universo e tutta la università delle cose o esistenti o possibili o immaginabili, a paragone di cui chiamiamo piccole e menome le cose umane, terrene, sensibili, a noi note, e simili, può nello stesso modo esser considerata come piccola e menoma cosa, e d'altro lato come grande e grandissima. Niente manco che mentre delle cose umane si chiamano piccole verbigrazia quelle degli oscuri privati a paragone di quelle de' vastissimi e potentissimi regni, e nondimeno queste ancora, grandissime a paragon di quelle, si chiamano da' filosofi piccolissime e nulle sotto altro rispetto, è ben ragionevole che sotto diversi rispetti, quelle eziandio de' privati ed oscurissimi individui, sieno chiamate, anche da' filosofi, grandi e grandissime, di grandezza niente men vera o niente più falsa che quella delle cose de' massimi imperii. (8. Dec. 1823.).

[3976,1]  Non è propria de' tempi nostri altra poesia che la malinconica, nè altro tuono di poesia che questo, sopra qualunque subbietto ella possa essere. Se v'ha oggi qualche vero poeta, se questo sente mai veramente qualche ispirazione di poesia, e va poetando seco stesso, o prende a scrivere sopra qualunque soggetto, da qualunque causa nasca detta ispirazione, essa è certamente malinconica, e il tuono che il poeta piglia naturalmente o seco stesso o con gli altri nel seguir questa inspirazione (e senza inspirazione non v'è poesia degna di questo nome) è il malinconico. Qualunque sia l'abito, la natura, le circostanze ec. del poeta, pur ch'ei sia di nazione civile, così gli accade, e come a lui così a un altro che non avrà di comune con lui se non questo solo. ec. Fra gli antichi avveniva tutto il contrario. Il tuono naturale che rendeva la loro cetra era quello della gioia o della forza {+della solennità} ec. La poesia loro era tutta vestita a festa, anche, in certo modo, quando il subbietto l'obbligava ad esser trista. Che vuol dir ciò? O che gli antichi avevano meno sventure reali di noi, (e questo non è forse vero), o che meno le sentivano e meno le conoscevano, il che viene a esser lo stesso, e a dare il medesimo risultato, cioè che gli antichi erano dunque meno infelici de' moderni. E tra gli antichi metto anche, proporzionatamente, l'Ariosto ec. (12. Dec. 1823.).

[3990,2]  Tutto è follia in questo mondo fuorchè il folleggiare. Tutto è degno di riso fuorchè il ridersi di tutto. Tutto è vanità fuorchè le belle illusioni e le dilettevoli frivolezze. (17. Dec. 1823.).

[4024,5]  Gli uomini di natura, costume, o circostanza ed occasione, allegri, sono generalmente disposti a far servigio o beneficio, e compatire,  4025 e i malinconici in contrario, o certo meno. Di ciò equivalentemente ho detto altrove molto a lungo pp. 69-70 p. 255. (31. Gen. 1824.).

[4031,1]   4031 Certo le condizioni sociali e i governi e ogni sorta di circostanze della vita influiscono sommamente e modificano il carattere e i costumi delle varie nazioni, anche contro quello che porterebbe il rispettivo loro clima e l'altre circostanze naturali, ma in tal caso quello stato o non è durevole, o debole, o cattivo, o poco contrario al clima, o poco esteso nella nazione, o ec. ec. E generalmente si vede che i principali caratteri o costumi nazionali, anche quando paiono non aver niente a fare col clima, o ne derivano, o quando anche non ne derivino, e vengano da cagioni affatto diverse, pur corrispondono mirabilmente alla qualità d'esso clima o dell'altre condizioni naturali d'essa nazione o popolo o cittadinanza ec. Per es. io non dirò che il modo della vita sociale rispetto alla conversazione e all'altre infinite cose che da questa dipendono o sono influite, proceda assolutamente e sia determinato nelle varie nazioni d'europa dal loro clima, ma certo ne' vari modi tenuti da ciascuna, e propri di ciascuna quasi fin da quando furono ridotte a precisa civiltà e distinta forma nazionale, ovvero da più o men tempo, si scopre una curiosissima conformità {generale} col rispettivo clima in generale considerato. Il clima d'italia e di Spagna è clima da passeggiate e massime nelle lor parti più meridionali. Ora queste nazioni non hanno conversazione affatto, nè se ne dilettano: e quel poco che ve n'è in italia, è nella sua parte più settentrionale, in Lombardia, dove certo si conversa assai più che in Toscana, a Napoli, nel Marchegiano, in Romagna, dove si villeggia  4032 e si fanno tuttodì partite di piacere, ma non di conversazione, e si chiacchiera assai, e si donneggia assaissimo, ma non si conversa; in Roma ec. Il clima d'Inghilterra e di Germania chiude gli uomini in casa propria, quindi è loro nazionale e caratteristica la vita domestica, con tutte l'altre infinite qualità di carattere e di costume e di opinione, che nascono o sono modificate da tale abitudine. Pur vi si conversa più assai che in italia e Spagna (che son l'eccesso contrario alla conversazione) perchè il clima è per tale sua natura meno nemico alla conversazione, poichè obbligandoli a vivere il più del tempo sotto tetto e privandoli de' piaceri della natura, ispira loro il desiderio di stare insieme, per supplire a quelli, e riparare al vôto del tempo ec. Il clima della Francia ch'è il centro della conversazione e la cui vita e carattere e costumi e opinioni è tutto conversazione, tiene appunto il mezzo tra quelli d'Italia e Spagna, Inghilterra e Germania, non vietando il sortire, {e il trasferirsi da luogo a luogo,} e rendendo aggradevole il soggiornare al coperto: siccome la vita d'Inghilterra e Germania tiene appunto il mezzo, massime {in quest'ultimi tempi,} per rispetto alla conversazione, tra la vita d'Italia e Spagna e quella di Francia, e così il carattere ec. che ne dipende. E già in mille altre cose la Francia, siccome il suo clima, tiene il mezzo fra' meridionali e settentrionali, del che altrove in più luoghi pp. 1045-46 pp. 2989-90. Non parlo delle meno estrinseche e più spirituali influenze del clima sulla complessione e abitudine del corpo e dello spirito, {+anche fin dalla nascita,} che pur grandissimamente  4033 contribuiscono a cagionare e determinare la varietà che si vede nella vita delle nazioni, popolazioni, individui tutti partecipi (come son oggi) di una stessa sorta di civiltà, circa il genio e l'uso della conversazione. (15. Feb. 1824.).

[4037,6]  Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel conversare, e massime gli sprezzanti avessero più amor proprio degli altri e più stima di se, e i timidi meno. Tutto al contrario. I timidi per eccesso di amor proprio e per il troppo conto che fanno di se, temendo sempre di sfigurare e perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di acquistarla e di figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del proprio onore, del proprio concetto, del proprio amore, e occupati e legati da questo pensiero, sono senza coraggio, e non si ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti fanno al contrario  4038 per la contraria cagione, cioè per aver poca cura e poco concetto concetto di se, o desiderio della stima degli altri (che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura, o per abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano di offendere l'amor proprio degli altri, e n'hanno poca cura, per poco amor di se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille scrupoli e riguardi, e non impetrano mai da se stessi non che di lederlo menomamente, ma di porsene a rischio benchè leggero e lontano, e ciò per soverchio amor proprio, il quale parrebbe che dovesse principalmente offendere e muoverli ad offendere quello degli altri. E così per soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar dispregio degli altri, e infatti non gli spregiano, anzi gli stimano eccessivamente non per altro che per lo smisurato desiderio e conto che fanno della loro stima, anche conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema che hanno di perderla, eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per rispetto al merito di coloro. Tali sono ordinariamente i fanciulli e i giovani ancora inesperti e inesercitati nel commercio umano e nelle palestre dell'amor proprio, dov'esso riporta tanti colpi, che alla fine incallisce; e tali sono più o manco, per più o men lungo tempo, ed alcune per tutta la vita, le persone sensibili e immaginose, le quali restano {sovente} fanciulle anche in età matura, e vecchia, sì quanto a {molte} altre cose, sì quanto a questa della timidità {nel consorzio umano,} che in esse è sempre difficile a vincere più {assai} che negli altri, e in alcune è assolutamente invincibile, come {fu} in Rousseau. La cagione si è l'eccesso dell'amor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza dell'animo; ed insieme la vivacità della immaginazione, la quale non mai veramente spenta {in loro,} nè anche quando pare affatto agghiacciata, e quando effettivamente ha cessato affatto di partorire alcun piacere all'individuo medesimo, continuamente,  4039 secondo la sua natura, va fingendo ad esso amor proprio che è per se vivissimo, mille falsi pericoli e difficoltà, o smisuratamente accrescendo e moltiplicando i veri. Sì, Rousseau e gli altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da un'invincibile e irrepugnabile timidità, anzi mauvaise honte ed erubescenza, non furono e non son tali se non per eccesso di amor proprio e d'immaginazione. Altro danno e infelicità somma della soprabbondanza della vita interna dell'anima (oltre i tanti da me altrove notati p. 1382 p. 1584 pp. 2410-14 pp. 2629-30 pp. 2736-39 p. 2861 pp. 3921. sgg.), della sensibilità, della squisitezza dell'ingegno, della natura riflessiva, immaginosa ec. Poichè in essa l'amor proprio essendo eccessivo e però tanto più bisognoso di successi, e desiderando la stima altrui e temendo la disistima molto più che gli altri non fanno, e impedito di conseguire e costretto ad incontrare quelli che gli altri con molto minor desiderio e bisogno conseguono facilissimamente ogni dì, ed evitano con molto minor tema, e che quando nol conseguissero o non lo evitassero, ne sarebbero molto meno afflitti e infelicitati, per la minore vivacità {e sensibilità} dell'amor proprio, ed anche della immaginazione, la quale a quegli altri accresce eziandio per se stessa e con mille false esagerazioni e finzioni la grandezza delle perdite fatte, di quello che essi desiderano naturalmente di conseguire, di quello che non ottengono, dei mali successi incontrati nella società, delle ἀσχημοσύναι, che anche bene spesso non son vere affatto, ma fabbricate di pianta dall'immaginazione, e non esistono se non nell'idea di questi tali, e così anche i buoni successi o gli oggetti che essi si propongono di conseguire che spessissimo sono vani e immaginari, e da niuno ottenuti nè possibili ad ottenere ec. ec. (1. Marzo. penultimo dì di Carnevale. 1824.) Ciò che ho detto dell'immaginazione, dico  4040 dell'amor proprio, il quale in questi tali, anche quando sembra rotto e fiaccato dall'uso de' mali, {dispiaceri, punture ec.} anzi minore assai che non è negli altri, e quasi al tutto agghiacciato, addormentato e spento, è sempre in verità vivissimo assai più che negli altri anche giovani e principianti, caldissimo, e {ancora} in istato da esser chiamato tenerezza di se stesso (come suol essere nella gioventù) benchè sia in loro più {negativo che} positivo, più atto a impedire che a cagionare, piuttosto causa di passione che d'azione ec. quale egli è proporzianatamente[proporzionatamente] anche ne' primi anni di questi tali. (3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri. 1824.).

[4041,7]  Gli uomini sarebbono felici se non avessero cercato e non cercassero di esserlo. Così molte nazioni o paesi sarebbero ricchi e felici (di felicità nazionale) se il governo, anche con ottima e sincera intenzione, non cercasse  4042 di farli tali, usando a questo effetto dei mezzi (qualunque) in cose dove l'unico mezzo che convenga si è non usarne alcuno, lasciar far la natura, come p. e. nel commercio ch'è più prospero quanto è più libero, e men se ne impaccia il governo. Similmente dicasi de' filosofi ec. Del resto la vita umana è come il commercio; tanto più prospera quanto men gli uomini, i filosofi ec. se ne impacciano, men proccurano la sua felicità, lasciano più far la natura. (7. Marzo. prima Domenica di Quaresima. 1824.).

[4058,1]  È un grand'errore di quelli che hanno a congetturare o indovinare le risoluzioni o gli andamenti d'altri, sia nelle cose private sia nelle pubbliche, e queste o politiche o militari, e sia con dati o senza dati, il considerare con ogni sorta di acutezza e di prudenza quello che sia più utile a quei tali di risolvere o di fare, più conveniente, più secondo lo stato loro e delle cose, più giusto, più savio, e trovatolo, risolversi che essi faranno o determineranno, ovvero fanno e determinano appunto questa o queste cose {+o l'una di queste in ogni modo.} Diamo uno sguardo all'intorno alla vita, alle azioni e risoluzioni degli uomini, e vedremo che per dieci ben fatte, convenienti ed utili a quei che le fanno, ve n'ha mille malissimo fatte, sconvenientissime, inutilissime, dannosissime a essi medesimi, più o meno, contrarie alla prudenza, a quello che avrebbe risoluto o fatto un uomo savio e perfetto, trovandosi nel caso loro. Vedremo che gli uomini il più delle volte non deliberano maturamente quando v'ha bisogno di maturità, non conoscono l'importanza delle cose che hanno a risolvere o a fare, non sospettano nemmeno che sia loro utile o necessario di consultare intorno ad esse, e non entrano affatto in alcuna consulta. Parlo egualmente de' grandi e de'  4059 piccoli, delle cose pubbliche e delle private, piccole relativamente e grandi. È certissimo che gli affari degli uomini qualunque, che vanno male, non vanno così (se non di rado) senza loro colpa o insufficienza; or come dunque dovrà essere regola per indovinare le opere o risoluzioni loro, il cercare quello che lor sia più utile e conveniente? Il numero o degli sciocchi assolutamente, o degl'inetti ai carichi e alle cose che hanno a maneggiare, benchè valorosi nel resto, o di quelli che anche al loro carico sono adattati, ma non perfetti, o insomma delle risoluzioni e delle azioni mal prese e mal fatte, inutili o dannose a chi le ha fatte o prese, sconvenienti al caso, o finalmente tali che nelle date circostanze non erano le migliori; il numero dico di tali azioni, risoluzioni ed uomini soverchia ed ha sempre soverchiato di grandissima lunga quello delle azioni, risoluzioni ed uomini loro contrarii, come apparisce da tutte le antiche e moderne storie sì civili sì militari sì private, e dall'osservazione della vita e avvenimenti giornalieri privati o pubblici. Onde quella regola in vece di condurre alla probabilità dell'indovinare, conduce chi la segue ad avere cento probabilità per una, contro quella {o quelle cose} che egli sceglie e quel giudizio o congettura che ei forma. Di più, assolutamente parlando, è falsissimo e malissimo considerato il persuadersi che gli uomini nel caso proprio veggano quel medesimo che in esso caso veggono gli altri posti fuori di esso, e pensino e sentano e sieno disposti {allo} stesso modo. Onde ancorchè pognamo {in due persone} perfetta parità di prudenza, di esperienza, insomma di attitudine a risolvere e fare in un dato caso quello che si conviene, è certissimo che se di queste due persone l'una  4060 si troverà nel caso e l'altra fuori considerandolo senza comunicare con quella, {il più delle volte} la risoluzione o il modo dell'azione dell'una sarà diversissima {più o meno} da quello che all'altra parrà si fosse convenuto. Aggiungasi la diversità dei principii, delle abitudini e di mille altre cose anche minime che diversificando gli spiriti (giacchè non si dà spirito perfettamente uguale ad un altro, più che si dieno due fisonomie al tutto conformi), diversificano altresì con mille modi le risoluzioni ed azioni di uno da quelle di un altro, anche supponendo in ambedue ugual capacità, e parità di caso, anzi diversificano le risoluzioni e azioni di una persona stessa in casi uguali o simiglianti. Senza poi parlare delle passioni e delle occasioni e circostanze del momento, spesso minime, che così minime modificano sovente e sovente cagionano al tutto e determinano le risoluzioni ed azioni di uno, mentre che l'altro che vuole indovinarle non è affetto da tali circostanze, sia fisiche, sia morali, sia qualunque. La vera regola per isbagliare il meno possibile, e la vera politica in tali casi, è conoscere quanto si può il carattere, le abitudini, le qualità della data persona, applicarle al caso di cui si tratta, e rinunziando a ogni prudenza propria, mettendosi ne' piedi di quella, piuttosto come poeta, che come ragionatore, congetturar quello ch'egli è per fare o risolvere, {anzi risolvere, per così dire, in vece sua.} come il drammatico congettura quello che un dato uomo di un dato carattere in un dato caso sarebbe per dire, e congetturatolo parla in persona di esso. (5. Aprile. 1824.). {+V. il Guicc. ed. Friburgo. t. 4. p. 106.}

[4060,1]  L'uomo (per l'amor della vita) ama naturalmente e desidera e abbisogna di sentire, o gradevolmente, o comunque purchè sia vivamente (la qual vivezza qualunque, non può essere senza positivo diletto, nè sensazione indifferente  4061 veramente). {} Ιl sentire dispiacevolmente {come} il non sentire sono cose assolutamente penose per lui. E talora è men penosa, anzi più grata una sensazione con alquanto di dispiacevole, che la privazion di sensazioni. Se l'uomo potesse sentire infinitamente, di qualunque genere si fosse tal sensazione, purchè non dispiacevole, esso in quel momento sarebbe felice, perchè la sensazione è così viva, il vivo (non dispiacevole in se) è piacevole all'uomo per se stesso e qualunque ei sia. Dunque l'uomo proverebbe in quel momento un piacere infinito, e quella sensazione, benchè d'altronde indifferente, sarebbe un piacere infinito, quindi perfetto, quindi l'uomo ne saria pago, quindi felice.

[4064,1]  Ciascuno, e massimamente gli spiriti più delicati, sensibili e suscettibili, pervenuto a una certa età ha fatto esperienza in se stesso di più e più caratteri. Le circostanze fisiche, morali e intellettuali, cambiandosi continuamente nello spazio della vita di un uomo, e nelle sue diverse età, cambiandosi, dico, per rispetto a lui, cambiano continuamente il suo carattere, di modo che di tempo in tempo egli è uomo veramente nuovo di spirito, come dicono i fisici che di sette in sette anni (se non erro) egli è rinnovato di corpo. Gli uomini sensibili in particolare non solo cambiano carattere e più rapidamente degli altri, ma facilmente e ordinariamente acquistano caratteri contrari tra se, e massime a quel primo carattere che si sviluppò in essi, a quello più conforme alla loro natura, a quello che il primo potè in loro esser chiamato carattere. La coltura dell'intelletto fra l'altre cose cagiona in una persona stessa a proporzione de' suoi progressi, e coll'andar del tempo, una  4065 variazione singolarmente rapida e singolarmente grande. Chi non sa quanto i principii, le opinioni e le persuasioni influiscano e determinino i caratteri degli uomini? Ora ciascuno individuo quando nasce è precisamente, quanto all'intelletto nello stato medesimo in cui fu il primo uomo. Quegl'individui che coll'andar del tempo si sono posti a livello delle cognizioni del nostro tempo, sono necessariamente passati per tutti quegli stati per cui lo spirito umano è passato dal principio del mondo fino al dì d'oggi (almeno per quei gradi per cui egli è passato progredendo e avanzando), e ha sperimentato in se tutti gli avvenimenti dell'intelletto che il genere umano ha sperimentato in tanti secoli quanti sono corsi dalla sua origine insino a ora. La storia del suo intelletto è quella appunto di tutti questi secoli {ristretta e} compresa in venti o trent'anni di tempo. Laonde da tutti i cambiamenti che il suo intelletto ha provati, cambiamenti che più volte l'hanno portato a persuasioni e stati contrarissimi ai passati, e in ultimo a un sistema di persuasioni ed a uno stato contrarissimo al suo primitivo; da tutti questi cambiamenti, dico, deggiono di necessità essere risultate in lui tante diversità e successivi cambiamenti di carattere, quanti ne sono stati prodotti nelle nazioni e nel genere umano in generale dai diversi principii e opinioni e dal diverso {progresso e} stato di cognizioni in tutto il tempo che ci è bisognato per portarlo dal suo primitivo stato al presente. (8. Aprile. 1824.) Onde questo tale individuo rinchiude e compendia in se, non solo la storia dello spirito umano, ma quella eziandio de' caratteri {successivi} delle nazioni, in quanto essi ebbero origine e dipendenza dalle opinioni e conoscenze, che certo è grandissima e forse la massima parte. (8. Aprile. 1824.).

[4070,1]  Gli uomini governati in pubblico o in privato da altri, e tanto più quanto il governo è più stretto, {(i fanciulli, i giovani ec.)} accusano sempre, o tendono naturalmente ad accusare de' loro mali o della mancanza de' beni, delle noie e scontentezze loro, quelli che li governano, anche in quelle cose nelle quali è evidentissima l'innocenza di questi, e la impossibilità o d'impedire o rimediare a quei mali o di proccurar quei beni, e la totale indipendenza e irrelazione di queste cose con loro. La cagione è che l'uomo essendo sempre infelice, naturalmente tende ad incolparne altresì sempre non la natura delle cose e degli uomini, molto meno ad astenersi dall'incolpare alcuno, ma ad incolpar sempre qualche persona o cosa particolare in cui possa sfogar l'amarezza che gli cagionano i suoi mali, e che egli possa per cagione di questi fare oggetto e di odio e di querele, le quali sarebbero assai men dolci di quello che sono a chi soffre se non cadessero contro alcuno riputato in colpa del suo soffrire. Questa naturale tendenza opera poi che il misero si persuade anche effettivamente di quello che egli immagina, e quasi desidera che sia vero. Da ciò è nato che egli ha immaginato i nomi e le persone di fortuna, di fato, incolpati sì lungamente dei mali umani, e sì sinceramente odiati dagli antichi infelici, e contro i quali anche oggi, in mancanza d'altri  4071 oggetti, rivolgiamo seriamente l'odio e le querele delle nostre sventure. Ma molto più dolce fu agli antichi ed è a' moderni l'incolpare qualche cosa sensibile, e massime qualche altro uomo, non solo per la maggior verisimiglianza, e quindi facilità di persuaderci della sua colpa, che è quello che ci bisogna, ma più ancora perchè l'odio e le querele sono più dolci quando si rivolgono sopra cose presenti che ne possano essere testimoni, e sottoposte alla vendetta che noi con esso odio vano e con esse vane querele intendiamo fare di loro. Massimamente poi è dolce l'odio e il lamento quando è rivolto sui nostri simili, sì per altre cagioni, sì perchè la colpa non può veramente appartenere se non a esseri intelligenti. Quelli che ci governano sono {da noi facilmente} scelti a far questa persona di rei de' nostri mali, {+che non hanno altro reo manifesto o accusabile,} e a servir di {soggetto e} scopo della vana vendetta che ci è dolce fare de' medesimi mali. Essi sono in fatti in tali casi i più adattati, e quelli di cui ci possiamo dolere esteriormente e interiormente con più di verisimilitudine. Quindi è che chi governa in pubblico o in privato è sempre oggetto d'odio e di querele de' governati. Gli uomini sono sempre scontenti perchè sono sempre infelici. Perciò sono scontenti del loro stato, perciò medesimo di chi li governa. (Essi sentono e sanno bene di essere infelici, di patire, di non godere, e in ciò non s'ingannano. Essi pensano aver diritto di esser felici, di godere, di non patire, e in ciò ancora non avrebbero il torto, se non fosse che in fatto questo che essi pretendono è, non che altro, impossibile.)  4072 E come non si può fare che gli uomini sieno mai felici, e però nè anche che sieno contenti, così niun governante nè pubblico nè privato, qualunque amore abbia a' soggetti, qualunque cura del loro bene, qualunque sollecitudine di scamparli o sollevarli dai mali, qualunque merito insomma verso di loro, non può mai ragionevolmente sperare che essi non l'odino e non lo querelino, anche i più savi, perchè è natura nell'uomo il lagnarsi di qualcuno, quasi altrettanto che l'essere infelice, e questo qualcuno è per l'ordinario e molto naturalmente quello che li governa. Però circa il governare non v'ha pur troppo che due partiti veramente savi, o astenersi dal governo, {+sia pubblico sia privato,} o amministrarlo totalmente a vantaggio proprio e non de' governati. (17. Aprile. 1824. Sabato Santo.).

[4074,1]   4074 {Alla p. 4043.} Qualunque poesia o scrittura, o qualunque parte di esse esprime o collo stile o co' sentimenti, il piacere e la voluttà, esprime ancora o collo stile o co' sentimenti formali o con ambedue un abbandono una noncuranza una negligenza una specie di dimenticanza d'ogni cosa. E generalmente non v'ha altro mezzo che questo ad esprimere la voluttà. Tant'è, il piacere non è che un abbandono e un oblio della vita, e una specie di sonno e di morte. Il piacere è piuttosto una privazione o una depressione di sentimento che un sentimento, e molto meno un sentimento vivo. Egli è quasi un'imitazione della insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario alla vita ed alla privazione di essa, perchè la vita per sua natura è dolore. Onde è piacevole l'esserne privato in quanta parte si può, senza dolore e senz'altro patimento che nasca o sia annesso a questa privazione. Quindi il piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario. Tali almeno sono i maggiori e più veraci piaceri. I piaceri vivi sono anche manco piaceri. Sempre portano seco qualche pena, qualche sensazione incomoda, qualche turbamento, e ciò annesso {cagionato} e dipendente essenzialmente da loro. (19. Aprile. Lunedì di Pasqua. 1824.) Dunque la vita è un male e un dispiacere per se, poichè la privazione di essa in quanto si può è naturalmente piacere. Infatti la vita è naturalmente uno stato violento, poichè {naturalmente} priva del suo sommo e naturale  4075 bisogno, desiderio, fine, e perfezione che è la felicità. E non cessando mai questa violenza, non v'è un solo momento di vita sentita che sia senza positiva infelicità e positiva pena e dispiacere. (20. Aprile. Martedì di Pasqua. 1824.). {{+ [p. 4057,2]}}

[4079,1]  Nel Dialogo della Natura e dell'Anima ho considerato come la ragione e l'immaginazione e in somma le facoltà mentali eccellenti nell'uomo sopra quelle di ciascun altro vivente, gli sieno causa di non poter mai o quasi mai, e in ogni modo difficilmente, far uso di tutte le sue forze naturali, come fanno tutto dì e  4080 senza difficultà veruna tutti gli altri animali. Aggiungi. Si dice che i pazzi hanno una forza straordinaria, a cui non si può resistere, massime da solo a solo. Si crede che la loro malattia dia questa forza per se stessa, al contrario di tutte l'altre infermità. Non è egli chiaro che ciò procede dal non aver essi in se medesimi niuno impedimento a usare tutte le loro forze naturali? che i pazzi hanno più forza degli altri, solo perchè usano tutte quelle che hanno, o maggior parte che gli altri non usano? appunto come fa un animale nè più nè meno. Dal che deduco: quanti animali che si dicono fisicamente essere più forti dell'uomo, in verità non lo sono! quante forze debbe avere perdute l'uomo per i progressi del suo spirito, non solo radicalmente, ma anche per essere impedito a usare quelle che gli rimangono! quanto è più forte l'uomo, anche corrotto e indebolito, di quel che egli si crede. I pazzi lo dimostrano, che sovente superano di forze fisiche persone molto più robuste di loro, ed animali creduti ordinariamente più forti dell'uomo a corpo a corpo. L'ubbriachezza accresce le forze non solo radicalmente, ma eziandio negativamente per l'uso, che ella impedisce o turba, della ragione. Senza un'assoluta mancanza o sospensione di quest'uso, niuno uomo nè anche irriflessivo, nè anche fanciullo, nè anche selvaggio, nè anche disperato (i quali però tutti si vede per esperienza che hanno {o piuttosto mostrano di avere} a proporzione molta più forza de' loro contrari), non usa, nè anche ne' maggiori bisogni, ne' maggiori pericoli, tutte le forze precisamente che egli ha in tutte le loro specie e in tutta la loro estensione. Non così gli animali: o certo essi risparmiano infinitamente minor parte delle loro  4081 forze, anche ne' menomi pericoli, bisogni, desiderii, propositi, che non risparmia l'uomo, anche il più disperato ec., ne' maggiori. (23. Apr. 1824.). {{Il detto de' pazzi dicasi proporzionatamente de' disperati.}} {{V. p. 4090.}}

[4096,2]  Il tale diceva non esser ben detto quel che si afferma comunemente che basta l'apparenza p. e. a un letterato per essere stimato, benchè manchi della sostanza. Ora l'apparenza non solo basta, ma è la sola cosa che basti, ed è necessaria e la sola necessaria. Perocchè la sostanza senza l'apparenza non fa effetto alcuno e nulla ottiene, e l'apparenza colla sostanza non fa nè ottiene niente di più che senza essa: onde si vede la sostanza essere inutile, e il tutto stare nella sola apparenza. (1. Giugno. 1824.).

[4103,6]  Il est aisé de voir la prodigieuse révolution que cette époque * (celle du Christianisme) dut produire dans les mœurs. Les femmes, presque toutes d'une imagination vive et d'une ame ardente, se livrèrent à des vertus qui les flattoient d'autant plus, qu'elles étoient pénibles. Il est presque égal pour le bonheur de satisfaire de grandes passions, ou de les vaincre. L'ame est heureuse par ses efforts; et pourvu qu'elle s'exerce, peu lui importe d'exercer son activité contre elle - même. * Thomas Essai sur les Femmes. Oeuvres, Amsterdam 1774. tome 4. p. 340. (24. Giugno. Festa di S. Giovanni Battista. 1824.).

[4105,2]  L'infelicità abituale, ed anche il solo essere abitualmente privo di piaceri e di cose che lusinghino l'amor proprio, estingue a lungo andare nell'anima la più squisita ogn'immaginazione, ogni virtù di sentimento, ogni vita ed attività e forza, e quasi ogni facoltà. La cagione è che una tale anima, dopo quella prima inutile disperazione, e contrasto feroce o doloroso colla necessità, finalmente riducendosi in istato tranquillo, non ha altro espediente per vivere, nè altro produce in lui la natura stessa ed il tempo, che un abito di tener continuamente represso e prostrato l'amor proprio, perchè l'infelicità offenda meno e sia tollerabile e compatibile colla calma. Quindi un'indifferenza e insensibilità verso se stesso maggior che è possibile. Or questa è una perfetta morte dell'animo e delle sue facoltà. L'uomo che non s'interessa a se stesso, non e capace d'interessarsi a nulla, perchè nulla può interessar l'uomo se non in relazione a se stesso, più o men vicina e palese, e di qualunque sorte ella sia. Le bellezze della  4106 natura, la musica, le poesie più belle, gli avvenimenti del mondo, felici o tragici, le sventure o le fortune altrui, anche dei suoi più stretti, non fanno in lui nessuna impressione viva, non lo risvegliano, non lo riscaldano, non gli destano immagine, sentimento, interesse alcuno, non gli danno nè piacere nè dolore, se bene pochi anni avanti lo empievano di entusiasmo e lo eccitavano a mille creazioni. Egli stupisce stupidamente della sua sterilità e della sua immobilità e freddezza. Egli è divenuto incapace di tutto, inutile a se e agli altri, di capacissimo ch'egli era. La vita è finita quando l'amor proprio ha perduto il suo ressort. Ogni potenza dell'anima si estingue colla speranza. Voglio dire colla disperazione placida, perchè la furiosa è pienissima di speranza, o almeno di desiderio, ed anela smaniosamente alla felicità nell'atto stesso che impugna il ferro o il veleno contro se medesimo. Ma il desiderio è più spento che sia possibile in un'anima avvezza a vederli sempre contrariati, e ridotta o per riflessione o per abito o per ambedue a sopirli e premerli. L'uomo che non desidera per se stesso e non ama se stesso non è buono agli altri. Tutti i piaceri, i dolori, i sentimenti e le azioni che gl'inspiravano le cose dette di sopra, cioè la natura e il resto, si riferivano in un modo o nell'altro a se stesso, e la loro vivezza consisteva in un ritorno vivo sopra se medesimo. Sacrificandosi ancora agli altri, non d'altronde egli ne aveva la forza se non da questo ritorno e rivolgimento sopra di se. Ora  4107 senz'alcuna ferocia, nè misantropia nè rancore nè risentimento, senza neppure egoismo, {+quell'anima già poco prima sì tenera} è insensibile alle lagrime, inaccessibile alla compassione. Si moverà anche a soccorrere, ma non a compatire. Beneficherà o sovverrà, ma per una fredda idea di dovere o piuttosto di costume, senza un sentimento che ve lo sproni, un piacere che gliene venga. La noncuranza vera e pacifica di se stesso è noncuranza di tutto, e quindi incapacità di tutto, ed annichilamento dell'anima la più grande e fertile per natura.

[4118,2]  Compassione nata dalla bellezza anche verso chi per molti capi non la merita, perpetuata anche nella posterità che si stima esser sempre un giudice giusto. Vedi Thomas loc. cit. qui dietro, chapitre 26. p. 46-7. (26. Agos. 1824.).

[4120,20]  Non solo, come ho detto altrove p. 646, nessun secolo barbaro si credette esser tale, ma ogni secolo si credette e si crede essere il non plus ultra dei progressi dello spirito umano, e che le sue cognizioni, scoperte ec. e massime la sua civilizzazione difficilmente o in niun modo possano essere superate dai posteri, {+certo non dai passati.} (10. Ott. Domenica. 1824.). {V. la p. 4124.} Così non v'è nazione nè popoletto così barbaro e selvaggio che  4121 non si creda la prima delle nazioni, e il suo stato, il più perfetto, civile, felice, e quel delle altre tanto peggiore quanto più diverso dal proprio. V. Robertson Stor. d'America, Venez. 1794. t. 2. p. 126. 232-33. Così le nazioni mezzo civili, o imperfette, anche in europa ec. E così sempre fu. (15. Ottobre. Festa di Santa Teresa di Gesù. 1824.).

[4140,2]  Tanto è necessaria l'arte nel viver con gli uomini che anche la sincerità e la schiettezza conviene usarla seco loro con artificio. (Milano. 22. Sett. 1825.)

[4141,3]  Nel corso del sesto lustro l'uomo prova tra gli altri un cangiamento sensibile e doloroso nella sua vita, il quale è che laddove egli per lo passato era solito a trattare per lo più con uomini di età o maggiore o almeno uguale alla sua, e di rado con uomini più giovani di se, perchè i più giovani di lui non erano che fanciulli, allora spessissimo si trova a trattare con uomini più giovani, perchè egli ha già molti inferiori di età, che non sono però fanciulli, di modo che egli si trova quasi cangiato il mondo dattorno, e non senza sorpresa, se egli vi pensa, si avvede di essere riguardato da una gran parte dei suoi compagni come più provetto di loro, cosa tanto contraria alla sua abitudine che spesso accade che per un certo tempo egli non si avveda ancora di questa cosa, e séguiti a stimarsi {generalmente} o più giovane o coetaneo dei suoi compagni, come egli soleva, e con verità, per l'addietro. (Bologna. 8. Ottobre. 1825.)

[4149,6]  Io sono, si perdoni la metafora, un sepolcro ambulante, che porto dentro di me un uomo morto, un cuore già sensibilissimo che più non sente ec. (Bologna. 3. Nov. 1825.).

[4153,5]  Il mezzo più efficace di ottener fama è quello di far creder al mondo di esser già famoso. (Bologna. 21. Nov. 1825.). {{Analogo e confermativo  4154 {+ di questo detto è quello di Labruyère, che più facile è far passare un'opera mediocre in grazia di una riputazione dell'autore già ottenuta e stabilita, che l'ottenere o stabilire una riputazione con un'opera eccellente.}}}

[4160,10]  Siccome ad essere vero e grande filosofo si richiedono i naturali doni  4161 di grande immaginativa e gran sensibilità, quindi segue che i grandi filosofi sono di natura la più antifilosofica che dar si possa quanto alla pratica e all'uso della filosofia nella vita loro, e per lo contrario le più goffe o dure, fredde e antifilosofiche teste sono di natura le più disposte all'esercizio pratico della filosofia. Sommo filosofo fu il Tasso pei suoi tempi quanto alla contemplazione. Ma chi meno di lui disposto per natura alla pratica della filosofia? chi più disposto anzi alla pratica delle dottrine più illusorie, di quelle dell'entusiasmo ec.? E infatti chi meno filosofo di lui nella pratica, e nell'effetto che gli accidenti della vita producevano nel suo spirito? Viceversa chi meno filosofo in teoria che certi spensierati e imperturbabili e sempre lieti e tranquilli uomini, che pur nella pratica sono il modello e il tipo del carattere e della vita filosofica? Veramente, siccome la natura trionfa sempre, accade generalmente che i più filosofi per teoria, sono in pratica i meno filosofi, e che i men disposti alla filosofia teorica, sono i più filosofi nell'effetto. E si potrebbe anzi dire che la mira, l'intenzione e la somma della filosofia teorica {e de' suoi precetti ec.} non consiste effettivamente in altro che nel proposito di rendere la vita e il carattere di quelli che la posseggono, conforme a quello di coloro che non ne sono capaci per natura. Effetto che ella difficilmente ottiene. {{(Bologna. 20. Dic. 1825.).}}

[4164,2]  Spessissimo noi, come un malato, {un convalescente,} che si cura, un povero che si procaccia il vitto con gran fatica, usando una infinita pazienza per solo conservarci la vita, non facciamo altro che patire infinitamente per conservarci, {per non perdere,} la facoltà di patire, ed esercitar la pazienza per preservarci il potere di esercitarla, per continuarla ad esercitare. (Bologna. 4. Feb. 1826.).

[4166,4]  {(Tanto è lungi che)} Non solo noi non possiamo sapere nè anche sufficientemente congetturare tutto quello di cui sia capace, aiutata da circostanze favorevoli, la natura umana in universale, ma eziandio di un solo individuo, o passato o presente o futuro, noi non possiamo sapere {esattamente} nè congetturare quanta estensione, in circostanze appropriate, avessero potuto {o pur potranno} acquistare le sue facoltà. (Bologna. 21. Feb. 1826.).

[4167,12]  Molti divengono insensibili alle lodi, e restano però sensibili al biasimo ed al ridicolo, sensibilità che essi perdono assai più tardi o non mai. E ben più difficilmente si perde questa sensibilità che quella. Certamente poi niuno si trova che essendo sensibile alle lodi, sia insensibile ai biasimi, alle censure, alle male voci o calunnie, ai motteggi; bensì viceversa si trovano molti. Tanto, anche nelle cose puramente sociali, la facoltà di provar piacere è nell'uomo più caduca e più limitata che quella di sentir dispiacere. (Bologna. 9. Marzo. 1826.)

[4168,3]  Alla p. 4137. L'uomo tende ad un fine principale e unico. Ogni suo atto volontario o di pensiero o d'opera è indirizzato a questo fine. Questo fine è dunque il suo sommo bene. E questo sommo bene che è? Certamente la felicità. {Sin qui tutti i filosofi sono d'accordo, antichi e moderni.} Ma che è, ed in che consiste, e di che natura è la felicità conveniente e propria alla natura dell'uomo, desiderata sommamente e supremamente, anzi per verità unicamente, dall'uomo, cercata e procacciata continuamente dall'uomo? Che cosa è per conseguenza il sommo bene dell'uomo, il fine dell'uomo? Qui non v'è setta, non v'è filosofo, nè tra gli antichi nè tra i moderni, che non discordi dagli altri. Sonovi alcuni che si maravigliano di tanta discordia dei filosofi in questo punto, dopo tanta loro concordia nel rimanente. Ma che maraviglia? Come trovare, come determinare, quello che non esiste, che non ha natura nè essenza alcuna, ch'è un ente di ragione? Il fine dell'uomo, il sommo suo bene, la sua felicità, non esistono. Ed egli cerca e cercherà sempre sommamente ed unicamente queste cose, ma le cerca senza sapere di che natura sieno, in che consistano, nè mai lo saprà, perchè infatti queste cose non esistono, benchè per natura dell'uomo sieno il necessario fine dell'uomo. Ecco spiegate le famose controversie intorno al sommo bene. Il sommo bene è voluto, desiderato, cercato di necessità, e ciò sempre e sommamente anzi unicamente, dall'uomo; ma egli nel volerlo, cercarlo, desiderarlo, non ha mai saputo nè mai saprà che cosa esso sia (le dette controversie medesime ne sono prova); e ciò perchè il suo sommo bene non esiste in niun modo. Il fine della natura dell'uomo esisterà forse in natura. Ma bisogna ben distinguerlo dal fine cercato  4169 dalla natura dell'uomo. Questo fine non esiste in natura, e non può esistere per natura. E questo discorso debbe estendersi al sommo bene di tutti gli animali e viventi. (11. Marzo. Vigil. della Domenica di Passione. 1826. Bologna.).

[4169,1]  L'uomo (e così gli altri animali) non nasce per goder della vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che gli succedano, per conservarla. Nè esso, nè la vita, nè oggetto alcuno di questo mondo è propriamente per lui, ma al contrario esso è tutto per la vita. - Spaventevole, ma vera proposizione e conchiusione di tutta la metafisica. L'esistenza non è per l'esistente, non ha per suo fine l'esistente, nè il bene dell'esistente; se anche egli vi prova alcun bene, ciò è un puro caso: l'esistente è per l'esistenza, tutto per l'esistenza, questa è il suo puro fine reale. Gli esistenti esistono perchè si esista, l'individuo esistente nasce ed esiste perchè si continui ad esistere e l'esistenza si conservi in lui e dopo di lui. Tutto ciò è manifesto dal vedere che il vero e solo fine della natura è la conservazione delle specie, e non la conservazione nè la felicità degl'individui; la qual felicità non esiste neppur punto al mondo, nè per gl'individui nè per la specie. Da ciò necessariamente si dee venire in ultimo grado alla generale, sommaria, {suprema} e terribile conclusione detta di sopra. (Bologna 11. Marzo. 1826.).

[4174,2]  Tutto è male. Cioè tutto quello che {è,} è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l'esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell'universo è il male; l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male, nè diretti ad altro che al male. Non v'è altro bene che il non essere; non v'ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l'universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L'esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un'imperfezione, un'irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perchè tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti nè di numero nè di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l'universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla.

[4183,2]  Il mangiar soli, τὸ μονοϕαγεῖν, era infame presso i greci e i latini, e stimato inhumanum, e il titolo di μονοϕάγος si dava ad alcuno per vituperio, come quello di τοιχωρύχoς, cioè di ladro. V. Casaub. ad Athenae. l. 2. c. 8. {+e gli Addenda a quel luogo.} Io avrei meritata quest'infamia presso gli antichi. (Bologna. 6. Luglio. 1826.). Gli antichi però avevano ragione, perchè essi non conversavano insieme a tavola, se non dopo mangiato, e nel tempo del simposio propriamente detto, cioè della comessazione, ossia di una compotazione, usata da loro dopo il mangiare, come oggi dagl'inglesi, e accompagnata al più da uno spilluzzicare di qualche poco di cibo per destar la voglia del bere. Quello è il tempo in cui si avrebbe più allegria, più brio, più spirito, {più buon umore,} e più voglia di conversare {e di ciarlare.} {#(1.) Così appunto la pensavano gli antichi. V. Casaub. ib. l. 8. c. 14. init.} Ma nel tempo delle vivande tacevano, o parlavano assai poco. Noi abbiamo dismesso l'uso naturalissimo e allegrissimo della compotazione, e parliamo mangiando. Ora io non posso mettermi nella testa che quell'unica ora  4184 del giorno in cui si ha la bocca impedita, in cui gli organi esteriori della favella hanno un'altra occupazione (occupazione interessantissima, e la quale importa moltissimo che sia fatta bene, perchè dalla buona digestione dipende in massima parte il ben essere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e morale dell'uomo, e la digestione non può esser buona se non è ben cominciata nella bocca, secondo il noto proverbio o aforismo medico), abbia da esser quell'ora appunto in cui più che mai si debba favellare; giacchè molti si trovano, che dando allo studio o al ritiro per qualunque causa tutto il resto del giorno, non conversano che a tavola, e sarebbero bien fachés[fâchés] di trovarsi soli e di tacere in quell'ora. Ma io che ho a cuore la buona digestione, non credo di essere inumano se in quell'ora voglio parlare meno che mai, e se però pranzo solo. Tanto più che voglio potere smaltire il mio cibo in bocca secondo il mio bisogno, e non secondo quello degli altri, che spesso divorano e non fanno altro che imboccare e ingoiare. Del che se il loro stomaco si contenta, non segue che il mio se ne debba contentare, come pur bisognerebbe, mangiando in compagnia, per non fare aspettare, e per osservar le bienséances che gli antichi non credo curassero troppo in questo caso; altra ragione per cui essi facevano molto bene a mangiare in compagnia, come io credo fare ottimamente a mangiar da me. (Bologna. 6. Luglio. 1826.). {{V. p. 4245. 4248. 4275.}}

[4185,2]  Pare affatto contraddittorio nel mio sistema sopra la felicità umana, il lodare io sì grandemente l'azione, l'attività, l'abbondanza della vita, e quindi preferire il costume e lo stato antico al moderno, e nel tempo stesso considerare come il più felice o il meno infelice di tutti i modi di vita, quello degli uomini i più stupidi, degli animali meno animali, ossia più poveri di vita, l'inazione e la infingardaggine dei selvaggi; insomma esaltare sopra tutti gli stati quello di somma vita, e quello di tanta morte quanta è compatibile coll'esistenza animale. Ma in vero queste due cose si accordano molto bene insieme, procedono da uno stesso principio, e ne sono conseguenze necessarie non meno l'una  4186 che l'altra. Riconosciuta la impossibilità tanto dell'esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza della vita dell'anima ad un fine impossibile a conseguirsi; riconosciuto che l'infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro nè deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d'infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gl'individui {animali} meno sensibili, {men vivi} per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento. Gli stati di animo meno sviluppato, e quindi di minor vita dell'animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli stati umani. Tale è quello del primitivo o selvaggio. Ecco perchè io preferisco lo stato selvaggio al civile. Ma incominciato ed arrivato fino a un certo segno lo sviluppo dell'animo, è impossibile il farlo tornare indietro, impossibile, tanto negl'individui che nei popoli, l'impedirne il progresso. Gl'individui e le nazioni d'europa e di una gran parte del mondo, hanno da tempo incalcolabile l'animo sviluppato. Ridurli allo stato primitivo e selvaggio e[è] impossibile. Intanto dallo  4187 sviluppo e dalla vita del loro animo, segue {una} maggior sensibilità, quindi un maggior sentimento della suddetta tendenza, quindi maggiore infelicità. Resta un solo rimedio: La distrazione. Questa consiste nella maggior somma possibile di attività, di azione, che occupi e riempia le sviluppate facoltà e la vita dell'animo. Per tal modo il sentimento della detta tendenza sarà o interrotto, o quasi oscurato, confuso, coperta e soffocata la sua voce, ecclissato. Il rimedio è ben lungi dall'equivalere allo stato primitivo, ma i suoi effetti sono il meglio che resti, lo stato che esso produce è il miglior possibile, da che l'uomo è incivilito. - Questo delle nazioni. Degl'individui similmente. P. e. il più felice italiano è quello che per natura {e per abito} è più stupido, meno sensibile, di animo più morto. Ma un italiano che o per natura o per abito abbia l'animo vivo, non può in modo alcuno acquistare o ricuperare la insensibilità. Per tanto io lo consiglio di occupare quanto può più la sua sensibilità. - Da questo discorso segue che il mio sistema, in vece di esser contrario all'attività, allo spirito di energia che ora domina una gran parte di europa, {+agli sforzi diretti a far progredire la civilizzazione in modo da render le nazioni e gli uomini {sempre} più attivi e più occupati,} gli è anzi direttamente e fondamentalmente favorevole (quanto al principio, dico, di attività {+e quanto alla civilizzazione considerata come aumentatrice di occupazione, di movimento, di vita reale, di azione, e somministratrice dei mezzi analoghi}), non ostante e nel tempo stesso che esso sistema considera lo stato selvaggio, l'animo il meno sviluppato, il meno sensibile, il meno attivo, come la miglior condizione possibile  4188 per la felicità umana. (Bologna 13. Luglio 1826.).

[4194,1]  La condotta di Tiberio nell'impero, da principio non pur affabile, benigna, moderata, ma eziandio umile; insomma più che civilis (v. Sueton. Tiber. c. 24-33), le sue difficoltà di accettar l'impero ec. paragonate colla seguente condotta tirannica, si attribuiscono a profonda politica, dissimulazione e simulazione. Io non vi so veder niente di finto, nè di artifiziale. Tiberio era certamente, a differenza di Cesare, di natura timida. A differenza poi e di Cesare che fin da giovanetto andò continuamente elevandosi, ed abituando successivamente l'animo e il carattere a grandezze sempre maggiori; e di Augusto che pure fin da giovanetto si vide alla testa degli affari; Tiberio, nato privato, vissuto la gioventù e l'età matura in sospetto di Augusto e de' costui parenti, ed anche in non piccolo pericolo (otto anni passò ritirato in Rodi per fuggirlo o scemarlo), non aveva l'animo nè il carattere formato al potere, quando la fortuna gliel pose in mano. Però nel principio fu modesto, anzi timido ed umile, anche dopo liberato da ogni timore, come dice espressamente Suetonio (c. 26.); {+v. p. 4197. capoverso 6.} nè qui v'era dissimulazione: io non ci veggo altro che un uomo avvezzo a soggiacere, avvezzo a temere ed evitar di offendere, che ridotto a soprastare, conserva ancora l'abito di tal timore e di tale evitamento. Egli lo perdè col tempo, e coll'esperienza continuata del suo potere, e della soggezione, anzi abbiezione, degli altri. Questo non è smascherarsi; questo è mutar carattere e natura, per mutazione di circostanze.  4195 Tiberio era certamente cattivo, perchè vile, e debole. {+V. p. 4197. capoverso 7.} Questo fu causa che il potere lo rendesse un tiranno, perchè la sua natura era tale che l'influenza del principato doveva farne un cattivo carattere di principe. Ma qui non ci entra simulazione. Io non sono mai stato nè principe nè cattivo. Pur disprezzato e soggetto sempre fino all'età quasi matura; vedutomi poi per le circostanze, uguale a molti e superiore ad alcuni; da principio benignissimo ed umile cogl'inferiori, sono poi divenuto verso loro un poco esigente, {un poco intollerante, φιλόνεικος, μεμψίμοιρος,} ed anche cogli uguali un poco chagrin, e più difficile a perdonare un'ingiuria, {una piccola mancanza,} più risentito, più facile a concepir qualche seme di avversione, {più desideroso, se non altro, di vendettucce,} ec. Se la mia natura fosse stata cattiva, io sarei divenuto tanto più insopportabile quanto più tardi sono pervenuto alla superiorità, ed in età men facile ad accostumarmici. Noi siamo tutti inclinati a suppor negli uomini antichi o moderni, assenti o presenti, noti o ignoti, e nelle loro azioni e condotta, una politica, un'arte, una simulazione quasi continua, e qualche fine occulto. Ma credete a me che v'è {al mondo} assai meno politica, assai meno finzione, assai meno tendenze occulte, meno intrighi, meno maneggi, meno arte, {e più di sincerità e di vero} che non si crede. 1. Gli uomini di talento (indispensabile fondamento a simil condotta) sono assai più rari che non si stima. 2. Anche gli uomini i più persuasi della necessità o utilità dell'arte nel consorzio umano, {e i più disposti ad essa per volontà,} non hanno la pazienza di usarla troppo spesso, di fingere, di nascondere e dissimulare troppo a lungo. 3. Condotte calcolate e dirette costantemente a qualche fine, sono più immaginarie che reali, perchè è natura di qualunque uomo d'essere incostante, ne' suoi gusti, desiderii, opinioni, in tutto; di esser contraddittorio  4196 ed incoerente nelle sue azioni, massime ec.; di operare contro i proprii principii; di operare contro i proprii interessi. ec. 4. Finalmente la natura per combattuta che sia, per quanto la vogliam credere abbattuta, può ancora, ed opera nel mondo, assai più che non si crede. Ora la natura è l'opposto dell'arte: la finzione tende a nasconder la natura, ma questa trapela ad ogni momento, in dispetto d'ogni massima, d'ogni volontà, d'ogni disciplina. (Bologna. 3. Sett. Domenica. 1826.). Del resto le atrocissime crudeltà usate scopertamente in seguito da Tiberio, e gran parte di queste senza nessuna utilità proposta, ma per solo piacere e soddisfazione del gusto e dell'animo suo, mostrano che l'anima di Tiberio era più vile che doppia per sua natura, e col regno era divenuta più malvagia che politica. (Bologna 4. Sett. 1826.).

[4197,8]  Che gli uomini abbiano trovate e pongano in opera delle arti per combattere, soggiogare, recare al loro uso e servigio il resto della natura animata o inanimata, non è cosa strana. Ma che abbiano trovato ed usino arti {e regole} per combattere e vincere gli uomini stessi, che queste arti sieno esposte a tutti gli uomini, e tutti ugualmente le apprendano ed usino, o le possano apprendere e usare, questo ha dell'assurdo; perchè se due uomini sanno ugualmente di scherma, che giova la loro arte a ciascuno de' due? che superiorità ne riceve l'uno sopra l'altro? non sarebbe per ambedue lo stesso, che ambedue fossero ignoranti della scherma, o che tutti e due combattessero alla naturale? {+V. p. 4214.} Un libro, una scoperta di Tattica o di strategica o di poliorcetica ec. pubblicata ed esposta all'uso comune, a che giova? se l'amico e il nemico l'apprendono del pari, ambedue con più arte e più fatica di prima, si trovano nella stessissima condizione rispettiva di prima. Il coltivare queste tali arti, o scienze che si vogliano dire, il proccurarne l'  4198 incremento, e molto più il diffonderne la coltura e la conoscenza, è la più inutile e strana cosa che si possa fare; è propriamente il metodo di ottener con fatica e spesa quello che si può ottenere senza fatica nè spesa; di eseguire artificialmente e di render necessaria l'arte laddove la natura bastava, e laddove col metodo artificiale non si ottiene il menomo vantaggio sopra il naturale. Insomma è il metodo di moltiplicare e complicar le ruote {e le molle} di un orologio, e di far con più quel medesimo che si poteva fare e già si faceva con meno. Il simile dico della politica, del macchiavellismo ec. e di tutte le arti inventate per combattere e superchiare i nostri simili. (Bologna. 10. Sett. 1826.).

[4198,1]  Se una volta in processo di tempo l'invenzione p. e. dei parafulmini (che ora bisogna convenire esser di molto poca utilità), piglierà più consistenza ed estensione, diverrà di uso più sicuro, più considerabile e più generale; se i palloni aereostatici, e l'aeronautica acquisterà un grado di scienza, e l'uso ne diverrà comune, e la utilità (che ora è nessuna) vi si aggiungerà ec.; se tanti altri trovati moderni, come quei della navigazione a vapore, dei telegrafi ec. riceveranno applicazioni e perfezionamenti tali da cangiare in gran parte la faccia della vita civile, come non è inverisimile; e se in ultimo altri nuovi trovati concorreranno a questo effetto; certamente gli uomini che verranno di qua a mille anni, appena chiameranno civile la età presente, diranno che noi vivevamo in continui ed estremi timori e difficoltà, stenteranno a comprendere come si potesse menare {e sopportar} la vita essendo di continuo esposti ai pericoli delle tempeste, dei fulmini ec., navigare con tanto rischio di sommergersi, commerciare  4199 e comunicar coi lontani essendo sconosciuta o imperfetta la navigazione aerea, l'uso dei telegrafi ec., considereranno con meraviglia la lentezza dei nostri presenti mezzi di comunicazione, la loro incertezza ec. Eppur noi non sentiamo, non ci accorgiamo di questa tanta impossibilità {o difficoltà} di vivere che ci verrà attribuita; ci par di fare una vita assai comoda, di comunicare insieme assai facilmente e speditamente, di abbondar di piaceri e di comodità, in fine di essere in un secolo raffinatissimo e lussurioso. Or credete pure a me che altrettanto pensavano quegli uomini che vivevano avanti l'uso del fuoco, della navigazione ec. ec. quegli uomini che noi, {specialmente in questo secolo,} con magnifiche dicerie rettoriche predichiamo come esposti a continui pericoli, continui ed immensi disagi, bestie feroci, intemperie, fame, sete; come continuamente palpitanti e tremanti {dalla paura,} e tra perpetui patimenti ec. E credete a me che la considerazione detta di sopra è una perfetta soluzione del ridicolo problema che noi ci facciamo: come potevano mai vivere gli uomini in quello stato; come si poteva mai vivere avanti la tale o la tal altra invenzione. (Bologna. 10. Settembre. Domenica. 1826.).

[4204,1]  Contraddizioni innumerabili, evidenti e continue si trovano nella natura considerata non solo metafisicamente e razionalmente, ma anche materialmente. La natura ha dato ai tali animali l'istinto, {le arti,} le armi da perseguitare e assalire i tali altri, a questi le armi da difendersi, l'istinto di preveder l'attacco, di fuggire, di usar mille diverse astuzie per salvarsi. La natura ha dato agli uni la tendenza a distruggere, agli altri la tendenza a conservarsi. La natura ha dato ad alcuni animali l'istinto e il bisogno di pascersi di certe tali piante, frutta ec., ed ha armato queste tali piante di spine per allontanar gli animali, queste tali frutta di gusci, di bucce, d'inviluppi d'ogni genere, artificiosissimi e diligentissimi, o le ha collocate nell'alto delle piante ec. La natura ha creato le pulci e le cimici perchè ci succino il sangue, ed ha[a] noi ha dato l'istinto di cercarle e di farne strage. L'enumerazione di tali ed analoghe contrarietà si estenderebbe in infinito, ed abbraccierebbe ciascun regno, {ciascuno elemento,} e tutto il sistema della natura. Io avrò torto senza dubbio, ma la vista di tali fenomeni mi fa ridere. Qual è il fine, qual è il voler sincero e l'intenzione vera della natura? Vuol ella che il tal frutto sia mangiato dagli animali o non sia mangiato? Se sì, perchè l'ha difeso con sì dura crosta e con tanta cura? se no,  4205 perchè ha dato ai tali animali l'istinto {e l'appetito} e forse anche il bisogno di procacciarlo e mangiarselo? I naturalisti ammirano la immensa sagacità ed arte della natura nelle difese somministrate alla tale o tale specie animale o vegetabile o qualunque, contro le offese esteriori di qualunque sia genere. Ma non pensano essi che era in poter della natura il non crear queste tali offese? che essa medesima è l'autrice unica delle difese e delle offese, del male e del rimedio? E qual delle due sia il male e quale il rimedio nel modo di vedere della natura, non si sa. Si sa ben che le offese non sono meno artificiosamente e diligentemente condotte dalla natura che le difese; che il nibbio {o il ragno} non è meno sagace di quel che la gallina o la mosca sia amorosa o avveduta. Intanto che i naturalisti e gli ascetici esaminando le anatomie de' corpi organizzati, andranno in estasi di ammirazione verso la provvidenza per la infinita artificiosità ed accortezza delle difese di cui li troverà forniti, io finchè non mi si spieghi meglio la cosa, paragonerò la condotta della natura a quella di un medico, il quale mi trattava con purganti continui, ed intendendo che lo stomaco ne era molto debilitato, mi ordinava l'uso di decozioni di china e di altri attonanti per fortificarlo e minorare l'azione dei purganti, senza però interromper l'uso di questi. Ma, diceva io umilmente, l'azione dei purganti non sarebbe minorata senz'altro, se io ne prendessi de' meno efficaci o in minor dose, quando pur debba continuare d'usarli? (Bologna. 25. Sett. 1826.). {{V. p. seg. [p. 4206,2]}}

[4216,1]  Rettorica. Citiamo qui un esempio di acutezza e di filosofia de' rettorici. Demetrio (rettorico de' più stimati) περὶ ἑρμηνείας, della elocuzione, sezione 67. parlando delle figure della {dizione} (σχήματα τῆς λέξεως {+opposte a σχήματα τῆς διανοίας sententiarum o sententiae: λέξεως verborum.}), le quali non sono altro che costrutti e frasi fuor di regola, di ragione, d'uso ec. sgrammaticature * , direbbe l'Alfieri. Bisogna servirsi di tali figure non in troppa abbondanza, chè ella è cosa poco elegante, e dà una certa disuguaglianza al discorso, e fa il discorso disuguale. {Non bisogna tuttavolta usar le figure a man piena: cosa goffa e che ec.} Gli antichi, i quali usano però gran quantità di figure, riescono nel dir loro più familiari e correnti che non fanno i moderni quando sono senza figure. {La cagione è che} quelli le adoperano con arte. * χρῆσϑαι μέν τοι τoῖς σχήμασι μὴ πυκνoῖς: ἀπειρόκαλον γὰρ καὶ παρεμϕαῖνóν  4217 τινa τοῦ λóγου ἀνωμαλίαν. Oἱ γοῦν ἀρχαῖοι, πολλὰ σχήματα ὲν τoῖς λóγοις τιϑέντες, συνηϑέστεροι τῶν ἀσχηματίστων εἰσί, διὰ τὸ ἐντέχνως τιϑέναι) * . L'osservazione è verissima in tutte le lingue; la causa, proprio il contrario di quel che dice Demetrio. Gli antichi usavano le figure naturalmente, senz'arte, e per non saper bene le regole generali della grammatica: i moderni le pescano negli antichi, le usano a posta, sono irregolari per arte. Perciò paiono, come sono, artifiziati, affettati, stentati, diversi dal dir corrente. Caro Demetrio, non ogni buon {effetto o} successo è da attribuirsi all'arte. Concedete qualche coserella alla natura, {ed anche all'ignoranza,} benchè voi siate un maestro di arte rettorica. {{V. p. 4222.}}

[4219,1]  {Alla p. 4208.} Damascio nel luogo citato nel pensiero antecedente, colonna 1033. dice del suo maestro ed eroe Isidoro filosofo: ῾Pητορικῆς καὶ ποιητικῆς πολυμαϑίας μικρὰ ἥψατο, εἰς δὲ τὴν ϑειοτέραν ϕιλοσοϕίαν ἐξώρμησε τὴν ᾽Aριστοτέλους. ὁρῶν δὲ ταύτην τῷ ἀναγκαίῳ μᾶλλον ἢ τῷ oἰκείῳ * (proprio, privato, individuale) νῷ πιστεύoυσαν, καὶ τεχνικὴν μὲν ἱκανῶς εἶναι σπουδάζουσαν, τὸ δὲ ἔνϑεον ἢ νοερὸν oὐ πάνυ προβαλλομένην, ὀλίγου καὶ τaύτης ὁ ᾽Iσίδωρος ἐποιήσατο λόγον. ὡς δὲ τῶν Πλάτωνoς ἐγεύσατο νοημάτων, οὐκέτι παπταίνειν ἠξίoυ πόρσιον, ὡς ἔϕη Πίνδαρος * (Olymp., od. 1. et od. 3. fin. Phyth. od. 3.) ἀλλὰ τέλος ἔχειν ἤλπιζεν εἰ τῆς Πλάτωνoς διανοίας εἴσω τῶν ἀδύτων δυνηϑείη διαβαλεῖν * (sic), καὶ πρὸς τoύτῳ * (in margine corrigitur τoῦτο) ὁ πᾶς αὐτῷ δρóμος ἐτέτατo τῆς σπουδῆς. * Rhetoricas, poeticasque artes parum attigit: sed ad sanctiorem Aristotelis philosophiam se convertit, vidensque illam necessariis ratiocinationibus magis quam proprio sensui credere, et ut via ac ratione procedat, divinis autem imaginationibus non adeo uti, parum etiam de hac sollicitus fuit: ubi autem Platonis sententias gustavit, non iam aspicere, ut ait Pindarus, dignatus est ulterius. Sed finem consecuturum speravit * (dic, perfectionem, vel quid simile) si {in} Platonis sententiarum adyta penetrare potuisset. et eo omne suum studium impetumque convertit. * Versio Andreae Schotti. Tῶν μὲν παλαίτατα  4220 ϕιλοσοϕησάντων * , soggiunge Fozio, Πυϑαγóραν καὶ Πλάτωνa ϑειάζει * (cioè Damascio) ... τῶν νεοστὶ δὲ Πορϕύριον καὶ ᾽Iάμβλιχoν καὶ Συριανὸν καὶ Πρόκλον, καὶ ἄλλους δὲ ἐν μέσῳ τοῦ χρóνoυ πολὺν ϑησαυρòν συλλέξαι λέγει ἐπιστήμης ϑεοπρεποῦς. τoὺς μέν τοι ϑνητὰ καὶ ανϑρώπινα ϕιλοπονουμένους, * {+colonna 1036.} ἢ συνιέντας ὀξέως ἢ ϕιλομαϑεῖς εἶναι βουλομένους, οὐδὲν μέγα ἀνύττειν[ἀνύτειν] εἰς τὴν ϑεοπρεπῆ καὶ μεγάλην σοϕίαν. τῶν γὰρ παλαιῶν ᾽Aριστοτέλη καὶ Χρύσιππoν, εὐϕυεστάτouς γενομένους, ἀλλὰ καὶ ϕιλομαϑεστάτoυς γεγονότας, ἔτι δὲ καὶ ϕιλοπόνους, οὐκ ἀναβῆναι ὅμως τὴν ὅλην ἀνάβασιν. τῶν νεωτέρων ῾Iεροκλέα τε καὶ εἴ τις ὅμοιος, οὐδὲν μὲν ἐλλείποντας εἰς ἀνϑρωπίνην παρασκευήν, τῶν δὲ μακαρίων νοημάτων πολλαχῆ πολλῶν ὲνδεεῖς γενομένους ϕησίν. * Θειάζει vuol dire esalta, divinizza, loda a cielo, voce e senso usitato a Fozio. Antiquissimos etc. De recentioribus etc., et alios mediae aetatis, magnum thesaurum collegisse divinae scientiae dicit. Eos autem qui in caducis, et humanis studiis libenter occupantur, vel qui intelligere acute * (cito), ac scire multa volunt, non magnopere conferre ad sublimem ac divinam sapientiam. Antiquorum enim Aristotelem et Chrysippum ingeniosissimos, et discendi cupidissimos, quin etiam laboriosos, nec tamen omnino ad summum ascendisse. Recentium vero Hieroclem, et similes, scientiis humanis nulli quidem fuisse inferiores, sed in divinis notionibus non admodum fuisse versatos * tradit. Schott. Più sotto nella stessa colonna 1036. dice Damascio d'Isidoro: ἐξαίρετον δ᾽ ἦν αὐτῷ παρὰ τοὺς ἄλλους καὶ τοῦτο ϕιλοσόϕους οὐκ ἠβούλετο συλλογισμοῖς ἀναγκάζειν μóνον, οὔτε ἑαυτòν οὔτε τoὺς συνóντας, ἐπακολουϑεῖν τῇ ἀληϑείᾳ μὴ ὁρωμένην κατὰ μίαν ὁδòν πορεύεσϑαι συνελαυνομένους ὑπò τοῦ λóγου, oἷoν τυϕλοῦ τινòς ὀρϑὴν ἀγομένου * (in margine ἀγομένους) πορείαν∙ ἀλλὰ πείϑειν ἐσπoύδαζεν ἀεί, καὶ ὄψιν ἐντιϑέναι τῇ ψυχῇ, μᾶλλον δὲ ἐνοῦσαν διακαϑαίρειν. * Luogo corrotto, di cui però s'intende appresso a poco il senso. Hoc etiam a ceteris philosophis distabat Isidorus, quod non sola Syllogismorum vi se at suos vellet adhaerere veritati: cumque veritas non una videatur via, nolebat eos ratione, veluti caeca in rectam viam ductrice, impelli. Sed persuadere semper adnisus est, et oculos ad animam referre * (dic, visum, speciem intromittere): aut si inessent,  4221 repurgare. * - Ridete? Or traducete queste che vi paiono stoltizie, dalla lingua antica filosofica nella moderna, e voi vedrete accadere quello che dice il Dutens, cioè quante verità (qui però si tratterà di errori) si troverebbero negli antichi, credute moderne, se si sapessero tradurre i loro detti nella lingua modernamente adottata per la filosofia. Queste scempiaggini del filosofo mistico Isidoro, comuni in gran parte agli altri mistici di quello e dei vicini secoli, e dominanti in quei tempi di sogni e di creuseries, che altro sono se non, con solo diverse parole, le misticherie di quei moderni, che quando non ci possono provare con ragioni quello che vogliono, quando sono obbligati a confessare che argomenti per provarlo non vi sono, che anzi abbondano gli argomenti in contrario, ricorrono alla gran prova del sentimento, e pretendono che questo debba esser l'unica guida, canone, maestro della verità nelle cose che più importano? E noi che ridiamo di questi passi di Damascio, non ridiamo di queste sentenze moderne, anzi le ripetiamo e magnifichiamo. Questo è proprio il caso del mutato nomine (propriamente il nome e non altro) de te fabula. Che altro è questo sentimento, questa sensibilità, {questo entusiasmo, queste ispirazioni,} che non tutti hanno da natura, o chi più chi meno, ma che ci si dà per il principal mezzo di conoscere il vero, {ed a cui si debba subordinare ogni altro mezzo, compresa la ragione;} che altro è, dico, se non quello che Isidoro chiamava εὐμοιρία in quest'altro luogo (che ci fa ridere) di Damascio ap. lo stesso Fozio, colonna 1034{?} ἀγχίνοιαν καὶ ὀξύτητα ὁ ᾽Iσίδωρος, ϕησίν * (Δαμάσκιος), ἔλεγεν οὐ τὴν εὐκίνητον ϕαντασίαν, οὐδὲ τὴν δοξαστικὴν εὐϕυΐαν, οὐδὲ μόνην (ὡς ἄν τις oἰηϑείη) διάνοιαν εὔτροχον καὶ γóνιμον ἀληϑείας: οὐ γὰρ εἶναι ταύτας αἰτίας, ἀλλὰ τῇ αἰτίᾳ δουλεύειν εἰς νόησιν. Tὴν δὲ εἶναι ϑείαν κaτὰ κωχήν * (in margine corrig. κατοχήv), ἠρέμα διανοίγουσαν καὶ ὑποκαϑαίρουσαν τὰ τῆς ψυχῆς ὄμματα, καὶ τῷ νοερῷ ϕωτὶ καταλάμπουσαν, εἰς ϑέαν καὶ γνώρισιν τοῦ ἀληϑοῦς καὶ τοῦ ψευδοῦς. εὐμοιρίαν ταύτην ἐκεῖνος ὠνóμαζε. καὶ ὡς οὐδὲν γένοιτ' ἂν ὄϕελος ἄνευ εὐμοιρίας, ὡς οὐδὲ ὀϕϑαλμῶν ὑγιαινóντων ὄϕελος ἄνευ τοῦ οὐρανίου ϕωτός, διετείνετο.  4222 Sollertiam et acrimoniam Isidorus dixit esse imaginationem non facile mobilem, neque ingenium facile opiniones comminiscens, neque solam, ut aliquis putarit, intelligentiam volubilem et gignentem veritatem. Neque enim has esse caussas, sed ad intelligendum caussae servire: divinum vero esse instinctum, sedate aperientem et repurgantem animae oculos, et intelligibili lumine illustrantem, ad verum falsumque et videndum et cognoscendum. Bonam constitutionem ipse appellavit, nullumque sine ea esse emolumentum, neque oculorum sanorum commodum sine coelesti lumine asseveravit. * - Del resto, ho detto che questi principii erano comuni e dominanti in quei secoli; ma Damascio ha ragion di dire, ἐξαίρετον δ᾽ ἦν αὐτῷ * ec. e di fare Isidoro singolare dagli altri, perchè pochi filosofi anteriori o contemporanei (e così posteriori) avevano osato così sfacciatamente ripudiar la ragione, o sottometterla al sentimento, all'entusiasmo, all'ispirazione; disprezzare il senso universale per esaltar l'individuale; deprimere e condannare Aristotele, appunto perchè seguace τοῦ ἀναγκαίου cioè dei metodi esatti di conoscere il vero, di ragionare, di convincere, per principii incontrastabili, conseguenze necessariamente dedotte; ed anteporgli Platone {Pitagora ec. perchè non ragionatori,} perchè πιστεύοντας al libero sentimento e all'immaginario, che Isidoro chiama divino. ec. (Bologna. 17. Ottobre. 1826.).

[4226,4]  Bellissima è l'osservazione di Ierocle nel libro de Amore fraterno, ap. Stobeo serm. ὅτι κάλλιστον ἡ ϕιλαδελϕία etc. 84. Grot. 82. Gesner. che essendo la vita umana come una continua guerra, nella quale siamo combattuti dalle cose di fuori (dalla natura e dalla fortuna), i fratelli, i genitori, i parenti ci son dati come alleati e ausiliari ec. E io, trovandomi lontano dalla mia famiglia, benchè circondato da persone benevole, {e benchè senza inimici,} pur mi ricordo di esser vissuto in una specie di timore  4227 o timidezza continua, rispetto ai mali indipendenti dagli uomini, e questi, sopravvenendomi, avermi spaventato, ed abbattuto e afflitto l'animo assai più del solito, non per altro se non perchè io mi sentiva essere come solo in mezzo a nemici, cioè in mano alla nemica natura, senza alleati, per la lontananza de' miei; (Recanati. 16. Nov. 1826.) {{e per lo contrario, ritornando fra loro, aver provato un vivo e manifesto senso di sicurezza, di coraggio, e di quiete d'animo, al pensiero, all'aspettativa, al sopravvenirmi di avversità, malattie ec.}}

[4228,1]   4228 Molto impropriamente la questione del sommo bene è stata chiamata la questione dei fini. Il fine dell'uomo è noto e certo a ciascuno che interroghi se medesimo: un piacere perfetto, non dico in se, e però non importa se sommo o non sommo, ma perfetto rispetto ad esso uomo; un piacere che lo contenti del tutto. Questo è il nostro fine, notissimo a tutti, benchè poi non si possa conoscere di qual natura sia o possa essere questo piacere perfetto, niuno avendolo sperimentato mai; e per conseguenza che cosa e di qual natura sia o possa essere la felicità umana. Se la virtù, o la voluttà del corpo, o altre cose tali, possano proccurare all'uomo il piacere perfetto; o qual di loro più; o in somma donde possa o debba l'uomo conseguire il piacer perfetto che egli desidera, e che è il suo fine, questo può ben cadere e cade in questione; ma tal questione è dei mezzi, non già dei fini. Il fine è certo, il mezzo s'ignora, e la cagione di questa ignoranza è in pronto. La cagione, dico, si è che il mezzo o i mezzi di ottener questo fine, che niuno ha mai ottenuto, non esistono al mondo; che per conseguenza il sommo bene, che ci possa o debba dare il piacer perfetto che cerchiamo, non si trova, è un'immaginazione, come lo è questo piacer perfetto esso stesso, quanto alla sua natura; e che infine l'uomo sa e saprà ben sempre che cosa desiderare, ma non mai che cosa cercare, cioè che mezzo che cosa possa soddisfare il suo desiderio, dargli il piacer perfetto, cioè che cosa sia il suo sommo bene, dal quale debba nascere la sua felicità. (Recanati. 28. Nov. 1826.).

[4229,4]  È naturale all'uomo, debole, misero, sottoposto a tanti pericoli, infortunii e timori, il supporre, il figurarsi, il fingere anco gratuitamente un senno, una sagacità e prudenza, un intendimento e discernimento, {una perspicacia, una esperienza} superiore alla propria, in qualche persona, alla quale poi mirando in ogni suo duro partito, si riconforta o si spaventa secondo che vede quella o lieta o trista, o sgomentata o coraggiosa, e sulla sua autorità si riposa senz'altra ragione; spessissimo eziandio, ne' più gravi pericoli e ne' più miseri casi, si consola e fa cuore, solo per la {buona speranza e} opinione, ancorchè manifestamente falsa o senza niuna apparente ragione, che egli vede o s'immagina essere in quella tal persona; o solo anco per una ciera lieta o ferma che egli vede in quella. Tali sono assai sovente i figliuoli, massime nella età tenera, verso i genitori. Tale sono stato io, anche in età ferma e matura, verso mio padre; che in ogni cattivo caso, o timore, sono stato solito per determinare, se non altro, il grado della mia afflizione o del timor mio proprio, di aspettar di vedere o di congetturare il suo, e l'opinione e il giudizio che  4230 egli portava della cosa; nè più nè meno come s'io fossi incapace di giudicarne; e vedendolo {o veramente o nell'apparenza} non turbato, mi sono ordinariamente riconfortato d'animo sopra modo, con una assolutamente cieca sommissione alla sua autorità, o fiducia nella sua provvidenza. E trovandomi lontano da lui, ho sperimentato frequentissime volte un sensibile, benchè non riflettuto, desiderio di tal rifugio. Ed è cosa {mille volte} osservata {e veduta per prova} come gli uomini di guerra, anche esperimentatissimi e veterani, sogliano pendere nei pericoli, nei frangenti, nelle calamità della guerra, dalle opinioni, dalle parole, dagli atti, dal volto, di qualche lor capitano, eziandio giovane e immaturo, che si abbia guadagnato la lor confidenza; e secondo che veggono, o credono di veder fare a lui, sperare o temere, dolersi o consolarsi, pigliar animo o perdersi di coraggio. Onde suol tanto giovare nel Capitano la fermezza d'animo, e la dissimulazione del dolore o del timore nei casi ov'è sommamente da temere o dolersi. E questa qualità dell'uomo è ancor essa una delle cagioni per cui tanto universalmente e così volentieri si è abbracciata e tenuta, come ancor si tiene, la opinione di un Dio provvidente, cioè di un ente superiore a noi di senno e intelletto, il qual disponga ogni nostro caso, e indirizzi ogni nostro affare, e nella cui provvidenza possiamo riposarci dell'esito delie cose nostre. (9. Dic. Vigilia della Venuta della S. Casa di Loreto. 1826. Recanati.). La credenza di un ente senza misura più savio e più conoscente di noi, il quale dispone e conduce di continuo tutti gli avvenimenti, e tutti a fin di bene, eziandio quelli che hanno maggior sembianza di mali per noi, e che veglia sulla nostra sorte; e tutto ciò con ragioni e modi a noi sconosciuti, e che noi non possiamo in guisa alcuna scoprire nè intendere, di maniera che non dobbiamo darcene pensiero veruno; questa credenza è agli uomini universalmente, e massime ai deboli ed infelici, un conforto maggior d'ogni altro possibile: il qual conforto non da altro procede, nè consiste in altro, che un riposo, uno acquetamento, ed una confidenza  4231 cieca nell'autorità, nel senno, e nel provvedimento altrui. (9. Dic. 1826.).

[4239,5]  Per il Manuale di filosofia pratica. Pazienza quanto giovi per mitigare e render più facile, più sopportabile, ed anco veramente più leggero lo stesso dolor corporale; cosa sperimentata e osservata da me in quell'assalto nervoso al petto, sofferto ai 29 di Maggio 1826. in Bologna; dove il dolore si accresceva effettivamente colla impazienza, e colla inquietezza. Consiste in una non resistenza, una rassegnazione  4240 d'animo, una certa quiete dell'animo nel patimento. E potrà essere disprezzata questa virtù quanto si voglia, e chiamata vile: ella è pur necessaria all'uomo, nato e destinato inesorabilmente, inevitabilmente, irrevocabilmente a patire, e patire assai, e con pochi intervalli. Ed ella nasce, e si acquista eziandio non volendo, naturalmente, coll'abitudine del sopportare un travaglio o una noia. La pazienza e la quiete, è in gran parte quella cosa che a lungo andare rende così tollerabile, p. e. a un carcerato, il tedio orrendo della solitudine e del non far nulla; tedio da principio asprissimo a tollerare, per la resistenza che l'uomo fa a quella noia, e l'impazienza e smania ed avidità ed ansietà di esserne fuori, la quale passata, e dolore e noia si rendono assai più facili e più leggeri. E in ciò consiste la pazienza, che è una qualità negativa più che altrimenti. (30. Dic. 1826. Recanati.). {{v. p. 4267.}}

[4243,8]  Alla p. 4156. A noi non pare che così fatti sfoghi, questo gridare, questo pianger forte, strapparsi i capelli, gittarsi in terra, voltolarsi, dar del capo nelle pareti, cose usate nelle sventure dagli antichi, usate dai selvaggi, usate tra noi oggidì dalle genti del volgo, possano essere di niun conforto al dolore; e  4244 veramente a noi non sarebbero, perchè non ci siamo più inclinati e portati dalla natura in niun modo; e quando anche le facessimo, le faremmo forzatamente, sarebbe studio e non natura, e però cosa inutile: tanto è mutata, vinta, cancellata in noi la natura dall'assuefazione. Ma egli è però certo che questi atti, insegnati dalla natura medesima (il che non si può volgere in dubbio), sono a chi li pratica naturalmente, un conforto grandissimo ed un compenso molto opportuno nelle calamità. Quella resistenza che l'animo fa naturalmente alla sciagura e al dolore, è il più penoso che abbiano le disavventure, è il maggior dolore che prova l'uomo. Quando l'animo è domato, ogni calamità, per grave che sia, è tollerabile. Questo domar l'animo, questo ridurlo a cedere alla necessità e conformarsi allo andamento e alla condizion delle cose, lo fa in noi il tempo, il quale però il Voltaire chiama consolatore. Ma lo fa con lunghezza; e quella prima resistenza, oltre al durar di più, ha questo ancora di più doloroso, che ella si rivolge e si esercita contro di noi stessi; ella è dell'animo all'animo. Laddove nei selvaggi e nelle persone volgari, ella si esercita contro le cose esterne, per così dire; e siccome le sue operazioni sono più vive, così ella langue e manca più presto. Ella abbatte il corpo, e però travaglia assai meno l'animo; bensì perchè col corpo anco l'animo è abbattuto, perciò quelle tali persone, dopo quegli atti, si trovano aversi domato l'animo e ridotto, per dir così, alla dedizione, da loro stessi, senza aspettare il tempo; onde quando si risvegliano da quei furori, da quelle smanie, hanno già l'animo accomodato a sopportar la sventura, a poterla guardar fermamente in viso, senza esser però coraggiosi. Ed è già notato e notasi giornalmente che nei plebei il dolore delle grandi sventure dura assai meno che nelle persone colte. Sicchè quegli sfoghi sono veramente una medicina {#1. quasi un narcotico} preparata dalla  4245 natura medesima, perchè l'uomo potesse sopportare i suoi mali più leggermente. E noi siamo ridotti a non saper nè pure intendere come essi giovino a quelli che naturalmente gli vediamo esercitare. Ed è questo un altro beneficio della filosofia e della civiltà, che pretendendo insegnarci a sopportare le calamità meglio che non fa a noi la natura, e predicandoci il disprezzo del dolore, e facendoci vergognar di mostrarlo, come di cosa indegna di uomini, e da vigliacchi e indotti; ci ha privati di quel soccorso che la natura ci aveva apprestato, molto più efficace di qualsivoglia dei loro. {+V. p. 4283.} (Recanati 15. 1827. S. Paolo, primo eremita.).

[4247,1]  Magistrato {#1 Ministro, funzionario qualunque} da bene. Magistrato malvagio. Qual è il segno da riconoscerlo? Di tutte le altre cose non ne troverete una, dove stabilito ancora e confessato il fatto, non sieno vari e opposti giudizi, o interpretazioni qual buona qual sinistra. Rigoroso, severo: se tu lo lodi per questo capo, altri per questo medesimo lo chiamerà vendicativo, crudele, ministro della tirannide, esecutore di vendette e risentimenti privati sotto specie di pubblici, nemico dei cittadini, fanatico, persecutore, odiatore dei lumi, della libertà, del progresso della civilizzazione. Clemente: sarà freddo, debole, protettore dei vizi e dei malvagi, complice dei perturbatori della società, fautore delle male opere. Se vi sono partiti, ed egli ne favorisce uno, l'altro o gli altri lo condannano; se nessuno, egli è un insensato, un vile, almeno un furbo. {Così dell'ambizione; ec. ec.} Ma quanto all'astinenza o all'appetenza dell'altrui o del pubblico, voi non troverete due persone che concordato il fatto, discordino nel lodarlo o nel biasimarlo, o anche nell'interpretarlo. E questo è quasi il solo capo dal quale in verità suol dipendere il nome che uno acquista nei magistrati di uomo da bene, o di tristo. Da bene è sinonimo di disinteressato, malvagio di cupido; integrità di disinteresse ec. Da ciò parrebbe che gli uomini non fossero d'accordo se non nel concetto della roba, e che l'ufficiale pubblico potesse a suo modo dispor della vita, dell'onore, della libertà, di tutti gli altri beni dei cittadini, purchè rispettasse i danari e le possessioni. (4. Feb. Domenica. 1827.).

[4249,4]  + [p. 4249,2] Io, con licenza di Milord, non credo che sia vera quest'ultima cosa, nè che fosse vera al tempo suo, ma ben sono della sua opinione in quanto al Petrarca. {{V. p. 4263.}}

[4254,4]  I know, by my own experience, that the more one works, the more willing one is to work. We are all, more or less, des animaux d'habitude. I remember very well, that when I was in business, I wrote four or five hours together every day, more willingly than I should now half an hour. * Chesterfield, Letters to his son, lett. 318. I have so little to do, that I am surprised how I can find time to write to you so often. Do not stare at the seeming paradox; for it is an undoubted truth, that the less one has to do, the less time one finds to do it in. One yawns, one procrastinates; one can do it when one will, and therefore one seldom does it at all; whereas those who have a great deal of business, must (to use a vulgar expression) buckle to it; and then they always  4255 find time enough to do it in. Lett. 320. * It is not without some difficulty that I snatch this moment of leisure from my extreme idleness, to inform you of the present lamentable and astonishing state of affairs here. * Lett. 321. (12. Marzo. 1827.). {{v. p. 4281.}}

[4255,6]  Dei nostri sommi poeti, due sono stati sfortunatissimi, Dante e il Tasso. Di ambedue abbiamo e visitiamo i sepolcri: fuori delle patrie loro ambedue. Ma io, che ho pianto sopra quello del Tasso, non ho sentito alcun moto di tenerezza a quello di Dante: e così credo che avvenga generalmente. E nondimeno non mancava in me, nè manca negli altri, un'altissima stima, anzi ammirazione, verso Dante; maggiore forse (e ragionevolmente) che verso l'altro. Di più, le sventure di quello furono senza dubbio reali e grandi; di questo appena siamo certi che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie: tanta è la scarsezza e l'oscurità delle notizie che abbiamo in questo particolare: tanto confuso, e pieno continuamente di contraddizioni, il modo di scriverne del medesimo Tasso. Ma noi veggiamo in Dante un uomo d'animo forte, d'animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; oltracciò un uomo che contrasta e combatte con essa, colla necessità col fato. Tanto più ammirabile certo, ma tanto meno amabile e commiserabile. Nel Tasso veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria, soccombente, atterrato, che ha ceduto all'avversità, che soffre continuamente e patisce oltre modo. Sieno ancora immaginarie  4256 e vane del tutto le sue calamità; la infelicità sua certamente è reale. Anzi senza fallo, se ben sia meno sfortunato di Dante, egli è molto più infelice. (Recanati. 14. Marzo. 1827.). {{(Si può applicare all'epopea, drammatica ec.)}}.

[4256,1]  È molto notabile nella considerazione comparativa delle antiche e delle moderne nazioni civili, che quelle furono tutte quante di situazione meridionali. Dell'Italia non era ben civile che la parte meridionale. Del resto dell'europa, la grecia sola. Dell'Asia, solo il mezzodì, sì quello civilizzato dai greci, e sì l'India, la Persia ec. Dell'Affrica non parlo, la quale è meridionale tutta. Or questo doveva necessariamente produrre, e produsse, una grandissima differenza, sì nei costumi, nei modi del vivere, negli esercizi, nelle instituzioni pubbliche e private, sì nei caratteri dei popoli civili e della civiltà antica, dai costumi, dai caratteri, dalla civiltà moderna. Perchè, secondo quella verissima osservazione già fatta da altri, che la civiltà è andata sempre, e va tuttavia progredendo dal sud al nord, ritirandosi da quello; i popoli civili moderni sono tutti settentrionali, o più settentrionali che gli antichi; o certo risedendo, come è manifesto, la maggior civiltà moderna nel settentrione (ciò si vede anche in America), il resto dei popoli più o manco civili, pigliano dai settentrionali il carattere della lor civiltà. E in somma la civiltà antica fu una civiltà meridionale, la nostra è una civiltà settentrionale. Proposizione che siccome a prima vista si riconosce per verissima moralmente, così nè più nè meno è vera letteralmente presa, e geograficamente. Differenza del resto grandissima e sostanzialissima, se non principale, e includente in se tutte le altre. L'antichità medesima e la maggior naturalezza degli antichi, è una specie di meridionalità nel tempo. (14. Marzo. 1827. Recanati.).

[4259,5]  Pel manuale di filosofia pratica. A voler vivere tranquillo, bisogna essere occupato esteriormente. Error mio nel voler fare una vita, tutta e solamente interna, a fine e con isperanza di esser quieto. Quanto più io era libero da fatiche e da occupazioni estrinseche, da ogni cura di fuori, fino dalla necessità di parlare per chiedere il mio bisognevole (tanto che io passava i giorni senza profferire una sillaba) tanto meno io era quieto nell'animo. Ogni menomo accidente che turbasse il mio modo e metodo ordinario (e n'accadevano ogni giorno, perchè tali minuzie sono inevitabili) mi toglieva la quiete. Continui timori e sollecitudini, per queste ed altre simili baie. Continuo poi il travaglio della immaginazione, le previdenze spiacevoli, le fantasticherie disgustose, i mali immaginarii, i timori panici. Gran differenza è dalla fatica e dalla occupazione, e dalle cure e sollecitudini stesse, alla inquietudine. Gran differenza dalla tranquillità all'ozio. Le persone massimamente di una certa immaginazione, le quali essendo per essa molto travagliati negli affari, nella vita attiva o semplicemente sociale, e molto irresoluti (come nota la Staël nella Corinna a proposito Lord Nelvil); e le quali perciò appunto tendono all'amor del metodo, e alla fuga dell'azione e della società, e alla solitudine;  4260 s'ingannano in ciò grandemente. Esse hanno più che gli altri, per viver quiete, necessità di fuggir se stesse, e quindi bisogno sommo di distrazione e di occupazione esterna. Sia pur con noia. Si annoieranno per esser tranquille. Sia ancora con afflizioni e con angustie. Maggiori sarebbero quelle che senza alcun fondamento reale, fabbricherebbe loro inevitabilmente la propria immaginazione nella vita solitaria, interiore, metodica. Chi tende per natura all'amor del metodo, della solitudine, della quiete, fugga queste cose più che gli altri, o attenda più a temperarle co' lor contrarii; se vuol potere veramente esser quieto. Al che lo aiuterà poi il giudicare e pensar filosoficamente delle cose e dei casi umani. Ma certo un uom d'affari {{(senz'ombra di filosofia)}} ha l'animo più tranquillo nella continua folla e nell'affanno delle cure e delle faccende; e un uom di mondo nel vortice e nel mar tempestoso della società; di quello che l'abbia un filosofo nella solitudine, nella vita uniforme, e nell'ozio estrinseco. (Recanati. 24. Marzo. 1827.)

[4261,2]  Tutti siamo naturalmente inclinati a stimar noi medesimi uguali a chi ci è superiore, superiori agli uguali, maggiori di ogni comparazione cogl'inferiori; in somma ad innalzare il merito proprio sopra {quel degli altri fuor di modo e ragione.} Questo è natura universale, e vien da una sorgente comune a tutti. Ma un'altra sorgente d'orgoglio {e di disistima altrui,} sconosciuta affatto a noi; divenuta, per l'assuefazione incominciata sin dall'infanzia, naturale e propria; è ai Francesi e agl'Inglesi la stima della propria nazione. Tant'è: il più umano e ben educato e spregiudicato francese o inglese, non può mai far che trovandosi con forestieri, non si creda cordialmente e sinceramente di trovarsi con un inferiore a se (qualunque si sieno le altre circostanze); che non disprezzi più o meno le altre nazioni prese in grosso; e che in qualche modo, più o meno, non dimostri {esteriormente} questa sua opinione di superiorità. Questa è una molla, una fonte {ben distinta} di orgoglio, e di stima di se in pregiudizio o abbassamento d'altrui, della quale niun altro fra i popoli civili, se non gli uomini delle dette nazioni, possono avere o formarsi una giusta idea. I Tedeschi che potrebbero con altrettanto diritto aver lo stesso sentimento, ne sono impediti dalla lor divisione, dal non esserci nazion tedesca. I Russi sentono di esser mezzo barbari; gli Svedesi, i Danesi, gli Olandesi, di essere troppo piccoli, e di poter poco. Gli Spagnuoli del tempo di Carlo quinto e di Filippo secondo, ebbero certamente questo sentimento, come veggiamo dalle storie, niente meno che i francesi e gl'inglesi di oggidì, e con diritto uguale; forse, senza diritto alcuno, l'hanno anche oggi; e così i Portoghesi: ma chi pone oggi in conto gli Spagnuoli e i Portoghesi, parlando di popoli civili? Gl'italiani forse l'ebbero (e par veramente di sì) nei secoli 15.o e 16.o e parte del precedente e del susseguente; per conto della lor civiltà, che essi ben conoscevano, e gli altri riconoscevano, esser superiore a quella di tutto il resto d'europa. Degl'italiani d'oggi non parlo; non so ben se ve n'abbia.

[4266,1]  In qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere, tu non lo trovi mai: tu non provi altro che noia, e spesso disgusto. Bisogna, per provar piacere in qualunque azione ovvero occupazione, cercarvi qualche altro fine che il piacere stesso. (Può servire al Manuale di filosofia pratica). (30. Marzo. 1827.). Così accade (fra mille esempi che se ne potrebbero dare) nella lettura. Chi legge un libro (sia il più piacevole e il più bello del mondo) non con altro fine che il diletto, vi si annoia, anzi se ne disgusta, alla seconda pagina. Ma un matematico trova diletto grande a leggere una dimostrazione di geometria, la qual certamente egli non legge per dilettarsi. {+V. p. 4273.} E forse per questa ragione gli spettacoli e i divertimenti pubblici per se stessi, senza altre circostanze, sono le più terribilmente noiose e fastidiose cose del mondo; perchè non hanno altro fine che il piacere; questo solo vi si vuole, questo vi si aspetta; e una cosa da cui si aspetta e si esige piacere (come un debito) non ne dà quasi mai: dà anzi il contrario. Il piacere (si può dir con perfettissima verità) non vien mai se non inaspettato; e colà dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo. Per questo nel bollore della gioventù, quando l'uomo si precipita col desiderio e colla speranza dietro al piacere, ei non prova che spaventevole e tormentoso disgusto e noia nelle più dilettevoli cose della vita. E non si comincia a provar qualche piacere nel mondo, se non sedato quell'impeto, e cominciata  4267 la freddezza, e ridotto l'uomo a curarsi poco e a disperare {omai} del piacere. (30. Marzo. 1827.). {{Simile è in ciò il piacere alla quiete, la quale quanto più si cerca {e si desidera} per se e da se sola, tanto si trova e si gode meno, come ho esposto in altro pensiero poco addietro pp. 4259-60. Il desiderio stesso di lei, è necessariamente esclusivo di essa, ed incompatibile seco lei.}}

[4272,2]  Un uomo disarmato, alle prese con una bestia di corporatura e di forze uguale a lui, {p. e. con un grosso cane,} difficilmente resterà superiore, verisimilmente sarà vinto. Per vincere, gli bisogna qualche arma, che diagli una forza non naturale, e una decisa superiorità. La ragione è perchè il cane vi adopra e vi mette tutto se stesso, fa ancor più del suo potere; dove che l'uomo riserva sempre una gran parte di se medesimo fuor di fazione, e fa sempre meno di quello che può. Il cane non guarda a pericolo, non considera, non usa prudenza. L'uomo al contrario, se non è disperato affatto, stato al quale egli arriva difficilmente, eziandio che abbia piena ragione di disperarsi. Egli si risparmia sempre, perchè sempre spera; e così risparmiandosi, non ottiene quello che la speranza gli promette, o non fugge quello che egli sperasi di fuggire; quello che, {se} non lo sperasse, otterrebbe o fuggirebbe. E che questa sia veramente la cagion di ciò, vedetelo in un fanciullo: il quale assai più facilmente che un uomo riuscirà pari o superiore in una zuffa con un animale di forze uguali alle sue; zuffa che egli medesimo talvolta attaccherà volontariamente. Il fanciullo, {e più il bambino,} adopra tutto se stesso, come una bestia, o poco meno. E per questo lato io non trovo niente d'inverisimile nella favola di Ercole bambino, strozzatore dei due serpenti. E la crederò vera più facilmente che quella del medesimo Ercole adulto, sbranatore del leone nemeo, senza altre armi che le sue braccia, come nell'altra battaglia, cioè in quella de' serpenti. (3. Aprile. 1827.).

[4274,2]  Pel manuale di filosofia pratica. A me è avvenuto di conservare per lo più ogni amicizia contratta una volta, eziandio con persone difficilissime, di cui tutti a poco andare si disgustavano, o che si disgustavano con tutti. E la cagion, per quello che io posso trovare, è che io non mi disgusto mai di un amico per sue negligenze, e per nessuna sua azione che mi sia o nocevole o dispiacevole; se non quando io veggo chiaramente, o posso con piena ragione giudicare in lui un animo e una volontà determinata di farmi dispiacere e offesa. Cosa che in verità è rarissima. Ma a vedere il procedere degli altri comunemente nelle amicizie, si direbbe che gli uomini non le contraggono se non per avere il piacere di romperle; e che questo è il principal fine a cui mirano nell'amicizia: tanto studiosamente cercano e tanto cupidamente abbracciano le occasioni di rompersi coll'amico, eziandio frivolissime, ed eziandio tali che essi medesimi nel fondo del loro cuore non possono a meno di non discolpar l'amico, e di non conoscere che quella offesa o dispiacere, almen secondo ogni probabilità, non venne da volontà determinata di offenderli. (7. Apr. 1827.).

[4275,1]  Alla p. 4275[4245.] Un'altra cagione per la quale io amo la μονοϕαγία è per non avere (come necessariamente avrei se mangiassi in compagnia) dintorno alla mia tavola, assistenti al mio pasto, d'importuns laquais, épiant nos discours, critiquant tout bas nos maintiens, comptant nos morceaux d'un oeil avide, s'amusant à nous faire attendre à boire, et murmurant d'un trop long dîner. * (Rousseau, Émile.) Disgraziatamente non mi è mai riuscito di assuefarmi a provar piacere in presenza di persone che, di mia certa scienza, lo condannino, lo deridano, se ne annoino; non ho mai potuto comprendere come gli altri sopportino anzi si compiacciano, di siffatti testimonii, l'occupazione e i pensieri dei quali in quel tempo, tutti sanno essere appunto quelli detti di sopra. Anche gli antichi a tavola si faceano servire, ma da schiavi, cioè da genti che essi stimavano meno che uomini, o certo, meno uomini che essi. Però aveano forse ragione di non curarsi, e di non temere le loro railleries e disapprovazioni. Ma i nostri servitori sono nostri uguali. Ed è bene strano che noi, tanto sensibili sopra ogni menomo ridicolo, ogni menoma parola o pensiero che noi possiamo sapere o sospettare in altrui a nostro disfavore; non ci diamo cura alcuna di quelli dei servitori in quel tempo, i quali, non sospettiamo, ma sappiamo ben certo quali sieno intorno di noi: e che mentre non potremmo senza molestia starcene fermi e oziosi a sedere in un luogo dove fosse presente uno che noi sapessimo che attualmente si trattenesse in dir male di noi ed in ischernirci; possiamo poi, avendo molti dintorno di questa sorte, gustare tranquillamente, e {pienamente senza disturbo alcuno, i} piaceri della tavola. L'opinione che gli antichi avevano dei loro schiavi, li giustifica anche per un altro verso, cioè del loro non curarsi dell'incomodo, della noia, della rabbia che i loro servi dovevano necessariamente provare nel tempo, e per cagione, di quei loro piaceri; e che ciascun di noi proverebbe se si trovasse nel  4276 luogo dei nostri servi quando assistono alle nostre tavole. In vero l'umanità e la cordialità nostra possono essere un poco accusate, quando elle ci permettono abitualmente di godere in presenza di persone che il nostro godimento fa patire, e il cui patimento ci sta sotto gli occhi; e nondimeno godere senza il menomo disturbo. Non è molto umano il divertirsi in una conversazione mentre il vostro cocchiere sta esposto alla pioggia: ma in fine voi non lo vedete. Non è molto umano lo stornar gli occhi dai patimenti degli altri per non esserne afflitto o turbato, perchè quel pensiero non vi guasti i vostri diletti. Ma il dilettarsi tranquillamente e a tutto suo agio, finchè n'è capace il corpo e lo spirito, avendo, non lontane, ma presenti, non nel pensiero, ma negli occhi, persone uguali a noi, che manifestamente (e con tutta ragione) soffrono, e non per altra causa, ma pel nostro stesso godere, quanto sarà umano? Io confesso che non mi è riuscito mai di provar piacere in cosa che io, non dico vedessi, non sapessi, ma che pur sospettassi che fosse di molestia o di noia ad alcuno: perchè non mi è mai riuscito di potermi in quel tempo cacciar quel pensiero dalla mente. E ciò, quando anche non fosse ragionevole in quella tal persona il darsene quella molestia. Perciò non voglio mangiare in compagnia, per non aver servitori intorno: perchè appunto io voglio alla tavola provar piacere: e mangiando solo, non voglio averne che mi assistano. Tanto più che io per bisogno, e con molta ragione, voglio mangiare a grand'agio, e con lunghezza di tempo (non parendomi anche che il tempo sia male impiegato in questo, come par che stimino molti, che si affrettano d'ingoiare ogni cosa, e di levarsi su, quasi che questo momento fosse il più bello del desinare); la qual lunghezza, con altrettanta ragione, da chi mi servisse, sarebbe trovata estremamente fastidiosa e intollerabile. (7. Apr. 1827.).

[4277,1]   4277 Allegano in favore della immortalità dell'animo il consenso degli uomini. A me par di potere allegare questo medesimo consenso in contrario, e con tanto più di ragione, quanto che il sentimento ch'io sono per dire, è un effetto della sola natura, e non di opinioni e di raziocinii o {di} tradizioni; o vogliamo dire, è un puro sentimento e non è un'opinione. Se l'uomo è immortale, perchè i morti si piangono? Tutti sono spinti dalla natura a piangere la morte dei loro cari, e nel piangerli non hanno riguardo a se stessi, ma al morto; in nessun pianto ha men luogo l'egoismo che in questo. Coloro medesimi che dalla morte di alcuno ricevono qualche grandissimo danno, se non hanno altra cagione che questa di dolersi di quella morte, non piangono; se piangono, non pensano, non si ricordano punto di questo danno, mentre dura il lor pianto. Noi c'inteneriamo veramente sopra gli estinti. Noi naturalmente, e senza ragionare; avanti il ragionamento, e mal grado della ragione; gli stimiamo infelici, gli abbiamo per compassionevoli, tenghiamo per misero il loro caso, e la morte per una sciagura. Così gli antichi; presso i quali si teneva al tutto inumano il dir male dei morti, e l'offendere la memoria loro; e prescrivevano i saggi che i morti e gl'infelici non s'ingiuriassero, congiungendo i miseri e i morti come somiglianti: così i moderni; così tutti gli uomini: così sempre fu e sempre sarà. Ma perchè aver compassione ai morti, perchè stimarli infelici, se gli animi sono immortali? Chi piange un morto non è mosso già dal pensiero che questi si trovi in luogo e in istato di punizione: in tal caso non potrebbe piangerlo: l'odierebbe, perchè lo stimerebbe reo. Almeno quel dolore sarebbe misto di orrore {e di avversione}: e ciascun sa per esperienza che il dolor che si prova per morti, non è nè misto di orrore {o avversione,} nè proveniente da tal causa, nè di tal genere in modo alcuno. Da che vien dunque la compassione che abbiamo agli estinti se non dal credere, seguendo un sentimento intimo, e senza ragionare, che essi abbiano perduto la vita  4278 e l'essere; le quali cose, pur senza ragionare, e in dispetto della ragione, da noi si tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque noi non crediamo {naturalmente} all'immortalità dell'animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi; e che colui ch'è morto, non sia più.

[4280,1]  Il vedersi nello specchio, ed immaginare che v'abbia un'altra creatura simile a se, eccita negli animali un furore, una smania, un dolore estremo. Vedilo di una scimmia nel Racconto di Pougens, intitolato Joco, Nuovo Ricoglitore di Milano, Marzo 1827. p. 215-6. Ciò accade anche nei nostri bambini. V. Roberti Lettera di un bambino di 16 mesi. Amor grande datoci dalla natura verso i nostri simili!! (Recanati. 13. Apr. Venerdì santo. 1827.). {{ V. p. 4419.}}

[4282,10]  L'estate, oltrechè liberandoci dai patimenti, produce in noi il desiderio de'  4283 piaceri, ci dà anche una confidenza di noi stessi, e un coraggio, che nascono dalla facilità e libertà di agire che noi proviamo allora per la benignità dell'aria. Dalla qual sicurezza d'animo, e fiducia di se, nasce, come sempre, della magnanimità, della inclinazione a compatire, a soccorrere, a beneficare; siccome dalla diffidenza che produce il freddo, nasce l'egoismo, l'indifferenza per gli altri ec.

[4283,2]  Il primo fondamento del sacrificarsi o adoperarsi per gli altri, è la stima di se medesimo e l'aversi in pregio; siccome il primo fondamento dell'interessarsi per altrui, è l'aver buona speranza per se medesimo. (Firenze. 1. Luglio. 1827.).

[4283,8]  Che la vita nostra, per sentimento di ciascuno, sia composta di più assai dolore che piacere, male che bene, si dimostra per questa esperienza. Io ho dimandato a parecchi se sarebbero stati contenti di tornare a rifare la vita passata, con patto di rifarla nè più nè meno quale la prima volta. L'ho dimandato anco sovente a me stesso.  4284 Quanto al tornare indietro a vivere, ed io e tutti gli altri sarebbero stati contentissimi; ma con questo patto, nessuno; e piuttosto che accettarlo, tutti (e così, io a me stesso) mi hanno risposto che avrebbero rinunziato a quel ritorno alla prima età, che per se medesimo, sarebbe pur tanto gradito a tutti gli uomini. Per tornare alla fanciullezza, avrebbero voluto rimettersi ciecamente alla fortuna circa la lor vita da rifarsi, e ignorarne il modo, come s'ignora quel della vita che ci resta da fare. Che vuol dir questo? Vuol dire che nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiam provato più male che bene; e che se noi ci contentiamo, ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per {l'ignoranza del futuro, e per} una illusione della speranza, senza la quale illusione {e ignoranza} non vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti. (Firenze. 1. Luglio. 1827.).

[4284,1]  È ben trista quella età nella quale l'uomo sente di non ispirar più nulla. Il gran desiderio dell'uomo, il gran mobile de' suoi atti, delle sue parole, de' suoi sguardi, de' suoi contegni fino alla vecchiezza, è il desiderio d'inspirare, di communicar qualche cosa di se agli spettatori o uditori. (Firenze. 1. Luglio. 1827.).

[4285,5]  L'amore e la stima che un letterato porta alla letteratura, o uno scienziato alla sua scienza, sono il più delle volte in ragione inversa dell'amore e della stima che il letterato o lo scienziato porta a se stesso. (Firenze. 5. Luglio. 1827.).

[4286,6]  Memorie della mia vita. Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno o mesi o anni, m'avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantochè io non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io dimorava, alle vie, alle case che io frequentava; le quali rimembranze non consistevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva importante e dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e copia di ricordanze annesse ai luoghi abitati da me, io non poteva averla se non con successo di tempo, e col tempo non mi poteva mancare. Però io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi mesi, e coll'andar del tempo mi trovava  4287 sempre divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo. (Firenze. 23. Luglio. 1827.). {{Colla rimembranza, egli mi diveniva quasi il luogo natio.}}

[4287,1]  Veramente e perfettamente compassionevoli, non si possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero più atti che gli altri, quando sono nel fior dell'età, quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono nulla, perchè se anche hanno materia di sofferire, non la sentono. Ma i giovani non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d'un altro mondo, perchè essi non hanno negli occhi che felicità. Chi patisce non è atto a compatire. Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e delle facoltà estrinseche. Ma non v'ha che il giovane (il quale non ha patito) che sia così pieno di facoltà, e che non patisca nulla. Se altro non fosse, lo stesso declinar della gioventù, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto più si sente, quanto uno è d'altronde meno sventurato. Passati i venticinque anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della decadenza del suo corpo, dell'appassimento del fiore de' giorni suoi, della fuga e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù. (Firenze. 23. Lugl. 1827.).

[4294,5]  persone la cui compagnia {e conversazione} ci piaccia durevolmente, e si usi volentieri con  4295 frequenza e lunghezza, non sono in sostanza, e non possono essere altre che quelle dalle quali giudichiamo che vaglia la pena di sforzarci e adoperarci d'essere stimate, e stimate ogni giorno più. Perciò la compagnia {e conversazione} delle donne non può esser durevolmente piacevole, se esse non sono o non si rendono tali da rendere durevolmente pregiabile e desiderabile la loro stima. (Firenze. Domenica 14. Ottobre. 1827.). {{
Fin qui si stende l'Indice di questo zibaldone di
Pensieri
cominciato agli 11 Luglio, e finito ai 14 ottobre del 1827. in Firenze.}}

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