Memorie della mia vita.
Memories of my life.
29,4 36,1 45,1 50,3 59,1.2.3 64,2 66,1 70,2 71,2 72,2.4 73,1 82,2 83,1.2 84,2 85,2 85,3 85,5 87,1 107,1.2 133,1 136,1.2 137,1 140,1 143,2 151,3 194,3 211,3 212,2 213,1 222,2 245,1 248,1 255,2 256,2 259,1 102,2 262,2261,1 263,2 271,2 277,1 280,1 280,2 280,3 285,2 294,1 302,1 306,1 309,1.2 313,1 319,1 349 366,2 368,1 369,1 460,1 463,2 472,2 479,1 481,1 503,1 512,1 514,1 527,1 528,1 532,1 612,3 614,2 618,1.2 633,1 636,1 636,2 643,2 644,1 653,2 662,1 666,1 667,1 676,3 678,1 678,3 703,43 712,1 714,1 718,1 722,1 724,2 829,1 930,1 958,1 960,2 1011,1 1028,1 1044,2 1075,2 1083,1 1103,1 1163,1 1165,2 1169,21 1176,1 1254,4 1260,2 1315,1 1319,1 1328,1 1347,1 1364,1.3 1387,2 1393,1 1401,1 1421,2 1436,1 1448,1 1450,1 1472,2 1473,1 1510,1 1540,1 1541,1 1542,1 1543,1 1545,1-1547,1 1554,2 1555,1 1572,3 1573,1 1580,1 1584,1.2 1586,1 1588,1 1589,1 1594,2 1610,2 1628,1 1648,1 1651,1 1655,1 1673,1 1688,1 1690,1 1714,1 1715,1 1719,1 1723,1 1724,1 1727,2 1741,2 1750,1 1787,3 1788,1 1800,2 1802,1 1815,1 1860,1 1863,1 1903,1.2 1913,1 1914,1 1927,2 1939,1 1961,3 1970,2 1974,1 1975,1 1987,1 1988,3 1998,1 1999,1 2032,1 2043,1 2102,1 2107,1 2132,1 2134,1 2150,2 2159,1 2171,1 2184,1 2208,2 2217,1 2228,1 2230,1 2233,1 2242,2 2258,1 2271,1 2274,1 2315,1 2342,1 2363,2 2378,1 2381,1 2390,1 2391,1 2401,3 2405,1 2415,2 2419,2 2429,1 2430 2432-3 2434,2 2436,1 2451,1 2453,1 2471,1 2473,1 2479,1 2481,2 2481,3 2484,2 2491,1 2493,1 2523,2 2526,1 Vedi Fato. See Fate. 2583,1 2596,1 2602,1 2607,1 2610,1 2628,1 2629,3 2643,1 2645,2 2661,1 2673,2 2673,3 2683,3 2684,1 2685,2 2702,1 2736,1 2796,1 2861,1 2862,1 2876,1 2883,1 2923,1.2 2936,1 2938,1 2941,1 2944,1 2965,1 2987,3 3027,2 3029,1.2 3040,1 3058,2 3061,1 3078,1 3107,1 3154,1 3158,1 3171,1 3183,1 3197,1 3265,1 3269,1 3271,1 3301,1 3318,1 3347,1 3360,1 3382,2 3410,1 3430,12 3432,1 3435,1 3440,1 3443,1 3466,1 3480,1 3488,2 3497,1 3509,1 3517,1 3520,1 3525,1.2 3526,1 3545,1 3546,1 3552,2 3553,2 3568,2 3596,1 3676,1 3684,1 3745,2 3765,1 3770-1 3821,2 3835,1 3837,1 3854,2 3876,1 3879,1 3881,4 3891,1.2 3895,1 3902,5 3922,1 3941,3 3942,2 3952,1 3956,3 3976,1 3990,2 4021,5.7 4024,5 4031,1 4037,6 4041,7 4058,1 4060,1 4062,1.5 4064,1 4070,1 4074,1 4079,1 4096,2 4103,6 4105,2 4118,2 4120,20 4138,2.3 4140,2 4141,3 4149,6 4153,5 4160,10 4164,2 4166,4 4167,12 4168,3 4169,1 4172,8.9 4174,12 4180,3.4 4183,2 4185,2 4194,1 4197,8 4198,1 4201,8.10 4204,1 4216,1 4219,1 4226,4 4228,1 4229,4 4231,2.4 4239,5 4241,3.5 4243,8 4247,1 4249,54 4254,4 4255,6 4256,1 4257,5.11 4259,5 4261,2 4266,1 4267,2.3 4268,1.2.7 4272,2 4274,2 4276 4277,1 4280,1 4282,10 4283,2 4283,8 4284,1 4285,5 4286,6 4287,1 4289,1.2 4293,2.4 4294,5[29,4] Una giovane {nubile} educata
parte in monastero parte in casa con massime da monastero, esortava la sorella
di un giovane parimente libero, a volergli bene, e le ripeteva questo più volte,
e con premura, cosa {di} ch'io informato credetti che
questo potesse essere un artifizio dell'amore che non potendo a cagione della di
lei educazione monastica operare direttamente, operava
ĩdirettamente[indirettamente] facendole
consigliare altrui un amor lecito, verso quell'oggetto, ch'ella forse si sentiva
portata ad amare con amore ch'ella avrà stimato illecito.
[36,1] Sento dal mio letto suonare (battere) l'orologio della
torre. Rimembranze di quelle notti estive nelle quali essendo fanciullo e
lasciato in letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il
coraggio sentiva battere un tale orologio. Oppure situazione trasportata alla
profondità della notte, o al mattino ancora silenzioso, e all'età
consistente.
[45,1] Soleva considerar come una pazzia quello che dicono i
Cappuccini per iscusarsi del trattar male i loro novizzi, il che fanno con gran
soddisfazione, e con intimo sentimento di piacere, cioè che anch'essi sono stati
trattati così. Ora l'esperienza mi ha mostrato che questo è un sentimento
naturale, giacch'io giunto appena {per l'età} a
svilupparmi dai legami di una penosa e strettissima educazione e tuttavia
convivendo ancora nella casa paterna con un fratello minore di parecchi anni, ma
non tanti ch'egli non fosse nel pienissimo uso di tutte le sue facoltà vizi ec.
siccome non per altro (giacchè non era punto per predilezione de' genitori) se
non perch'era mutato il genere della vita nostra che convivevamo con lui,
anch'egli partecipava non poco alla nostra larghezza, ed avea molto più comodi e
piaceruzzi che non avevamo noi in quella età, e molto meno incomodi e noie e
lacci e strettezze e gastighi, ed era perciò molto più petulante ed ardito di
noi in quell'età, perciò io ne risentiva naturalmente una verissima invidia,
cioè non di quei beni giacch'io gli avea allora, e pel tempo passato non li
potea più avere, ma mero e solo dispiacere ch'ei gli avesse, e desiderio che
fosse incomodato e tormentato come noi, ch'è la pura e legittima invidia del
pessimo genere, e io la sentiva naturalmente e senza volerla sentire, ma in
somma compresi allora (e allora appunto scrissi queste parole) che tale è la
natura umana, onde mi erano men cari quei beni ch'io aveva qualunque fossero,
perch'io li comunicava con lui, forse parendomi che non fossero più degno
termine di tanti stenti dopo che non costavano niente a un altro che si trovava
nelle mie circostanze, e con meno merito di me, ec. Quindi applico ai
Cappuccini, i quali trovando la sorte dei fratelli minori che sono i novizzi
dipendente da loro, seguono gl'impulsi di questa inclinazione che ho detto, e
non soffrono che si possano dire a se stessi essere scarso quel bene a cui son
giunti poichè altri gli acquista con assai meno travaglio di loro, nè che
abbiano a provare il dispiacere che questi tali non soffrano quegl'incomodi
ch'essi in quelle circostanze hanno sofferti.
[50,3] Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno
di qualche festa il canto notturno de' villani passeggeri. Infinità del passato
che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai
tanti avvenimenti ora passati ch'io paragonava dolorosamente con quella profonda
quiete e silenzio della notte, a
51 farmi avveder del
quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco.
[64,2] Molti sono che dalla lettura de' romanzi libri
sentimentali ec. o acquistano una falsa sensibilità non avendone, o corrompono
quella vera che avevano. Io sempre nemico mortalissimo dell'affettazione
massimamente in tutto quello che spetta agli effetti dell'animo e del cuore mi
sono ben guardato dal contrarre questa sorta d'infermità, e ho sempre cercato di
lasciar la natura al tutto libera e spontanea operatrice ec. A ogni modo mi sono
avveduto che la lettura de' libri non ha veramente prodotto un[in] me nè affetti o sentimenti che non avessi, nè anche
verun effetto di questi, che senza esse letture non avesse dovuto nascer da se:
ma pure gli ha accelerati, e fatti sviluppare più presto, in somma sapendo io
dove quel tale affetto moto sentimento ch'io provava, doveva andare a finire,
quantunque lasciassi intieramente fare alla natura, nondimeno trovando la strada
come aperta, correvo per quella più speditamente. Per esempio nell'amore la
disperazione mi portava più volte a desiderar vivamente di uccidermi: mi ci
avrebbe portato senza dubbio da se, ed io sentivo che quel desiderio veniva dal
cuore ed era nativo e {mio} proprio non tolto in
prestito, ma egualmente mi parea di sentire che quello mi sorgea così tosto
perchè dalla lettura recente del Verter, sapevo che quel genere di amore
ec. finiva così, in somma la disperazione mi portava là, ma s'io fossi stato
nuovo in queste cose, non mi sarebbe venuto in mente quel desiderio così presto,
dovendolo io come inventare, laddove (non ostante ch'io fuggissi quanto mai si
può dire ogni imitazione ec.) me lo trovava già inventato.
[66,1]
66 Io mi trovava orribilmente annoiato della vita e in
grandissimo desiderio di uccidermi, e sentii non so quale indizio di male che mi
fece temere in quel momento in cui io desiderava di morire: e immediatamente mi
posi in apprensione e ansietà per quel timore. Non ho mai con più forza sentita
la discordanza assoluta degli elementi de' quali è formata la presente
condizione umana forzata a temere per la sua vita e a proccurare in tutti i modi
di conservarla, proprio allora che l'è più grave, e che facilmente si
risolverebbe a privarsene di sua volontà (ma non per forza d'altre cagioni). E
vidi come sia vero ed evidente che (se non vogliamo supporre la natura tanto
savia e coerente in tutto il resto {che l'analogia è uno de'
fondamenti della filosofia moderna e anche della stessa nostra cognizione e
discorso,} affatto pazza e contraddittoria nella sua principale opera)
l'uomo non doveva per nessun conto accorgersi della sua assoluta e necessaria
infelicità in questa vita, ma solamente delle accidentali (come i fanciulli e le
bestie): e l'essersene accorto è contro natura, ripugna ai suoi principii
costituenti comuni anche a tutti gli altri esseri (come dire {l'amor} della vita), e turba l'ordine delle cose. (poichè spinge
infatti al suicidio la cosa più contro natura che si possa immaginare.).
[70,2] Non v'ha forse cosa tanto conducente al suicidio quanto
il disprezzo di se medesimo. Esempio di quel mio amico
71
che andò a Roma deliberato di gittarsi nel Tevere perchè
sentiva dirsi ch'era un da nulla. Esempio mio stimolatissimo ad espormi a quanti
pericoli potessi e anche uccidermi, la prima volta che mi venni in disprezzo.
Effetto dell'amor proprio che preferisce la morte alla cognizione del proprio
niente, ec. onde quanto più uno sarà egoista tanto più fortemente e
costantemente sarà spinto in questo caso ad uccidersi. E infatti l'amor della
vita è l'amore del proprio bene; ora essa non parendo più un bene, ec. ec.
[71,2] Colle persone colle quali penso di poter convenire, non
amo di parlare in compagnia, parte perchè i circostanti non conoscendomi bene
(giacchè io non soglio farmi conoscer da tutti) darebbero di me {a queste persone} sia direttamente sia indirettamente
una idea falsa; parte perchè io stesso per non entrare in dispute ch'io sfuggo a
più potere con quelli che hanno diversi principii, e per non obbligare quella
stessa tal persona ch'io stimassi, ad entrarvi, dissimulerei necessariamente, e
così cercando d'ingannar gli altri, ingannerei anche colui, il quale mi
crederebbe uno di quei tanti coi quali egli non può convenire.
[73,1]
73 Io non ho mai provato invidia nelle cose in cui mi son
creduto abile, come nella letteratura, dove anzi sono stato proclivissimo a
lodare. L'ho provata posso dire per la prima volta (e verso una persona a me
prossimissima) quando ho desiderato di valer qualche cosa in un genere in cui
capiva d'esser debolissimo. Ma bisogna che mi renda giustizia confessando che
questa invidia era molto indistinta e non al tutto e per tutto vile, e contraria
al mio carattere. Tuttavia mi dispiaceva assolutamente di sentire le fortune di
quella tal persona in quel tal genere, e raccontandomele essa, la trattava da
illusa, ec.
[82,2] Io era oltremodo annoiato della vita, sull'orlo della
vasca del mio giardino, e guardando l'acqua e curvandomici sopra con un certo
fremito, pensava: s'io mi gittassi qui dentro, immediatamente venuto a galla, mi
arrampicherei sopra quest'orlo, e sforzandomi di uscir fuori dopo aver temuto
assai di perdere questa vita, ritornato illeso, proverei qualche istante di
contento per essermi salvato, e di affetto a questa vita che ora tanto
disprezzo, e che allora mi parrebbe più pregevole. {{La tradizione intorno al salto di
Leucade poteva avere per fondamento
un'osservazione simile a questa.}}
[84,2] Nella mia somma noia e scoraggimento intiero della vita
talvolta riconfortato alquanto e alleggerito io mi metteva a piangere la sorte
umana e la miseria del mondo. Io rifletteva allora: io piango perchè sono più
lieto, e così è che allora il nulla delle cose pure mi lasciava forza
d'addolorarmi, e quando io lo sentiva maggiormente e ne era pieno, non mi
lasciava il vigore di dolermene.
[85,2] Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un
nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che
tutto è nulla, solido nulla.
[85,3] Prima di provare la felicità, o vogliamo dire
un'apparenza di felicità viva e presente, noi possiamo alimentarci delle
speranze, e se queste son forti e costanti, il tempo loro è veramente il tempo
felice dell'uomo, come nella età fra la fanciullezza e la giovanezza. Ma provata
quella felicità che ho detto, e perduta, le speranze non bastano più a
contentarci, e la infelicità dell'uomo è stabilita. Oltre che le speranze dopo
la trista esperienza fatta sono assai più difficili, ma in ogni modo la vivezza
della felicità provata, non può esser compensata dalle lusinghe e dai diletti
limitati della speranza, e l'uomo in comparazione di questa piange sempre quello
che ha perduto e che ben difficilmente può tornare, perchè il tempo delle grandi
illusioni è finito.
[85,5] Quando le sensazioni d'entusiasmo ec. che noi proviamo
non sono molto profonde, allora cerchiamo di avere un compagno con cui
comunicarle, e ci piace il poterne discorrere in quel momento, (secondo quella osservazione di Marmontel che vedendo una
bella campagna non siamo contenti se non abbiamo con chi dire: la belle
campagne!) perchè in certo modo speriamo di accrescere
86 il diletto di quel sentimento e il sentimento medesimo con quello
degli altri. Ma quando l'impressione è profonda accade tutto l'opposto perchè
temiamo, e così è, di scemarla e svaporarla partecipandola, e cavandola dal
chiuso delle nostre anime, per esporla all'aria della conversazione. Oltre
ch'ella ci riempie in modo, che occupando tutta la nostra attenzione, non ci
lascia campo di pensare ad altri, nè modo di esprimerla, volendosi a ciò una
certa attenzione che ci distrarrebbe, quando la distrazione ci è non solamente
importuna, ma impossibile.
[87,1] Quando l'uomo veramente sventurato si accorge e sente
profondamente l'impossibilità d'esser felice, e la somma e certa infelicità
dell'uomo, comincia dal divenire indifferente intorno a se stesso, come persona
che non può sperar nulla, nè perdere e soffrire più di quello ch'ella già
preveda e sappia. Ma se la sventura arriva al colmo l'indifferenza non basta,
egli perde quasi affatto l'amor di se, (ch'era già da questa indifferenza così
violato) o piuttosto lo rivolge in un modo tutto contrario al consueto degli
uomini, egli passa ad odiare la vita l'esistenza e se stesso, egli si abborre
come un nemico, e allora è quando l'aspetto di nuove sventure, o l'idea e l'atto
del suicidio gli danno una terribile e quasi barbara allegrezza, massimamente se
egli pervenga ad uccidersi essendone impedito da altrui; allora è il tempo di
quel maligno amaro e ironico sorriso
simile a quello della vendetta eseguita da un uomo crudele dopo forte lungo e
irritato desiderio, il qual sorriso è l'ultima espressione della estrema
disperazione e della somma infelicità. V.
Staël
Corinne, l. 17. c. 4. 5me édition
Paris 1812. p. 184. 185. t. 3.
[133,1] Dice Luciano
nelle Lodi della
Patria (t. 2. p. 479.), καὶ τοὺς κατὰ τὸν
τῆς ἀποδημίας χρόνον λαμπροὺς γενομένους ἢ διὰ χρημάτων κτῆσιν, ἢ διὰ
τιμῆς δόξαν
*
(vel ob honoris gloriam), ἢ διὰ παιδείας μαρτυρίαν, ἢ δι᾽
ἀνδρίας[ἀνδρείας] ἔπαινον, ἔστιν
ἰδεῖν ἐς τὴν πατρίδα {πάντας}
ἐπειγομένους
*
(properantes) ὡς οὐκ ἂν ἐν ἄλλοις βελτίοσιν
ἐπιδειξομένους τὰ αὐῶν καλά. καὶ τοσούτῳ γε μᾶλλον ἕκαστος σπεύδει
λαβέσθαι τῆς πατρίδος ὅσῳπερ ἂν ϕαίνηται μειζόνων παρ᾽ ἄλλοις
ἠξιωμένος
*
. Questo è vero, e quando anche tu viva in una
città molto maggiore della tua patria, non ostante il gran cambiamento delle
opinioni antiche a questo riguardo, desidererai anche adesso, se non altro che
la gloria o qualunque altro bene che tu hai acquistato sia ben noto, e faccia
romore particolare nella tua patria. Ma la cagione non è mica l'amor della
patria, come stima Luciano, e come
pare a prima vista. E infatti stando nella tua stessa patria, tu provi lo stesso
effetto
134 riguardo alla {tua}
famiglia, e a' tuoi più intimi conoscenti. La ragione è che noi desideriamo che
i nostri onori o pregi siano massimamente noti a coloro che ci conoscono più
intieramente, e che ne sieno testimoni quelli che sanno più per minuto le nostre
qualità, i nostri mezzi, la nostra natura, i nostri costumi ec. E come non ti
contenteresti di una fama anonima, cioè di esser celebrato senza che si sapesse
il tuo nome, perchè quella fama, ti parrebbe piuttosto generica che tua propria,
così proporzionatamente desideri ch'ella sia sulle bocche di quelli presso i
quali, conoscendoti più intimamente e particolarmente, la tua stima viene ad
essere più individuale e propria tua, perchè si applica a tutto te, che sei loro
noto minutamente. E viene anche ciò dalla inclinazione che tutti abbiamo per li
nostri simili, onde non saremmo soddisfatti di una fama acquistata appresso una
specie di animali diversa dall'umana, e così venendo per gradi, poco ci
cureremmo di esser famosi fra i Lapponi o gl'irocchesi, essendo ignoti ai popoli
colti, e non saremmo contenti di una celebrità francese o inglese, essendo
sconosciuti ai nostri italiani, e così finalmente arriveremo ai nostri propri
cittadini, e anche alla nostra famiglia. Aggiungete le tante relazioni che si
hanno o si sono avute colle persone più attenenti alla nostra, le emulazioni, le
gare, le invidie, le contrarietà avute, le amicizie fatte ec. ec. alle quali
cose tutte applichiamo il sentimento che ci cagiona la nostra gloria, o
qualunque vantaggio acquistato. In somma
135 la cagione
è l'amore {immediato} di noi stessi, e {non} della nostra patria. {{V. p. 536,
capoverso 2.}}
[137,1] Mentre io stava disgustatissimo della vita, e privo
affatto di speranza, e così desideroso della morte, che mi disperava per non
poter morire, mi giunge una lettera di quel mio amico, che m'avea sempre confortato a
sperare, e pregato a vivere, assicurandomi come uomo di somma intelligenza e
gran fama, ch'io diverrei grande, e glorioso all'italia,
nella qual lettera mi diceva di concepir troppo bene le mie sventure,
(Piacenza 18. Giugno) che se Dio mi mandava la morte
l'accettassi come un bene, e ch'egli l'augurava pronta a se ed a me per l'amore
che mi portava. Credereste che questa lettera invece di staccarmi maggiormente
dalla vita, mi riaffezionò a quello ch'io aveva già abbandonato? E ch'io
pensando alle speranze passate, e ai conforti e presagi fattimi già dal mio
amico, che ora pareva non si curasse più di vederli verificati, nè di quella
grandezza che mi aveva promessa, e rivedendo a caso le mie carte e i miei studi,
e ricordandomi la mia fanciullezza e i pensieri e i desideri e le belle viste e
le occupazioni dell'adolescenza, mi si serrava il cuore in maniera ch'io non
sapea più rinunziare alla speranza, e la morte mi spaventava? non già come
morte, ma come annullatrice di tutta la bella aspettativa passata. E pure quella
lettera non mi avea detto nulla ch'io non
138 mi dicessi
già tuttogiorno, e conveniva nè più nè meno colla mia opinione. Io trovo le
seguenti ragioni di queto[questo] effetto. 1.
che le cose che da lontano paiono tollerabili, da vicino mutano aspetto. Quella
lettera e quell'augurio mi metteva come in una specie di superstizione, come se
le cose si stringessero, e la morte veramente si avvicinasse, e quella che da
lontano m'era parsa facilissima a sopportare, anzi la sola cosa desiderabile, da
vicino mi pareva dolorosissima e formidabile.
[140,1] Il dolore o la disperazione che nasce dalle grandi
passioni e illusioni {o da qualunque sventura della
vita} non è paragonabile all'affogamento che nasce dalla certezza e
dal sentimento vivo della nullità di tutte le cose, e della impossibilità di
esser felice a questo mondo, e dalla immensità del vuoto che si sente
nell'anima. Le sventure o {d'}immaginazione o reali,
potranno anche indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma quel
dolore ha più della vita, anzi, massimamente se proviene da immaginazione e
passione, è pieno di vita, e quest'{altro dolore} ch'io
dico è tutto morte; e quella
141 medesima morte prodotta
immediatamente dalle sventure è
cosa più viva, laddove quest'altra è più sepolcrale, senz'azione senza movimento
senza calore, e quasi senza dolore, ma piuttosto con un'oppressione smisurata e
un accoramento simile a quello che deriva dalla paura degli spettri nella
fanciullezza, o dal pensiero dell'inferno. Questa condizione dell'anima è
l'effetto di somme sventure reali, e di una grand'anima piena una volta
d'immaginazione e poi spogliatane affatto, e anche di una vita così
evidentemente nulla e monotona, che renda sensibile e palpabile la vanità delle
cose, perchè senza ciò la gran varietà delle illusioni che la misericordiosa
natura ci mette innanzi tuttogiorno, impedisce questa fatale e sensibile
evidenza. E perciò non ostante che questa condizione dell'anima sia
ragionevolissima anzi la sola ragionevole, con tutto ciò essendo contrarissima
anzi la più dirittamente contraria alla natura, non si sa se non di pochi che
l'abbiano provata, come del Tasso.
[143,2] Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo
stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la
fantasia, e i miei versi erano pieni d'immagini, e delle mie letture poetiche io
cercava sempre di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì
sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva
ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non avea che un barlume, e
questo in grande, e con quella solita illusione che {noi} ci facciamo, cioè che nel mondo e nella vita ci debba esser
sempre un'eccezione a favor nostro. Sono stato sempre sventurato, ma le mie
sventure d'allora erano piene di vita, e mi disperavano perchè mi pareva (non
veramente alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che m'impedissero la
felicità, della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato era
allora in tutto e per tutto come quello degli antichi.
144 Ben è vero che anche allora, quando le sventure mi stringevano e mi
travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia, come
nell'ultimo canto della Cantica. La mutazione totale in me, e il passaggio dallo
stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819. dove
privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura,
cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai
ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (in questi
pensieri ho scritto in un anno il doppio quasi di quello che avea scritto in un
anno e mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla nostra natura, a
differenza dei pensieri passati, quasi tutti di letteratura), a divenir filosofo
di professione (di poeta ch'io era), a sentire l'infelicità certa del mondo, in
luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che
tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora
l'immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantunque la facoltà
dell'invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi quasi
cominciasse, verteva però principalmente, o sopra affari di prosa, o sopra
poesie sentimentali. E s'io mi metteva a far versi, le immagini mi venivano a
sommo stento, anzi la fantasia era quasi disseccata (anche astraendo dalla
poesia, cioè nella contemplazione delle belle scene naturali ec. come ora ch'io
ci resto duro come una pietra); bensì quei versi traboccavano di sentimento.
(1. Luglio 1820). {{Così si può ben dire che
in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se
non i fanciulli, o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono
altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando
perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla
ragione e al vero, in somma filosofo.}}
[151,3] Al levarsi da letto, parte pel vigore riacquistato col
riposo, parte per la dimenticanza dei mali avuta nel sonno, parte per una certa
rinnuovazione della vita, cagionata da quella specie d'interrompimento datole,
tu ti senti ordinariamente o più lieto o meno tristo, di quando ti coricasti.
Nella mia vita infelicissima l'ora meno trista è quella
152 del levarmi. Le speranze è[e] le
illusioni ripigliano per pochi momenti un certo corpo, ed io chiamo quell'ora la
gioventù della giornata per questa similitudine che ha colla gioventù della
vita. E anche riguardo alla stessa giornata, si suol sempre sperare di passarla
meglio della precedente. E la sera che ti trovi fallito di questa speranza e
disingannato, si può chiamare la vecchiezza della giornata. (4. Luglio.
1820.). {{V. p. 193. capoverso
1.}}
[194,3] Oltre che il virtuoso è per l'ordinario sconosciuto
{e non voluto conoscere e confessare} dalla
moltitudine che è formata dai tristi, tale è la misera condizione dell'uomo in
società, e dell'intrigo delle circostanze, ch'egli è sovente sconosciuto e
pigliato per tutt'altro, anche dagli altri pochissimi virtuosi. Io mi sono
abbattuto a dovere stimare ed amare due persone di rettissimo cuore, che per
alcuni incontri datisi tra loro, si stimavano scambievolmente con intima
persuasione, pessimi di carattere e di cuore. Tant'è, noi giudichiamo {del carattere} degli uomini dal modo nel quale si sono
portati verso noi o perchè credessero di dovere, e anche dovessero portarsi
così, o arbitrariamente, o per forza di congiunture, o anche per colpa. E il
195 più scellerato del mondo, se non ci avrà nociuto, e
per qualunque motivo, avrà avuto occasione di beneficarci, anche semplicemente
di trattarci bene, di mostrarcisi affabile manieroso rispettoso ec. basterà
questo perch'egli nell'animo nostro abbia un posto non cattivo, ed anche di uomo
onesto. E quando anche l'intelletto ripugni, il cuore e la fantasia ne terranno
sempre questo concetto. Questa dovrebb'essere regola generale per qualunque
senta dir bene o male di chicchessia. Se quegli che parla, parla per altrui
relazione, o se parla di mala fede può avere altri motivi. Ma tolti questi due
casi, ordinariamente nella vita privata, tu devi supporre che quegli che ti
parla ha ricevuto bene o male da quella {tal} persona,
e da tutto il suo discorso non credere di restare informato se non di questo.
(31. Luglio 1820.).
[211,3] A proposito di quello che ho detto p. 152. pens. ult. notate che
l'immaginazione dei fanciulli ha ordinariamente tutte due queste qualità, ma
l'una, cioè la fecondità, in maggior grado. E perciò come sono facili a fissarsi
in un'idea, così anche a distrarsi, nel mezzo di un discorso, dello studio, di
qualsivoglia occupazione onde si suol dire che i fanciulli non sono buoni allo
studio {non solo pel poco intelletto, ma} perchè son
pieni di distrazioni.
212 Giacchè la loro fantasia ha
gran facilità di staccarsi subito da un oggetto per attaccarsi a un altro.
Eccetto alcuni fanciulli d'immaginazione destinata a grandi cose, e a fargli
infelici quando saranno maturi, la profondità della quale li fissa fortemente in
questa o in quella idea, ordinariamente paurosa o dolorosa, e li tormenta nella
stessa fanciullezza, com'è accaduto a me. Ed è notabile come questa profondità
della immaginazione li renda gelosissimi del metodo e del consueto, fuor del
quale non trovano pace, spaventandosi dello straordinario, e contando per
disgrazia insopportabile l'aver tralasciato di fare una cosa loro solita ec. Es.
di Pietrino, e
mio. Del resto l'effetto della immaginazione dei fanciulli qual sia, v. p. 172. fine.
[212,2] La soprabbondanza della immaginazione è quella che
tormenta i fanciulli detti qui sopra, e perciò in luogo di cercarla nello
straordinario, cercano di spegnerla o addormentarla col metodo. Cosa che accade
anche agli uomini. V. il carattere di Lord Nelvil nella Corinna.
(16. Agosto 1820.).
[213,1] Le illusioni per quanto sieno illanguidite e
smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora nel mondo, e compongono la
massima parte della nostra vita. E non basta conoscer tutto per perderle,
ancorchè sapute vane. E perdute una volta, nè si perdono in modo che non ne
resti
214 una radice vigorosissima, e continuando a
vivere, tornano a rifiorire in dispetto di tutta l'esperienza, e certezza
acquistata. Io ho veduto persone savissime, espertissime, piene di cognizioni di
sapere e di filosofia, infelicissime, perdere tutte le illusioni, e desiderar la
morte come unico bene, e augurarla {ancora} come tale,
agli amici loro: poco dopo, bensì svogliatamente, ma tuttavia riconciliarsi
colla vita, formare progetti sul futuro, impegnarsi per alcuni vantaggi
temporali di quegli stessi loro amici ec. {Nè poteva più
essere per ignoranza o non persuasione certa e sperimentale della nullità
delle cose.} Ed a me pure è avvenuto lo stesso {cento volte,} di disperarmi propriamente per non poter morire, e poi
riprendere i soliti disegni e castelli in aria intorno alla vita futura, e anche
un poco di allegria passeggera. E quella disperazione e quel ritorno, non
avevano cagion sufficiente di alternarsi, giacchè la disperazione era prodotta
da cause che duravano quasi intieramente nel tempo ch'io riprendeva le mie
illusioni. Tuttavia qualche piccolo motivo di consolarmi, bastava all'effetto,
ed è cosa indubitata che le illusioni
svaniscono nel tempo della sventura, {+(e perciò è verissimo, e l'ho provato anch'io, che chi
non è stato mai sventurato, non sa nulla. Io sapeva, perchè oggidì non si
può non sapere, ma quasi come non sapessi, e così mi sarei regolato nella
vita.)} e ritornano dopo che questa è passata, o mitigata dal tempo e
dall'assuefazione. Ritornano con più o meno forza secondo le circostanze, il
carattere, il temperamento corporale, e le qualità spirituali {tanto} ingenite {come}
acquisite. Quasi tutti gli scrittori di vero e squisito sentimentale, dipingendo
la disperazione e lo scoraggiamento totale della vita, hanno cavato i colori dal
proprio cuore, e dipinto uno stato nel quale
215 essi
stessi appresso a poco si sono trovati. Ebbene? con tutta la loro disperazione
passata, con tutto che scrivendo sentissero vivamente la natura e la forza di
quelle acerbe verità e passioni che esprimevano, anzi dovessero proccurarsene
attualmente una intiera persuasione ec. per potere rappresentare {efficacemente} quello stato dell'uomo, e per conseguenza
sentissero ed avessero quasi per le mani il nulla delle cose, tuttavia si
prevalevano del sentimento stesso di questo nulla per mendicar gloria, e quanto
più era vivo in loro il sentimento della vanità delle illusioni, tanto più si
prefiggevano e speravano di conseguire un fine illusorio, e col desiderio della
morte vivamente sentito, e vivamente espresso, {non}
cercavano {altro che} di proccurarsi alcuni piaceri
della vita. E così tutti i filosofi che scrivono e trattano le miserabili verità
della nostra natura e ch'essendo privi d'illusioni in fondo, non cercano poi
altro veramente col loro libro che di crearsi, e godersi alcuni illusorii
vantaggi della vita {(v.
Cic., pro
Archia. c. 11.).} Tant'è: la natura è così
smisuratamente più forte della ragione, che ancorchè depressa e indebolita oltre
a ogni credere, pure gli resta abbastanza per vincere quella sua nemica, e
questo negli stessi seguaci suoi, e in quello stesso momento in cui la predicano
e la divulgano; anzi con questo stesso predicare e divulgar {la ragione contro la natura,} la danno vinta alla natura sopra la
ragione.
216 L'uomo non vive d'altro che di religione o
d'illusioni. Questa è proposizione esatta e incontrastabile: Tolta la religione
e le illusioni radicalmente, ogni uomo, anzi ogni fanciullo alla prima facoltà
di ragionare (giacchè i fanciulli massimamente non vivono d'altro che
d'illusioni) si ucciderebbe infallibilmente di propria mano, e la razza nostra
sarebbe rimasta spenta nel suo nascere per necessità ingenita, e sostanziale. Ma
le illusioni, come ho detto, durano ancora a dispetto della ragione e del
sapere. È da sperare che durino anche in progresso: ma certo non c'è più dritta
strada a quello che ho detto, di questa presente condizione degli uomini,
dell'incremento {e divulgamento} della filosofia da una
parte, la quale ci va assottigliando e disperdendo tutto quel poco che ci
rimane; e dall'altra parte della mancanza positiva di quasi tutti gli oggetti
d'illusione, e della mortificazione reale, uniformità, inattività, {nullità} ec. di tutta la vita. Le quali cose se
ridurranno finalmente gli uomini a perder tutte le illusioni, e le dimenticanze,
a perderle per sempre, ed avere avanti gli occhi continuamente e senza
intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno altro che
le ossa, come di altri animali di cui si parlò nel secolo addietro. Tanto è
possibile che l'uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più
ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e
fruttifichi. Sogni
217 e visioni. A riparlarci di qui a
cent'anni. Non abbiamo ancora esempio nelle passate età, dei progressi di un
incivilimento smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non torneremo
indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se
avranno posteri. (18-20. Agosto 1820.).
[222,2] La lettura {per l'arte dello
scrivere} è come l'esperienza per l'arte di viver nel mondo, e di
conoscer gli uomini e le cose. Distendete e applicate questa osservazione,
specialmente a quello che è avvenuto a voi stesso nello studio della lingua e
dello stile, e vedrete che la lettura ha prodotto in voi lo stesso effetto
dell'esperienza rispetto al mondo. (22. Agosto 1820.).
[245,1] L'irresoluzione è peggio della disperazione. Questa
massima mi venne profferita nettamente e letteralmente in sogno l'altro ieri a
notte, in occasione che mio fratello mi pareva deliberato per disperazione
di farsi Cappuccino, e io ricusava di allegargli quelle ragioni che gli
avrebbero sospeso l'animo, adducendo la detta massima. (14. Settbre
1820.).
[248,1] L'occupazione {della
società,} come quella che offre la società francese, riempie veramente
la vita, la riempie dico materialmente, ma non lascia così poco vuoto nell'animo
come la occupazione destinata a provvedere ai propri bisogni, ch'era quella
dell'uomo primitivo. E la sera, l'uomo che ha passata la giornata tutta intera
nel mondo il più vivo, vario, e pieno, {e ne' divertimenti
anche meno noiosi, e che si trova anche senza cure e dispiaceri,}
ripensando alla giornata passata, e considerando la futura, non si trova di gran
lunga così contento e pieno, come colui che considera i bisogni ai quali ha
provveduto, e fa i suoi disegni sopra quelli a' quali provvederà l'indomani.
Qualche cosa di serio è necessario che formi la base della nostra occupazione
per condurci ad una certa felicità (più o meno serio, secondo gl'individui), e
se bene tutte le cose sono ugualmente importanti per se stesse, e il nostro fine
sia sempre il piacere, nondimeno il puro spasso non è mai capace di soddisfarci.
La cagione è che ci bisogna un fine dell'occupazione, uno scopo al quale mirare,
acciocchè al piacere dell'occupazione si aggiunga quello della speranza, che
bene spesso forma essa sola il piacere dell'occupazione V. gli altri miei
pensieri in questo proposito pp. 172-73.
[255,2] L'uomo superiore, oggidì colla cognizione e sperienza
del mondo, si può dire, benchè sembri un paradosso, che si avvezzi a pregiare
piuttosto che a dispregiare. Dico riguardo alle cose reali. Perchè
256 mentre egli è inesperto del mondo, i piccoli pregi,
i principii di virtù, le piccole bellezze o bontà o grandezze in qualsivoglia
genere di cose, gli paiono dispregevoli, paragonando sempre gli altri a se
stesso, com'è costume degli uomini, o paragonando le cose alla sua immaginativa.
Ma colla sperienza, trovandosi sempre in mezzo ad eccessive piccolezze,
malvagità, sciocchezze, bruttezze ec. appoco appoco si avvezza a stimare quei
piccoli pregi che prima spregiava, a contentarsi del poco, a rinunziare alla
speranza dell'ottimo o del buono, e a lasciar l'abitudine di misurar gli uomini
e le cose con se stesso, e colla immaginazion sua. Laonde siccome prima egli non
istimava se non le cose lontane, le quali, in quel modo in cui egli le
concepiva, non erano reali, si può dire che il numero delle cose reali ch'egli
stima vada sempre crescendo, se bene diminuisca la {misura
della} stima assoluta, e il numero assoluto delle cose ch'egli
stimava, perchè sono molte più quelle cose ch'egli pregiava lontane, e disprezza
vicine, di quelle che da principio noncurava, ed ora è necessitato a pregiare.
(30. 7.bre 1820.).
[256,2] Una casa pensile in aria sospesa con funi a una
stella. (1. Ottobre 1820.).
[259,1] Laddove insomma l'opinione comune che par vera a prima
vista, considera l'entusiasmo come padre dell'invenzione e concezione, e la
calma come necessaria alla buona esecuzione; io dico che l'entusiasmo nuoce o
piuttosto impedisce affatto l'invenzione (la quale dev'essere determinata, e
l'entusiasmo è lontanissimo da qualunque sorta di determinazione), e piuttosto
giova all'esecuzione, riscaldando il poeta o l'artefice, avvivando il suo stile,
e aiutandolo sommamente nella formazione, disposizione, ec. delle parti, le
quali cose tutte facilmente riescon fredde e monotone quando l'autore ha perduto
i primi sproni dell'originalità. (3. 8bre 1820.).
[102,2] Ci sono tre maniere di vedere le cose. L'una e la più
beata, di quelle[quelli] per li quali esse
hanno anche più spirito che corpo, e voglio dire degli
103 uomini di genio e sensibili, ai quali non c'è cosa che non parli
all'immaginazione o al cuore, e che trovano da per tutto materia di sublimarsi e
di sentire e di vivere, e un rapporto continuo delle cose coll'infinito e
coll'uomo, e una vita indefinibile e vaga, in somma di quelli che considerano il
tutto sotto un aspetto infinito e in relazione cogli slanci dell'animo loro.
L'altra e la più comune di quelli per cui le cose hanno corpo senza aver molto
spirito, e voglio dire degli uomini volgari (volgari sotto il rapporto
dell'immaginazione e del sentimento, e non riguardo a tutto il resto, p. e. alla
scienza, alla politica ec. ec.) che senza essere sublimati da nessuna cosa,
trovano però in tutte una realtà, e le considerano quali elle appariscono, e
sono stimate comunemente e in natura, e secondo questo si regolano. Questa è la
maniera naturale, e la più durevolmente felice, che senza condurre a nessuna
grandezza, e senza dar gran risalto al sentimento dell'esistenza, riempie però
la vita, di una pienezza non sentita, ma sempre uguale e uniforme, e conduce per
una strada piana e in relazione colle circostanze dalla nascita al sepolcro. La
terza e[è] la sola funesta e miserabile, e
tuttavia la sola vera, di quelli per cui le cose non hanno nè spirito nè corpo,
ma son tutte vane e senza sostanza, e voglio dire dei filosofi e degli uomini
per lo più di sentimento che dopo l'esperienza e la lugubre cognizione delle
cose, dalla prima maniera passano di salto a quest'ultima senza toccare la
seconda, e trovano e sentono da per tutto il nulla e il vuoto, e la vanità delle
cure umane e dei desideri e delle speranze e di tutte le illusioni inerenti alla
vita per modo che senza esse non è vita. E qui voglio notare come la ragione
umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel di cui
perfezionamento facciamo consistere quello dell'uomo, sia miserabile e incapace
di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa
saviezza, che par tutta consistere nell'uso intero della ragione. Perchè chi si
fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo e
certissimo delle cose, in maniera
104 che la successone
e varietà degli oggetti {e dei casi} non avesse forza
di distorlo da questo pensiero, sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo,
giacchè volendosi governare secondo questo incontrastabile principio ognuno vede
quali sarebbero le sue operazioni. E pure è certissimo che tutto quello che noi
facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale
è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima
pazzia, ma la pazzia la più ragionevole della terra, anzi la sola cosa
ragionevole, e la sola intera e continua saviezza,
dove le altre non sono se non per intervalli. Da ciò si vede come la saviezza
comunemente intesa, e che possa giovare in questa vita, sia più vicina alla
natura che alla ragione, {stando fra ambedue e non} mai
come si dice volgarmente con questa sola, e come essa ragione pura e senza
mescolanza, sia fonte {immediata e per sua natura} di
assoluta e necessaria pazzia.
[261,1] Osserverò che il detto fenomeno occorre molto più
difficilmente nelle poesie tetre e nere del Settentrione, massimamente moderne,
come in quelle di Lord Byron, che nelle
meridionali, le quali conservano una certa luce negli argomenti più bui,
dolorosi e disperanti; e la lettura del Petrarca, p. e. de' trionfi, e della conferenza di Achille
e di Priamo, dirò ancora di
Verter, produce questo effetto molto più che il Giaurro, o il
Corsaro ec. non ostante che {trattino
e} dimostrino la stessa infelicità degli uomini, e vanità delle cose.
(4. 8bre 1820.). Io so che letto Verter mi sono
trovato caldissimo nella mia disperazione letto Lord Byron, freddissimo, e senza entusiasmo nessuno;
molto meno consolazione.
262 E certo Lord Byron non mi rese niente più sensibile alla mia
disperazione: piuttosto mi avrebbe fatto più insensibile e marmoreo.
[263,2] Una cosa stimabile non può essere apprezzata
degnamente se non da quelli che ne conoscono il valore. Perciò la rarità non
porta sempre con se la stima della cosa, anzi spessissimo l'impedisce. Un uomo
di grande ingegno fra gl'ignoranti o è disprezzato, o apprezzato
senz'ammirazione senza entusiasmo senza nessuno di quegli affetti che paiono
conseguenze infallibili dello straordinario, e che debbano crescere tanto più
quanto la cosa è più straordinaria relativamente. Il conto che se ne fa, è come
di uno che abbia un utensile migliore degli altri, i quali talvolta lo chiedono
in prestito o se ne servono presso chi lo possiede, e non perciò stimano che
quell'uomo
264 sia una gran cosa, o superiore agli altri
a cagione di quel piccolo vantaggio compensabile e paragonabile con tanti altri.
Così le scritture di buon gusto in un secolo o paese corrotto o ignorante, così
la sensibilità massimamente e l'entusiasmo, il quale anzi dalle persone
ordinarie sarà stimato piuttosto un un μειονέκτημα, che un πλεονέκτημα, e deriso
come pazzia. Così si è veduto che eccetto i pregi sensibili, o de' quali tutti
sanno giudicare naturalmente, tutti gli altri sono stati assai meno stimati nei
secoli e nei luoghi dove sono stati più rari. Ed è cosa certa che un grande
ingegno non può essere intimamente conosciuto, e però degnamente apprezzato e
ammirato se non da un altro grande ingegno; e così le sue opere; così tutto
quello che spetta a discipline, arti, abilità particolari, onde p. e. un
grand'uomo di guerra non riscuoterà degna ammirazione che da un altro grand'uomo
dello stesso mestiere. (5. 8.bre 1820.). {{V. p.
273.}}
[271,2] Coloro che dicono per consolare una persona priva di
qualche considerabile vantaggio della vita: non ti affliggere; assicurati che
sono pure illusioni: parlano scioccamente. Perchè quegli potrà e dovrà
rispondere: ma tutti i piaceri sono illusioni o consistono nell'illusione, e
di queste illusioni si forma e si compone la nostra vita. Ora se io non
posso averne, che piacere mi resta? e perchè vivo? Nella stessa maniera
dico io delle antiche istituzioni ec. tendenti a fomentare l'entusiasmo, le
illusioni, il coraggio, l'attività, il movimento, la vita. Erano illusioni, ma
toglietele,
272 come son tolte. Che piacere rimane? e la
vita che cosa diventa? Nella stessa maniera dico: la virtù, la generosità, la
sensibilità, la corrispondenza vera in amore, la fedeltà, la costanza, la
giustizia, la magnanimità ec. umanamente parlando sono enti immaginari. E
tuttavia l'uomo sensibile se ne trovasse frequentemente nel mondo, sarebbe meno
infelice, e se il mondo andasse più dietro a questi enti immaginari (astraendo
ancora da una vita futura), sarebbe molto {meno}
infelice. Seguirebbe delle illusioni, perchè nessuna cosa è capace di riempier
l'animo umano, ma non è meglio una vita con molti piaceri illusorii, che senza
nessun piacere? non si vivrebbe meglio se nel mondo si trovassero queste
illusioni più realizzate, e se l'uomo di cuore non si dovesse persuadere non
solo che sono enti immaginari, ma che nel mondo non si trovano più neanche così
immaginari come sono? {in maniera che manchi affatto il
pascolo e il sostegno all'illusione.} E dall'altro lato, non c'è
maggiore illusione ovvero apparenza di piacere che quello che deriva dal bello
dal tenero dal grande dal sublime dall'onesto. Laonde quanto più queste cose
abbondassero, sebbene illusorie, tanto meno l'uomo sarebbe infelice. (11.
8.bre 1820.). {{V. p. 338. capoverso
2.}}
[277,1] Quel vecchio che non ha presente nè futuro, non è
privo perciò di vita. Se non è stato mai uomo, non ha bisogno se non di quel
nonnulla che gli somministra la sua situazione, e tutto gli basta per vivere. Se
è stato uomo, ha un passato, e vive in quello. La mancanza del presente, non è
la cosa più grave per gli uomini, anzi atteso la nullità di tutto quello che si
vede nella realtà e da vicino, si può dire che il presente sia nullo per tutti,
e che ogni uomo manchi del
presente. Il vuoto del futuro non è gran cosa per lui, 1. perch'è già sazio
della vita, che ha già provata, gustata, adoperata ec. 2. perchè i suoi
desideri, passioni, affetti, sentimenti, sono rintuzzati e
278 intorpiditi, e ristretti,
e non esigono più grandi beni, piaceri, movimenti, azioni presenti, nè grandi
speranze, gran vita attuale o avvenire: 3. perchè l'estensione materiale del suo
futuro è piccola, e non lo può spaventare gran fatto il vuoto di un piccolo
spazio. Ma il giovane senza presente nè futuro, cioè senza nè beni, attività,
piaceri, vita ec. nè speranze e prospettiva dell'avvenire, dev'essere
infelicissimo e disperato, mancare affatto di vita, e spaventarsi e inorridire
della sua sorte e del futuro. 1. Il giovane non ha passato. Tutto quello che ne
ha, {non} serve altro che ad attristarlo e stringergli
il cuore. Le rimembranze della fanciullezza e della prima adolescenza, dei
godimenti di quell'età perduti irreparabilmente, delle speranze fiorite, delle
immaginazioni ridenti, dei disegni aerei di prosperità futura, di azioni, di
vita, di gloria, di piacere, tutto svanito. 2. I desideri e le passioni sue,
sono ardentissime ed esigentissime. Non basta il poco; hanno bisogno di
moltissimo. Quanto è maggiore la sua vita interna, tanto maggiore è il bisogno e
l'estensione e intensità ec. della vita esterna che si desidera. E mancando
questa, quanto maggiore è la vita interna, tanto maggiore è il senso di
279 morte, di nullità, di noia ch'egli prova: insomma
tanto meno egli vive in tali circostanze, quanto la sua vita interiore è più
energica. 3. Il giovane non ha provato nè veduto. Non può esser sazio. I suoi
desideri e passioni sono più ardenti e bisognosi, come ho detto, non solo
assolutamente per l'età, ma anche materialmente, per non avere avuto ancora di
che cibarsi e riempiersi. Non può esser disingannato nell'intimo fondo e nella
natura, quando anche lo sia in tutta l'estensione della sua ragione. 4. Il suo
futuro è materialmente lunghissimo, e l'immensità dello spazio vuoto che resta a
percorrere, fa orrore, massime paragonandolo con quel poco che ha avuto tanta
pena a passare. Il giovane a questa considerazione si spaventa e dispera {eccessivamente,} sembrandogli quel futuro più lungo e
terribile di un'eternità. Di più tutta la sua vita consiste nel futuro. L'età
passata non è stata altro che un'introduzione alla vita. Dunque egli è nato
senza dover vivere. Il giovane prova disperazioni mortali, considerando che una
sola volta deve passare per questo mondo, e che questa volta non godrà della
vita, non vivrà, {avrà perduto e gli sarà inutile la sua
unica esistenza.} Ogn'istante che passa della sua gioventù in questa
guisa, gli sembra
280 una perdita irreparabile fatta
sopra un'età che per lui non può più tornare. (16. 8.bre
1820.).
[280,1] Il suo divertimento era di passeggiare contando le
stelle (e simili). (16. 8.bre 1820.).
[280,2] Anche la mancanza {sola} del
presente è più dolorosa al giovine che a qualunque altro. Le illusioni in lui
sono più vive, e perciò le speranze più capaci di pascerlo. Ma l'ardor giovanile
non sopporta la mancanza intera di una vita presente, non è soddisfatto del solo
vivere nel futuro, ma ha bisogno di un'energia attuale, e la monotonia e
l'inattività presente gli è di una pena di un peso di una noia maggiore che in
qualunque altra età, perchè l'assuefazione alleggerisce qualunque male, e l'uomo
col lungo uso si può assuefare anche all'intera e perfetta noia, e trovarla
molto meno insoffribile che da principio. L'ho provato io, che della noia da
principio mi disperava, poi questa crescendo in luogo di scemare, tuttavia
l'assuefazione me la rendeva appoco appoco meno spaventosa, e più suscettibile
di pazienza. La qual pazienza della noia in me divenne finalmente affatto
eroica. {Esempio de' carcerati, i quali talvolta si sono
anche affezionati a quella vita.}
[280,3] L'abito dell'eroismo può essere in un corpo debole, ma
l'atto difficilmente, e non senza un grande
281 sforzo,
nè senza ripugnanza, e quasi contro natura. E perciò vediamo moltissimi che per
abito sono tutt'altro che eroi, far non di rado azioni eroiche; e viceversa.
Anzi si può dire che gli uomini d'abito di principii e d'animo eroico, lo sono
di rado nel fatto; e gli uomini eroici nel fatto, lo sono di rado nell'abito nei
sentimenti e nell'animo. {Estendete queste osservazioni
all'entusiasmo.}
[285,2] Si può applicare alla poesia (come anche anche alle
cose che hanno relazione o affinità con lei) quello che ho detto altrove pp. 14-21
[p. 125,1]
p. 215: che alle grandi azioni è necessario un misto di persuasione e
di passione o illusione. Così la poesia tanto riguardo al maraviglioso, quanto
alla commozione o impulso di qualunque genere, ha bisogno di un falso che pur
possa persuadere, non solo secondo le regole ordinarie della verisimiglianza, ma
anche rispetto ad un certo tal quale convincimento che la cosa stia o possa
stare effettivamente così. Perciò l'antica mitologia, o
286 qualunque altra invenzione poetica che la somigli, ha tutto il
necessario dalla parte dell'illusione, passione ec. ma mancando affatto dalla
parte della persuasione, non può più produrre gli effetti di una volta, e
massime negli argomenti moderni, perchè negli antichi, l'abitudine ci proccura
una tal quale persuasione, principalmente quando anche il poeta sia antico,
perchè immedesimatasi in noi l'idea di quei fatti, di quei tempi, di quelle
poesie ec. con quelle finzioni, queste ci paiono naturali e quasi ci persuadono,
perchè l'assuefazione c'impedisce quasi di distinguerle da quei poeti, tempi,
avvenimenti ec. e così machinalmente ci lasciamo persuadere quanto basta
all'effetto, che la cosa potesse star così. Ma applicate nuovamente le stesse o
altre tali finzioni, sia ad altri argomenti antichi, sia massimamente a soggetti
moderni o de' bassi tempi ec. ci troviamo sempre un non so che di arido e di
falso, perchè manca la tal quale persuasione, quando anche la parte del bello
immaginario, maraviglioso ec. sia perfetta. Ed anche per questa parte il Tasso non produrrà mai l'effetto dei
poeti antichi,
287 sebbene il suo favoloso e
maraviglioso è tratto dalla religion Cristiana. Ma oggidì in tanta propagazione
e incremento di lumi, nessuna finzione o nuova nuovamente applicata, trova il
menomo luogo nell'intelletto, mancando la detta assuefazione, la quale supplisce
al resto ne' poeti antichi. E questa è una gran ragione per cui la poesia oggidì
non può più produrre quei grandi effetti nè riguardo alla maraviglia e al
diletto, nè riguardo all'eccitamento degli animi, delle passioni ec. all'impulso
a grandi azioni ec. Tanto più che la religion cristiana non si presta alla
finzione persuadibile, come la pagana. A ogni modo è certo appunto per le
sopraddette osservazioni, che la pagana oggidì non potendo aver più effetto, il
poeta deve appigliarsi alla cristiana; e che questa maneggiata con vero
giudizio, {scelta,} e abilità, può tanto per la
maraviglia che per gli affetti {ec.} produrre
impressioni sufficienti e notabili. (19. 8.bre 1820.).
[294,1] Le cagioni dell'amore dei vecchi alla vita e del timor
della morte, i quali par che crescano in proporzione che la vita è meno amabile,
e che la morte può
295 privarci di minore spazio di
tempo, e di minori godimenti, anzi di maggiori mali (fenomeno discusso
ultimamente dai filosofi tedeschi che ne hanno recato mille ragioni fuorchè le
vere: v. lo Spettatore di
Milano), sono, oltre quella che ho recata,
mi pare, negli abbozzi della Vita di Lorenzo Sarno, queste altre.
1. Che coll'ardore e la forza della vitalità e dell'esistenza, si estingue o
scema il coraggio, e quindi a proporzione che l'esistenza è meno gagliarda,
l'uomo è meno forte per poterla disprezzare, e incontrarne o considerarne la
perdita. Anche i giovani più facili a disprezzar la vita, coraggiosissimi nelle
battaglie e in ogni rischio, sono bene spesso paurosissimi nelle malattie, tanto
per la detta cagione della minor forza del corpo, e quindi dell'animo, quanto
perchè non possono opporre alla morte quell'irriflessione, quel movimento,
quell'energia, che gl'impedisce di fissarla nel viso, in mezzo ai rischi attivi.
2. Che molte cose vedute da lungi paiono facilissime ad incontrare, e niente
spaventose, e in vicinanza riescono terribili, e poi ci si trovano mille
difficoltà, mille crepacuori; affezioni, progetti ec. che da lontano pareano
facili ad abbandonare
296 per forza di ardore di
entusiasmo, o di passione, disperazione ec. e da vicino rincrescono
infinitamente quando la passione è sparita, e le cose si considerano
quietamente. 3. Che la natura ha posto negli esseri viventi sommo amor della
vita, e quindi odio della morte, e queste passioni ha voluto e fatto che fossero
cieche, e non dipendessero dal calcolo delle utilità, della maggiore o minor
perdita ec. Quindi è naturale che gli effetti di questo amore e di quest'odio
crescano in proporzione che la cosa amata è più in pericolo, e più bisognosa di
cure per conservarla, e la cosa odiata più vicina. 4. Che i beni si disprezzano
quando si possiedono sicuramente, e si apprezzano quando sono perduti, o si
corre pericolo o si è in procinto di perderli. E come quel disprezzo era
maggiore del giusto, così anche questa stima suol eccedere i limiti in
qualsivoglia cosa. Ora il giovane, per quanto è concesso all'uomo, è il vero
possessor della vita; il vecchio la possiede come precariamente. 5. Che la
felicità o infelicità non si misura dall'esterno ma dall'interno. Il vecchio per
l'assuefazione è meno suscettibile
297 di mali, e meno
sensibile a quelli che gli avvengono; per l'estinzione dell'impeto e
dell'inquietudine giovanile, meno bisognoso dei beni che gli mancano, meno vivo
nei desideri, più facile a soffrir la privazione di ciò che desidera, e a
desiderar cose dove possa agevolmente esser soddisfatto. Laonde la vita del
vecchio non è più infelice di quella del giovane, anzi forse più felice secondo
la sesta considerazione. 6. Che la vita metodica, tranquilla e inattiva non è
penosa ma piacevole, quando s'accordi col metodo, calma, e inattività
dell'individuo. Certo il giovane muore in una tal condizione, ma la condizione
ch'egli desidera, specialmente nello stato presente del mondo, è difficilissima
o impossibile a conseguire. Egli non trova altro che il nulla da cui fugge; il
vecchio lo desidera, lo cerca, lo trova come tutti gli altri di qualunque età, e
a differenza delle altre età, se ne compiace, o almeno non se ne duole, o certo
lo soffre con pazienza, e quando l'uomo è perfettamente paziente, allora non può
non amar la vita, perchè questa è amabile per natura. Aggiungete la tempesta
delle passioni, dalla
298 dalla quale il vecchio è
libero, la tempesta del mondo, della società, degli affari, delle azioni, degli
stessi diletti, quella tempesta nella quale il giovane, anche dopo averla
sospirata in mezzo alla noia, sospira il riposo e la calma. Anzi è certo che lo stato naturale è il riposo e la quiete, e
che l'uomo anche più ardente, più bisognoso di energia, tende alla calma
{e all'inazione}
continuamente in quasi tutte le sue operazioni. Osservate ancora che la
vita metodica era quella dell'uomo primitivo, e la più felice vita, non sociale,
ma naturale. Osservate anche oggidì l'impressione che fa l'aspetto di essa vita
rurale o domestica, nelle persone più dissipate, o più occupate, e com'ella par
loro la più felice che si possa menare. È vero che ella ordinariamente è tale
quando consiste in un metodo di occupazioni, e tale era nei primitivi, e nei
selvaggi sempre occupati ai loro bisogni, o ad un riposo figlio e padre della
fatica e dell'azione. Ma in ogni modo l'uomo avvezzandosi anche alla pura
inazione, ci si affeziona talmente che l'attività gli riuscirebbe
299 penosissima. Si vedono bene spesso de' carcerati
ingrassare e prosperare, ed esser pieni di allegria, nella stessa aspettazione
di una sentenza che decida della loro vita. Dove anzi l'imminenza del male,
accresce il piacere del presente, cosa già osservata dagli antichi (come da Orazio), anzi famosa tra loro, e provata
da me, che non ho mai sperimentato tal piacere della vita, e tali furori di
gioia maniaca ma schiettissima, come in alcuni tempi ch'io aspettava un male
imminente, e diceva a me stesso; ti resta tanto a godere e
non più, e mi rannicchiava in me stesso, cacciando tutti gli altri
pensieri, e soprattutto di quel male, per pensare solamente a godere, non
ostante la mia indole malinconica in tutti gli altri tempi, e riflessivissima.
Anzi forse questa accresceva allora l'intensità del godimento, o della
risoluzione di godere. Applicate anche questa settima considerazione ai vecchi.
V. p. 121. pensiero 3. e
confrontalo, rettificalo, ed accrescilo con questo, e questo con quello.
(23. 8.bre 1820.).
[302,1] Nelle estreme sventure tutte le altre età ammettono la
consolazione o filosofica, o qualunque. Solamente la giovanezza non ammette e
non vede altra consolazione che della morte. Il libro di Crantore, περὶ πένθους lodatissimo dagli
antichi, il libro di Cic.
de
Consolatione dove espresse in gran parte quello di Crantore, saranno stati utili alle
altre età. Pel giovane estremamente sventurato {o che si
creda tale,} non si può scriver libro consolatorio.
[306,1]
306
Aristotele, o secondo altri, Diogene, τὸ κάλλος παντὸς ἔλεγεν ἐπιστολίου
συστατικώτερον
*
(Laerz.
in Aristot. l. 5. seg. 18.)
Teofrasto definiva la bellezza σιοπῶσαν ἀπάτην
*
(ib. 19.) Pur troppo bene:
perchè tutto quello che la bellezza promette, e par che dimostri, virtù, candore
di costumi, sensibilità, grandezza d'animo, è tutto falso. E così la bellezza è
una tacita menzogna. Avverti però che il detto di Teofrasto è più ordinario, perchè ἀπάτη non è
propriamente menzogna, ma inganno, frode, seduzione, ed è relativo all'effetto
che la bellezza fa sopra altrui, non al mentire assolutamente.
[313,1] Come la forza della natura giovanile, forza che non
può esser vinta in fatto da nessuna
ragionevolezza, studio, filosofia, precoce maturità di pensare ec. fa che il
giovane s'inebbri facilmente della felicità, così anche dell'infelicità, quando
questa è tanto grave che superi la naturale inclinazione del giovane
all'allegrezza, al divagarsi, a sperare, a noncurare il male. E perciò il
giovane è incapace d'altra consolazione che della morte, come ho detto p. 302. Nè religione, nè ragione, nè
altro che sia, non è sufficiente a consolare il giovane sommamente sventurato,
s'egli ha una certa forza d'animo, la quale tutta s'impiega in consolidare, e
fargli sentire profondamente e ostinatamente il suo male.
[319,1]
319 Sovente ho desiderato con impazienza di possedere e
gustare un bene già sicuro, non per avidità di esso bene, ma per solo timore di
concepirne troppa speranza, e guastarlo coll'aspettativa. E questa {tale} impazienza, ho osservato che non veniva da
riflessione, ma naturalmente, nel tempo ch'io andava fantasticando e
congetturando sopra quel bene o diletto. E così anche naturalmente proccurava di
distrarmi da quel pensiero. Se però l'abito generale di riflettere, o vero
l'esperienza e la riflessione che mi aveano già precedentemente resa naturale la
cognizione della vanità dei piaceri, e la diffidenza dell'aspettativa, non
operavano allora in me senz'avvedermene, e non mi parvero natura. (11.
Nov. 1820).
[347,1] Le buone poesie sono ugualmente intelligibili agli
uomini d'immaginazione e di sentimento, e a quelli che ne son privi. E
contuttociò quelli le gustano, e questi no, anzi non comprendono come si possano
gustare, primieramente perchè non sono capaci nè disposti ad esser commossi,
sublimati ec. dal poeta; e oltracciò perchè sebbene intendano le parole, non
intendono la verità, l'evidenza di quei sentimenti: il cuore non dimostra loro
che quelle passioni, quegli effetti, quei fenomeni morali ec. che il poeta
descrive, vanno veramente così: e per tal modo le parole del poeta, benchè
chiare, e da loro bene intese non rappresentano loro quelle cose e quelle verità
che rappresentano altrui, ed intendendo le parole, non intendono il poeta.
Bisogna bene osservare che questo accade anche negli scritti filosofici,
profondi, metafisici, psicologici ec. affine di non maravigliarsi dei
diversissimi, e spesso contrarissimi effetti che producono in diversi individui,
e classi, e quindi del diverso concetto in cui son tenuti. Perchè, ponete uno
scritto di questo genere, pienissimo di verità, e composto con
348 tutta quella chiarezza d'espressioni, della quale possa mai esser
suscettibile. Le parole dicono lo stesso all'uomo profondo, e al superficiale:
tutti comprendono ugualmente il senso materiale dello scritto, e in somma tutti
intendono perfettamente quello che l'autore vuol dire. E non perciò quello
scritto è compreso da tutti, come si crede comunemente. Perchè l'uomo
superficiale; l'uomo che non sa mettere la sua mente nello stato in cui era
quella dell'autore; insomma l'uomo che appresso a poco non è capace di pensare
colla stessa profondità {dell'autore,} intende
materialmente quello che legge, ma non vede i rapporti che hanno quei detti col
vero, non sente che la cosa sta così, non iscuoprendo il campo che l'autore
scopriva, non conosce i rapporti e legami delle cose ch'egli vedeva, e dai quali
deduceva quelle conseguenze ec. che per lui, e per chiunque gli somigli sono
incontrastabili, per questi altri non sono neppur verità: vedranno le stesse
cose, ma non conosceranno {nè sentiranno} che abbiano
relazione insieme, e con quelle conseguenze che l'autore ne cava; {non vedranno la relazione scambievole delle parti del
sillogismo (giacchè ogni umana cognizione è un sillogismo)}:
brevemente, intenderanno appuntino lo scritto, e non capiranno la verità di
quello che dice, verità che esisterà realmente, e sarà compresa da altri. {Così pure non avranno tanta forza di mente da poter dubitare,
e sentire la ragionevolezza e la verità del dubbio intorno alle cose che la natura o l'abito danno
per certe.}
{+Non basta intendere una proposizion
vera, bisogna sentirne la verità. C'è un senso della verità, come delle
passioni, de' sentimenti, bellezze, ec.: del vero, come del bello. Chi la
intende, ma non la sente, intende ciò che significa quella verità, ma non
intende che sia verità, perchè non ne prova il senso, cioè la
persuasione.} In questo numero di persone va posta la maggior parte
dei moderni apologisti della religione, uomini senza cuore, senza sentimento,
senza tatto fino e profondo nelle cose della natura, {insomma
senza esperienza della verità, come
quei lettori de' poeti che sono senza esperienza di passioni, entusiasmo,
sentimenti ec.;} i quali,
349 posto che
intendano anche perfettamente il senso dei filosofi profondissimi che
combattono, non intendono la verità che quivi si contiene, e vi danno
nettamente, precisamente e consideratamente per falso, quello che voi saprete e
sentirete ch'è vero, o viceversa. Del resto per intendere i filosofi, e quasi
ogni scrittore, è necessario, come per intendere i poeti, aver tanta forza
d'immaginazione, e di sentimento, e tanta capacità di riflettere, da potersi
porre nei panni dello scrittore, e in quel punto preciso di vista e di
situazione, in cui egli si trovava nel considerare le cose di cui scrive;
altrimenti non troverete mai ch'egli sia chiaro abbastanza, per quanto lo sia in
effetto. E ciò, tanto quando in voi ne debba risultare la persuasione e
l'assenso allo scrittore, quanto nel caso contrario. Io so che con questo metodo
non ho trovato mai oscuri, o almeno inintelligibili, gli scritti della Staël, che tutti danno per oscurissimi.
(22. Nov. 1820.).
[366,2] L'idea di una grave sventura (come anche di qualunque
grande e strana mutazione di cose in bene come in male) che ci sopraggiunga,
massimamente improvvisa, non si può concepire intera, se non altro ne' primi
momenti; anzi è sempre confusissima, debolissima, oscurissima, e
diffettosa[difettosa.] Non considero adesso
l'impressione e la sorpresa e il dolore ec. che deve naturalmente oscurar
l'anima, e intorpidirla. Ma ponete che vi si annunzi la morte di uno de' vostri
cari e familiari, anche preveduta. Il dispiacere,
367 la
rimembranza delle relazioni avute con lui, la novità che introduce nella vostra
vita, vale a dire il troncamento di tutte quelle relazioni, e il dover
considerare quella persona in un modo tutto diverso dal passato, cioè come
morta, come incapace di essere amata o beneficata, di amare e beneficare ec. ec.
tutte queste {cose} che si presentano in folla alla
vostra mente, vi cagionano una confusione un imbarazzo uno stupore tale, che voi
in luogo di considerare ciascuna parte della cosa, non ne considerate nessuna,
non siete capace di valutare nè l'estensione nè la profondità nè la natura della
cosa, nè di formarvene un concetto preciso, e restandovi solamente l'idea in
genere e confusamente, non siete capace di pensarvi, nè vi pensate formalmente,
non dirò perchè non vogliate pensarvi, ma perchè non sapete pensarvi. E quindi
accade quella cosa osservatissima che le grandi mutazioni, sieno disgrazie,
sieno fortune, al primo momento istupidiscono, e non è se non col tempo, che voi
considerandone ciascuna parte, ne cominciate a piangere o rallegrarvene
separatamente. Giacchè questo pure è notabile, che l'atto del piangere o
rallegrarsi ec. insomma l'espressione τοῦ πάθους cade sempre sopra una parte
della cosa, non già sul tutto, perchè l'anima non è capace di abbracciar questo
tutto, in uno stesso tempo. P. e., nel
368 caso detto di
sopra, voi comincerete a piangere per una determinata rimembranza, per una tal
riflessione sopra il futuro o il presente, e per simili cose, che non potete
ravvisare, e separare, e concepire nel primo momento, nè durante
le[la] prima impressione. Ma finattanto che
l'idea {o la cosa} vi si presenterà tutta intera, e voi
non potrete distinguerne, e noverarne le parti, voi non piangerete mai, nè
sarete commosso determinatamente, ma solo confusamente. E neanche dopo lungo
tempo, voi non piangerete mai per la considerazione totale e generale della
disgrazia intera. (1. Dec. 1820.)
[368,1] Si suol dire che la monotonia fa parere i giorni più
lunghi. Così è quanto alle parti del tempo considerate separatamente. Ma quanto
al complesso è tutto l'opposto, perchè un giorno pieno di varietà, terminato che
sia ti parrà lunghissimo, anzi spesso ti avverrà di credere a prima giunta che
una cosa fatta, accaduta, veduta, ec. oggi, appartenga al giorno di ieri o ier
l'altro, perchè la moltiplicità delle cose allunga nella tua memora lo spazio, e
il maggior numero degli accidenti, accresce l'apparenza del tempo. All'opposto
in una vita tutta uniforme, spesso ti avverrà (e m'è avvenuto) di credere che
l'accaduto ieri o ier l'altro appartenga al giorno d'oggi, o quello di più
giorni fa, al giorno di ieri. E ciò per la ragione contraria, {e perchè l'uniformità impiccolisce l'immagine delle
distanze.} Così la monotonia
369 prolunga la
vita in quanto la lunghezza è penosa, e l'abbrevia in quanto la lunghezza è
piacevole e desiderata; e la tua vita passata nell'uniformità ti par brevissima
e momentanea, quando ne sei giunto al fine. (1. Dec. 1820.).
[369,1] Non è forse cosa che tanto promuova l'attività e
l'impazienza di ottenere il fine che si desidera, quanto l'incertezza di
ottenerlo, quando però questo vi prema, e l'idea di non ottenerlo vi attristi.
Non {già} solamente perchè l'incertezza, obbliga
all'azione (laddove la certezza può dar luogo alla pigrizia) in quanto un fine
incerto domanda maggior cura per ottenerlo. Ma quando anche non domandi maggior
cura, il che può ben accadere (perchè un fine può esser certo, posta però una
grande attività per conseguirlo) e indipendentemente affatto dall'utilità e dal
bisogno delle cure, tu sarai attivissimo e impazientissimo di ottenerlo, per
questo solo che tu non puoi sopportare quell'incertezza, e che tu spasimi di
liberarti dall'angustia che ti deriva dal dubbio di non riuscire ad un fine che
tu desideri grandemente. Angustia alla quale forse preferirai la certezza di non
poterlo conseguire. Anche materialmente m'{è} accaduto
più volte di dubitare se alcuni miei sforzi corporali avrebbero potuto ottenere
un fine che
370 mi premeva, e perciò raddoppiarli
impazientemente, sebbene altri mi consigliava di riposare {perchè la dilazione non faceva alcun danno.} Ma io non poteva
sostere[sostenere] l'incertezza di una cosa
che m'importava, laddove se non avessi dubitato non avrei avuto difficoltà di
aspettare. E così la stessa mia impazienza poteva pregiudicare al fine,
togliendomi il riposo necessario ec. Così nel comporre ec. Parimenti se tu devi
compire una tale operazione in un dato spazio, e temi di non riuscirvi,
l'impazienza e la sollecitudine tua non cresce in ragione del bisogno, ma ben da
vantaggio, e, s'è possibile, tu vieni a capo dell'opera prima del termine
prefisso. (1. Dec. 1820.). {{V. p. 712.
capoverso 2.
}}
[460,1] Quelle rare volte ch'io ho incontrato qualche piccola
fortuna, o motivo di allegrezza, in luogo di mostrarla al di fuori, io mi dava
naturalmente alla malinconia, quanto all'esterno, sebbene l'interno fosse
contento. Ma quel contento placido e riposto, io temeva di turbarlo, alterarlo,
guastarlo, e perderlo
461 col dargli vento. E dava il
mio contento in custodia alla malinconia. (27. Dic. 1820.).
[463,2] L'egoismo comune cagiona e necessita l'egoismo di
ciascuno. Perchè quando nessuno fa per te, tu non puoi vivere se non t'adopri
tutto per te solo. E quando gli altri ti tolgono quanto possono, e per li loro
vantaggi non badano al danno tuo, se vuoi vivere, conviene che tu combatta per
te, e contrasti agli altri tutto quello che puoi. Perchè di qualunque cosa tu
voglia cedere, non devi aspettare nè gratitudine nè compenso, essendo abolito il
commercio de' sacrifizi e liberalità e benefizi scambievoli: anzi se tu cedi un
passo gli altri ti cacciano indietro venti passi, adoperandosi ciascuno per se
con tutte le sue forze; onde bisogna che ciascuno
464
contrasti agli altri quanto può, e combatta per se fino all'ultimo, e con tutto
il potere: essendo necessario che la reazione sia proporzionata all'azione, se
ne deve seguire l'effetto, cioè se vuoi vivere. E l'azione essendo eccessiva,
dev'esserlo anche la reazione. E quanto l'una è maggiore, tanto l'altra dee
crescere necessariamente. Come in una truppa di fiere affollate intorno a una
preda, dove ciascuna è risoluta di non lasciare alle altre se non quanto sarà
costretta; quella fiera che o restasse inattiva, o cedesse alle altre, o
aspettasse che queste pensassero a lei, o finalmente non adoperasse tutte le sue
forze; o resterebbe a digiuno, o perderebbe tanto, quanto meno forza avesse
adoperata, o potuto adoperare. Tutto quello che si cede è perduto, posto il
sistema dell'egoismo universale. Anche per altra parte, questo egoismo cagiona
l'egoismo individuale, cioè non solo per l'esempio, ma pel disinganno che
cagiona in un uomo virtuoso, la trista esperienza della inutilità, anzi
nocevolezza della virtù e de' sacrifizi magnanimi: e per la misantropia che
ispira il veder tutti occupati per se stessi, e non curanti del vostro
vantaggio, non grati ai vostri benefizi, e pronti a danneggiarvi o beneficati o
no.
465 La qual cosa cambia il carattere delle persone,
e introduce non solo materialmente, ma radicalmente l'egoismo, anche negli animi
più ben fatti. Anzi principalmente in questi, perchè l'egoismo non vi entra come
passione bassa e vile, ma come alta e magnanima, cioè come passione di vendetta,
e odio de' malvagi e degl'ingrati. Si nocentem innocentemque idem exitus
maneat, acrioris viri esse, merito perire:
*
diceva Ottone Imp. appresso Tacito
Hist. l. 1. c. 21.
(2. Gen. 1821.). {{V. p. 607.
fine.}}
[472,2] Non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma
neanche l'immaginativa è capace dell'infinito, o di concepire infinitamente, ma
solo dell'indefinito, e di concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta
perchè l'anima non vedendo i confini, riceve l'impressione di una specie
d'infinità, e confonde l'indefinito coll'infinito; non però comprende nè
concepisce effettivamente nessuna infinità. Anzi nelle immaginazioni le più
vaghe e indefinite, e quindi le più sublimi e dilettevoli, l'anima sente
espressamente una certa angustia, una certa difficoltà, un certo desiderio
insufficiente, un'impotenza decisa di abbracciar tutta la misura di {quella} sua
473 immaginazione, o
concezione o idea. La quale perciò, sebbene la riempia e diletti e soddisfaccia
più di qualunque altra cosa possibile in questa terra, non però la riempie
effettivamente, nè la soddisfa, e nel partire non la lascia mai contenta, perchè
l'anima sente e conosce o le pare, di non averla concepita e veduta tutta
intiera, o che creda di non aver potuto, o di non aver saputo, e si persuada che
sarebbe stato in suo potere di farlo, e quindi provi un certo pentimento, nel
che ha torto in realtà, non essendo colpevole. (4. Gen. 1821.).
[479,1] Il veder morire una persona amata, è molto meno
lacerante che il vederla deperire e trasformarsi nel corpo e nell'animo da
malattia (o anche da altra cagione). Perchè? Perchè nel primo caso le illusioni
restano, nel secondo svaniscono, e vi sono intieramente annullate e strappate a
viva forza. La persona amata, dopo la sua morte, sussiste ancora tal qual'era, e
così amabile come prima, nella nostra immaginazione. Ma nell'altro caso, la
persona amata si perde affatto, sottentra un'altra persona, e quella di prima,
quella persona amabile e cara, non può più sussistere neanche per nessuna forza
d'illusione, perchè la presenza della realtà, e di quella stessa persona
trasformata per malattia cronica, pazzia, corruttela di costumi ec. ec. ci
disinganna violentemente, e crudelmente: e la perdita dell'oggetto amato non è
risarcita neppur dall'immaginazione. Anzi neanche dalla disperazione, o dal
riposo sopra lo stesso eccesso del dolore, come nel caso di morte. Ma questa
perdita è tale, che il pensiero e il sentimento non vi si può adagiar sopra in
nessuna maniera.
480 Da ogni lato ella presenta
acerbissime punte. (8. Gen. 1821.).
[481,1] Quanta sia la forza d'immaginazione nei fanciulli, e
com'ella sia tale che le concezioni derivatene nella prima età, influiscono
grandemente anche nel resto della vita, si può vedere ancora in questa
osservazione minuziosa. Noi da fanciulli per lo più concepiamo una certa idea,
un certo tipo di ciascun nome di uomo: e la natura di questo tipo deriva dalle
qualità delle prime o a noi più cognite e familiari persone che hanno portato
quei tali nomi. Formatoci nella fantasia questo tipo (il quale ancora
corrisponde alle circostanze particolari di quelle persone relativamente
482 a noi, alle nostre simpatie, antipatie ec.) sentendo
dare lo stesso nome ad un'altra persona diversa da quella su cui ci siamo
formati il detto tipo, noi concepiamo subito di quella persona un'idea conforme
al detto tipo. E il nome può essere elegantissimo, e quella tal persona
bellissima: se quel tipo è stato da noi immaginato e formato sopra una persona
odiosa o brutta; anche quell'altra bellissima, ci pare che di necessità debba
esser tale: almeno troviamo una contraddizione tra il nome e il soggetto; o
proviamo una ripugnanza a credere quel soggetto diverso da quel tipo e da
quell'idea ec. Così viceversa e relativamente alle varie qualità dei nomi e
delle persone. Ed anche da grandi, e dopo che l'immaginazione ha perduto il suo
dominio, dura per lungo tempo e forse sempre questo tale effetto, almeno
riguardo ai primi momenti, e proporzionatamente alla forza dell'impressione
ricevuta da fanciulli, e dell'immagine concepita. Io da fanciullo ho conosciuto
familiarmente una Teresa vecchia, e secondo che mi pareva, odiosa. Ed allora e
oggi che son grande provo una certa ripugnanza a persuadermi che {il nome di} Teresa possa appartenere
483 ad una giovane, o bella, o amabile: o che quella che porta questo
nome, possa aver questa qualità: e insomma sentendo questo nome, provo sempre un
impressione e prevenzione sfavorevole alla persona che lo porta. E
ordinariamente l'idea che noi abbiamo dell'eleganza, grazia, dolcezza, amabilità
di un nome, non deriva dal suono materiale di esso nome, nè dalle sue qualità
proprie e assolute, ma da quelle delle prime persone chiamate con quel nome,
conosciute o trattate da noi nella prima età. Anche però viceversa potrà
accadere che noi da fanciulli concepiamo idea della persona, dal nome che porta,
massime se si tratta di persone lontane, o da noi conosciute solamente per nome:
e giudichiamo della persona, secondo l'effetto che ci produce il nome col suono
materiale, o col significato che può avere, o con certe relazioni con altre
idee. E questo ci avviene ancora da grandi, sia per conseguenza dell'idea
concepita nella fanciullezza, sia anche assolutamente: perchè è certo che noi
non ascoltiamo il nome, ovvero il cognome di persona a
noi tanto ignota, che sopra quella denominazione non ci
484 formiamo una tal quale idea sì dell'esterno che dell'interno di
quella persona. Idea più o meno confusa, più o meno viva, secondo le
circostanze; ma ordinariamente chiarissima e vivissima ne' fanciulli, sebbene
per lo più falsissima. E massimamente i fanciulli (sempre lontani
dall'indifferenza), secondo questa idea, si determinano all'odio o all'amore, a
un certo genio o contraggenio verso quelle tali persone, non conosciute se non
per nome. (10. Gen. 1821.).
[503,1] In luogo che un'anima grande ceda alla necessità, non
è forse cosa che tanto la conduca all'odio atroce, dichiarato, e selvaggio
contro se stessa, e la vita, quanto la considerazione della necessità e
irreparabilità de' suoi mali, infelicità, disgrazie
504
ec. Soltanto l'uomo vile, o debole, o non costante, o senza forza di passioni,
sia per natura, sia per abito, sia per lungo uso ed esercizio di sventure e
patimenti, ed esperienza delle cose e della natura del mondo, che l'abbia domato
e mansuefatto; soltanto costoro cedono alla necessità, e se ne fanno anzi un
conforto nelle sventure, dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare e combatterla
ec. Ma gli antichi, sempre più grandi, magnanimi, e forti di noi, nell'eccesso
delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse, e della forza
invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria
senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro
il fato, e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo,
impotenti bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, nè
ammansati, nè meno, anzi tanto più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e
la necessità era maggiore. Di ciò si hanno molti esempi nelle storie. Il fatto
di Giuliano moribondo, non so se sia
storia o favola. Di Niobe, dopo la sua
sventura,
505
si racconta, se non fallo, come
bestemmiava gli Dei, e si professava vinta, ma non cedente. Noi che non
riconosciamo nè fortuna nè destino, nè forza alcuna di necessità personificata
che ci costringa, non abbiamo altra persona da rivolger l'odio e il furore (se
siamo magnanimi, e costanti, e incapaci di cedere) fuori di noi stessi; e quindi
concepiamo contro la nostra persona un odio veramente micidiale, come del più
feroce e capitale nemico, e ci compiaciamo nell'idea della morte volontaria,
dello strazio di noi stessi, della medesima infelicità che ci opprime, e che
arriviamo a desiderarci anche maggiore, come nell'idea della vendetta, contro un
oggetto di odio e di rabbia somma. Io ogni volta che mi persuadeva della
necessità e perpetuità del mio stato infelice, e che volgendomi disperatamente e
freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio possibile, nè speranza
nessuna; in luogo di cedere, o di consolarmi colla considerazione
dell'impossibile, e della necessità indipendente da me,
506 concepiva un odio furioso di me stesso, giacchè l'infelicità ch'io
odiava non risiedeva se non in me stesso; io dunque era il solo soggetto
possibile dell'odio, non avendo nè riconoscendo esternamente altra persona colla
quale potessi irritarmi de' miei mali, e quindi altro soggetto capace di essere
odiato per questo motivo. Concepiva un desiderio ardente di vendicarmi sopra me
stesso e colla mia vita della mia necessaria infelicità inseparabile
dall'esistenza mia, e provava una gioia feroce ma somma nell'idea del suicidio.
L'immobilità delle cose contrastando colla immobilità mia; nell'urto, non
essendo io capace di cedere, ammollirmi e piegare; molto meno le cose; la
vittima di questa battaglia non poteva essere se non io. Oggidì (eccetto nei
mali derivati dagli uomini) non si riconosce persona colpevole delle nostre
miserie, o tale che la Religione c'impedisce in tutti i modi di creder
colpevole, e quindi degna di odio. Tuttavia anche nella Religione di oggidì,
l'eccesso dell'infelicità indipendente
507 dagli uomini
e dalle persone visibili, spinge talvolta all'odio e alle bestemmie degli enti
invisibili e Superiori: e questo, tanto più quanto più l'uomo (per altra parte
costante e magnanimo) è credente e religioso. Giobbe si rivolse a
lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua
nascita ec. (15. Gen. 1821.).
[512,1] Difficilmente il dolor solo dell'animo, ha forza di
uccidere, o cagionare un'estrema malattia, ed è più facile il fingere questi
casi nei romanzi, che trovarne esempi reali nella vita: sebbene
513 molte volte si attribuiscono a dolor d'animo quelle
infermità che vengono da tutt'altro, o almeno, anche da altre cause. E
massimamente è difficile e strano che il dolor d'animo, una sventura non
corporale ec. cagionino morte o malattia lungo tempo dopo nato, o avvenuta la
detta sventura ec. e che in somma la vita dell'uomo si vada consumando e si
spenga a poco a poco per le sole malattie particolari dell'animo. (non dico le
generali, perchè certamente il cattivo stato del nostro animo influisce in
genere moltissimo sulla durata della vita, la salute il vigore ec.) Qual è la
cagione? Che il tempo medica tutte le piaghe dell'animo. Ma come?
Coll'assuefazione, lo so, e grandemente, ma non già con questa sola. Una gran
cagione del detto effetto, è ancora che le illusioni poco stanno a riprender
possesso e riconquistare l'animo nostro, anche malgrado noi; e l'uomo {(purchè viva)} torna infallibilmente a sperare quella
felicità che avea disperata; prova quella consolazione
514 che avea creduta e giudicata impossibile; dimentica e discrede quell'acerba
verità, che avea poste nella sua mente altissime radici; e il disinganno più
fermo, totale, e ripetuto, e anche giornaliero, non resiste alle forze della
natura che richiama gli errori e le speranze. (16. Gen. 1821.).
[514,1] Da fanciulli, se una veduta, una campagna, una
pittura, un suono ec. {un racconto, una descrizione, una
favola, un'immagine poetica, un sogno,} ci piace e diletta, quel
piacere e quel diletto è sempre vago e indefinito: l'idea che ci si desta è
sempre indeterminata e senza limiti: ogni consolazione, ogni piacere, ogni
aspettativa, {ogni disegno, illusione ec. (quasi anche ogni
concezione)} di quell'età tien sempre all'infinito: e ci pasce e ci
riempie l'anima indicibilmente, anche mediante i minimi oggetti. Da grandi, o
siano piaceri e oggetti maggiori, o quei medesimi che ci allettavano da
fanciulli, come una bella prospettiva, campagna, pittura ec. proveremo un
piacere, ma non sarà più simile in nessun modo all'infinito, o certo non sarà
così intensamente, sensibilmente, durevolmente ed essenzialmente vago e
indeterminato. Il piacere {di quella sensazione} si
determina subito e si circoscrive: appena comprendiamo
515 qual fosse la strada che prendeva l'immaginazione nostra da fanciulli, per
arrivare con quegli stessi mezzi, e in quelle stesse circostanze, o anche in
proporzione, all'idea ed al piacere indefinito, e dimorarvi. Anzi osservate che
forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo
pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una
rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da
lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei; o in genere, o anche in
ispecie; vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec. perchè
ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione
immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse
circostanze. Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle
cose, non è un'immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una
ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica.
E ciò accade frequentissimamente. (Così io, nel rivedere quelle stampe
piaciutemi vagamente da fanciullo,
516 quei luoghi,
{spettacoli, incontri,} ec. nel ripensare
ai[a] quei racconti, favole, letture, sogni
ec. nel risentire quelle cantilene udite nella fanciullezza o nella prima
gioventù ec.) In maniera che, se non fossimo stati fanciulli, tali quali siamo
ora, saremmo privi della massima parte di quelle poche sensazioni indefinite che
ci restano, giacchè la proviamo se non rispetto e in virtù della
fanciullezza.
[527,1] I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il
nulla nel tutto.
[528,1] Come i piaceri così anche i dolori sono molto più
grandi nello stato primitivo e nella fanciullezza, che nella nostra età e
condizione. E ciò per le stesse ragioni per le quali è maggiore il diletto.
Primieramente (massime ne' fanciulli) manca l'assuefazione al bene e al male. Il
bene dunque e il male dev'essere molto più sensibile ed energico relativamente
all'animo loro, che al nostro. Poi (e questo è il punto principale, e comune a
tutti gli uomini naturali) il dolore, la disgrazia ec. nel fanciullo, e nel
primitivo, sopravviene all'opinione della felicità possibile, o anche presente;
contrasta vivissimamente coll'aspetto del bene, creduto e reale e grande, del
bene o già provato, o sperato con ferma speranza, o veduto attualmente negli
altri; è l'opposto e la privazione di quella felicità che si crede vera,
importante, possibilissima, anzi destinata all'uomo, posseduta dagli altri,
529 e che sarebbe posseduta da noi, se quell'ostacolo
non ce l'impedisse, o per ora, o per sempre. Ed anche l'idea del male assoluto,
cioè indipendentemente dalla comparazione del bene, è forse maggiore in natura,
che nello stato di civiltà e di sapere.
[532,1]
Quid dulcius, quam
habere, quicum omnia audeas sic loqui, ut tecum? Quis esset tantus
fructus in prosperis rebus, nisi haberes, qui illis aeque, ac tu ipse,
gauderet?
*
Cic.
{Lael. sive} de
Amicitia. Cap. 6. (20. Gen. 1821.).
[612,3] E per la stessa ragione non è sommo in veruna
professione chi non è modesto; e la modestia, e lo stimarsi da non molto, e il
credere intimamente e sinceramente di non aver conseguito tutto quel merito che
si potrebbe e dovrebbe conseguire, questi dico sono segni e
613 distintivi dell'uomo grande, o certo sono qualità inseparabili da
lui. Perchè quanto più si possiede e si conosce a fondo una qualunque (ancorchè
piccola) professione, tanto più se ne sentono e valutano le difficoltà; si
conosce quanto la perfezione e la sommità sia difficile in essa: perchè le
difficoltà della perfezione si sanno e si conoscono generalmente in ogni cosa,
ma non si sentono così vivamente e precisamente, come in una professione
intimamente posseduta: tanto più si comprende e vede e tocca con mano, quanto
sia facile l'andar sempre più oltre, e il perfezionare anche ciò che si crede
perfetto. In somma quanto più l'uomo apprezza e stima una buona professione: e
l'apprezza e stima quanto meglio la conosce; tanto meno apprezza se stesso.
Perchè mettendosi in confronto non già cogli altri cultori di quella professione
(i quali forse gli cederanno), ma colla professione stessa; resta sempre
malcontento del paragone, si trova lontano dall'uguaglianza, e riabbassa sempre
più l'idea di se stesso. (5. Feb. 1821.).
[614,2] È cosa notabile come l'uomo sommamente sventurato, o
scoraggito della vita, e deposta già e complorata la speranza della propria felicità, ma non perciò ridotto a
quella disperazione che non si acquieta se non colla morte; naturalmente, e
senza veruno sforzo sia portato a servire e beneficar gli altri, anche quelli
che o gli sono del tutto indifferenti, o anche odiosi. E non già per vigore di
eroismo, chè l'uomo in tale stato non è capace di nessun vigore d'animo; ma in
certo modo, come non avendo più interesse nè speranza per te, trasporti
l'interesse e la speranza agli affari altrui, e così cerchi di riempiere l'animo
tuo, di occuparlo, e di rendergli i due sopraddetti sentimenti, cioè cura di
qualche cosa, {ossia scopo,} e speranza, senza
615 i quali la vita non è vita, non si conosce, manca
del senso di se stessa. Il fatto sta che quando l'uomo si trova in tali
circostanze, cioè disperato in maniera, non da odiarsi, (ch'è la ferocia della
disperazione) ma da noncurarsi, e metter se stesso fuori della sfera de' suoi
pensieri; non solo prova compiacenza nel servir gli altri, ma prende anche per
gli affari loro (ancorchè, come ho detto di persone indifferenti) una certa
affezione, un certo impegno, un desiderio ec. tutto languido bensì, perchè
l'animo suo non è più capace di sentimento vivo e forte, ma pur tale, ch'egli
non è stato mai animato verso {il bene altrui} così
sensibilmente. E ciò accade anche appena l'uomo si riduce alla detta condizione,
così che avviene in lui come un cangiamento improvviso: ed accade anche negli
uomini stati infetti di egoismo. In somma la persona degli altri sottentra
nell'animo suo, quasi intieramente, alla persona propria, ch'è sparita, e messa
in non cale e per perduta, come quella che non può più sperare, e non è più
capace della felicità, senza cui la vita manca del suo fine, e scopo. E il
desiderio e la cura
616 e la speranza della felicità,
che non possono più diriggersi alla felicità propria, riconosciuta impossibile,
e nel cercar la quale sarebbero vane, e quindi non più sufficienti all'animo
umano; si rivolgono alla felicità altrui: e ciò spontaneamente, e senz'ombra di
eroismo. E l'animo dell'uomo che mancatogli lo scopo della felicità, è
moralmente morto, risorge a una languida vita, ma tuttavia risorge e vive in
altrui, cioè nello scopo dell'altrui felicità, divenuto lo scopo suo. Come quei
corpi di sangue corrotto e malsano, e quindi incapaci di vita, che alcuni medici
spogliavano {(o proponevano di spogliare)} del sangue
proprio, e restituivano ad una certa salute, colla introduzione del sangue
altrui, o di qualche animale; quasi cangiando la persona, e trasformando quella
che non poteva più vivere, in un'altra capace di vita: e così conservando la
vita di una persona, per se stessa inetta a vivere.
[633,1]
Quand on est jeune, on ne songe qu'à vivre dans
l'idée d'autrui: il faut établir sa réputation, et se donner une
place honorable dans l'imagination des autres, et être heureux même
dans leur idée: notre bonheur n'est point réel; ce n'est pas nous
que nous consultons, ce sont les autres. Dans un autre âge, nous
revenons à nous; et ce retour a ses douceurs, nous commençons à nous
consulter et à nous croire.
*
M.me la Marquise de Lambert,
Traité de la
Vieillesse, verso la fine: dans ses Oeuvres complètes,
Paris 1808. 1.re édit. complète. p. 150. Il vient un temps dans la vie qui est
consacré à la vérité, qui est destiné à connoître les choses selon
leur juste valeur. La jeunesse et les passions fardent tout. Alors
nous revenons aux plaisirs simples; nous commençons à nous consulter
634 et à nous croire sur notre
bonheur.
*
Ib. p. 153. Queste riflessioni sono osservabili. Non
solo nella vecchiezza, ma nelle sventure, ogni volta che l'uomo si trova senza
speranza, o almeno disgraziato nelle cose che dipendono dagli uomini, comincia a
contentarsi di se stesso, e la sua felicità, e soddisfazione, o almeno
consolazione a dipender da lui. Questo ci accade anche in mezzo alla società, o
agli affari del mondo. Quando l'uomo vi si trova male accolto, o annoiato, o
disgraziato, o in somma trova quello che non vorrebbe, ricorre a se stesso, e
cerca il bene e il piacere nell'anima sua. L'uomo sociale, finch'egli può, cerca
la sua felicità e la ripone nelle cose al di fuori e appartenenti alla società,
e però dipendenti dagli altri. Questo è inevitabile. Solamente o principalmente
l'uomo sventurato, e massime quegli che lo è senza speranza, si compiace della
sua compagnia, e di riporre la sua felicità nelle cose sue proprie, e
indipendenti dagli altri; e insomma segregare la sua felicità, dall'opinione e
dai vantaggi che ci risultano dalla società, e ch'egli non può conseguire, o
sperare. Forse per questo, o anche
635 per questo, si è
detto che l'uomo che non è stato mai sventurato non sa nulla. L'anima, i
desideri, i pensieri, i trattenimenti dell'uomo felice, sono tutti al di fuori,
e la solitudine non è fatta per lui: dico la solitudine o fisica, o morale e del
pensiero. Vale a dire che se anche egli si compiace nella solitudine, questo
piacere, e i suoi pensieri e trattenimenti in quello stato, sono tutti in
relazioni colle cose esteriori, e dipendenti dagli altri, non mai con quelle
riposte in lui solo. Non è però che la felicità o consolazione dell'uomo
sventurato o vecchio, sieno riposte nella verità, e nella meditazione e
cognizione di lei. Che piacere o felicità o conforto ci può somministrare il
vero, cioè il nulla? (se escludiamo la sola Religione). Ma altre illusioni,
forse più savie perchè meno dipendenti, e perciò anche più durevoli, sottentrano
a quelle relative alla società. E questo è in somma quello che si chiama
contentarsi di se stesso, e omnia tua in te posita
ducere,
*
con che Cicerone (Lael. sive de Amicit.
c. 2.) definisce la sapienza. Un sistema, un complesso, un ordine, una
vita d'illusioni indipendenti, e perciò stabili: non altro. (9. Feb.
1821.).
[636,1]
636
"La solitude" dit un grand homme, "est l'infirmerie
des ames".
*
Mme. Lambert, lieu cité ci-dessus, p. 153.
fine.
[636,2]
Nous ne vivons que pour perdre et pour nous
détacher.
*
Mme. Lambert, lieu cité ci-dessus, p. 145. alla
metà del Traité de la Vieillesse. Così è. Ciascun giorno
perdiamo qualche cosa, cioè perisce, o scema qualche illusione, che sono l'unico
nostro avere. {L'esperienza e la verità ci spogliano alla
giornata di qualche parte dei nostri possedimenti.} Non si vive se non
perdendo. L'uomo nasce ricco di tutto, crescendo impoverisce, e giunto alla
vecchiezza si trova quasi senza nulla. Il fanciullo è più ricco del giovane,
anzi ha tutto; ancorchè poverissimo e nudo {e
sventuratissimo,} ha più del giovane più fortunato; il giovane è più
ricco dell'uomo maturo, la maturità più ricca della vecchiezza. Ma Mad. Lambert dice questo in altro
senso, cioè rispetto alle perdite {così dette} reali,
che si fanno coll'avanzar dell'età. (9. Feb. 1821.) Ma siccome
nessuna cosa si possiede realmente, così nulla si può perdere. Bensì quel detto
è vero per quest'altra parte, relativamente alla condizione presente degli
uomini, e
637 dello spirito umano, e della società.
(10. Feb. 1821.).
[643,2]
Les enfans aiment à
être traités en personnes raisonnables.
*
Mme. de Lambert, Lettre à madame la supérieure de la Madeleine de Tresnel, sur l'éducation
d'une jeune demoiselle: ou Lettre III. dans ses oeuvres complètes
citées ci-dessus, (p. 633.) p.
356.
[644,1] Non c'è forse persona tanto indifferente per te, la
quale salutandoti nel partire per qualunque luogo, o lasciarti in qualsivoglia
maniera, e dicendoti, non ci rivedremo mai più,
per poco d'anima che tu abbia, non {ti} commuova, non
ti produca una sensazione più o meno trista. L'orrore e il timore che l'uomo ha,
per una parte, del nulla, per l'altra, dell'eterno, si manifesta da per tutto, e quel mai più non si può udire senza un certo senso. Gli
effetti naturali bisogna ricercarli nelle persone naturali, e non ancora, o
poco, o quanto meno si possa, alterate. Tali sono i fanciulli: quasi l'unico
soggetto dove si possano esplorare, {notare,} e
notomizzare oggidì, le qualità, le inclinazioni, gli affetti veramente naturali.
Io dunque da fanciullo aveva questo costume. Vedendo partire una persona,
quantunque a me indifferentissima, considerava
645 se
era possibile o probabile ch'io la rivedessi mai. Se io giudicava di no, me le
poneva intorno a riguardarla, ascoltarla, e simili cose, e la seguiva o cogli
occhi o cogli orecchi quanto più poteva, rivolgendo sempre fra me stesso, e
addentrandomi nell'animo, e sviluppandomi alla mente questo pensiero: ecco l'ultima volta, non lo vedrò mai più, o, forse mai
più. E così la morte di qualcuno ch'io conoscessi, e non mi avesse mai
interessato in vita, mi dava una certa pena, non tanto per lui, o perch'egli mi
interessasse allora dopo morte, ma per questa considerazione ch'io ruminava
profondamente: è partito per sempre - per sempre? sì:
tutto è finito rispetto a lui: non lo vedrò mai più: e nessuna cosa sua
avrà più niente di comune colla mia vita. E mi poneva a
riandare, s'io poteva, l'ultima volta ch'io l'aveva o veduto, o ascoltato ec. e
mi doleva di non avere allora saputo che fosse l'ultima volta, e di non
646 essermi regolato secondo questo pensiero. (11.
Feb. 1821.).
[653,2]
Plus
il y a de monde
*
, (cioè, più gente ci sta d'intorno, più ci
troviamo in mezzo al mondo attualmente) et plus les
passions acquièrent d'autorité.
*
Ib. p. 81. Un philosophe
654 assuroit: ".... que plus il avoit vu de
monde, plus les passions acquéroient d'autorité...."
*
Mme Lambert, Lettre à madame de
***, ou Lettre XV. dans ses oeuvres
complètes
citées ci-dessus, p. 395.
Così è generalmente: ma all'uomo veramente sventurato accade tutto il contrario.
Ogni volta ch'egli si presenta nel mondo, vedendosi respinto, il suo amor
proprio mortificato, i suoi desideri frustrati, o contrariati, le sue speranze
deluse, non solamente non concepisce veruna passione fuorchè quella della
disperazione, ma per lo contrario, le sue passioni si spengono. E nella
solitudine, essendo lontane le cose e la realtà, le passioni, i desiderii, le
speranze se gli ridestano. (13. Feb. 1821.).
[662,1]
Je crois que son estime
*
(si parla di una persona
amata, ma da cui non si spera nulla, e alla quale non si è mai dichiarato il
proprio amore) doit être le prix
de tout ce que je fais de bien; et je fais encore plus
663 grand cas d'elle
*
(de son
estime) que de tous les sentimens
les plus tendres que je pourrois lui supposer.
*
(Quella
che parla è una donna, e l'amato è un uomo). Mme. Lambert, Lieu cité
ci-dessus, p. 234.
[666,1]
Je sentis que c'étoit quelque chose de bien douloureux, que de
savoir ce que l'on aime attaché à quelque chose de
parfait:
*
(cioè la persona amata, a qualche altra persona
perfetta, e degna dell'amor suo: e in questo senso lo dice Mad. Lambert) mais loin que mon intérêt ait pris sur la
justice que je devois à mon amie,
*
(amata da colui
ch'era amato dalla persona che parla, ed è una donna) ma délicatesse et la crainte de lui manquer
ont augmenté son mérite à mes yeux.
*
Mme. de Lambert, lieu cité ci-dessus, (p. 661. fine), p. 265. fine.
[667,1] Quello che ho detto in altro pensiero pp.
481-84 intorno all'idea che i fanciulli si formano dei nomi, si deve
estendere assai, perchè ordinariamente e generalmente, il fanciullo dal primo
individuo che vede, si forma l'idea di tutta la specie o genere, in ogni sorta
di cose; dal primo soldato, l'idea di tutti i soldati, dal primo tempio, l'idea
di tutti i tempii ec. E se la forma vivamente e durevolmente, se però altri
individui della stessa specie, non vengono frequentemente o nella stessa
fanciullezza, o poi, a scancellare l'idea concepita sul primo individuo. Senza
ciò, e massimamente se le idee di altri individui non sottentrano a quella del
primo durante la fanciullezza, l'idea del primo si conserva per lunghissimo
tempo anche nelle altre età, e serve nella nostra mente di tipo, a tutti gli
altri individui della stessa specie di cui ci dobbiamo formare un'idea per
relazione o cosa tale, e che non ci cadono sotto i sensi. P. e. avendo io {di} due anni veduto un colonnello, l'idea
668 ch'io mi formo naturalmente della persona di questo
o di quel colonnello, ch'io non conosco di veduta, e in astratto, del
colonnello, è ancora modellata su quella figura, quelle maniere ec. Anche da ciò
si deve inferire quanto sieno importanti le benchè minime impressioni della
fanciullezza, e quanto gran parte della vita dipenda da quell'età; e quanto sia
probabile che i caratteri degli uomini, le loro inclinazioni, questa o
quell'altra azione ec. derivino bene spesso da minutissime circostanze della
loro fanciullezza; e come i caratteri ec. e le opinioni massimamente (dalle
quali poi dipendono le azioni, e quasi tutta la vita) si diversifichino bene
spesso per quelle minime circostanze, e accidenti, e differenze appartenenti
alla fanciullezza, mentre se ne cercherà la cagione e l'origine in tutt'altro,
anche dai maggiori conoscitori dell'uomo. (16. Feb. 1821.). {{V. p. 675. principio.}}
[676,3]
Enfin elles aiment l'amour, et non pas l'amant.
Ces personnes se livrent à toutes les passions
{les plus} ardentes. Vous les voyez
occupées du jeu, de la table: tout ce qui porte la livrée du plaisir
est bien reçu.
*
Parla di quelle donne galanti qui ne cherchent et ne veulent que
les plaisirs de l'amour,
*
di quelle che ne cherchent dans l'amour que les
plaisirs des sens,
*
(o della galanteria dell'ambizione
ec.) que celui d'être fortement
occupées et entraînées, et que celui d'être aimées;
*
di
quelle che
677 possono associer d'autres passions à l'amour,
*
e lasciare du vide
dans
*
(leur) son
coeur,
*
e che après avoir tout donné,
*
possono non essere uniquement
*
(occupées)
occupé de ce qu'on
aime;
*
di quelle che se font une habitude de galanterie, et ne savent point joindre la qualité d'amie à celle
d'amant
*
; di quelle che ne cherchent que les plaisirs, et non pas l'union des
coeurs
*
, e conseguentemente échappent à tous les devoirs de
l'amitié
*
: in somma delle donne d'oggidì tutte quante, e
in fatti ancor ella sebbene distingue le donne amanti in tre specie,
conchiude il discorso di questa specie, così: Voilà l'amour d'usage et d'à-présent, et où les
conduit une vie frivole et dissipée.
*
Mme. de Lambert, Réflexions nouvelles sur les
femmes, dans ses oeuvres
complètes, citées ci-dessus (p. 633.) p. 179.
(18. Febbraio 1821).
[678,1]
678
Il faut convenir
que les femmes sont plus délicates que les hommes en fait
d'attachement.
*
Il n'appartient qu'à elles de
faire sentir par un seul mot, par un seul regard, tout un
sentiment.
*
Mme. de Lambert, lieu cité ci-dessus, p.
187.
[678,3]
Nous n'avons qu'une portion d'attention et de
sentiment; dès que nous nous livrons aux objets extérieurs, le
sentiment dominant s'affoiblit: nos desirs ne sont-ils pas plus vifs
et plus forts dans la retraite?
*
Mme. de Lambert, lieu cité
ci-derrière (p. 677. fine) p.
188.
679 La solitudine è lo stato naturale di gran parte, o
piuttosto del più degli animali, e probabilmente dell'uomo ancora. Quindi non è
maraviglia se nello stato naturale, egli ritrovava la sua maggior felicità nella
solitudine, e neanche se ora ci trova un conforto, giacchè il maggior bene degli
uomini deriva dall'ubbidire alla natura, e secondare quanto oggi si possa, il
nostro primo destino. Ma anche per altra cagione la solitudine è oggi un
conforto all'uomo nello stato sociale al quale è ridotto. Non mai per la
cognizione del vero in quanto vero. Questa non sarà mai sorgente di felicità, nè
oggi; nè era allora quando l'uomo primitivo se la passava in solitudine, ben
lontano certamente dalle meditazioni filosofiche; nè agli animali la felicità
della solitudine deriva dalla cognizione del vero. Ma anzi per lo contrario
questa consolazione della solitudine deriva all'uomo oggidì, e derivava
primitivamente dalle illusioni. Come ciò fosse primitivamente, in quella vita
occupata o da continua
680 sebben solitaria azione, o da
continua attività {interna} e successione d'immagini
{disegni ec.} ec. e come questo accada parimente
ne' fanciulli, l'ho già spiegato più volte. Come poi accada negli uomini oggidì,
eccolo. La società manca affatto di cose che realizzino le illusioni per quanto
sono realizzabili. Non così anticamente, e anticamente la vita solitaria fra le
nazioni civili, o non esisteva, o era ben rara. Ed osservate che quanto si
racconta de' famosi solitari cristiani, cade appunto in quell'epoca, dove la
vita, l'energia, la forza, la varietà originata dalle antiche forme di
reggimento e di stato pubblico, e in somma di società, erano svanite o
sommamente illanguidite, col cadere del mondo sotto il despotismo. Così dunque
torna per altra cagione ad esser proprio degli stati e popoli corrotti, quello
ch'era proprio dell'uomo primitivo, dico la tendenza dell'uomo alla solitudine:
tendenza stata interrotta dalla prima energia della vita sociale. Perchè oggidì
è così la cosa. La presenza e l'atto della società spegne le illusioni,
681 laddove anticamente le fomentava e accendeva, e la
solitudine le fomenta o le risveglia, laddove non primitivamente, ma anticamente
le sopiva. Il giovanetto ancora chiuso fra le mura domestiche, o in casa di
educazione, o soggetto all'altrui comando, è felice nella solitudine per le
illusioni, i disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe:
e questo ancorchè egli sia d'ingegno penetrante, e istruito, ed anche, quanto
alla ragione, persuaso della nullità del mondo. L'uomo disingannato, stanco,
esperto, esaurito di tutti i desideri, nella solitudine appoco appoco si rifa,
ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno vivamente, a ogni
modo risorge, ancorchè penetrantissimo d'ingegno, e sventuratissimo. Come
questo? forse per la cognizione del vero? Anzi per la dimenticanza del vero, pel
diverso e più vago aspetto che prendono per lui, quelle cose già sperimentate e
vedute, ma che ora essendo lontane dai sensi e dall'intelletto, tornano a
passare per la immaginazione sua, e quindi abbellirsi. Ed egli torna a sperare
682 e desiderare, e vivere, per poi tutto riperdere,
e morire di nuovo, ma più presto assai di prima, se rientra nel mondo.
[703,3] Allo sviluppo ed esercizio della immaginazione è
necessaria la felicità o abituale o presente e momentanea; del sentimento, la
sventura. Esempio me stesso: e il mio passaggio dalla facoltà immaginativa, alla
sensitiva, essendo quella in me presso ch'estinta. (28. Feb.
1821).
[712,1] Non vale il dire che i piaceri, i beni, le felicità di
questo mondo, sono tutti inganni. Che resta levati via questi inganni? E chi per
le sue sventure manca di questi benchè ingannosi piaceri e beni, che altro gode
o spera quaggiù? In somma l'infelice è veramente e positivamente infelice; {+quando anche il
suo male non consista che in assenza di beni;} laddove è pur troppo
vero che non si dà vera nè soda felicità, e che l'uomo felice, non è veramente
tale. (3. Marzo 1821.)
[714,1]
714 Spesse volte il troppo o l'eccesso è padre del
nulla. Avvertono anche i dialettici che quello che prova troppo non prova
niente. Ma questa proprietà dell'eccesso si può notare ordinariamente nella
vita. L'eccesso delle sensazioni o la soprabbondanza loro, si converte in
insensibilità. Ella produce l'indolenza e l'inazione, anzi l'abito ancora
dell'inattività negl'individui e ne' popoli; e vedi in questo proposito quello
che ho notato con Mad. di Staël, Floro ec. p. 620 fine - 625 principio. Il poeta nel colmo
dell'entusiasmo, della passione ec. non è poeta, cioè non è in grado di poetare.
All'aspetto della natura, mentre tutta l'anima sua è occupata dall'immagine
dell'infinito, mentre le idee segli affollano al pensiero, egli non è capace di
distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna: in somma non è capace di nulla,
nè di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni: dico nessun frutto o di
considerazione e di massima, ovvero di uso e di scrittura; di teoria nè di
pratica. L'infinito non si
715 può esprimere se non
quando non si sente: bensì dopo sentito: e quando i sommi poeti scrivevano
quelle cose che ci destano le ammirabili sensazioni dell'infinito, l'animo loro
non era occupato da veruna sensazione infinita; e dipingendo l'infinito non lo
sentiva. {I sommi dolori corporali non si sentono, perchè o
fanno svenire, o uccidono.} Il sommo dolore non si sente,
cioè finattanto ch'egli è sommo; ma la sua proprietà, e[è] di render l'uomo attonito; confondergli, sommergergli,
oscurargli l'animo in guisa, ch'egli non conosce nè se stesso, nè la passione
che prova, nè l'oggetto di essa; rimane immobile, e senza azione esteriore, nè
{si può dire}, interiore. E perciò i sommi dolori
non si sentono nei primi momenti, nè tutti interi, ma nel successo dello spazio
e de' momenti, e per parti, come ho detto p. 366. - 368. Anzi non solo il sommo dolore, ma ogni somma passione,
ed anche ogni sensazione, ancorchè non somma, tuttavia tanto straordinaria, e,
per qualunque verso, grande, che l'animo nostro non sia capace di contenerla
716 tutta intera simultaneamente. Così sarebbe anche la
somma gioia.
[718,1] L'uomo d'immaginazione di sentimento e di entusiasmo,
privo della bellezza del corpo, è verso la natura appresso a poco quello ch'è
verso l'amata un amante ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell'amore.
Egli si slancia fervidamente verso la natura, ne sente profondissimamente tutta
la forza, tutto l'incanto, tutte le attrattive, tutta la bellezza, l'ama con
ogni trasporto, ma quasi che egli non fosse punto corrisposto, sente ch'egli non
è partecipe di questo bello che ama ed ammira, si vede fuor della sfera della
bellezza, come l'amante
719 escluso dal cuore, dalle
tenerezze, dalle compagnie dell'amata. Nella considerazione e nel sentimento
della natura e del bello, il ritorno sopra se stesso gli è sempre penoso. Egli
sente subito e continuamente che quel bello, quella cosa ch'egli ammira ed ama e
sente, non gli appartiene. Egli prova quello stesso dolore che si prova nel
considerare o nel vedere l'amata nelle braccia di un altro, o innamorata di un
altro, e del tutto noncurante di voi. Egli sente quasi che il bello e la natura
non è fatta per lui, ma per altri (e questi, cosa molto più acerba a
considerare, meno degni di lui, anzi indegnissimi del godimento del bello e
della natura, incapaci di sentirla e di conoscerla ec.): e prova quello stesso
disgusto e finissimo dolore di un povero affamato, che vede altri cibarsi
dilicatamente, largamente, e saporitamente, senza speranza nessuna di poter mai
gustare altrettanto. Egli insomma
720 si vede e conosce
{escluso senza speranza, e} non partecipe dei
favori di quella divinità che non solamente, ma gli è anzi così presente così
vicina, ch'egli la sente come dentro se stesso, e vi s'immedesima, dico la
bellezza astratta, e la natura. (5. Marzo 1821.).
[722,1] Lo sventurato non bello, e maggiormente se vecchio,
potrà esser compatito, ma difficilmente pianto. Così nelle tragedie, ne' poemi,
ne' romanzi ec. come nella vita. (6. Marzo 1821.)
[724,2] L'uomo è così inclinato alla lode, che anche in quelle
cose dov'egli non ha mai nè cercato nè curato di esser lodevole, e ch'egli stima
di nessun pregio, ancora in queste l'esser lodato lo compiace. Anzi spesso lo
indurrà a cercar di rialzare presso se stesso il pregio e l'opinione di quella
tal cosa minima nella quale è stato lodato; e a persuadersi che essa, o l'essere
lodevole in essa, non sia del tutto minimo nell'opinione altrui. (7. Marzo
1821.).
[829,1] La ingiuria eccita in tutti gli animi il desiderio di
vederla punita, {ma} negli alti il desiderio di
punirla. (20. Marzo 1821).
[930,1] Oggi l'uomo è nella società quello ch'è una colonna
d'aria rispetto a tutte le altre e a ciascuna di loro. S'ella cede, o per
rarefazione, o per qualunque conto, le colonne lontane premendo le vicine, {e queste premendo nè più nè meno in tutti i lati,} tutte
accorrono ad occupare e riempiere il suo posto. Così l'uomo nella società
egoista. L'uno premendo l'altro, quell'individuo che cede in qualunque maniera,
o per mancanza di abilità, o di forza, o per virtù, e perchè lasci un vuoto di egoismo, dev'esser sicuro di
esser subito calpestato dall'egoismo
che ha dintorno per tutti i lati: e di essere stritolato come una macchina {pneumatica} dalla quale, senza le debite precauzioni, si
fosse sottratta l'aria. (11. Aprile 1821.).
[958,1] Una delle principali cagioni per cui l'infelicità
rende l'uomo inetto al fare, e lo debilita e snerva, onde l'infelicità toglie la
forza, non è altra se non che l'infelicità debilità[debilita] l'amor di se stesso. E intendo massimamente della
infelicità grave e lunga. La quale col continuo contrasto che oppone all'amor di
se stesso che era nel paziente, {colla battaglia
ostinatissima e fortissima che gli fa,} e coll'obbligarlo ad uno stato
contrario del tutto a quello ch'è scopo, oggetto e desiderio di questo amore,
finalmente illanguidisce questo amore, rende l'uomo meno tenero di se stesso,
siccome avvezzo a sentirsi infelice malgrado gli sforzi che ci opponeva. Anzi
una tale infelicità, se non riduce l'uomo alla disperazion viva, e al suicidio o
all'odio di se stesso {ch'è il sommo grado, e la somma
intensità dell'amor proprio in tali circostanze,} lo deve ridurre per
necessità ad uno stato opposto, cioè alla freddezza e indifferenza verso se
stesso; giacchè s'egli continuasse ad essere così infiammato verso se medesimo,
com'era da principio, in che modo potrebbe sopportare la vita, o contentarsi di
sopravvivere, vedendo e sentendo sempre infelice questo oggetto del suo sommo
amore, e di tutta la sua vita sotto tutti i rispetti?
[960,2] Le sopraddette considerazioni possono portare ad una
gran generalità, e semplicizzare l'idea che abbiamo del sistema delle cose
umane, {o la teoria dell'uomo,} facendo conoscere come
sotto tutti i riguardi, ed in tutte le circostanze possibili della vita, agisca
quell'unico principio ch'è l'amor proprio, e come tutti gli effetti della vita
umana sieno proporzionati alla maggiore o minor forza, maggiore o minor
debolezza, e diversa direzione di quel solo movente: per quanto i detti effetti
si presentino a prima vista, come derivati da diverse cagioni. (19. Aprile
1821.).
[1011,1] Il sentimento moderno è un misto di sensuale e di spirituale, di carne e
di spirito; è la santificazione della carne (laddove la religion Cristiana è la
santificazione dello spirito); e perciò siccome il senso non si può mai
escludere dal vivente, questa sensibilità che lo santifica e purifica, è riconosciuto pel più
valevole rimedio e preservativo contro di lui, e contro delle sue bassezze.
(4. Maggio 1821.).
[1028,1]
1028 La cosa più durevolmente e veramente piacevole è
la varietà delle cose, non per altro se non perchè nessuna cosa è durevolmente e
veramente piacevole. (10. Maggio 1821.).
[1044,2] La rimembranza del piacere, si può paragonare alla
speranza, e produce appresso a poco gli stessi effetti. Come la speranza, ella
piace più del piacere; è assai più dolce il ricordarsi del bene (non mai
provato, ma che in lontananza sembra di aver provato) che il goderne, come è più
dolce lo sperarlo, perchè in lontananza sembra di poterlo gustare. La lontananza
giova egualmente all'uomo nell'una e nell'altra situazione; e si può conchiudere
che il peggior tempo della vita è quello del piacere, o del godimento.
(13. Maggio 1821.).
[1075,2] Quelli che non sogliono mai far nulla, e che per
conseguenza hanno più tempo libero, e da potere impiegare, sono {ordinariamente} i più difficili a trovare il tempo per
una
1076 occupazione, ancorchè di loro premura, a
ricordarsi di una cosa che bisogni fare, di una commissione che loro sia stata
data, e che anche prema loro di eseguire. Al contrario quelli che hanno la
giornata piena, e quindi meno tempo libero, e più cose da ricordarsi. La cagione
è chiara, cioè l'abito di negligenza nei primi, e di diligenza nei secondi
(22. Maggio 1821.). {+E
lo stesso differente effetto si vede anche in una stessa persona, secondo i
diversi abiti e metodi temporanei di attività e diligenza, o inattività e
negligenza.}
[1083,1]
1083 Alla considerazione della grazia derivante dallo
straordinario, spetta in parte il vedere che uno de' mezzi più frequenti e
sicuri di piacere alle donne, è quello di trattarle con dispregio e motteggiarle
ec. Il che anche deriva da un certo contrasto ec. che forma il piccante. {+E ancora dall'amor proprio messo in
movimento, e renduto desideroso dell'amore e della stima di chi ti
dispregia, perch'ella ti pare più difficile, e quindi la brami di più ec. E
così accade anche agli uomini verso le donne o ritrose, o motteggianti
ec.}
(24. Maggio 1821.).
[1103,1]
1103 La poca memoria de' bambini e de' fanciulli, che
si conosce anche dalla dimenticanza in cui tutti siamo de' primi avvenimenti
della nostra vita, e giù giù proporzionatamente e gradatamente, non potrebbe
attribuirsi (almeno in gran parte) alla mancanza di linguaggio ne' bambini, e
alla imperfezione e scarsezza di esso ne' fanciulli? Essendo certo che la
memoria dell'uomo è impotentissima (come il pensiero e l'intelletto) senza
l'aiuto de' segni che fissino le sue idee, e reminiscenze. (V. Sulzer ec. nella Scelta di Opusc. interessanti.
Milano 1775. p. 65. fine, e segg.) Ed
osservate che questa poca memoria non può derivare da debolezza di organi,
mentre tutti sanno che l'uomo si ricorda perpetuamente, e più vivamente che mai,
delle impressioni della infanzia, ancorchè abbia perduto la memoria per le cose
vicinissime e presenti. E le più antiche reminiscenze sono in noi le più vive e
durevoli. Ma elle cominciano giusto da quel punto dove il fanciullo ha già
acquistato un linguaggio sufficiente, ovvero da quelle {prime} idee, che noi concepimmo unitamente ai loro segni, e che noi
potemmo fissare colle parole. Come la prima mia ricordanza è di alcune pere
moscadelle che io vedeva, e sentiva nominare al tempo stesso. (28. Maggio
1821.).
[1163,1] Il miglior uso ed effetto della ragione e della
riflessione, è distruggere o minorare nell'uomo la ragione e la riflessione, e
l'uso e gli effetti loro. (13. Giugno 1821.).
[1165,2] Tutti quanti i giovani, benchè qual più qual meno,
sono per natura disposti all'entusiasmo, e ne provano. Ma l'entusiasmo de'
giovani oggidì, coll'uso del mondo, e coll'esperienza delle cose che {quelli} da principio vedevano da lontano, si spegne non
in altro modo nè per diversa cagione, che una facella per difetto di alimento:
anche durando la gioventù, e la potenza naturale dell'entusiasmo. (13.
Giugno 1821.).
[1169,1] L'ardore giovanile è la maggior forza, l'apice, la
perfezione, l'ἀκμή della natura umana. Si consideri dunque la convenienza di
quei sistemi politici, nei quali l'ἀκμή dell'uomo, cioè l'ardore e la
1170 forza giovanile, non è punto considerata, ed è
messa del tutto fuori del calcolo, come ho detto in altro pensiero pp.
195-96. (15. Giugno 1821.).
[1176,1] Ho detto altrove p. 714 che il
troppo, spesse volte è padre del nulla. Osserviamolo ora nel genio e nelle
facoltà della mente. Certi ingegni straordinarissimi che la natura alcune volte
ha prodotti quasi per miracolo, sono stati o del tutto o quasi inutili, appunto
a cagione della soverchia forza o del loro intelletto o della loro
immaginazione, che finiva nel non potersi risolvere in nulla, nè dare alcun
frutto determinato.
[1254,4] Io nel povero ingegno mio, non ho riconosciuto altra
differenza dagl'ingegni volgari, che una facilità
1255
di assuefarlo a quello ch'io volessi, e quando io volessi, e di fargli contrarre
abitudine forte e radicata, in poco tempo. Leggendo una poesia, divenir
facilmente poeta; un logico, logico; un pensatore, acquistar subito l'abito di
pensare nella giornata; uno stile, saperlo subito o ben presto imitare ec.;
{+una maniera di tratto che mi
paresse conveniente, contrarne l'abitudine in poco d'ora ec. ec. {+v. p. 1312.} Il volgo che spesso
indovina, e nelle sue metafore esprime, senza saperlo, delle grandi verità,
e dei sensi piuttosto propri che metaforici, sebben tali nell'intenzione,
chiama fra noi, (e s'usa dire familiarmente anche fra i colti, ed anche
scrivendo) testa o cervello duro (cioè {organi} non
pieghevoli, e quindi non facili ad assuefarsi) chi non è facile ad imparare.
L'imparare non è altro che assuefarsi.}
[1260,2] A quello che altrove pp. 461-62
pp.
714-16 ho detto circa l'impossibilità di far bene quello che si fa con
troppa cura, si può aggiungere quello che dice l'Alfieri
{nella sua Vita} della matta attenzione ch'egli poneva a tutte le minuzie nelle
sue prime letture e studi de' Classici: e quello che ci avviene p. e. nello
studio delle lingue. Nel quale osservate che da principio per la somma
attenzione che ponete a ogni menoma cosa, leggendo in quella tal lingua, vi
riescono gli scrittori sempre (più o meno) difficili. Laddove bene spesso, se si
dà il caso, che
1261 voi abbiate intralasciato per
qualche tempo lo studio di quella lingua, e perduto l'abito di quella minuta
attenzione, ripigliando poi a leggere in detta lingua qualche pagina, e credendo
di trovarci maggior difficoltà per l'interrompimento dell'esercizio, vi trovate
al contrario molto più spedito di prima. Così pure, senza averla intralasciata,
ma solamente pigliando a leggere qualche cosa in detta lingua non con animo di
studio o di esercizio, ma solo di passare il tempo, o divertirvi, o in qualunque
modo con intenzione alquanto, più o meno, rilasciata. Così dopo avere o credere
di aver già imparata quella lingua, quando leggiamo non più come scolari, ma
disinvoltamente e come semplici lettori. Nel qual tempo trovando forse
difficoltà reali maggiori di quando leggevamo per istudio, non ci fanno gran
caso, nè c'impediscono {e trattengono} più che tanto,
nè ci tolgono una spedita facilità. In somma non si arriva mai a leggere
speditamente una lingua nuova, se non quando si lascia l'intenzione di studioso
per prendere quella di lettore, e durando la prima, solamente per sua cagione,
ed anche senza veruna difficoltà reale,
1262 si trovano
sempre intoppi, che altri non troverà nelle stesse circostanze, e colla stessa
perizia, ma con diversa intenzione. {Così non si trova piacere, nè facilità, nella semplice lettura, anche
in nostra lingua, quando si legge con troppo studio ec.}
({1-2.} Luglio 1821.).
[1315,1] Il successivo cambiamento delle disposizioni
dell'animo di ciascun uomo secondo l'età, è una fedele e costante immagine del
cambiamento delle generazioni umane nel processo de' secoli. {+(E così viceversa).} Eccetto che è
sproporzionamente[sproporzionatamente]
rapido, massimamente oggidì, perchè il giovane di venticinque anni non serba più
somiglianza alcuna col tempo antico, nè veruna qualità, opinione, disposizione,
inclinazione antica, come l'immaginazione, la virtù ec. ec. ec. (13.
Luglio 1821.).
[1319,1] Del resto quanto la pura opinione indipendente
dall'assuefazione stessa e da ogni altra cosa, influisca sul giudizio e senso
del bello, si potrebbe mostrare con mille prove le più quotidiane, quantunque
perciò appunto meno avvertite. Chi non sa che una bellezza mediocre, ci par
grande, s'ella ha gran fama? E che ci sentiamo più inclinati, e proviamo il
senso della bellezza molto più vivo nel mirare una donna famosa per la
1320 beltà, che nel mirarne una più bella, ma ignota, o
meno famosa. Così pure se una donna non è bella, ma ha nome di esserlo o è
celebre per avventure galanti, o è stata contrastata ec. ec. ec. {+Così dico degli uomini rispetto alle
donne ec. ec.} Così negli scrittori: il senso del bello è molto
maggiore, più intimo, più frequente, più minuto, quando leggiamo p. e. un poeta
già famoso, e di merito già riconosciuto, che quando ne leggiamo uno, del cui
merito abbiamo da giudicare, sia pur egli più bello di molti altri che
sommamente ci dilettano. Il formare il gusto, in grandissima parte non è altro
che il contrarre un'opinione. Se il tal gusto, il tal genere ec. è disprezzato,
o se tu in particolare lo disprezzi, quell'opera di quel tal gusto o genere ec.
non piace. Nel caso contrario, e se tu cambi opinione, ecco che quella stessa
opera ti dà sommo piacere, e ci trovi infinite bellezze di cui prima neppur
sospettavi. Questo caso è frequentissimo in ogni genere di cose. Pochissimi
trovavano piacere nella lettura del buono stile italiano, durante l'ultima metà
del secolo passato, e i primi anni di questo. Oggi moltissimi; e quei medesimi
che non vi trovavano alcun diletto, {anzi noia ec.,}
oggi se ne pascono con gran piacere, perchè l'opinione in
italia è cambiata. Fra questi così cambiati, sono
ancor io.
[1328,1] L'azione viva e straordinaria, è sempre, o bene
spesso, cagione d'allegria, purchè non abbatta il corpo. (15. Luglio
1821.).
[1347,1] Io non avendo mai letto scrittori metafisici, e
occupandomi di tutt'altri studi, e null'avendo imparato di queste materie alle
scuole (che non ho mai vedute), aveva già ritrovata la falsità delle idee
innate, indovinato l'Ottimismo
1348 del Leibnizio, e scoperto il principio, che
tutto il progresso delle cognizioni consiste in concepire che un'idea ne
contiene un'altra; il quale è la somma della tutta nuova scienza ideologica. Or
come ho potuto io povero ingegno, senza verun soccorso, e con poche riflessioni,
trovar da me solo queste profondissime, e quasi ultime verità, che ignorate per
60. secoli, hanno poi mutato faccia alla metafisica, e quasi al sapere umano?
Com'è possibile che {di} tanti sommi geni, in tutto il
detto tempo, nessuno abbia saputo veder quello, ch'io piccolo spirito, ho veduto
da me, ed anche con minori cognizioni in queste materie, di quelle che molti di
essi avranno avuto?
[1387,2] I giovani massime alquanto istruiti prima di entrare
nel mondo, credono facilmente e fermamente in generale, quello che sentono o
leggono delle cose umane, ma nel particolare non mai. E il frutto
dell'esperienza è persuadere a' giovani, {quanto alla vita
umana,} che il generale si verifica effettivamente in tutti o in quasi
tutti i particolari, e in ciascuno di essi. (25. Luglio 1821.).
[1393,1]
1393 A volere che il ridicolo primieramente giovi,
secondariamente piaccia vivamente, e durevolmente, cioè la sua continuazione non
annoi, deve cadere sopra qualcosa di serio, e d'importante. Se il ridicolo cade
sopra bagattelle, e sopra, dirò quasi, lo stesso ridicolo, oltre che nulla
giova, poco diletta, e presto annoia. Quanto più la materia del ridicolo è
seria, quanto più importa, tanto il ridicolo è più dilettevole, anche per il
contrasto ec. Ne' miei dialoghi io cercherò di portar la commedia a quello che
finora è stato proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i principii
fondamentali delle calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica,
le sconvenienze appartenenti alla morale universale, e alla filosofia,
l'andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della
società, della civiltà presente, le disgrazie e le rivoluzioni e le condizioni
del mondo, i vizi e le infamie non degli uomini ma dell'uomo, lo stato delle
nazioni ec. E credo che le armi del ridicolo, massime in questo {ridicolissimo e} freddissimo tempo, e anche per la loro
natural forza, potranno giovare più di quelle della passione, dell'affetto,
dell'immaginazione dell'eloquenza; e anche più di quelle del ragionamento,
1394 benchè oggi assai forti. Così a scuotere la mia
povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi dell'affetto e
dell'entusiasmo e dell'eloquenza e dell'immaginazione nella lirica, e in quelle
prose letterarie ch'io potrò scrivere; le armi della ragione, della logica,
della filosofia, ne' Trattati filosofici ch'io dispongo; e le armi del ridicolo
ne' dialoghi e novelle Lucianee ch'io
vo preparando.
Iliaci cineres, et flamma extrema meorum,
Testor, in occasu vestro, nec tela, nec ullas
Vitavisse vices Danaum; et, si fata fuissent,
Ut caderem, meruisse manu * (Virg. Aen. 2. 431. seqq.). (27. Luglio. 1821.).
Iliaci cineres, et flamma extrema meorum,
Testor, in occasu vestro, nec tela, nec ullas
Vitavisse vices Danaum; et, si fata fuissent,
Ut caderem, meruisse manu * (Virg. Aen. 2. 431. seqq.). (27. Luglio. 1821.).
[1401,1] Mi dicono che io da fanciullino di tre o quattro
anni, stava sempre dietro a questa o quella persona perchè mi raccontasse delle
favole. E mi ricordo ancor io che in poco maggior età, era innamorato dei
racconti, e del maraviglioso che si percepisce coll'udito, o colla lettura
(giacchè seppi leggere, ed amai di leggere, assai presto). Questi, secondo me,
sono indizi notabili d'ingegno non ordinario e prematuro. Il bambino quando
nasce, non è disposto ad altri piaceri che di succhiare il latte, dormire, e
simili. Appoco appoco, mediante la sola assuefazione, si rende capace di altri
piaceri sensibili, e finalmente va per gradi avvezzandosi, fino a provar piaceri
meno dipendenti dai sensi. Il piacere dei racconti, sebbene questi vertano sopra
cose sensibili e materiali, è però tutto intellettuale, o appartenente alla
immaginazione, e per nulla corporale nè spettante ai sensi. L'esser divenuto
capace di questi piaceri assai di buon'ora, indica manifestamente una
felicissima disposizione, pieghevolezza ec. degli organi intellettuali, o
mentali,
1402 una gran facoltà e vivezza
d'immaginazione, una gran facilità di assuefazione, e pronto sviluppo delle
facoltà dell'ingegno ec. (28. Luglio 1821.).
[1421,2] L'attendere {e il
riflettere} non è altro che il fissare la mente o il pensiero, il fermarlo ec. Abito che produce la
scienza, l'invenzione, l'uomo riflessivo ec. Abito puro, come facilmente può
considerare ciascun uomo riflessivo in se stesso, e notare ch'egli esercita
quest'abito anche senz'avvedersene, e nelle cose che meno gl'importano, e
giornalmente. Abito però poco comune, e però poco frequenti sono i pensatori, e
i riflessivi ec. (31. Luglio 1821.). {{V. p. 1434.
princip.}}
[1436,1] Mirabile disposizione della natura! Il giovane non
crede alle storie, benchè sappia che son vere, cioè non crede che debbano
avverarsi ne' particolari della sua vita, degli uomini ch'egli conosce, {e} tratta, o conoscerà e tratterà, e spera di trovare il
mondo assai diverso, almeno in quanto a se stesso, e per modo di eccezione. E
crede pienamente a' poemi e romanzi, benchè sappia che sono falsi, cioè se ne
lascia persuadere che il mondo sia fatto e vada in quel
1437 modo, e crede di trovarlo così. Di maniera che le storie che
dovrebbero fare per lui le veci dell'esperienza, e così pure gl'insegnamenti
filosofici ec. gli restano inutili, non già per capriccio, nè ostinazione, nè
piccolezza d'ingegno, ma per opera universale e invincibile della natura. E solo
quando egli è dentro a questo mondo sì cambiato dalla condizione naturale,
l'esperienza lo costringe a credere quello che la natura gli nascondeva, perchè
neppur nel fatto era conforme alle di lei disposizioni. Segno che il mondo è
tutto il rovescio di quello che dovrebbe, poichè il giovane che non ha altra
regola di giudizio, se non la natura, e quindi è giudice competentissimo,
giudica sempre ed inevitabilmente vero il falso, e falso il vero. (2.
Agosto. 1821.).
[1448,1] È vero che la poesia propria de' nostri tempi è la
sentimentale. Pure un uomo di genio, giunto a una certa età, quando ha il cuor
disseccato dall'esperienza e dal sapere, può più facilmente scriver belle poesie
d'immaginazione che di sentimento, perchè quella si può in qualche modo
comandare, questo no, o molto meno. E se il poeta scrivendo non
1449 è riscaldato dall'immaginazione, può felicemente
fingerlo, aiutandosi della rimembranza di quando lo era, e richiamando,
raccogliendo, e dipingendo le sue fantasie passate. Non così facilmente quanto
alla passione. E generalmente io credo che il poeta vecchio sia meglio adattato
alla poesia d'immaginazione, che a quella di sentimento proprio, cioè ben diverso dalla filosofia, dal pensiero
ec. E di ciò si potrebbero forse recare molti esempi di fatto, antichi e
moderni, contro quello che pare a prima vista, perchè l'immaginazione è propria
de' fanciulli, e il sentimento degli adulti. (3. Agosto. 1821.).
{{V. p. 1548.}}
[1450,1] Da quanto ho detto altrove p. 1254 che
l'ingegno è facilità di assuefarsi, e che questa facilità include quella di
mutare assuefazioni, di contrarne delle nuove in pregiudizio delle passate ec.
risulta che i grandi ingegni denno ordinariamente esser mutabilissimi (di
opinioni, di gusti, di stili, di modi, ec. ec.) non già per
1451 quella volubilità che nasce da leggerezza, e questa da poca forza
d'ingegno e di concezioni e sensazioni ec. ma per la facilità di assuefarsi, e
quindi di far progressi. Però la mutabilità, quando conduca sempre più avanti,
ancorchè produca nell'uomo delle condizioni tutte contrarie alle passate, è
sempre indizio di grande ingegno, anzi sua necessaria qualità. Ed infatti
grandissima differenza si suol trovare p. e. tra le prime e le ultime opere di
un grande scrittore (sia nel genere, sia nello stile, sia nelle opinioni, sia
ne' pregi particolari o qualità ec. sia in tutte queste cose insieme), e nessuna
o pochissima in quelle de' mediocri, o degl'infimi. Paragonate il Rinaldo del Tasso, o la prima Tragedia
del Metastasio o dell'Alfieri colle ultime ec. Così pure
nelle inclinazioni della vita o degli studi, ne' gusti letterarii ec. Così dico
anche rispetto alle sue assuefazioni e abilità materiali ec. (4. Agos.
1821.).
[1472,2] Non hanno torto i padri e le madri che amano la vita
metodica, senza varietà, senza
1473 commozioni, senza
troppe fatiche, la pace domestica ec. I loro gusti, le loro inclinazioni possono
ben difendersi, e v'è tanto da dire per la morte come per la vita, dice la Staël. Ma il gran torto {degli educatori} è di volere che ai giovani piaccia
quello che piace alla vecchiezza o alla maturità; che la vita giovanile non
differisca dalla matura; di voler sopprimere la differenza di gusti di desiderii
ec. che la natura invincibile e immutabile ha posta fra l'età de' loro allievi,
e la loro, o {non} volerla riconoscere, o volerne
affatto prescindere; di credere che la gioventù de' loro allievi debba o possa
riuscire essenzialmente, e {quasi} spontaneamente
diversa dalla propria loro, e da quella di tutti i passati presenti e futuri; di
volere che gli ammaestramenti, i comandi, e la forza della necessità suppliscano
all'esperienza ec. (9. Agos. 1821.).
[1473,1] Quel giovane che fu d'animo eroico nella virtù (come
sogliono essere tutti quelli che nascono con grande e forte immaginazione e
sentimento), se per forza dell'esperienza, delle
1474
sventure, degli esempi, disingannato della virtù, arriva a lasciarla, diviene
eroico nel vizio, e capace di molto maggiori errori, che non sono gli altri ec.
Non già per una continuazione di entusiasmo applicato al male, ma per un eccesso
di freddezza che è sempre compagna della malvagità. Egli diviene un eroe di
freddezza, e tanto più intrepido, duro, ghiacciato, quanto era stato più
fervido. Come quei vapori che si convertono in grandine, i quali non si
stringerebbero nel più duro, denso, e sodo ghiaccio che possa formarsi
nell'aria, se straordinario calore non gli avesse innalzati a straordinaria
sublimità. In tutte le cose gli eccessi si toccano assai più fra loro, che col
loro mezzo, e l'uomo eccessivo in qualunque cosa, è molto più inclinato e
proclive all'eccesso contrario che al mezzo. Ed è molto più facile, conseguente, e naturale per la forza e la qualità di un'indole eccessiva, il saltare dall'uno
all'opposto estremo, che il recarsi e fermarsi nel mezzo ec. ec. (9. Agos.
1821.)
[1510,1] Il bambino non ha idea veruna di quello che
significhino le fisonomie degli uomini, ma cominciando a impararlo
coll'esperienza, comincia a giudicar bella quella fisonomia che indica un
carattere o un costume piacevole ec. e viceversa. E bene spesso s'inganna
giudicando bella e bellissima una fisonomia d'espressione piacevole, ma per se
bruttissima, e dura in questo inganno lunghissimo tempo, e forse sempre (a causa
della prima impressione); e non s'inganna per altro se non perchè ancora non ha
punto l'idea distinta ed esatta del bello, e del regolare, cioè di quello ch'è
universale, il che egli ancora non può conoscere. Frattanto questa
significazione delle fisonomie, ch'è del tutto diversa dalla bellezza assoluta,
e non è altro che un rapporto messo
1511 dalla natura
fra l'interno e l'esterno, fra le abitudini ec. e la figura; questa
significazione dico, è una parte principalissima della bellezza, una delle
capitali ragioni per cui questa fisonomia ci produce la sensazione del bello, e
quella il contrario. Non è mai bella fisonomia veruna, che {non} significhi qualche cosa di piacevole (non dico di buono nè di
cattivo, e il piacevole può bene spesso, secondo i gusti, e le diverse
modificazioni dello spirito, del giudizio, e delle inclinazioni umane esser
anche cattivo): ed è sempre brutta quella fisonomia che indica cose
dispiacevoli, fosse anche regolarissima. Si conosce ch'ella è regolare, cioè
conforme alle proporzioni universali ed a cui siamo avvezzi, e nondimeno si
sente che non è bella. Ma ordinariamente, com'è naturale, la regolarità perfetta
della fisonomia indica qualità piacevoli, a causa della corrispondenza che la
natura ha posto fra la regolarità interna e l'esterna. Ed è quasi certo che una
tal fisonomia appartiene sempre a persona di carattere naturalmente perfetto ec.
Ma siccome
1512 l'interno degli uomini perde il suo
stato naturale, e l'esterno più o meno lo conserva, perciò la significazione del
viso è per lo più falsa; e noi sapendo ben questo allorchè vediamo un bel viso,
e nondimeno sentendocene egualmente dilettati (e forse talvolta egualmente
commossi), crediamo che questo effetto sia del tutto indipendente dalla
significazione di quel viso, e derivi da una causa del tutto segregata ed
astratta, che chiamiamo bellezza. E c'inganniamo interamente perchè l'effetto
{particolare} della bellezza umana sull'uomo {+(parlo specialmente del viso che n'è la
parte principale, e v. ciò che ho detto altrove in tal proposito pp.
1379-81)} deriva sempre essenzialmente dalla significazione
ch'ella contiene, e ch'è del tutto indipendente dalla sfera del bello, e per
niente astratta nè assoluta: perchè se le qualità piacevoli fossero naturalmente
dinotate da tutt'altra ed anche contraria forma di fisonomia, questa ci parrebbe
bella, e brutta quella che ora ci pare l'opposto. Ciò è tanto vero che, siccome
l'interno dell'uomo, come ho detto, si cambia, e la fisonomia non corrisponde
alle sue qualità (per la maggior parte acquisite), perciò accade che quella tal
fisonomia irregolare
1513 irregolare in se, ma che ha
acquistata o per arte, o per altro, una significazione piacevole, ci piace, e ci
par più bella di un'altra regolarissima che per contrarie circostanze abbia
acquistata una significazione non piacevole; nel qual caso ella può anche
arrivarci a dispiacere e parer brutta. E se una fisonomia è fortemente
irregolare, ma o per natura (che talvolta ha eccezioni e fenomeni, come accade
in un sì vasto sistema), o per arte, o per la effettiva piacevolezza della
persona che influisce pur sempre sull'aria del viso, ha una significazione
notabilmente piacevole; noi potremo accorgerci della sproporzione e sconvenienza
colle forme universali, ma non potremo mai chiamar brutta quella fisonomia, e
talvolta non ci accorgeremo neppure della irregolarità, e se non la consideriamo
attentamente, la chiameremo bella. (17. Agos. 1821.). {{V. p. 1529. capoverso 2.}}
[1540,1] Come tutto sia assuefazione ne' viventi, si può
anche vedere negli effetti della
1541 lettura. Un uomo
diviene eloquente a forza di legger libri eloquenti; inventivo, originale,
pensatore, matematico, ragionatore, poeta, a forza ec. Sviluppate questo
pensiero, applicandovi l'esempio mio, e distinguendolo secondi[secondo] i gradi di adattabilità, e formabilità naturale o
acquisita degl'individui. Quei romanzieri la cui fecondità ec. d'invenzione ci
fa stupire, hanno per lo più letto gran quantità di romanzi, racconti ec. e
quindi {la loro immaginazione ha} acquistata una
facoltà che qualunque ingegno, in parità di circostanze esteriori e indipendenti
dalla sua natura, sarebbe capace di acquistare, in grado per lo meno
somigliante. (21. Agos. 1821.).
[1541,1] Lo stesso dico degli altri studi indipendenti dalla
lettura. Ed è tanto vero che le dette facoltà vengono dall'assuefazione, ch'elle
si acquistano, e si perdono coll'interruzione dell'esercizio, e tale che poco fa
era dispostissimo a ragionare, oggi non lo è più. E s'egli da' ragionatori,
passa agli scrittori d'immaginazione, la sua mente, mutato abito,
1542 acquista una facoltà d'immaginare ec. ec. ec. Così
m'è accaduto mille volte. Bensì, com'è naturale, questi abiti si possono
(mediante sempre l'assuefazione) confermare in modo che anche interrotto
l'esercizio, non si perdano, benchè s'indeboliscano; o si possano presto
ripigliare ec. ec. ec. Questo effetto è generale in tutte le assuefazioni.
(21. Agos. 1821.).
[1542,1] Un altr'abito bisogna ancora contrarre e
massimamente nella fanciullezza. Quello cioè di applicare le dette assuefazioni
alla pratica, quello di metterle a frutto, e di farle servire all'esecuzione di
cose proprie. P. e. molti vi sono, che hanno squisito giudizio, moltissima
lettura, cognizione ec. Non manca loro altro che il detto abito per essere
insigni scrittori: ma stante questa mancanza, metteteli a scrivere, essi non
sanno far nulla. Essi non hanno l'abito, e quindi la facoltà dell'applicazione,
e dell'esecuzione propria ec. Perciò un uomo il quale (volendo seguitare
l'esempio di sopra) abbia letto molti romanzi, e sia d'ottimo giudizio ec. ec.
può benissimo non saperne nè scrivere nè concepire, perchè non ha l'abito
1543 dell'applicazione, e del fissare la mente a tirar
profitto coll'opera propria da quelle assuefazioni; non ha l'esercizio dello
scrivere, nè del pensare a questo fine, nè del mirare a ciò nell'assuefarsi ec.
ec. ec. {+non ha l'abito dell'attendere e
del riflettere alle minuzie, ch'è necessario per assuefarsi a porre in opera
le {altre} assuefazioni; non ha l'abito della
fatica ec. E perciò molti ancora, anzi i più, leggono anche moltissimo, non
solo senza contrarne abilità d'eseguire (ch'è insomma abilità d'imitazione),
ma neppur di pensare, e senza guadagnar nulla, nè contrarre quasi
verun'abitudine, cioè attitudine. {v. p. 1558.}}
(22. Agos. 1821.).
[1543,1] Tutti più o meno (massimamente le persone che hanno
coltivato il loro intelletto, e sviluppatene le qualità, e quelle che sono
ammaestrate da molta esperienza ec.) concepiscono in vita loro delle idee, delle
riflessioni, delle immagini ec. o nuove, o sotto un nuovo aspetto, o tali
insomma che bene {e convenientement}e espresse nella
scrittura, potrebbero esser utili o piacevoli, e separar quello scrittore, se
non altro, dal numero de' copisti. Ma perchè gl'ingegni (massime in
italia) non hanno l'abito di fissar fra se stessi,
circoscrivere, e chiarificare le loro idee, perciò queste restano per lo più
nella loro mente in uno stato incapace di esser consegnate e adoperate nella
scrittura; e i più, quando si mettono a scrivere, non trovando niente del loro
che faccia al caso, si contentano di copiare, o compilare, o travestire
l'altrui; e neppur si ricordano, nè credono, nè
1544
s'immaginano, nè pensano in verun modo a quelle idee proprie che pur hanno, e di
cui potrebbero far sì buon uso. Mancano pure dell'abito di saper
convenientemente esprimere idee nuove, o in nuova maniera, cioè di applicare per
la prima volta la parola e l'espressione conveniente ad un'idea, di fabbricarle
una veste adattata alla scrittura; e perciò, quando anche le concepiscano
chiaramente, le lasciano da banda, non sapendo darle giorno, e disperando, anzi
neppur desiderando di potere, e si rivolgono alle idee altrui che hanno già le
loro vesti belle e fatte. Che se essi talvolta si lasciano portare a volere
esprimere le dette idee proprie, per la mancanza di abilità acquistata
coll'esercizio, lo fanno miserabilmente. Questo esercizio è tanto necessario,
che io per l'una parte loderò moltissimo, per l'altra piglierò sempre buonissima
speranza di un fanciullo o di un giovane, il quale ponendosi a scrivere e
comporre, vada sempre dietro alle idee proprie, e voglia a ogni costo
esprimerle, siano pur frivole com'è naturale nei principii della riflessione, e
malamente espresse, com'è naturale ne' principii dello scrivere e dell'applicare
1545 i segni ai pensieri. A me pare ch'io fossi uno
di questi. (22 Agos. 1821.).
[1554,2] In questo presente stato di cose, non abbiamo gran
mali, è vero, ma nessun bene; e questa mancanza è un male grandissimo, continuo,
intollerabile, che rende penosa tutta quanta la vita, laddove i mali parziali,
ne affliggono solamente una parte. L'amor proprio, e quindi il desiderio
ardentissimo della felicità, perpetuo ed essenzial compagno della vita
1555 umana, se non è calmato da verun piacere {vivo,} affligge la nostra esistenza crudelmente, quando
anche non v'abbiano altri mali. E i mali son meno dannosi alla felicità che la
noia ec. anzi talvolta utili alla stessa felicità. L'indifferenza non è lo stato
dell'uomo; è contrario dirittamente alla sua natura, e quindi alla sua felicità.
V. la mia teoria del piacere,
applicandola a queste osservazioni, che dimostrano la superiorità del mondo
antico sul moderno, in ordine alla felicità, come pure dell'età fanciullesca o
giovanile sulla matura. (24. Agos. 1821.).
[1555,1] Consideriamo la natura. Qual è quell'età che la
natura ha ordinato nell'uomo alla maggior felicità di cui egli è capace? Forse
la vecchiezza? cioè quando le facoltà dell'uomo decadono visibilmente; quando
egli si appassisce, indebolisce, deperisce? Questa sarebbe una contraddizione,
che la felicità, cioè la perfezione dell'essere, dovesse naturalmente trovarsi
nel tempo della decadenza e quasi corruzione di detto essere. Dunque la
gioventù, cioè il fior dell'età, quando le facoltà dell'uomo sono in pieno
vigore ec. ec.
1556 Quella è l'epoca della perfezione e
quindi della possibile felicità sì dell'uomo che delle altre cose. Ora la
gioventù è l'evidente immagine del tempo antico, la vecchiezza del moderno. Il
giovane e l'antico presentano grandi mali, congiunti a grandi beni, passioni
vive, attività, entusiasmo, follie non poche, movimento, vita d'ogni sorta. Se
dunque la gioventù è visibilmente l'età destinata dalla natura alla maggior
felicità, l'ἀκμή della vita, e per conseguenza della felicità ec. ec. se il
nostro intimo senso ce ne convince (che nessun vecchio non desidera di esser
giovane, e nessun giovane vorrebbe esser vecchio); se la considerazione del
sistema e delle armonie della natura ce lo dimostra a primissima vista; dunque
l'antico tempo era più felice del moderno; dunque che cosa è la sognata
perfettibilità dell'uomo? dunque ec. ec. Quest'osservazione si può stendere a
larghissime conseguenze. (24. Agos. 1821.).
[1572,3] Quanto l'uomo sia invincibilmente inclinato a
misurar gli altri da se stesso, si può vedere anche nelle persone le più
pratiche del mondo. Le quali se, p. e. sono fortemente morali, per quanto
conoscano, e sentano e vedano, non si persuaderanno mai intimamente che la
moralità non esista più, e
1573 sia del tutto esclusa
dai motivi determinanti l'animo umano. Lo dirà ancora, lo sosterrà, in qualche
accesso di misantropia arriverà a crederlo, ma come si crede momentaneamente a
una viva e conosciuta illusione, e non se ne persuaderà mai nel fondo
dell'intelletto. (Lascio i giovani i quali essendo ordinariamente virtuosi, non
si convincono mai prima dell'esperienza, che la virtù sia nemmeno rara.) Così
viceversa ec. ec. ec. Esempio, mio padre. (27. Agosto. 1821.).
[1573,1] Dice Cicerone (il luogo lo cita, se ben mi ricordo, il Mai, prefazione alla versione d'isocrate, de
Permutatione) che gli uomini di gusto nell'eloquenza non
si appagano mai pienamente nè delle loro opere nè delle altrui, e che la mente
loro semper divinum aliquid atque infinitum
desiderat,
*
a cui le forze dell'eloquenza non
arrivano. Questo detto è notabilissimo riguardo all'arte, alla critica, al
gusto.
[1580,1] Dalla mia teoria
del piacere si conosce per qual ragione si provi diletto in questa
vita, quando senza aspettarne nè desiderarne vivamente nessuno, l'animo riposato
e indifferente, si getta, per così dire, alla ventura in mezzo alle cose, agli
avvenimenti, e agli stessi divertimenti ec. Questo stato non curante de' piaceri
nè de' dolori, è forse uno de' maggiori piaceri, non solo per altre cagioni, ma
per se stesso.
[1586,1] La scienza non supplisce mai all'esperienza, cosa
generalissima ed evidentissima. Il medico colla sola teorica non sa curar gli
ammalati; il musico fornito della sola teoria della sua professione, non sa nè
comporre nè eseguire una melodia; il letterato che non ha mai scritto, non sa
scrivere; il filosofo che non
1587 ha veduto il mondo
da presso, non lo conosce. I principi pertanto non conoscono mai gli uomini,
perchè non ne ponno mai pigliare esperienza, vedendo sempre il mondo sotto una
forma ch'egli non ha. Lascio le adulazioni, le menzogne, le finzioni ec. de'
cortigiani; ma prescindendo da questo, il principe non ha cogli altri uomini se
non tali relazioni, che essi non hanno con verun altro. Ora le relazioni ch'egli
ha con gli uomini, sono l'unico mezzo ch'egli ha di acquistarne esperienza.
Dunque egli non può mai conoscer {la vera natura di}
coloro a' quali comanda, e de' quali deve regolar la vita. Io ho molto
conosciuto una Signora che non essendo quasi mai uscita dal suo cerchio
domestico, ed avvezza a esser sempre ubbidita, non aveva imparato mai a
comandare, non aveva la menoma idea di quest'arte, nutriva in questo proposito
mille opinioni assurde e ridicole, e se talvolta non era ubbidita, perdeva la
carta del navigare. Ell'era frattanto di molto spirito e talento,
sufficientemente istruita, e studiosamente educata. Ella si figurava gli uomini
affatto diversi da quel che sono:
1588 il principe che
ne vede e tratta assai più, benchè li veda assai più diversi da quelli che sono,
tuttavia potrà conoscerli forse alquanto meglio; ma proporzionatamente parlando,
e attesa la tanto maggior cognizione degli uomini che bisogna a governare una
nazione, di quella che a governare una famiglia, io credo che un principe sappia
tanto regnare, quanto quella dama comandare a' figli e a' domestici. Sotto
questo riguardo il regno elettivo sarebbe assai preferibile all'ereditario. Vero
è però che niuno conosce gli uomini interamente, come bisognerebbe per ben
governarli. Connaître un
autre parfaitement serait l'étude d'une vie entière; qu'est-ce donc
qu'on entend par connaître les hommes? les gouverner, cela se peut, mais
les comprendre, Dieu seul le fait.
*
(Corinne. l. 10. ch. 1. t. 2. p. 114.)
(30. Agos. 1821.)
[1588,1]
La manière de vivre des
Chartreux suppose, dans les hommes qui son[sont] capables de la mener, ou un esprit extrêmement borné,
ou la plus noble et la plus continuelle exaltation des sentiments
religieux.
*
(Corinne. lieu cité
ci-dessus. p. 113.). Così è: l'inattività e la monotonia non conviene
che agli spiriti menomi
1589 o sommi. Gli uni e gli
altri per diversissima ragione cercano il metodo e il riposo. Gli uni per sopire
i desiderii che li tormentano, gli altri perchè non ne hanno. Gli uni perchè la
vita non basta loro, si rifuggono alla morte, gli altri perchè il loro animo non
vive. Gli uni ancora perchè non hanno bisogno di vita esterna, vivendo assai
internamente, gli altri perchè non abbisognano d'alcuna vita. Gli spiriti
mediocri, cioè la massima parte degli uomini, sono incompatibili con questo
stato, e infelicissimi in esso, o in altro che lo somigli. V. la p. 1584. fine. (30. Agos.
1821.).
[1589,1] Chi ha perduto la speranza d'esser felice, non può
pensare alla felicità degli altri, perchè l'uomo non può cercarla che per
rispetto alla propria. Non può dunque neppure interessarsi dell'altrui
infelicità. (30. Agos. 1821.).
[1594,2] La bellezza è naturalmente compagna della virtù.
L'uomo senza una lunga esperienza non si avvezza a credere che un bel viso possa
coprire un'anima malvagia. Ed ha ragione, perchè la natura ha posto un'effettiva
corrispondenza tra le forme esteriori e le interiori, e se queste non
corrispondono, sono per lo più alterate da quelle ch'erano naturalmente. Pure è
certo che i belli sono per lo più cattivi. Lo stesso dico degli altri vantaggi
naturali o acquisiti. Chi li possiede, non è buono. Un brutto, un uomo
sprovvisto di pregi e di vantaggi, più facilmente s'incammina alla virtù. Gli
uomini senza talento sono più ordinariamente buoni, che quelli che ne son
ricchi. E tutto ciò è ben naturale nella società. L'uomo insuperbisce del
vantaggio che si accorge
1595 di avere sugli altri, e
cerca di tirarne per se tutto quel partito che può. S'egli è più forte, fa uso
della sua forza. Il più debole si raccomanda, e segue la strada che più giova e
piace agli altri, per cattivarseli. Il forte non abbisogna di questo. Ecco
l'abuso de' vantaggi. Abuso inevitabile e certo, posta la società. Così dico de'
potenti ec. i quali non ponno essere virtuosi. Ne' privati a me pare che non si
trovi vera affabilità, vera {e costante} amabilità e
facilità di costumi, interesse per gli altri ec. se non che nei brutti, in chi
ha qualche svantaggio, è nato in bassa condizione ed assuefattoci da piccolo,
ancorchè poi ne sia uscito, è povero o lo fu, ovvero negli sventurati.
[1610,2] L'uomo il più dotto, erudito, letterato, del gusto e
giudizio il più fino, dell'ingegno il più fecondo ec. ec. ma poco avvezzo a
trattare, saprà egregiamente e fecondissimamente scrivere, e non saprà parlare
neppur di cose appartenenti a' suoi studi. E ciò non già per sola soggezione, ma
effettivamente gli mancheranno le parole e i concetti. Tutto è esercizio
nell'uomo. Ed è ordinario il veder uomini studiosi non saper parlare, appunto
perchè avvezzi allo studio, non sono abituati a parlare ma a tacere; oltre
ch'essi contraggono sovente e
1611 per questa e per
altre ragioni un carattere di taciturnità, parimente acquisito. Del resto
s'ingannano assai coloro che dal vedere che il tale non sa parlare, concludono
ch'egli non sa pensare, non è coltivato ec. Si può parlare come uno scimunito,
{+con freddezza e frivolezza estrema
ec.} ed essere il primo scienziato, pensatore, scrittore del mondo.
(2. Sett. 1821.).
[1628,1] La disperazione, in quanto è mancanza, o piuttosto
languore e insensibilità di speranza, è un piacere per se, e perchè l'uomo non
sentendo la speranza, appena sente la vita, e la sua anima è abbandonata a una
specie di torpore, benchè il corpo possa essere in grande attività, e spesso in
tal circostanza lo sia. Tutto ciò risulta dalla mia teoria del piacere. (4. Sett. 1821.).
[1648,1]
1648 Pare assurdo, ma è vero che l'uomo forse il più
soggetto a cadere nell'indifferenza e nell'insensibilità (e quindi nella
malvagità che deriva dalla freddezza del carattere), si è l'uomo sensibile,
pieno di entusiasmo e di attività interiore, e ciò in proporzione appunto della
sua sensibilità ec. {Quasi si verifica in questo senso
e modo ciò che quel vecchio disse a Pico
p. 1178, della stupidità dei vecchi stati
spiritosi straordinariamente da fanciulli.} Massime s'egli
è sventurato; ed in questi tempi dove la vita esteriore non corrisponde, non
porge alimento nè soggetto veruno all'interiore, dove la virtù e l'eroismo sono
spenti, e dove l'uomo di sentimento e d'immaginazione e di entusiasmo è subito
disingannato. La vita esteriore degli antichi era tanta che avvolgendo i grandi
spiriti nel suo vortice arrivava piuttosto a sommergerli, che a lasciarsi
esaurire. Oggi un uomo quale ho detto, appunto per la sua straordinaria
sensibilità, esaurisce la vita in un momento. Fatto ciò, egli resta vuoto,
disingannato profondamente e stabilmente, perchè ha tutto profondamente e
vivamente provato: non si è fermato alla superficie, non si va affondando a poco
a poco; è andato subito al fondo, ha tutto abbracciato, e tutto rigettato come
effettivamente indegno e frivolo: non gli resta altro a vedere,
1649 a sperimentare, a sperare. Quindi è che si vedono
gli spiriti mediocri, ed alcuni sensibili e vivi sino a un certo segno, durar
lungo tempo ed anche sempre, nella loro sensibilità, suscettibili di affetto,
capaci di cure e di sacrificj per altrui, non contenti del mondo, ma sperando di
esserlo, facili ad aprirsi all'idea della virtù, a crederla ancora qualche cosa
ec. (Essi non hanno ancora perduto la speranza della felicità). Laddove quei
grandi spiriti che ho detto, fin dalla gioventù cadono in un'indifferenza,
languore, freddezza, insensibilità mortale, e irrimediabile: che produce un
egoismo noncurante, una somma incapacità di amare ec. La sensibilità e l'ardore
dell'animo è così fatto, che s'egli non trova pascolo nelle cose circostanti,
consuma se stesso, e si distrugge e perde in poco d'ora, lasciando l'uomo tanto
al disotto della magnanimità ordinaria, quanto prima l'avea messo al disopra.
Laddove la mediocre sensibilità si mantiene, perchè abbisogna di poco alimento.
Quindi è che le virtù grandi non sono
pe' nostri tempi.
1650
(7. Sett. 1821.). {{Puoi vedere p. 1653.
fine.}}
[1651,1] Qual cosa è più potente nell'uomo, la natura o la
ragione? Il filosofo non vive mai nè pensa giornalmente, e intorno a ciò che lo
riguarda, {nè vive con se stesso (se anche vivesse cogli altri)} da
vero filosofo; nè il religioso da vero e perfetto religioso. Non v'è uomo così
certo della malizia delle donne ec. che non senta un'impressione dilettevole, e
una vana speranza all'aspetto di una beltà che gli usi qualche piacevolezza.
(Meno impressione, e forse anche niuna, potrà provarne chi vi sia troppo
avvezzo, e questo sarà principalmente il caso dell'uomo di mondo, la cui anima
allora si porterà più filosoficamente assai di quella del maggior filosofo, non
già per forza di ragione, ma di natura che ha dato all'assuefazione la proprietà
d'illanguidire e anche distruggere le sensazioni. Massime se il filosofo non vi
sarà assuefatto. Tanto più egli sarà soggetto a peccare o coll'opera o col
pensiero contro i principii suoi.) Egli è sempre {più o
meno} soggetto a ricadere in tutte le stravagantissime illusioni dell'amore, ch'egli ha
conosciuto {e sperimentato} impossibile, immaginario,
vano. Non v'è uomo così profondamente persuaso della nullità delle
1652 cose, della certa e inevitabile miseria umana, il
cui cuore non si apra all'allegrezza anche la più viva, (e tanto più viva quanto
più vana) alle speranze le più dolci, ai sogni ancora i più frivoli, se la
fortuna gli sorride un momento, o anche al solo aspetto di una festa, di una
gioia della quale altri si degni di metterlo a parte. Anzi basta un vero nulla
per far credere {immediatamente} al più profondo e
sperimentato filosofo, che il mondo sia qualche cosa. Basta una parola, uno
sguardo, un gesto di buona grazia o di complimento che una persona anche di poca
importanza faccia all'uomo il più immerso nella disperazione della felicità, e
nella considerazione di essa, per riconciliarlo colle speranze, e cogli errori.
Non parlo del vigore del corpo, non parlo del vino, al cui potere cede e
sparisce la più radicata e invecchiata filosofia. {+Lascio ancora le passioni, che se non altro, ne' loro accessi si ridono
del più lungo e profondo abito filosofico.} Un menomo bene
inaspettato, un nuovo male ancora che sopraggiunga, ancorchè piccolissimo, basta
a persuadere il filosofo che la vita umana non è un niente. V. Corinne t. 2. liv.
14. ch. 1. pag. ult. cioè 341. {+Ciò che dico del filosofo, dico pure del religioso, non
ostante che la religione, tenendo dell'illusione e quindi della natura,
abbia tanta più forza effettiva
nell'uomo.}
(8. Sett. dì della natività di Maria SS. 1821.)
[1655,1]
1655 L'uomo si addomestica alla continua novità come alla uniformità, e allora l'oggetto
nuovo gli è tanto familiare, quanto un oggetto vecchio, e la novità in genere
gli è più familiare e ordinaria, che la uniformità. ec. (8. Sett.
1821.).
[1673,1] L'uomo inesperto del mondo, come il giovane ec.
sopravvenuto da qualche disgrazia o corporale o qualunque, {dov'egli non abbia alcuna colpa,} non pensa neppure che ciò debba
essere agli altri, oggetto di riso sul suo conto, di fuggirlo, di spregiarlo,
1674 di odiarlo, di schernirlo. Anzi se egli
concepisce verun pensiero intorno agli altri, relativamente alla sua disgrazia,
non se ne promette altro che compassione, ed anche premura, o almen desiderio di
giovarlo; insomma non li considera se non come oggetti di consolazione e di
speranza per lui; tanto che talvolta arriva per questa parte a godere in certo
modo della sua sventura. Tale è il dettame della natura. Quanto è diverso il
fatto! Anche le persone le più sperimentate, ne' primi momenti di una disgrazia,
sono soggette a cadere in questo errore, e in questa speranza, almeno confusa e
lontana. Non par possibile all'uomo che una sventura non meritata gli debba
nuocere presso i suoi simili, nell'opinione, nell'affetto, ec. ma egli tien per
fermissimo tutto l'opposto; e s'egli è inesperto non si guarda di nascondere
agli altri (potendo) la sua disgrazia; anzi talvolta cerca di manifestarla:
laddove la principale arte di vivere consiste ordinariamente nel non confessar
mai di esser
1675 disgraziato, o di avere alcuno
svantaggio rispetto agli altri ec.
[1688,1] Le immaginazioni calde (come son quelle de'
fanciulli più o meno) in forza della somma tendenza dell'animale a' suoi simili,
trovano da per tutto delle forme simili alle umane. Ma notate che sebbene si
troverebbe facilmente maggiore analogia fra le altre parti dell'uomo e i diversi
oggetti materiali, che fra questi e la fisonomia umana, nondimeno
l'immaginazione trova sempre in essi oggetti, maggiore analogia col volto
dell'uomo che colle altre parti, anzi a queste neppur pensa. V. il mio discorso sui romantici. Tanto è vero che
la principal parte dell'uomo riguardo all'uomo è il volto. (13. Sett.
1821.).
[1690,1]
Alla p. 1656.
principio. La malinconia per es. fa veder le cose e le verità (così
dette) in aspetto diversissimo e contrarissimo a quello in cui le fa veder
l'allegria. {+V'è anche uno stato di
mezzo che le fa pur vedere al suo modo, cioè la noia.} E l'allegro e
il malinconico {ec.} (sieno pur due pensatori e
filosofi, o uno stesso filosofo in due diversi tempi e stati) sono persuasissimi
di
1691 vedere il vero, ed hanno le loro convincenti
ragioni per crederlo. Vero è pur troppo che astrattamente parlando, l'amica
della verità, la luce per discoprirla, la meno soggetta ad errare è la
malinconia {e soprattutto la noia}; ed il vero filosofo
nello stato di allegria non può far altro che persuadersi, non che il vero sia
bello o buono, ma che il male cioè il vero si debba dimenticare, e consolarsene,
{+o che sia conveniente di dar
qualche sostanza alle cose, che veramente non l'hanno.}
(13. Sett. 1821.). {{V. p. 1694. fine.}}
[1714,1] Quando l'uomo è in un certo abito di pensare e
riflettere, il che avviene perch'egli ha pensato e riflettuto, per qualunque
ragione, ogni menomo accidente e sensazione della giornata, anche
disparatissime, lo muovono a riflettere. Cessato quest'abito, dirò così,
attuale, anche senza notabile cagione, come spesso accade, (e basta il sonno
della notte a distorne l'uomo pel dì seguente) e massime, se per qualunque
motivo, s'è contratto un leggero ed effimero abito di distrazione, le più gravi
circostanze della vita, e le più straordinarie sensazioni, non bastano bene
spesso a promuovere la riflessione. Molto
1715 più
notabile è questo effetto e differenza, ne' differenti, ma più radicati abiti di
distrazione o di riflessione, che una stessa persona contrae vicendevolmente e
perde; e anche più nelle diverse persone, benchè d'ingegno ugualissimamente
capace. (16. Sett. 1821.).
[1715,1] Le illusioni non possono esser condannate,
spregiate, perseguitate se non dagl'illusi, e da coloro che credono che questo
mondo sia {o possa essere} veramente qualcosa, e
qualcosa di bello. Illusione capitalissima: e quindi il mezzo filosofo combatte
le illusioni perchè appunto è illuso, il vero filosofo le ama {e predica,} perchè non è illuso: e il combattere le
illusioni in genere è il più certo segno d'imperfettissimo e insufficientissimo
sapere, e di notabile illusione. (16. Sett. 1821.).
[1719,1]
1719 Quanto il corpo influisca sull'anima. Un abito di
attività o di energia che abbia contratto il corpo per qualunque cagione, dà
dell'attività, dell'energia, della prontezza ec. anche allo spirito, sia pure il
meno esercitato in se stesso. E siccome il detto abito può essere effimero e
passeggero, così anche il detto effetto è molte volte giornaliero, ed anche di
sole ore. Questa osservazione si può molto stendere tanto in se stessa, quanto
applicandola ad altri generi di assuefazioni ed abiti corporali costanti o
passeggeri, che parimente producono una simile assuefazione o abito o facoltà
nello spirito, ancorchè esso non entri punto e non prenda veruna parte in quella
del corpo: come se io, senza alcuna riflessione o azione del pensiero, mi trovo
oggi in circostanza di agire assai e far molto esercizio corporalmente e
materialmente. Molti esempi di ciò si potrebbero addurre, tanto individuali,
quanto anche nazionali, ed applicabili a spiegare molti diversi caratteri di
diversi popoli. (17. Sett. 1821.).
[1723,1] Chi ha disperato di se stesso, o per qualunque
ragione, si ama meno vivamente, è meno invidioso, odia meno i suoi simili, ed è
quindi più suscettibile di amicizia {{per questa}}
parte, o almeno in minor contraddizione con lei. Chi più si ama meno può amare.
Applicate questa osservazione alle nazioni, ai diversi gradi di amor patrio
sempre proporzionali a' diversi gradi di odio nazionale; alla necessità di
render l'uomo egoista di una patria perch'egli possa amare i suoi simili a
cagion di se stesso, appresso a poco come dicono i teologi che l'uomo deve amar
se stesso e i suoi prossimi in Dio, e
1724 per l'amore
di Dio. (17. Sett. 1821.).
[1724,1] L'odio dell'uomo verso l'uomo si manifesta
principalmente, ed è confermato da ciò che accade nelle persone di una medesima
professione {ec.} fra le quali, sebben la perfetta
amicizia astrattamente considerata è impossibile e contraddittoria alla natura
umana, nondimeno anche la possibile amicizia è difficilissima, rarissima,
incostantissima ec. Schiller uomo di
gran sentimento era nemico di Goëthe
(giacchè non solo fra tali persone non v'è amicizia, o v'è minore amicizia, ma
v'è più odio che fra le persone poste in altre circostanze) ec. ec. ec. Le donne
godono del mal delle donne, anche loro amicissime. I giovani del male de'
giovani ec. ec. V. Corinne t. p. liv. ch. Non solo in una stessa
professione, ma anche in una stessa età ec. ec. l'amicizia è minore e l'odio è
maggiore. Eccetto l'esaltamento delle illusioni che favorisce assai l'amicizia
de' giovani, è certo, massime oggi che le grandi e belle illusioni non si
trovano, che l'amicizia è più facile tra un vecchio o maturo, e un giovane, che
tra giovane e giovane; tra
1725 due vecchi che tra due
giovani; perchè oggi, sparite le illusioni, e non trovandosi più la virtù ne'
giovani, i vecchi sono più a portata di amarsi meno, di essere stanchi
dell'egoismo perchè disingannati del mondo, e quindi di amare gli altri.
[1727,2] L'uomo il più certo della malizia degli uomini, si
riconcilia col genere umano, e ne pensa alquanto meglio, se anche
momentaneamente ne riceve qualche buon trattamento, sia pur di pochissimo
rilievo. L'individuo da te più conosciuto per malvagio, se ti usa distinzioni e
cortesie che lusinghino il tuo amor proprio, divien subito qualche cosa di meno
male nella tua fantasia. Molto più la donna coll'uomo, o l'uomo (anche il più
brutto, anche quello di cui s'ha peggiore idea, anzi pure avversione
particolare) colla donna: e però è massima, specialmente degli uomini, che
1728 per qualunque ripulsa, idea, opinione, ostacolo,
costume, non si dee mai disperare di venire a capo di una donna. Si potrebbe
parimente dire in genere, che l'uomo non dee mai disperare di venire a capo di
qualunque persona. Ecco quanta è la gran forza della ragione nell'uomo!
(18. Sett. 1821.).
[1741,2] Le circostanze mi avevan dato allo studio delle
lingue, e della filologia antica. Ciò formava tutto il mio gusto: io disprezzava
quindi la poesia. Certo non mancava d'immaginazione, ma non credetti d'esser
poeta, se non dopo letti parecchi poeti greci. {+(Il mio passaggio però dall'erudizione al bello non fu
subitaneo, ma gradato, cioè cominciando a notar negli antichi e negli studi
miei qualche cosa più di prima ec. Così il passaggio dalla poesia alla
prosa, dalle lettere alla filosofia. Sempre assuefazione.)} Io non
mancava nè d'entusiasmo, nè di fecondità, nè di forza d'animo, nè di passione;
ma non credetti d'essere eloquente, se non dopo letto Cicerone.
1742 Dedito tutto e
con sommo gusto alla bella letteratura, io disprezzava ed odiava la filosofia. I
pensieri di cui il nostro tempo è
così vago, mi annoiavano. Secondo i soliti pregiudizi, io credeva di esser nato
per le lettere, l'immaginazione, il sentimento, e che mi fosse al tutto
impossibile l'applicarmi alla facoltà tutta contraria a queste, cioè alla
ragione, alla filosofia, alla matematica delle astrazioni, e il riuscirvi. Io
non mancava della capacità di riflettere, di attendere, di paragonare, di
ragionare, di combinare, della profondità ec. ma non credetti di esser filosofo
se non dopo lette alcune opere di Mad. di
Staël.
[1750,1] Dicevami taluno com'egli avea molto conosciuto e
trattato sin dalla prima fanciullezza una persona già matura, delle più brutte
che si possano vedere, ma di maniere, di tratto, d'indole, sì verso lui, che
verso tutti gli altri, amabilissime, politissime, franche, disinvolte, d'ottimo
garbo. E che sentendo una volta (mentr'egli era ancora fanciullo, ma
grandicello) notare da un forestiero
1751 l'estrema
bruttezza di quella persona, s'era grandemente maravigliato, non vedendo
com'ella potesse esser brutta, ed avendo sempre stimato tutto l'opposto. Questa
medesima persona era già vecchia quando io nacqui, la conobbi da fanciullo, mi
parve bella quanto può essere un vecchio (giacchè il fanciullo distingue pur
facilmente la beltà giovenile dalla senile), e non seppi ch'ella fosse
bruttissima, se non dopo cresciuto, cioè dopo ch'ella fu morta. E l'idea ch'io
ne conservo, è ancora di persona piuttosto bella benchè vecchia. (C. Galamini.) Così m'è accaduto
intorno ad altre persone parimente bruttissime. (V. Ferri.{)} Della bruttezza
di altre non mi sono accorto, se non crescendo in età ed osservandole
coll'occhio più esercitato ad attendere, e quindi a distinguere, e più
assuefatto alle proporzioni ordinarie ec. (G. Masi.) {V. il principio del pensiero
antecedente.} Tale è l'idea del bello e del brutto ne'
fanciulli. Spiegate questi effetti, e deducetene le conseguenze opportune.
Probabilmente mi saranno anche parse bruttissime
1752
delle persone che poi crescendo avrò saputo o conosciuto essere o essere state
belle (20. Sett. 1821.)
{e anche bellissime.}
[1787,3] Chi vuole o dee fare un mestiere al mondo, se vuol
trarne alcun frutto, non può scegliere se non quello dell'impostore, in
qualunque genere. La letteratura è stato sempre il più sterile di tutti i
mestieri. Il
1788 vero letterato (se non mescola alla
verità l'impostura) non guadagna mai nulla. Eppur l'impostore arriva a render
fecondo anche questo campo infruttifero, e uno de' maggior miracoli
dell'impostura si è di render fruttuosa la letteratura. L'impostura è una
condizione necessaria per tutti i mestieri o veri o falsi. Se le lettere e la
dottrina frutta mai nulla, ciò {è} all'impostore, e in
virtù non della verità (quando anche vi sia mescolata), ma dell'impostura.
(25. Sett. 1821.).
[1788,1] Gl'illetterati che leggono qualche celebrato autore,
non ne provano diletto, non solo perchè mancano delle qualità necessarie a
gustar quel piacere ch'essi possono dare, ma anche perchè si aspettano un
piacere impossibile, una bellezza, un'altezza di perfezione di cui le cose umane
sono incapaci. Non trovando questo, disprezzano l'autore, si ridono della {sua} fama, e lo considerano come un uomo ordinario,
persuadendosi di aver fatto essi questa scoperta per la prima volta. Così
accadeva a me nella prima giovanezza
1789 leggendo Virgilio, Omero ec. (25. Sett. 1821.)
[1800,2] Il vigore o costante o effimero, produce nell'uomo
un gran sentimento di se
1801 stesso, lo rende nella
sua immaginazione superiore alle cose, agli altri uomini, alla stessa natura; lo
fa sfidare il potere delle disgrazie, le persecuzioni, i pericoli, le
ingiustizie ec. ec.; lo fa pieno di coraggio ec. ec. in somma l'uomo vigoroso si
sente, si giudica padrone del mondo, e di se medesimo, e veramente uomo.
(28. Sett. 1821.)
[1802,1] Anche gli organi esteriori, perduta l'assuefazione
generale, divengono generalmente
inabili, quando anche una volta fossero stati abilissimi. Io aveva da fanciullo
una sufficiente abilità generale di mano, a causa dell'esercizio, lasciato il
quale dopo alcuni anni, non so più far nulla con quest'organo, se non le cose
ordinarie; ed ho quindi affatto perduta la sua abilità, {+tanto per quello ch'io già sapeva fare, quanto per
qualunque nuova operazione che allora mi sarebbe riuscito facile di
apprendere.} Ecco un'immagine della natura del talento. (28.
Sett. 1821.).
[1815,1] La noia è la più sterile delle passioni umane.
Com'ella è figlia della nullità, così è madre del nulla: giacchè non solo è
sterile per se, ma rende tale tutto ciò a cui si mesce o avvicina ec. (30.
Sett. 1821.).
[1860,1] Ho detto pp. 1548-51 che l'immaginazione può risorgere o durare
anche ne' vecchi e disingannati. Aggiungo che l'immaginazione e il piacere che
ne deriva, consistendo in gran parte nelle rimembranze, lo stesso aver perduto
l'abito della continua immaginativa, contribuisce ad accrescere il piacere delle
rimembranze, giacch'elle, se fossero presenti ed abituali, 1. non sarebbero, o
sarebbero meno rimembranze, 2. non sarebbero così dilettevoli, perchè il
presente non illude mai, bensì il lontano, e quanto è più lontano. Onde non è
dubbio che le immagini della vita degli antichi, non riescano più dilettevoli a
noi per cui sono rimembranze lontanissime, che agli stessi antichi per cui erano
o presenze, o ricordanze poco lontane. Del resto la rimembranza quanto più è
lontana, e meno abituale, tanto più innalza, stringe, addolora dolcemente,
diletta
1861 l'anima, e fa più viva, energica,
profonda, sensibile, e fruttuosa
impressione, perch'essendo più lontana, è più sottoposta all'illusione; e non
essendo abituale nè essa individualmente, nè nel suo genere, va esente
dall'influenza dell'assuefazione che indebolisce ogni sensazione. Ciò che dico
dell'immaginativa, si può applicare alla sensibilità. Certo è però che tali
lontane rimembranze, quanto dolci, tanto separate dalla nostra vita presente, e
di genere contrario a quello delle nostre sensazioni abituali, ispirando della
poesia ec. non ponno ispirare che poesia malinconica, come è naturale,
trattandosi di ciò che si è perduto; all'opposto degli antichi a cui tali
immagini, poteano ben far minore effetto a causa dell'abitudine, ma erano sempre
proprie, presenti, si rinnovavano tuttogiorno, nè mai si consideravano come cose
perdute, o riconosciute per vane; quindi la loro poesia dovea esser lieta, come
quella che verteva sopra dei beni e delle dolcezze da
1862 loro ancor possedute, e senza timore. (7. Ott.
1821.).
[1863,1] Si può dir che l'effetto della filosofia non è il
distruggere le illusioni (la natura è invincibile) ma il trasmutarle di generali
in individuali. Vale a dire che ciascuno si fa delle illusioni per se; cioè
crede
1864 che quelle tali speranze ec. siano vane
generalmente, ma spera sempre per se, o in quel tal caso di cui si tratta,
un'eccezione favorevole. Le illusioni così non sono meno generali, comuni, ed
uguali in tutti, benchè ciascuno le restringa a se solo. Al sistema di creder
belle e buone le cose umane, sottentra quello di credere {o
sperar} tali le proprie, {+e
quelle che in qualunque modo vi appartengono (come di creder buone le
persone che vi circondano ec. ec.).} L'effetto presso a poco è lo
stesso. Tanto è sperare o credere una cosa ordinaria, quanto sperare o creder
sempre la stessa cosa come straordinaria, e come eccezion della regola. Tale è
il caso inevitabile di tutti i giovani i meglio istruiti.
[1913,1] Oggi chi conoscendo ed avendo sperimentato il mondo,
non è divenuto egoista, se ha niente niente di senso e d'ingegno, non può esser
divenuto che misantropo. (14. Ott. 1821.).
[1914,1] Le persone che nella fanciullezza ci hanno trattati
bene, sono state solite a prestarci dei servigi, ci hanno fatto buona cera, ci
hanno divertiti, ci hanno cagionato dei piaceri colla loro presenza, ci hanno
regalati ec. non ci sono parse mai brutte mentre eravamo in quell'età, per
bruttissime che fossero; anzi tutto l'opposto. E coll'andar del tempo se abbiamo
rettificata quest'idea, non l'abbiamo quasi mai fatto interamente, massime in
ordine al tempo della nostra fanciullezza. Effetto ordinarissimo, che
ciascheduno può notare in se, e raccontare, e sentirselo raccontare, come ho
sentito io le mille volte, con un certo stupore di chi lo raccontava. (14.
Ott. 1821.).
[1927,2] Quello che altrove ho detto pp. 1744-47 sugli effetti della luce, o
degli oggetti visibili, in riguardo all'idea dell'infinito, si deve applicare
parimente al suono, al canto, a tutto ciò che
1928
spetta all'udito. È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per
un'idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il più spregevole) udito da
lungi, {o che paia lontano senza esserlo,} o che si
vada appoco appoco allontanando, e divenendo insensibile; {+o anche viceversa (ma meno), o che sia così lontano, in
apparenza o in verità, che l'orecchio e l'idea quasi lo perda nella vastità
degli spazi;} un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la
lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un
canto che risuoni per le volte di una stanza ec. dove voi non vi troviate però
dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s'ode suonare per le
valli, senza però vederli, e così il muggito degli armenti ec. {Stando in casa, e udendo tali canti o
suoni per la strada, massime di notte, si è più disposti a questi effetti,
perchè nè l'udito nè gli altri sensi non arrivano a determinare nè
circoscrivere la sensazione, e le sue concomitanze.} È piacevole
qualunque suono (anche vilissimo) che largamente e vastamente si diffonda, come
{in} taluno dei detti casi, massime se non si vede
l'oggetto da cui parte. A queste considerazioni appartiene il piacere che può
dare e dà (quando non sia vinto dalla paura) il fragore del tuono, massime
quand'è più sordo, quando è udito
1929 in aperta
campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi, quando freme
confusamente in una foresta, o tra i vari oggetti di una campagna, o quando è
udito da lungi, o dentro una città trovandosi per le strade ec. Perocchè oltre
la vastità, e l'incertezza e confusione del suono, non si vede l'oggetto che lo
produce, giacchè il tuono e il vento non si vedono. E[È] piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec. che ripeta il
calpestio de' piedi, o la voce ec. Perocchè l'eco non si vede ec. E tanto più
quanto il luogo e l'eco e[è] più vasto, quanto
più l'eco vien da lontano, quanto più si diffonde; e molto più ancora se vi si
aggiunge l'oscurità del luogo che non lasci determinare la vastità del suono, nè
i punti da cui esso parte ec. ec. E tutte queste immagini in poesia ec. sono
sempre bellissime, e tanto più quanto più negligentemente son messe, e toccando
il soggetto, senza mostrar
1930 l'intenzione per cui
ciò si fa, anzi mostrando d'ignorare l'effetto e le immagini che son per
produrre, e di non toccarli se non per ispontanea, e necessaria congiuntura, e
indole dell'argomento ec. V. in questo
proposito Virg.
Eneide 7. v. 8. seqq. La notte, o
l'immagine della notte è la più propria ad aiutare, o anche a cagionare i detti
effetti del suono. Virgilio da maestro
l'ha adoperata. (16. Ott. 1821.).
[1939,1] Come il giovane non si persuade mai del vero prima
dell'esperienza, così i genitori e quelli che hanno cura della gioventù {(malgrado la prova che n'hanno in se
stessi)} non si persuadono mai che l'insegnamento non possa ne'
giovani supplire all'esperienza. Non si persuadono dico se non dopo aver fatto
essi pure esperienza di ciò; e pur troppo (siccome le persone d'ingegno e di
talento facilmente assuefabile e persuadibile, son rare) non basta loro una o
due o più esperienze, ma hanno sempre bisogno di un'esperienza individuale
intorno a quel tal giovane che loro è commesso. Del resto come il giovane fa
sempre eccezione di se stesso e de' casi suoi, dalle regole e dall'ordine
generale ch'egli spesso conosce assai bene; così gli educatori fanno eccezione
di
1940 ciascun giovane dall'ordine generale, e dalla
natura de' suoi coetanei. (18. Ott. 1821.).
[1961,3]
{Alla p.
1856.} Quell'anima che non è aperta se non al
vero puro, è capace di poche verità, poco può scoprir di vero, poche verità può
conoscere e sentire nel loro vero aspetto,
1962 pochi
veri e grandi rapporti delle medesime, poco bene può applicare i risultati delle
sue osservazioni e ragionamenti. Lo dimostra anche l'esperienza usuale, nelle
stesse nostre parti meridionali e immaginose, e gl'immensi spropositi o di
opinione o di condotta ec. che tutto giorno si leggono o ascoltano o vedono, ne'
freddi ragionatori, inaccessibili ad ogni illusione. Cercando il puro vero, non
si trova. La ricerca delle verità, massime delle più grandi, e sopra tutto di
quelle che spettano alla scienza dell'uomo ha bisogno della mescolanza, ed
equilibrato temperamento di qualità contrarissime, immaginazione, sentimento, e
ragione, calore e freddezza, vita e morte, carattere vivo e morto, gagliardo e
languido ec. ec. (21. Ott. 1821.).
[1970,2] Gli spiriti mediocri sono sempre facilmente
persuadibili {+a credere o a fare,}
e in qualunque modo riducibili all'uomo di talento, o al furbo, o a chi per
qualsivoglia circostanza ha, o sa prendere su di loro un certo ascendente.
L'ostinazione è propria degli spiriti piccoli e dei grandi, o degli spiriti più
o meno inferiori o superiori alla mediocrità, ma di quelli più che di questi.
{+Lo stesso dico in ordine alla
suscettibilità di esser consolati. Se non che gli spiriti grandi ne sono
meno suscettibili dei piccoli, perchè il vero, ch'essi ben intendono, non è
mai consolante, e perchè il consolatore non li può facilmente ingannare,
ch'è l'unico modo di consolare.}
(22. Ott. 1821.).
[1974,1] Se mancassero altre prove che il vero è tutto
infelice, non basterebbe il vedere che gli uomini sensibili, di carattere e
d'immaginazione profonda, incapaci di pigliar le cose per la superficie, ed
avvezzi a ruminare sopra ogni accidente della vita loro, sono irresistibilmente
e sempre strascinati verso la infelicità? Onde ad un giovane sensibile, per
quanto le sue circostanze paiano prospere, si può senz'altro dubbio predire che
sarà
1975 presto o tardi infelice, o indovinare ch'egli
è tale. (23. Ott. 1821.).
[1975,1] Un uomo di forte e viva immaginazione, avvezzo a
pensare ed approfondare, in un punto di straordinario e passeggero vigore
corporale, di entusiasmo, {+di
disperazione, di vivissimo dolore o passione qualunque, di pianto, insomma di
quasi ubbriachezza, e furore,} ec. scopre delle verità che molti
secoli non bastano alla pura e fredda e geometrica ragione per iscoprire; e che
annunziate da lui non sono ascoltate, ma considerate come sogni, perchè lo
spirito umano manca tuttavia delle condizioni necessarie per sentirle, e
comprenderle come verità, e perch'esso non può universalmente fare in un punto
tutta la strada che ha fatto quel pensatore, ma segue necessariamente la sua
marcia, e il suo progresso gradato, senza sconcertarsi. Ma l'uomo in quello
stato vede tali rapporti, passa da una proposizione all'altra così rapidamente,
ne comprende così vivamente e facilmente il legame, accumula in un momento
1976 tanti sillogismi, e così ben legati e ordinati, e
così chiaramente concepiti, che fa d'un salto la strada di più secoli. E forse
esso stesso dopo quel punto, non crede più alle verità che allora avea concepite
e trovate, cioè o non si ricorda, o non vede più con egual chiarezza, i
rapporti, le proposizioni, i sillogismi, e le loro concatenazioni che l'avevano
portato a quelle conseguenze. Il mondo alla fine è sempre in istato di freddo, e
le verità scoperte nel calore, per grandi che siano non mettono radici nella
mente umana, finchè non sono sanzionate dal placido progresso della fredda
ragione, arrivata che sia dopo lungo tempo a quel segno. Grandi verità
scoprivano certamente gli antichi colla lor grande immaginazione, grandi salti
facevano nel cammino della ragione, ridendosi della lentezza, e degl'infiniti
mezzi che abbisognano al puro raziocinio ed esperienza per avanzarsi
altrettanto, grandi spazi occupati poi da' loro posteri, preoccupavano essi e
1977 conquistavano in un baleno, ma questi
progressi restavano necessariamente individuali, perchè molto tempo abbisognava
a renderli generali; queste conquiste non si conservavano, anzi erano piuttosto
viaggi che conquiste, perchè l'individuo penetrava solamente in quei nuovi
paesi, e li riconosceva, senza esser seguito dalla moltitudine che vi stabilisse
il suo dominio; i progressi de' grandi individui non giovavano gli uni agli
altri, perchè mancanti di una disposizione generale e comune nel mondo, che li
rendesse intelligibili gli uni agli altri, mancanti anche di una lingua atta a
stabilire, dar corpo, determinare e render a tutti egualmente chiaro quello che
ciascun individuo scopriva. Così che gli antichi grandi spiriti penetravano
nelle terre della verità, ciascuno isolatamente, e senza aiutarsi l'un l'altro,
e quando anche si scontrassero nel cammino, o giungessero ad un medesimo
1978 punto, e quivi casualmente si riunissero, non si
riconoscevano; e tornati dalla loro corsa, e narrandola altrui, non
s'accorgevano di dir le stesse cose, nè il pubblico se n'avvedeva, perchè non le
dicevano allo stesso modo, mancando di un linguaggio filosofico, uniforme; oltre
che le stesse ragioni che impedivano all'universale di riconoscere quelle
proposizioni per pienamente vere, gl'impediva altresì di scoprire l'uniformità
che esisteva tra le proposizioni e i sentimenti di questo e di quel grand'uomo.
E così le grandi scoperte de' grandi antichi, appassivano, e non producevano
frutto, e non erano applicate, mancando i mezzi e di coltivarle, e di aiutare e
legare una verità coll'altra mediante il commercio de' pensieri, e della società
pensante. (23. Ott. 1821.).
[1987,1] Per la copia e la vivezza ec. delle rimembranze sono
piacevolissime e e poeticissime tutte le imagini che tengono del fanciullesco, e
tutto ciò che ce le desta (parole, frasi, poesie, pitture, imitazioni o realtà
ec.). Nel che tengono il primo luogo gli antichi poeti, e fra questi Omero. Siccome le impressioni, così le
ricordanze della fanciullezza in qualunque età, sono più vive che quelle di
qualunque altra età. E son piacevoli per la loro vivezza, anche le ricordanze
d'immagini e di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose, o spaventose ec.
E per la stessa ragione ci è piacevole nella vita anche la ricordanza dolorosa,
e quando bene la cagion del dolore non sia passata, e quando pure la ricordanza
lo cagioni o l'accresca, come nella morte de' nostri
1988 cari, il ricordarsi del passato ec. (25. Ott. 1821.).
[1988,3] L'uomo che a tutto si abitua, non si abitua mai alla
inazione. Il tempo che tutto alleggerisce, indebolisce, distrugge, non distrugge
mai nè indebolisce il disgusto e la fatica che l'uomo prova nel non far nulla. L'assuefazione
1989 intanto può influire sull'inazione, in quanto può
trasportare l'azione dall'esterno all'interno, e l'uomo forzato a non muoversi,
o in qualunque modo a non operare al di fuori, acquista appoco appoco l'abito di
operare al di dentro, di farsi compagnia da se stesso, di pensare, d'immaginare,
di trattenersi insomma vivamente col proprio solo pensiero (come fanno i
fanciulli, come si avvezzano a fare i carcerati ec.). Ma la pura noia, il puro
nulla, nè il tempo nè alcuna forza possibile (se non quella che intorpidisce o
estingue o sospende le facoltà umane, come il sonno, l'oppio, il letargo, una
totale prostrazione di forze ec.) non basta a renderlo meno intollerabile. Ogni
momento di pura inazione è tanto grave all'uomo dopo dieci anni {di assuefazione,} quanto la prima volta. La nullità, il
non fare, il non vivere, la morte, è l'unica cosa di cui l'uomo sia incapace, e
1990 alla quale non possa avvezzarsi. Tanto è vero
che l'uomo, il vivente, e tutto ciò che esiste, è nato per fare, e per fare
tanto vivamente, quanto egli è capace, vale a dire che l'uomo è nato per
l'azione esterna ch'è assai più viva dell'interna. {+Tanto più che l'interna nuoce al fisico quanto ell'è
maggiore e più assidua, e l'esterna viceversa. Quanto all'azione interna
dell'immaginazione, essa sprona e domanda impazientemente l'esterna, e
riduce l'uomo a stato violento, se questa gli è impedita.} E quella
infatti agognano i giovani, i primitivi, gli antichi, e non si può loro impedire
senza metter la loro natura in istato violento. Ciò non per altro se non perchè
l'uomo {e il vivente} tende sempre naturalmente alla
vita, e a quel più di vita che gli conviene. (26. Ott. 1821.).
[1998,1] L'uomo riflessivo ha spessissimo bisogno di esser
determinato da un uomo irriflessivo o per natura o per abito, o da circostanze
imperiose, ec. Egli ha più bisogno di consiglio che qualunque altro, non perchè
non veda abbastanza da se, ma perchè troppo vede,
1999
dal che segue un'irresoluzione abituale e penosissima. (27. Ott.
1821.).
[1999,1] La velocità p. es. de' cavalli o veduta, o
sperimentata, cioè quando essi vi trasportano (v. in tal proposito l'Alfieri
nella sua Vita, sui principii) è
piacevolissima per se sola, cioè per la vivacità, l'energia, la forza, la vita
di tal sensazione. Essa desta realmente una quasi idea dell'infinito, sublima
l'anima, la fortifica, la mette in una indeterminata azione, o stato di attività
più o meno passeggero. E tutto ciò tanto più quanto la velocità è maggiore. In
questi effetti avrà parte anche lo straordinario. (27. Ott.
1821.)
[2032,1]
2032 L'uomo inesperto delle cose, è sempre di spirito e
d'indole più o meno poetica. Ella diventa prosaica coll'esperienza. Ma bene
spesso colui che da giovane fu per assuefazione o per natura più notabilmente
poetico, tanto più presto (anche nella stessa gioventù) e più gagliardamente
diviene prosaico coll'esperienza. Un eccesso tira l'altro, perchè gli eccessi;
contro quello che a prima vista apparisce sono più affini, amici e vicini fra
loro, che con quello che è fra loro di mezzo. Colui che per avere uno spirito
gagliardamente poetico, sente fortemente, fortemente {e
presto} deve sentire la nullità e la malvagità degli uomini e delle
cose. Egli diviene fortemente disingannato, perchè fu capace di essere
fortemente ingannato, e lo fu infatti. Prima della cognizione egli prova
gagliarde illusioni, dopo la cognizione, gagliardi, e pronti, e costanti ed
interi disinganni. La stessa forza della sua natura
2033 o delle sue facoltà acquisite, che dava risalto ed energia alle sue
illusioni, ne rende altrettanta a' suoi disinganni. E perciò la vecchiezza del
poeta, è forse (almeno spessissimo) assai più prosaica in tutti i sensi, che
quella dell'uomo d'indole primitivamente fredda, e tanto più quanto la sua
giovanezza, prima della sufficiente esperienza, fu più vivamente e veramente
poetica in qualunque senso. Giacchè per poetica intendo anche inclinata alla
virtù, all'eroismo, magnanimità ec. ancorchè non applicata punto alla poesia, ma
solamente ai fatti, ai desiderii, alle passioni ec. (2. Nov.
1821.). {{V. p.
2039.}}
[2043,1] L'inclinazione dell'uomo al suo simile, è tanto
maggiore quanto l'uomo (e così ogni vivente) è vicino allo stato naturale, e
tanto più vivi e più numerosi sono gli svariatissimi effetti (da me in diversi
luoghi osservati p. 1688
pp. 1823-24
pp. 1847-48) di questa essenzialissima inclinazione, figlia immediata
dell'amor proprio, anch'esso tanto più vivo ed energico, almeno ne' suoi
effetti, e nell'aspetto che piglia, quanto il
2044
vivente è più naturale. Tutti p. e. amano l'imitazione dell'uomo e delle cose
umane nelle arti, nella poesia, ec. più che quella di qualunque altro oggetto.
Ma questa preferenza è più notabile nel fanciullo, il quale tra' suoi pupazzi si
compiace soprattutto di quelli che rappresentano uomini, e nelle favole o
novelle che legge, di quelle che trattano d'uomini. - ec. ec. ec. Quando anche
abbia p. es. delle figure d'animali assai più ben fatte, che quelle d'uomini ec.
ec.
[2102,1]
2102 Espressione degli occhi. Perchè si ha cura {{fino ab
antico}} di chiuder gli occhi ai morti? Perchè con gli occhi
aperti farebbero un certo orrore. E questo orrore da che verrebbe? Non da altro
che da un contrasto fra l'apparenza della vita, e l'apparenza e la sostanza
della morte. Dunque la significazione degli occhi è tanta, ch'essi sono i
rappresentanti della vita, e basterebbero a dare una sembianza di vita agli
estinti. Egli è certo che la sede dell'anima quanto all'esteriore, son gli
occhi, e quell'animale o quell'uomo estinto, a cui non si vedono gli occhi,
facilmente si crede che non viva; ma finattanto che gli occhi se gli vedono, si
ha pena a credere che l'anima non alberghi in essi, (quasi fossero inseparabili
da lei), e il contrasto fra quest'apparenza, questa specie di opinione, e la
certezza del contrario, cagiona un raccapriccio, massime trattandosi de' nostri
simili, perchè ogni sensazione è viva, ogni contrasto è notabile in tali
soggetti (cioè morte del nostro simile); eccetto
2103
{il caso di} abitudine formata a tali sensazioni, ec.
(15. Nov. 1821.).
[2107,1] Ho detto pp. 1648-49
pp. 2039-41 che l'uomo di gran sentimento è soggetto a divenire
insensibile più presto e più fortemente degli altri, e soprattutto di quegli di
mediocre sensibilità. Questa verità si deve estendere ed applicare a tutte
quelle parti, generi ec. ne' quali il sentimento
2108
si divide e si esercita, come la compassione ec. ec. Sebbene è verissimo che
l'uomo di sentimento è destinato all'infelicità nondimeno assai spesso accade
ch'egli nella sua giovanezza, divenga insensibile al dolore e alla sventura, e
che tanto meno egli sia suscettibile di dolor vivo dopo passata una certa epoca,
e un certo giro di esperienza, quanto più violento e terribile fu il suo dolore
e la sua disperazione ne' primi anni, e ne' primi saggi ch'egli fece della vita.
Egli arriva sovente assai presto ad un punto, dove qualunque massima infelicità
non è più capace di agitarlo fortemente, e dall'eccessiva suscettibilità di
essere eccessivamente turbato, passa rapidamente alla qualità contraria, cioè ad
un abito di quiete e di rassegnazione sì costante, e di disperazione così poco
sensibile, che qualunque nuovo male gli riesce indifferente (e questa si può
2109 dire l'ultima epoca del sentimento, e quella in
cui la più gran disposizione naturale all'immaginazione alla sensibilità,
divengono quasi al tutto inutili, e il più gran poeta, o il più dotato di
eloquenza che si possa immaginare, perde quasi affatto e irrecuperabilmente
queste qualità, e si rende incapace a poterle più sperimentare o mettere in
opera per qualunque circostanza. Il sentimento è sempre vivo fino a questo
tempo, anche in mezzo alla maggior disperazione, e al più forte senso della
nullità delle cose. Ma dopo quest'epoca, le cose divengono tanto nulle all'uomo
sensibile, ch'egli non ne sente più nemmeno la nullità: ed allora il sentimento
e l'immaginazione son veramente morte, e senza risorsa.) Nessuna cosa violenta è
durevole. Laddove gli uomini di mediocre sensibilità, restano più o meno
suscettibili d'
2110 infelicità viva per tutta la vita,
e sempre capaci di nuovo affanno, da vecchi poco meno che da giovani, come si
vede negli uomini ordinarii tuttogiorno. (17. Nov. 1821.).
[2132,1] La facoltà inventiva è una delle ordinarie, e
principali, e caratteristiche qualità e parti dell'immaginazione. Or questa
facoltà appunto è quella che fa i grandi filosofi, e i grandi scopritori delle
grandi verità. E si può dire che da una stessa sorgente,
2133 da una stessa qualità dell'animo, diversamente applicata, e
diversamente modificata e determinata da diverse circostanze e abitudini,
vennero i poemi di Omero e di Dante, e i Principii matematici della
filosofia naturale di Newton. Semplicissimo è il sistema e l'ordine della
macchina umana in natura, pochissime le molle, e gli ordigni di essa, e i
principii che la compongono, ma noi discorrendo dagli effetti che sono infiniti
e infinitamente variabili secondo le circostanze, le assuefazioni, e gli accidenti, moltiplichiamo gli elementi,
le parti, le forze del nostro sistema, e dividiamo, e distinguiamo, e
suddividiamo delle facoltà, dei principii, che sono realmente unici e
indivisibili, benchè producano e possano sempre produrre non solo nuovi, non
solo diversi, ma dirittamente contrarii effetti. L'immaginazione per tanto è la
sorgente della ragione, come del sentimento, delle
2134
passioni, della poesia; ed essa facoltà che noi supponiamo essere un principio,
una qualità distinta e determinata dell'animo umano, o non esiste, o non è che
una cosa stessa, una stessa disposizione con cento altre che noi ne distinguiamo
assolutamente, e con quella stessa che si chiama riflessione o facoltà di
riflettere, con quella che si chiama intelletto ec. Immaginazione e intelletto è
tutt'uno. L'intelletto acquista ciò che si chiama immaginazione, mediante gli
abiti e le circostanze, e le disposizioni naturali analoghe; acquista nello
stesso modo, ciò che si chiama riflessione ec. ec. (20. Nov.
1821.)
[2134,1] La perfezion della traduzione consiste in questo,
che l'autore tradotto, non sia p. e. greco in italiano, greco o francese in
tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese.
Questo è il difficile, questo è ciò che non in
2135
tutte le lingue è possibile. In francese è impossibile, tanto il tradurre in
modo che p. e. un autore italiano resti italiano in francese, quanto in modo che
egli sia tale in francese qual è in italiano. In tedesco è facile il tradurre in
modo che l'autore sia greco, latino italiano francese in tedesco, ma non in modo
ch'egli sia tale in tedesco qual è nella sua lingua. Egli non può esser mai tale
nella lingua della traduzione, s'egli resta greco, francese ec. Ed allora la
traduzione per esatta che sia, non è traduzione, perchè l'autore non è quello,
cioè non pare p. e. ai tedeschi quale nè più nè meno parve ai greci, o pare ai
francesi, e non produce di gran lunga nei lettori tedeschi quel medesimo effetto
che produce l'originale nei lettori francesi ec.
[2150,2] A quello che ho detto altrove pp. 139-40
pp.
271-72 circa il modo da tenersi nel consolare, aggiungete che in
ultima analisi l'unica consolazione dei mali, massimamente grandi, è il
persuadersi o almeno il credere confusamente, ch'essi o non sieno reali, o meno
gravi che non parevano,
2151 o che abbiano rimedio, o
compenso ec. Le forti afflizioni non si consolano finalmente se non in questo
modo: e il tempo consolatore, adopra anch'esso in gran parte questo metodo.
(23. Nov. 1821.).
[2159,1] Lo stato di disperazione rassegnata, ch'è l'ultimo
passo dell'uomo sensibile, e il finale sepolcro della sua sensibilità, de' suoi
piaceri, e delle sue pene, è tanto mortale alla sensibilità, ed alla poesia
2160 (in tutti i sensi, ed estensione di questo
termine), che sebbene la sventura, e il sentimento attuale di lei, pare ed è
(escluso il detto stato) la più micidial cosa possile[possibile] alla poesia (nè solo la sventura attuale, ma anche
l'abituale, che deprime miseramente l'immaginazione, il sentimento, l'animo);
contuttociò se può succedere che nel detto stato, una nuova e forte sventura,
cagioni all'uomo qualche senso, quel punto, per una tal persona, è il più
adattato ch'egli possa mai sperare, alla forza dei concetti, al poetico,
all'eloquente dei pensieri, ai parti dell'immaginazione e del cuore, già fatti
infecondi. Il {nuovo} dolore in tal caso è come il
bottone di fuoco che restituisce qualche senso, qualche tratto di vita ai corpi
istupiditi. Il cuore dà qualche segno di vita, torna per un momento a sentir se
medesimo, giacchè la proprietà e l'impoetico della disperazione rassegnata
consiste appunto, nel non esser più
2161 visitato nè
risentito {neppur} dal dolore.
[2171,1] Non solo alla lingua francese, (come osserva la Staël) ma anche a tutte le altre moderne, pare che la prosa
sarebbe più confacente del verso alla poesia moderna. Ho mostrato altrove pp.
734-35 in che cosa debba questa essenzialmente consistere, e quanto
ella sia più prosaica che poetica. Infatti laddove leggendo le prose antiche,
talvolta desideriamo quasi il numero e la misura, per la poeticità delle idee
che contengono (non ostante che e per numero e per ogni altra qualità, la prosa
antica tenga tanto della versificazione); per lo contrario leggendo i versi
moderni, anche gli ottimi, e molto più quando ci proviamo a mettere noi stessi
in verso de' pensieri poetici, veramente propri e moderni, desideriamo la
libertà, la scioltezza, l'abbandono, {+la
scorrevolezza, la facilità, la chiarezza, la placidezza, la semplicità, il
disadorno, l'assennato, il serio e sodo,}
{la posatezza}, il piano della prosa,
2172 come meglio armonizzante con quelle idee che non
hanno quasi niente di versificabile ec. (26. Nov. 1821.).
[2184,1] Non solo l'uomo è opera delle circostanze, in quanto
queste lo determinano a tale o tal professione ec. ec. ma anche in quanto al
genere, al modo, al gusto di quella tal professione a cui l'assuefazion sola e
le circostanze l'hanno determinato. P. e. io finchè non lessi se non autori
francesi, l'assuefazione parendo natura, mi pareva che il mio stile naturale
fosse quello solo, e che là mi conducesse l'inclinazione. Me ne disingannai,
passando a diverse letture, ma anche in queste, e di mese in mese, variando il
gusto degli autori ch'io leggeva, variava l'opinione ch'io mi formava circa la
mia propria
2185 inclinazione naturale. E questo anche
in menome e determinatissime cose, appartenenti o alla lingua, o allo stile, o
al modo e genere di letteratura. Come, avendo letto fra i lirici il solo Petrarca, mi pareva che dovendo scriver
cose liriche, la natura non mi potesse portare a scrivere in altro stile ec. che
simile a quello del Petrarca. Tali
infatti mi riuscirono i primi saggi che feci in quel genere di poesia. I secondi
meno simili, perchè da qualche tempo non leggeva più il Petrarca. I terzi dissimili affatto, per essermi
formato ad altri modelli, o aver contratta, a forza di moltiplicare i modelli,
le riflessioni ec. quella specie di maniera o di facoltà, che si chiama originalità. (Originalità quella che si contrae? e che infatti non si
possiede mai se non s'è acquistata? Anche Mad. di Staël dice che bisogna leggere più che si possa per divenire
2186
originale. Che cosa è dunque l'originalità? facoltà
acquisita, come tutte le altre, benchè questo aggiunto di acquisita ripugna
dirittamente al significato e valore del suo nome.) (28. Nov.
1821.).
[2208,2] Ho detto pp. 1648-49
pp.
2039-41
pp.
2107-09 che l'uomo di gran sentimento più presto degli altri è
soggetto a divenire indifferente sì nel resto, sì quanto alle sventure. Ciò vuol
dire ch'egli forma l'abito delle sventure (così dite del resto)
2209 più facilmente e prontamente degli altri. E per
due cagioni. 1. Perchè più soffre essendo più sensibile, onde le cause
dell'assuefazione che sono l'esercizio, e la ripetizion delle sensazioni,
essendo in lui maggiori che negli altri, più presto la cagionano. {+Oltre ch'egli più vivamente le sente
ond'è soggetto a sventure maggiori e per numero e per grado di forza
ec.} 2. Perch'egli è anche per se stesso e indipendentemente dalle
circostanze, più assuefabile degli altri. {+(Massime a questi generi di cose.)} Ond'egli
impara la sventura più presto degli altri, come gli uomini di talento (che per
lo più sono anche di sentimento) imparano le discipline, o quella tale a cui
sono inclinati ec. più presto degli altri, e più presto e facilmente intendono,
concepiscono ec. perchè più attendono ec. Quindi è che gli uomini di poco o
mediocre sentimento, e generalmente i mediocri spiriti, dopo un numero o una
massa di sventure, maggiore assai di quella che ha bastato ad assuefare e
2210 rendere imperturbabile l'uomo di gran sentimento,
non vi sono ancora assuefatti, sono sempre aperti all'afflizione al dolore,
sempre sensibili al male, sempre egualmente teneri e molli (sebbene quegli
ch'era assai più molle, sia già del tutto indurato), e restano bene spesso tali
per tutta la vita, tanto capaci di soffrire nella decrepitezza, quanto appresso
a poco nella prima giovanezza. Anzi di più, perchè meno distratti nelle loro
sensazioni, e meno aiutati dalla forza naturale. Laddove all'uomo di sentimento
lo stesso esser poco capace di distrazione, lo stesso attender vivamente alle
sensazioni, facilita l'assuefazione, e l'acquisto della insensibilità, e
incapacità di più attendervi. (1. Dic. 1821.).
[2217,1]
Didone, Aen. 4. 659. seg.
Moriemur inultę,
Sed moriamur, ait. Sic sic iuvat ire sub umbras. *
Virgilio volle qui esprimere (fino e profondo sentimento, e degno di un uomo conoscitore de' cuori, ed esperto delle passioni e delle sventure, come lui) quel piacere che l'animo prova nel considerare e rappresentarsi non solo vivamente, ma minutamente, intimamente, e pienamente la sua disgrazia, i suoi mali; nell'esagerarli, anche, a se stesso, 2218 se può (che se può, certo lo fa), nel riconoscere, o nel figurarsi, ma certo persuadersi e proccurare con ogni sforzo di persuadersi fermamente, ch'essi sono eccessivi, senza fine, senza limiti, senza rimedio nè impedimento nè compenso nè consolazione veruna possibile, senza alcuna circostanza che gli alleggerisca; nel vedere insomma e sentire vivacemente che la sua sventura è propriamente immensa e perfetta e quanta può essere per tutte le parti, e precluso e ben serrato ogni adito o alla speranza o alla consolazione qualunque, in maniera che l'uomo resti propriamente solo colla sua intera sventura. Questi sentimenti si provano negli accessi di disperazione, nel gustare il passeggero conforto del pianto, (dove l'uomo si piglia piacere a immaginarsi più infelice che può), talvolta anche nel primo punto e sentimento o novella ec. del suo male ec.
Moriemur inultę,
Sed moriamur, ait. Sic sic iuvat ire sub umbras. *
Virgilio volle qui esprimere (fino e profondo sentimento, e degno di un uomo conoscitore de' cuori, ed esperto delle passioni e delle sventure, come lui) quel piacere che l'animo prova nel considerare e rappresentarsi non solo vivamente, ma minutamente, intimamente, e pienamente la sua disgrazia, i suoi mali; nell'esagerarli, anche, a se stesso, 2218 se può (che se può, certo lo fa), nel riconoscere, o nel figurarsi, ma certo persuadersi e proccurare con ogni sforzo di persuadersi fermamente, ch'essi sono eccessivi, senza fine, senza limiti, senza rimedio nè impedimento nè compenso nè consolazione veruna possibile, senza alcuna circostanza che gli alleggerisca; nel vedere insomma e sentire vivacemente che la sua sventura è propriamente immensa e perfetta e quanta può essere per tutte le parti, e precluso e ben serrato ogni adito o alla speranza o alla consolazione qualunque, in maniera che l'uomo resti propriamente solo colla sua intera sventura. Questi sentimenti si provano negli accessi di disperazione, nel gustare il passeggero conforto del pianto, (dove l'uomo si piglia piacere a immaginarsi più infelice che può), talvolta anche nel primo punto e sentimento o novella ec. del suo male ec.
[2228,1] È cosa facilmente osservabile che nel comporre ec.
giova moltissimo, e facilita ec. il leggere abitualmente in quel tempo degli
autori di stile, di materia ec. analoga a quella che abbiamo per le mani ec. Da
che cosa crediamo noi che ciò derivi? forse dal ricevere quelle tali letture,
quegli autori ec. come modelli, come esempi di ciò che dobbiamo fare,
dall'averli più in pronto, per mirare in essi, e regolarci nell'imitarli? ec.
non già, ma dall'abitudine materiale che la mente acquista a quel tale stile ec.
la quale abitudine le rende molto più facile l'eseguir ciò che ha da fare. Tali
letture in tal tempo non sono studi, ma esercizi, come la lunga abitudine del
comporre facilita la composizione. Ora tali letture fanno appunto allora
l'uffizio di quest'abitudine, la facilitano, esercitano insomma la mente in
quell'operazione
2229 ch'ella ha da fare. E giovano
massimamente quando ella v'è già dentro, e la sua disposizione e[è] sul traine[train] di eseguire, di applicare al fatto ec.
Così leggendo un ragionatore, per quei giorni si prova una straordinaria
tendenza, facilità, frequenza ec. di ragionare sopra qualunque cosa occorrente,
anche menoma. Così un pensatore, così uno scrittore d'immaginazione, di
sentimento (esso ci avvezza per allora a sentire anche da noi stessi), originale, inventivo ec. E questi
effetti li producono essi non in forza di modelli (giacchè li producono quando
anche il lettore li disprezzi, o li consideri come tutt'altro che modelli), ma
come mezzi di assuefazione. E però, massime nell'atto di comporre, bisogna
fuggir le cattive letture, sia in ordine allo stile, o a qualunque altra cosa;
perchè la mente senz'avvedersene si abitua a quelle maniere, per quanto le
condanni, e per quanto sia abituata già a maniere diverse, abbia formato una
maniera
2230 propria, ben radicata nella di lui
assuefazione ec. (6. Dic. 1821.).
[2230,1] Quanto sia vero che la scienza ed ogni facoltà umana
non deriva che da pure assuefazioni, e queste quando son relative in qualunque
modo all'intelletto, hanno bisogno dell'attenzione. L'uomo di gran talento, è
avvezzo soprammodo ad attendere, ed assuefarsi, si trova bene spesso
inespertissimo e ignorante di cose che i meno attenti, e più divagati animi
conoscono ottimamente. Ciò viene perch'egli in tali cose non suol porre
attenzione. Ho detto altrove pp. 1062-63 ch'egli suol essere
ignorantissimo di tutte le arti ec. della buona compagnia. Osservatelo ancora
nel senso materiale del gusto. Gl'ignoranti l'avranno finissimo, e capacissimo
di discernere le menome differenze, pregi, difetti de' sapori e de' cibi. Egli
al contrario, e se talvolta vi attende, si maraviglia di non capir nulla di ciò
che gli altri conoscono benissimo, e gli dimostrano. Eppur questo è un senso
materiale. Ma non esercitato da lui con l'attenzione,
2231 benchè materialmente esercitato da lui come dagli altri. Che vuol
dir ciò? tutte le facoltà umane le più materiali, e apparentemente naturali,
abbisognano di assuefazione ec. (6. Dic. 1821.).
[2233,1] Ho detto altrove pp. 227-28 che nel
giudizio che il lettore pronunzia sulle poesie (così proporzionatamente si può
dire d'ogni altro genere di scrittura), dipende ed è influito moltissimo
dall'attuale disposizione del suo animo, e soggetto perciò ad esser falsissimo
(sì nel favorevole come nello sfavorevole), per molto che il lettore sia
giudizioso, ingegnoso, sensibile, capace di entusiasmo, insomma giudice al tutto
competente. Osservate infatti. In una disposizion d'animo fredda e indifferente,
ovvero
2234 distratta, o gravata d'altre cure, o
scoraggiata, o disingannata ec. sia ella tale attualmente per qualunque cagione,
o abitualmente, acquisita o naturale ec. le più belle scene della natura ec. ec.
non producono, neppure all'uomo il più sensibile del mondo, il menomo effetto, e
quindi nessun piacere; e non però elle sono men belle. Così viceversa.
Similmente dunque deve accadere, e similmente si deve discorrere del giudizio
che gli uomini, anche i più capaci, pronunziano e concepiscono delle poesie,
cose di eloquenza, di sentimento d'immaginazione ec. Giudizio diversissimo e
nelle diverse persona[persone], e in una stessa
in diversi tempi, {e momenti anche della giornata,} e
molto più in diverse nazioni ec. Aggiungete la sazietà, la scontentezza, il vôto
dell'animo, la noia; aggiungete le circostanze degli studi, il trovarsene sazio
o annoiato in quel
2235 tal momento, il venire da uno
studio o lettura che ti ha stancato o annoiato ec. il che può rendere il
giudizio tanto più favorevole del giusto, quanto anche (assai spesso) più
sfavorevole.
[2242,2] Ogni uomo sensibile prova un sentimento di dolore, o
una commozione, un senso di malinconia, fissandosi col pensiero in una cosa che
sia finita per sempre, massime s'ella è stata al tempo suo, e familiare a lui.
Dico di qualunque cosa soggetta
2243 a finire, come la
vita o la compagnia della persona la più indifferente per lui (ed anche molesta,
anche odiosa), la gioventù della medesima; un'usanza, un metodo di vita. ec.
Fuorchè se questa cosa per sempre finita, non è appunto un dolore, una sventura
ec. {+o una fatica, o se l'esser finita,
non è lo stesso che aver conseguito il suo proprio scopo, esser giunta dove
per suo fine mirava ec.} Sebbene anche, nel caso che a questa ci siamo
abituati, proviamo ec. Solamente della noia non possiamo dolerci mai che sia
finita.
[2258,1] Altra somiglianza fra il mondo e le donne. Quanto
più sinceramente queste e quello si amano, quanto più si ha vera e forte
intenzione di giovar loro, e sacrificarsi per loro, tanto più bisogna esser
certi di non riuscire a nulla presso di essi. Odiarli, disprezzarli, trattarli
al solo fine de' proprii vantaggi e piaceri, questo è l'unico e indispensabil
mezzo di far qualche cosa nella galanteria, come in qualunque carriera
mõdana[mondana], con qualunque persona, o
società, in qualunque parte della vita, in qualunque scopo ec. ec. (18.
Dic. 1821.).
[2271,1] Il partire, il restare contenti di una persona, non
vuol dire, e non è altro in sostanza che il restar contenti di se medesimi. Noi
amiamo la conversazione, usciamo soddisfatti dal colloquio ec. di coloro che ci
fanno restar contenti di noi medesimi, in qualunque modo, o perchè essi lo
proccurino, o perchè non sappiano altrimenti, ci diano campo di figurare. ec.
Quindi è che quando tu resti contento di un altro, ciò vuol dire in ultima
analisi che tu ne riporti l'idea di te stesso superiore all'idea di colui. Così
che se questo può giovare all'amore verso quella tal persona, ordinariamente
però non giova nè alla stima, nè al timore, nè al peso, nè al conto, nè all'alta
opinione ec. cose che gli uomini in società desiderano di riscuotere dagli altri
uomini assai più che l'amore.
2272 (E con ragione,
perchè l'amore verso gli altri è inoperoso, non così il timore, l'opinione, il
buon conto ec.) E però volendo farsi largo nel mondo, solamente i giovanetti e i
principianti cercano sempre di lasciar la gente soddisfatta di se. Chi ben
pensa, proccura tutto il contrario, e sebben pare a prima vista che quegli il
quale parte malcontento di voi porti con se de' sentimenti a voi sfavorevoli,
nondimeno il fatto è che egli suo malgrado, e senza punto avvedersene, {+anzi e desiderando e cercando e credendo
il contrario,} porta de' sentimenti a voi favorevolissimi secondo il
mondo, giacchè l'esser malcontento di voi, non è per lui altro che esser
malcontento di se stesso rispetto a voi, e quindi in un modo o nell'altro tu
nella sua idea resti superiore a lui stesso (che è quello appunto che gli dà
pena); e gl'impedisci di ecclissar la opinione di te, con l'opinione e
l'estimazione di se. Ne seguirà l'odio, ma non mai il disprezzo
2273 (neppur quando tu l'abbia fatto scontento con
maniere biasimevoli, ed anche villane); e il disprezzo, o la poca opinione, è
quello che in società importa soprattutto di evitare; e il solo che si possa
evitare, perchè l'odio non è schivabile; essendo innato nell'uomo e nel vivente
l'odiare gli altri viventi, e massime i compagni; non è schivabile per quanta
cura si voglia mai porre nel soddisfare a tutti colle opere, colle parole, colle
maniere, e nel ménager, e cattivare, e studiare, e
secondare l'amor proprio di tutti. Laddove il disprezzo verso gli altri non è
punto innato nell'uomo: bensì egli desidera di concepirlo, e lo desidera in
virtù dell'odio che porta loro; ma dipendendo esso dall'intelletto, e da' fatti,
e non dalla volontà, si può benissimo impedire. {+Tutti questi effetti sono maggiori oggidì di quello che
mai fossero nella società, a causa del sistema di assoluto e universale e
accanito e sempre crescente egoismo, che forma il carattere del
secolo.}
(22. Dic. 1821.).
[2274,1] Se tu prendi a leggere un libro qualunque, il più
facile ancora, o ad ascoltare un discorso il più chiaro del mondo, con
un'attenzione eccessiva, e con una smodata contenzione di mente; non solo ti si
rende difficile il facile, {+non solo ti
maravigli tu stesso e ti sorprendi e ti duoli di una difficoltà non
aspettata,} non solo tu stenti assai più ad intendere, di quello che
avresti fatto con minore attenzione, non solo tu capisci meno, ma se
l'attenzione e il timore di non intendere o di lasciarsi sfuggire qualche cosa,
è propriamente estremo, tu non intendi assolutamente nulla, come se tu non
leggessi, e non ascoltassi, e come se la tua mente fosse del tutto intesa ad
un'[un] altro affare: perocchè dal troppo
viene il nulla, e il troppo attendere ad una cosa equivale effettivamente al non
2275 attenderci, e all'avere un'altra occupazione
tutta diversa, cioè la stessa attenzione. Nè tu potrai ottenere il tuo fine se
non rilascerai, ed allenterai la tua mente, ponendola in uno stato naturale, e rimetterai, ed appianerai
la tua cura d'intendere, la quale solo in tal caso sarà utile. (22. Dic.
1821.). {{v. p.
2296.}}
[2315,1] L'animo umano è sempre ingannato nelle sue speranze,
e sempre ingannabile: sempre deluso dalla speranza medesima, e sempre capace
2316 di esserlo: aperto non solo, ma posseduto dalla
speranza nell'atto stesso dell'ultima disperazione, nell'atto stesso del
suicidio. La speranza è come l'amor proprio, dal quale immediatamente deriva.
L'uno e l'altra non possono, per essenza e natura dell'animale, abbandonarlo mai
finch'egli vive, cioè sente la sua esistenza. (31. Dic. 1821.).
[2342,1]
2342 Il mondo deride chi fedelmente e sinceramente
osserva i suoi doveri, o prova effettivamente e segue i sentimenti dettati dalla
natura e dalla morale; e si scandolezza e biasima chi trascura pubblicamente i
medesimi doveri, chi mostra di disprezzarli, chi pienamente non gli adempie in
faccia al pubblico, quando anche egli abbia i suoi giustissimi motivi per non
farlo, e non seguire il costume in
questa parte. Una donna è derisa s'ella piange sinceramente il suo marito
recentemente morto, se a chi la tratta, dà segno di sentir vivo e vero dolore
della sua perdita; ma s'ella, anche per circostanze imperiose, trascura il
menomo dei doveri che il costume impone in questi casi, s'ella un giorno più
presto del tempo prescritto dall'uso si fa vedere in pubblico, s'ella, anche a
solo fine di portar qualche alleggerimento al suo vero dolore, si permette prima
del detto tempo, qualche menomo spasso o distrazione, il mondo severissimamente
la giudica, e inesorabilmente la condanna, senz'aver riguardo a ragioni nè
circostanze, per reali che possano essere, e non lascia di mordere
2343 e di riprendere la più piccola violazione dei
doveri apparenti, mentre è prontissimo a schernire chi gli osservi di buona fede
ec. (10. Gen. 1822.).
[2363,2] Quei pochissimi {poeti}
italiani che in questo o nel passato secolo hanno avuto qualche barlume di genio
e natura poetica, qualche poco di forza nell'animo
2364
o nel sentimento, qualche poco di passione, sono stati tutti malinconici nelle
loro poesie. (Alfieri, Foscolo ec.) Il Parini tende
anch'esso nella malinconia, specialmente nelle odi, ma anche nel Giorno, per ischerzoso che
paia. Il Parini però non aveva
bastante forza di passione e sentimento, per esser vero poeta. E generalmente
non è che la pura debolezza del sentimento, la scarsezza della forza poetica
dell'animo, che {può} permettere ai nostri poeti
italiani d'oggidì (ed anche degli altri secoli, e anche d'ogni altra nazione), a
quei medesimi che più si distinguono, e che per certi meriti di stile, o di
stiracchiata immaginazione, son tenuti poeti, l'essere allegri in poesia, ed
anche inclinarli e sforzarli a preferir l'allegro al malinconico. Ciò che dico
della poesia dico proporzionatamente delle altre parti della bella letteratura.
Dovunque non regna il malinconico nella letteratura moderna, la sola debolezza
n'è causa. (27. Gen. 1822.).
[2378,1]
2378 Che non si dà ricordanza, nè si mette in opera la
memoria senz'attenzione. Prendete a caso uno o due o tre versi di chi vi
piaccia, in modo che possiate, leggendoli una volta sola, tenerli tanto a
memoria da poterli poi ripeter subito fra voi, il che è ben facile in quello
stesso momento che si son letti: e ripeteteli fra voi stesso dieci o quindici
volte, ma con tutta materialità, come si fa un'azione ordinaria, senza pensarvi
e senza porvi la menoma attenzione. Di lì ad un'ora non ve ne ricorderete più,
volendo ancora richiamarli con ogni sforzo. Al contrario leggeteli solamente una
o due volte con attenzione, e intenzione d'impararli, o che vi restino impressi;
ovvero poniamo caso che da se stessi v'abbiano fatto una decisa impressione, ed
eccitata per questo mezzo la vostra mente ad attendervi, anche senza intenzione
alcuna d'impararli. Non li ripetete neppure fra voi, o ripetendoli, fatelo solo
una o due volte con attenzione. Di lì a più ore vi risovverranno anche
spontaneamente, e molto più se voi lo vorrete; e se allora di nuovo ci farete
attenzione, in modo che quella reminiscenza
2379 non
sia puramente materiale, ve ne ricorderete poi anche più a lungo per un certo
tempo. Dico tutto ciò per esperienza, trovando d'essermi scordato più volte
d'alcuni versetti ch'io per ricordarmene avea ripetuto meccanicamente fra me una
ventina di volte, e di averne ritenuto degli altri ripetuti una sola o due
volte, con decisa attenzione alle parti ec. E così d'altre cose ec. E chi sa che
queste o simili osservazioni non fossero il fondamento di quell'arte della
memoria che fra gli antichi s'insegnava e si professava come ogni altra
disciplina, siccome apparisce da molte testimonianze, e fra le altre da Senofonte nel Convito c. 4. §.
62.
[2381,1]
2381 Giovanette di 15. o poco più anni che non hanno
ancora incominciato a vivere, nè sanno che sia vita, si chiudono in un
monastero, professano un metodo, una regola di esistenza, il cui unico scopo
diretto e immediato si è d'impedire la vita. E questo è ciò che si procaccia con
tutti i mezzi. Clausura strettissima, fenestre disposte in modo che non se ne
possa vedere persona, a costo della perdita dell'aria e della luce, che sono le
sostanze più vitali all'uomo, e che servono anche, e sono necessarie alla
comodità giornaliera delle sue azioni, e di cui gode liberamente tutta la
natura, tutti gli animali, le piante, e i sassi. Macerazioni, perdite di sonno,
digiuni, silenzio: tutte cose che unite insieme nocciono alla salute, cioè al
ben essere, cioè alla perfezione dell'esistenza, cioè sono contrarie alla vita.
Oltrechè escludendo assolutamente l'attività, escludono la vita, poichè il moto
e l'attività è ciò che distingue il vivo dal morto: e la vita consiste
nell'azione; laddove lo scopo diretto della vita monastica anacoretica ec. è
l'inazione, e il guardarsi dal fare, l'impedirsi di fare. Così che la monaca o
il monaco
2382 quando fanno professione, dicono
espressamente questo: io non ho ancora vissuto, l'infelicità non mi ha
stancato nè scoraggito della vita; la natura mi chiama a vivere, come fa a
tutti gli esseri creati o possibili: nè solo la natura mia, ma la natura
generale delle cose, l'assoluta idea e forma dell'esistenza. Io però
conoscendo che il vivere pone in grandi pericoli di peccare, ed è per
conseguenza pericolosissimo per se
stesso, e quindi per se stesso
cattivo (la conseguenza è in regola assolutamente), son risoluto di
non vivere, di fare che ciò che la natura ha fatto, non sia fatto, cioè che
l'esistenza ch'ella mi ha dato, sia fatta inutile, e resa (per quanto è
possibile) nonesistenza. S'io non
vivessi, o non fossi nato, sarebbe meglio in quanto a questa vita presente,
perchè non sarei in pericolo di peccare, e quindi libero da questo male assoluto: s'io mi potessi
ammazzare sarebbe parimente meglio, e condurrebbe allo stesso fine; ma
poichè non ho potuto a meno di nascere, e la mia legge mi comanda di fuggir
la vita, e nel tempo stesso mi vieta di terminarla, ponendo la morte volontaria fra gli altri
peccati per cui la vita
2383 è pericolosa, resta che (fra tante
contraddizioni) io scelga il partito ch'è in poter mio, e l'unico degno del
savio, cioè schivare quanto io posso la vita, contraddire e render vana
quanto posso la nascita mia, insomma esistendo annullare quanto è possibile
l'esistenza, privandola di tutto ciò che la distingue dal suo contrario e la
caratterizza, e soprattutto dell'azione che per una parte è il primo scopo e
carattere ed uffizio ed uso dell'esistenza, per l'altra è ciò che v'ha in
lei di più pericoloso in ordine al peccare. E se con ciò nuocerò al mio ben essere, e mi abbrevierò
l'esistenza, non importa; perchè lo scopo di essa non dev'esser altro che
fuggir se medesima, come pericolosa; e l'essere non è mai tanto bene, quanto allorchè in qualunque maggior modo possibile è
lontano dal pericolo di peccare, cioè lontano dall'essere e dall'operare ch'è l'impiego dell'esistenza.
[2390,1]
2390 L'attenzione de' fanciulli è scarsa 1. per la
moltitudine e forza delle impressioni in quell'età, conseguenza necessaria della
novità ed inesperienza: le quali impressioni tirando fortemente l'attenzione
loro in mille parti e continuamente, l'impediscono di esser sufficiente in
nessuna: e questa è la distrazione che s'attribuisce ai fanciulli, tanto più
distratti, quanto più suscettibili di sensazioni vive e profonde: 2. perchè
anche la facoltà di attendere non si acquista senz'assuefazione ec: 3. perchè la
natura ha provveduto in modo che fin che l'uomo è nello stato naturale, come
sono i fanciulli, poco e insufficientemente attende, essendo l'attenzione la
nutrice della ragione, e la prima ed ultima causa della corruzione ed infelicità
umana. (16. Feb. 1822.)
[2391,1]
2391
Ma nulla fa chi troppe
cose pensa.
*
Tasso
Aminta, Atto 2. scena 3. v. ult.
(20. Feb. primo di Quaresima. 1822.).
[2401,3] Non è da far mai pompa della propria infelicità. La
sola fortuna fa fortuna tra gli uomini, e la sventura non fu mai fortunata; nè
si può far traffico, e ritrarre utilità dalla miseria, quando ella sia vera.
Nessuno fu mai più stimato o più gradito per esser più infelice degli altri. E
però allo sventurato, volendo esser bene accolto ed accetto, o
2402 farsi tenere in pregio, non solamente conviene
dissimulare le proprie disgrazie, ma fingersi del numero de' fortunati,
pretendere a questo titolo, combatter la fama o chiunque glie lo neghi, e
mettere ogni studio per ingannar gli altri in questo punto. (23. Aprile.
1822.). {{V. p. 2415.}}
{{2485.}}
[2405,1] Essendo vissuto lunghissimo tempo in città piccola,
e fra gente lontanissima da quel che si chiama buon tuono, e spirito di mondo,
quantunque io non abbia più che tanta pratica della così detta buona società, mi
par nondimeno
2406 di avere in mano bastanti
comparazioni per potere affermare che ne' paesi piccoli, e fra gli uomini e le
società di piccolo spirito, si apprende assai più della natura umana, e {sì} del carattere generale, sì de' caratteri accidentali
degli uomini, di quello che si possa fare nelle grandi città, e nella perfetta
conversazione. Perchè, oltre che in queste gli uomini son sempre mascherati, e
d'apparenze lontanissime dalla sostanza, e dai caratteri loro individuali; oltre
che sono tanto più lontani dalla natura, e dal vero carattere generale
dell'uomo, e lo sono, non solo per finzione, ma anche per carattere acquisito;
il principale è che son tutti appresso a poco d'una forma, sì ciascuno di essi,
come ciascuna di tali società rispetto alle altre. Laonde veduto e conosciuto un
uomo solo, si può dir che tutti, poco più poco meno, sieno veduti e conosciuti.
Al contrario di quel che succede nelle città piccole, e nella piccola società,
dove non è individuo, che non offra qualche nuova scoperta circa le qualità di
cui la natura umana è capace. Maggior varietà si trova fra questi tali uomini
che nelle stesse campagne (o fra' selvaggi, o non inciviliti ec.)
2407 perchè gli uomini affatto o quasi affatto incolti,
sono abbastanza vicini alla natura (ch'è una qualità e un tipo generale) per
rassomigliarsi moltissimo scambievolmente, mediante la stessa natura. Questi
sono simili fra loro, quelli che sono perfettamente o quasi perfettamente colti,
si può dir che sieno uguali gli {uni agli} altri, in
virtù dell'incivilimento che tende per essenza ad uniformare. Lo stato di mezzo
è il più vario, il più suscettivo di diverse qualità, e il più conformabile
secondo le circostanze relative e individuali. Queste osservazioni si possono
estendere, e distinguere in diversi modi. P. e. si conosce assai meglio la
natura umana e la sua capacità di forme, esaminando un uomo volgare, che un
dotto, un filosofo, uno esperimentato negli affari, o vissuto nel gran mondo ec.
ec.; assai meglio esaminando il carattere di una società piccola, che d'una
grande; assai meglio esaminando una nazione non perfettamente colta, che una
perfettamente civile (spagnuoli, tedeschi-italiani- francesi); assai meglio
esaminando lo spirito di quella tal nazione civile, o delle sue parti, lontano
dalla capitale, o dal centro
2408 della società
nazionale, ch'esaminando la società di essa capitale ec. Così dico ancora del
carattere nazionale, il quale p. e. rispetto ai francesi, si conoscerà molto
meglio esaminando la società della Bretagna, o della
Provenza, che quella di
Parigi. (30. Aprile. 1822.).
[2415,2] La vita è fatta naturalmente per la vita, e non per
la morte. Vale a dire è fatta per l'attività, e per tutto quello che v'ha di più
vitale nelle funzioni de' viventi. (5. Maggio. 1822.).
[2419,2] L'animo forte ed alto resiste anche alla necessità,
ma non resiste al tempo, vero ed unico trionfatore di tutte le cose terrene.
Quel dolore profondissimo e ostinatissimo, che sdegnava e calpestava la
consolazione volgare
2420 della sventura, cioè
l'inevitabilità, e l'irreparabilità della medesima, e il non poterne altro, che
rinasceva ogni giorno e talvolta con maggior forza di prima, che per lunghissimo
spazio, era sembrato indomabile e inestinguibile, e piuttosto pareva accrescersi
di giorno {in giorno} che
scemarsi; per tutto ciò non può far che ricusi e non ammetta la consolazione del
tempo, e dell'assuefazione che il tempo insensibilmente e dissimulatissimamente
introduce, e che in ultimo, dopo ostinatissima guerra non si trovi vinto e
morto, e che quell'animo feroce non pieghi il collo, e non s'adatti a
strascinare il suo male senza sdegno, e senza forza di dolersene. E ben può egli
avere sdegnato e rifiutato per lungo tempo anche la consolazione del tempo, ma
non perciò l'ha potuta sfuggire. (5. Maggio. 1822.). {{Si può ricusare la consolazione della stessa necessità, ma
non quella del tempo.}}
[2429,1]
2429 A voler esser lodato o stimato dagli altri,
bisogna per necessità intuonar sempre altamente e precisamente alle orecchie
loro: io vaglio assai più di voi: acciocchè gli altri dicano: colui vale
alquanto più di noi, o quanto noi. La fama di ciascheduno in qualsivoglia
genere, {o propriamente o almeno metaforicamente
parlando,} è sempre incominciata dalla bocca propria. Se tu fai nel
cospetto di quanta gente tu vuoi, un'azione o una produzione ec. la più degna e
la più lodevole che si possa immaginare; t'inganni a partito se credi che
quell'azione ec. essendo manifestissima, e manifestissimamente lodevolissima,
gli altri debbano aprir la bocca spontaneamente, e cominciare essi a dir bene di
te. Guardano, e tacciono eternamente, se tu non rompi il silenzio, e se non hai
l'arte o il coraggio d'essere il primo a far questo. Ciò massimamente in questi
tempi di perfezionato e purificato egoismo. Chi vuol vivere, si scordi della
modestia. (7. Maggio. 1822.).
[2429,2] Che società, che amicizia, che commercio potresti tu
avere con un cieco e sordo, o egli con te?
2430 Al
quale nè coi gesti nè colle parole potresti communicare alcuno de' tuoi
sentimenti, nè egli a te i suoi? e per conseguenza qual comunione di spirito,
cioè di vita e di sentimento potresti aver seco lui? qual sentimento di te
penseresti d'aver destato, o di poter mai destare nell'animo suo? E nondimeno tu
sai pur ch'egli vive, ed oltracciò di vita umana e d'un genere medesimo colla
tua; ed egli potrebbe forse in qualche modo darti ad intendere i suoi bisogni, e
beneficato esteriormente da te, o in altro modo influito, potrebbe aver qualche
senso della tua esistenza, e formarsi di te qualche idea; anzi è certo che ti
considererebbe come suo simile, non ch'egli n'avesse alcuna prova certa, ma
appunto per la scarsezza delle sue idee; come fanno i fanciulli, che sempre
inclinano a creder tutto animato, e simile in qualche modo a loro, non
conoscendo, nè sapendo neppure insufficientemente concepire altra forma d'esistenza che la propria, non ostante
ch'essi pur vedano la differenza della figura, e delle qualità esteriori.
[2431,1]
2431 Or se contuttociò, tu non crederesti di poter aver
con costui nessuna o quasi nessuna società, e non ti soddisfaresti nè ti
compiaceresti in alcun modo del suo commercio, che dovremo dire di quella
società che i filosofi tedeschi e romantici, vogliono che il poeta supponga,
anzi ponga e crei fra l'uomo e il resto della natura? La qual società vogliono
che sia tale che tutto per immaginazione si supponga vivo bensì, ma non di vita
umana, anzi diversissima secondo ciascun genere di esseri? Non è questa una
società peggiore e più nulla di quella col cieco e sordo? Il quale finalmente è
uomo. Ma qui sebben tu creda, e poeticamente t'immagini che le cose vivano, non
supponendo che questa vita abbia nulla di comune colla tua, che sentimento di te
puoi presumere di destare in loro, o qual sentimento della vita loro puoi
presumere di ricever da essi, non potendo neppur concepire altra forma di vita se non la propria? Che giova alla
tua immaginazione e alla tua sensibilità il figurarti che la natura viva? Che
relazione può la tua fantasia fabbricarsi
2432 colla
natura per questo? Ella è cieca e sorda verso te, e tu verso lei. Non basta al
sentimento e al desiderio innato di quasi tutti i viventi che li porta verso il
loro simile, il figurarsi che le cose
vivano, ma solamente che vivano di vita simile per natura alla propria. Tolta questa non v'è società fra
viventi, come non vi può esser società fra cose dissimili, e molto meno fra cose
che in nessun modo si possono intendere l'une coll'altre, nè comunicarsi alcun
sentimento, nè farsi scambievolmente verun segno di se, e neppur concepire o
formarsi nessuna idea del genere di vita l'una dell'altra. Fra le bestie e
l'uomo non è di gran lunga così, e perciò qualche società può passare e passa
fra questo e quelle, e maggiore, quanto più la loro vita, e il loro spirito è
simile al nostro, e quanto più esse {mostrano}
{di} concepire le cose nostre, e noi le loro; e
maggiore eziandio generalmente perchè l'immaginazione nostra (e probabilmente
anche la loro) entra in questo commercio altresì, e ce le dipinge molto più
simili a noi che forse non sono, e noi a loro parimente.
2433 Certo è poi che grandissima affinità e somiglianza passa tra la
vita degli animali e la nostra, tra le loro passioni (radicalmente parlando) e
fra le nostre ec. Affinità e somiglianza che non si trova o non apparisce fra
l'esistenza delle cose inanimate e la nostra; che l'immaginazione antica, e
fanciullesca, e, più o meno, quella di tutti i tempi, non vedendola, la suppone
e la crea; che i bravi tedeschi non vogliono che si supponga, e che non per
tanto s'immagini e si conservi un commercio scambievole fra le cose inanimate e
l'uomo. (8. Maggio. 1822.).
[2434,2] Che le passioni antiche fossero senza comparazione
più gagliarde delle moderne, e gli effetti loro più strepitosi, più risaltati,
più materiali,
2435 più furiosi, e che però
nell'espression loro convenga impiegare colori e tratti molto più risentiti che
in quella delle passioni moderne, è cosa già nota e ripetuta pp. 76.
sgg. Ma io credo che una differenza notabile bisogni fare tra le varie
passioni, appunto in riguardo alla maggiore o minor veemenza loro fra gli
antichi e i moderni comparativamente; e per comprenderle tutte sotto due capi
generali, io tengo per fermo (come fanno tutti) che il dolore antico fosse di
gran lunga più veemente, più attivo, più versato al di fuori, più smanioso e
terribile (quantunque forse per le stesse ragioni più breve) del moderno. Ma in
quanto alla gioia, ne dubiterei, e crederei che, se non altro in molti casi,
ella potesse esser più furiosa e violenta presso i moderni che presso gli
antichi, e ciò non per altro se non perch'ella oggidì è appunto più rara e breve
che fosse mai, come lo era nè più nè meno il dolore anticamente. Questa
osservazione potrebbe forse servire al tragico, al pittore, ed altri imitatori
delle passioni. Vero è che nel fanciullo e la gioia e il dolore sono del pari
2436 più violenti, ed altresì per la stessa ragione
più brevi che nell'adulto. Ed è vero ancora che l'abitudine dell'animo de'
moderni li porta a contenere dentro di se, ed a riflettere sullo spirito, senza
punto o quasi punto lasciarla spargere ed operare al di fuori, qualunque più
gagliarda impressione e affezione. Contuttociò credo che la detta osservazione
possa essere di qualche rilievo, massime intorno alle persone non molto o non
interamente colte e disciplinate, sia nella vita civile, sia nelle dottrine e
nella scienza delle cose e dell'uomo; e intorno a quelle che dall'esperienza e
dall'uso della vita, della società, e de' casi umani non sono {stati} bastantemente ammaestrati ad uniformarsi col
generale, nè accostumati a quell'apatia e noncuranza di se stesso e di tutto il
resto, che caratterizza il nostro secolo. (9. Maggio. 1822.).
[2436,1] Il mondo, o la società umana nello stato di egoismo
(cioè di quella modificazione dell'amor proprio così chiamata) in cui si trova
presentemente, si può rassomigliare al sistema
2437
dell'aria, le cui colonne (come le chiamano i fisici) si premono l'une l'altre,
ciascuna a tutto potere, e per tutti i versi. Ma essendo le forze uguali, e
uguale l'uso delle medesime in ciascuna colonna, ne risulta l'equilibrio, e il
sistema si mantiene mediante una legge che par distruttiva, cioè una legge di
nemicizia scambievole continuamente esercitata da ciascuna colonna contro tutte,
e da tutte contro ciascuna.
[2451,1] Beato colui che pone i suoi desiderii, e si pasce e
si contenta de' piccoli diletti, e spera sempre da vantaggio, senza mai far
conto della propria esperienza in contrario, nè quanto al generale, nè quanto ai
particolari. E per conseguenza beati gli spiriti piccoli, o distratti, e poco
esercitati a riflettere. (30. Maggio 1822.).
[2453,1]
2453 Se l'uomo sia nato per pensare o per operare, e se
sia vero che il miglior uso della vita, come dicono alcuni, sia l'attendere alla
filosofia ed alle lettere (quasi che queste potessero avere altro oggetto e
materia che le cose e la vita umana, e il regolamento della medesima, e quasi
che il mezzo fosse da preferirsi al fine), {+{+} Il fine della letteratura è
principalmente il regolar la vita dei non letterati; è insomma l'utilità
loro, ed essi se n'hanno a servire. Ora io non ho mai saputo che la
condizione di chi è servito, fosse peggiore e inferiore che non è quella di
chi serve.} osservatelo anche da questo. Nessun uomo fu nè sarà mai
grande nella filosofia o nelle lettere, il quale non fosse nato per operare più,
e più gran cose degli altri; non avesse in se maggior vita e maggior bisogno di
vita che non ne hanno gli uomini ordinarii; e per natura ed inclinazione sua primitiva, non fosse più disposto
all'azione e all'energia dell'esistenza, che gli altri non sogliono essere. La Staël lo dice dell'Alfieri (Corinne, t. 1. liv.
dern.), anzi dice ch'egli non era nato per iscrivere, ma per fare, se
la natura de' tempi suoi (e nostri) glielo avesse permesso. E perciò appunto
egli fu vero scrittore, a differenza di quasi tutti i letterati o studiosi
italiani del suo e del nostro tempo. Fra' quali siccome nessuno o quasi nessuno
è nato per fare (altro che fagiolate), perciò nessuno o quasi nessuno è
2454 vero filosofo, nè letterato che vaglia un soldo.
Al contrario degli stranieri, massime degl'inglesi e francesi, i quali (per la
natura de' loro governi e condizioni nazionali) fanno, e sono nati per fare più
degli altri. E quanto più fanno, o sono naturalmente disposti a fare, tanto
meglio e più altamente e straordinariamente pensano e scrivono. (30.
Maggio 1822.).
[2471,1] Alla inclinazione da me più volte notata e spiegata
pp. 85-86
p. 230
pp. 339-40
pp. 486-88
pp. 1535-37, che gli uomini hanno a partecipare con altri i loro
godimenti o dispiaceri, e qualunque sensazione alquanto straordinaria, si dee
riferire in parte la difficoltà di conservare il secreto che s'attribuisce
ragionevolmente alle donne e a' fanciulli, e ch'è propria altresì di qualunque
altro è meno capace o per natura o per assuefazione di contrastare e vincere e
reprimere le sue inclinazioni. Ed è anche proprio pur troppe volte degli uomini
prudenti ed esercitati a stare sopra se stessi, i quali ancora provano, se non
altro, qualche difficoltà a tenere il segreto, e qualche voglia interna di
manifestarlo (anche con danno loro), quando sono sull'andare del confidarsi con
altrui, o semplicemente del conversare, o discorrere,
2472 o chiaccherare. {+Dico lo
stesso anche di quando il segreto non è d'altrui ma nostro proprio, e quando
noi vediamo che il rivelarlo fa danno solamente o principalmente a noi, e
come tale, ci eravamo proposto di tacerlo, e poi lo confidiamo per
isboccataggine.}
[2473,1]
2473 Alle ragioni da me recate in altri luoghi pp.
1473-74
pp.
1648-49
pp. 2039-41, per le quali il giovane per natura sensibile, e
magnanimo e virtuoso, coll'esperienza della vita, diviene e più presto degli
altri, e più costantemente e irrevocabilmente, e più freddamente e duramente, e
insomma più eroicamente vizioso, aggiungi anche questa, che un giovane della
detta natura, e del detto abito, deve, entrando nel mondo, sperimentare e più
presto e più fortemente degli altri la scelleraggine degli uomini, e il danno
della virtù, e rendersi ben tosto più certo di qualunque altro della necessità
di esser malvagio, e della inevitabile e somma infelicità ch'è destinata in
questa vita e in questa società agli uomini di virtù vera. {{Perocchè gli altri non essendo virtuosi, o non essendolo al par di lui, non
isperimentano tanto nè così presto la scelleraggine degli uomini, nè l'odio
e persecuzione loro per tutto ciò ch'è buono, nè le sventure di quella virtù
che non possiedono. E sperimentando ancora le soverchierie e le persecuzioni
degli altri, non si trovano così nudi e disarmati per combatterle e
respingerle, come si trova il virtuoso.
2474 In
somma il giovane di poca virtù non può concepire un odio così vivo verso gli
uomini, {nè così presto,} com'è obbligato a
concepirlo il giovane d'animo nobile. Perchè colui trova gli uomini e meno
infiammati contro di se, e meno capaci di nuocergli, e meno diversi da lui
medesimo.}}
{{Per lo che, non arrivando mai ad odiare fortemente gli
uomini, e odiarli per massima nata e confermata e radicata immobilmente
dall'esperienza, non arriva neppure così facilmente a quell'eroismo di
malvagità fredda, sicura e consapevole di se stessa, ragionata, inesorabile,
immedicabile {ed eterna,} a cui necessariamente dee
giungere {(e tosto)} l'uomo d'ingegno al tempo
stesso e di virtù naturale. (13. Giugno. 1822.)}}
[2479,1]
2479 Quanto prevaglia nell'uomo la materia allo
spirito, si può considerare anche dalla comparazione dei dolori. Perocchè i
dolori dell'animo non sono mai paragonabili ai dolori del corpo, ragguagliati
secondo la stessa proporzione di veemenza relativa. E sebben paia molte volte a
chi è travagliato da grave pena dell'animo, che sarebbe più tollerabile
altrettanta pena nel corpo; l'esperienza ragguagliata dell'una e dell'altra può
convincere facilmente chiunque sa riflettere che tra' dolori dell'animo e quelli
del corpo, supponendoli ancora, relativamente, in un medesimo grado, non v'è
alcuna proporzione. E quelli possono esser superati dalla grandezza o forza
dell'animo, dalla sapienza ec. (lasciando stare che il tempo consola ogni cosa),
ma questi hanno forza d'abbattere e di vincere ogni maggior costanza. (15.
Giugno 1822.).
[2481,2] Grazia dal contrasto. La medesima insipidezza o del
carattere, o delle maniere, o de' discorsi, o degli scherzi, sentimenti ec. in
una persona bella, fa molte volte effetto, ed è un charme tanto nelle donne rispetto agli uomini, come viceversa. La
stessa rozzezza, o una certa poca delicatezza di modi ec. è spesse volte e per
molti graziosa e attraente in una persona di forme delicate ec. (17.
Giugno. 1822.).
[2481,3] Ho discorso altre volte p. 72
p. 2040 della ferocia cagionata nell'uomo virtuoso, nel giovane, ec.
dalla risoluzione di commettere a occhi aperti
2482 un
primo delitto. Ho anche ragionato pp. 80-81
pp.
710-11 del danno involontariamente recato dal Cristianesimo e dallo
stabilimento e perfezionamento della morale, stante che gli uomini (sempre
inevitabilmente cattivi) operando oggi più chiaramente e decisamente contro
coscienza, sono peggiori degli antichi, e calpestando il timore che hanno de'
gastighi dell'altra vita, ne divengono più feroci e più terribili nel malfare,
come persone condannate e disperate, ec. Aggiungo che l'uomo il quale per la
prima volta s'è risoluto a commettere un delitto, ha dovuto con gran fatica e
pena trionfare della propria coscienza, e delle proprie abitudini: e si trova
allora nell'atto di aver riportato questo trionfo. Il che è cagione di una gran
ferocia, simile a quella che dicono del leone, o d'altra tal bestia salvatica,
che va in furore, ed è più che mai terribile appena ch'ell'ha gustato, o veduto
il sangue d'altro animale. Perocchè l'uomo in quel punto è come sparso e
macchiato di sangue, cioè omicida
2483 della propria
coscienza. E generalmente l'esecuzione di qualunque proposito è tanto più
efficace ed energica {ed infiammata} ed avventata e
pronta, quanto la risoluzione è stata più faticosa e difficile, e quanta maggior
pena e contrasto è costato a formarla. Perocchè l'uomo teme di pentirsi, e
s'avventa nell'esecuzione, come fuggendo con grand'impeto e fretta e spavento
dal proprio pensiero, che dandogli luogo a discorrere ancora, potrebbe distorlo,
o precipitarlo di nuovo nell'irresoluzione, che l'uomo teme e odia naturalmente,
e ch'è uno de' principali travagli dell'animo. Massime quando l'effetto della
risoluzione (o sia il piacere, o sia l'utile, o sia la vendetta, o sia la
soddisfazione di qualsivoglia passione umana) lo tira e lo invita
gagliardamente, ed egli teme che il proprio pensiero gl'impedisca di cercarlo e
di conseguirlo{{, e d'altra parte desidera vivamente di non
perderlo, e non privarsene per proprio difetto. (17. Giugno.
1822.).}}
[2484,2] Quanto sia vero che i talenti in gran parte son
opera delle circostanze, vedasi che ne' paesi piccoli è infinitamente maggiore
che nelle[ne'] grandi, il numero delle persone
di grado agiato e comodo e (negli altri luoghi) colto {e
civile,} che non hanno il senso comune, e da' quali non si può fidare
l'esecuzione o il maneggio del menomo affare ec. Lo stesso dico
proporzionatamente delle città meno grandi, rispetto alle più grandi, delle meno
colte o socievoli rispetto alle più colte, delle capitali dove tutti son
obbligati
2485 a conversare, a trattar negozi ec.
rispetto alle città di provincia ec. (19. Giugno. 1822.).
[2491,1] Or p. e. l'ira o l'impazienza del proprio male, non
è ella modificabilissima e diversissima, non solo in diverse specie, o
individui, ma in un medesimo individuo, secondo le circostanze? Ponetelo nelle
sventure ed assuefatecelo. Sia pure impazientissimo per natura; col tempo e
coll'assuefazione, diviene pazientissimo. (Testimonio io per ogni parte di
questa proposizione). {+Fate che questo
medesimo non abbia mai provato sventure, o assuefatelo di nuovo alla
prosperità, o supponete in una di queste due circostanze un altro
individuo,} e sia egli di natura mansuetissima. Ogni menomo male lo
pone in impazienza. Or qual effetto più sostanziale dell'amor proprio, che
l'impazienza del male di questo sè che
si ama? E pur questa
2492 impazienza è maggiore e
minore secondo le nature, le specie, gl'individui, e le circostanze e le
assuefazioni di un medesimo individuo. Così dunque l'amor proprio del qual essa
è opera. (22. Giugno. 1822.).
[2493,1] Nè il titolo di filosofo nè verun altro simile è
tale che l'uomo se ne debba pregiare, nemmeno fra se stesso. L'unico titolo
conveniente all'uomo, e del quale egli s'avrebbe a pregiare, si è quello di
uomo. E questo titolo porterebbe che chi meritasse di portarlo, dovesse esser
uomo vero, cioè secondo natura. In questo modo {e con questa
condizione} il nome d'uomo è veramente da pregiarsene, vedendo ch'egli
è la principale opera della natura terrestre, o sia del nostro pianeta, ec.
(24. Giugno. dì del Battista. 1822.).
[2523,2] Il giovane istruito da' libri o dagli uomini e dai
discorsi prima della propria esperienza, non solo si lusinga sempre e
inevitabilmente
2524 che il mondo e la vita per esso
lui debbano esser composte d'eccezioni di regola, cioè la vita di felicità e di
piaceri, il mondo di virtù, di sentimenti, d'entusiasmo; ma più veramente egli
si persuade, se non altro, implicitamente e senza confessarlo pure a se stesso,
che quel che gli è detto e predicato, cioè l'infelicità, le disgrazie della
vita, della virtù, della sensibilità, i vizi, la scelleraggine, la freddezza,
l'egoismo degli uomini, la loro noncuranza degli altri, l'odio e invidia de'
pregi e virtù altrui, disprezzo delle passioni grandi, e de' sentimenti vivi,
nobili, teneri ec. sieno tutte eccezioni, e casi, e la regola sia tutto
l'opposto, cioè quell'idea ch'egli si forma della vita e degli uomini
naturalmente, e indipendẽtemente dall'istruzione, quella che forma il suo
proprio carattere, ed è l'oggetto delle sue inclinazioni e desiderii, {e speranze,} l'opera e il pascolo della sua
immaginazione. (29. Giugno, dì di S. Pietro. 1822.).
[2526,1]
Τοὺς δὲ
*
(χώρους)
μὴ ἔχοντας ἐπίδοσιν
*
(agros qui incrementum
nullum haberent, cioè così {ben} coltivati già
quando si comprano, che non si
2527 possano far
migliori) οὐδὲ ἡδονὰς ὁμοίας ἐνόμιζε παρέχειν∙ ἀλλὰ πᾶν
κτῆμα καὶ ϑρέμμα τὸ ἐπὶ {τὸ} βέλτιον ἰόν, τοῦτο
καὶ εὐϕραίνειν μάλιστα ᾤετο
*
. Dice queste cose Iscomaco di suo padre, il quale non voleva che
si comprassero fondi ben coltivati, ma trascurati dal possessore, e le dice
a Socrate presso
Senofonte
Del governo della casa, cap. 20. §.
23. Così tutto il piacere umano consiste nella speranza e
nell'aspettativa del meglio, e posseduto non è piacere, e quello stato che non
si può migliorare, benchè ottimo e desideratissimo per se, è sempre
infelicissimo, come fu presso a poco quello d'Augusto
{divenuto} padrone di tutto il mondo, e malcontento
com'egli s'espresse. (29. Giugno 1822.).
[2583,1] Adesso chi nasce grande, nasce infelice. Non così
anticamente, quando il mondo abbondava e di pascolo (cioè di spettacolo e
trattenimento), e di esercizio, e di fini, e di premi all'anime grandi. Anzi a
quei tempi era fortuna il nascer grande come oggi il nascer nobile e ricco.
Perocchè siccome nella monarchia quelli che nascono di grande e ricca famiglia,
ricevono le dignità, gli onori, le cariche dalla mano dell'ostetrice (per
servirmi di un'espressione di Frontone), {ad Ver.[Verum] l. 2. ep. 4. p. 121.} così nè
più nè meno accadeva anticamente ai grandi e magnanimi {e
valorosi} ingegni. I quali nelle circostanze, nell'attività e
nell'immensa vita di quei tempi, non potevano mancare di svilupparsi, coltivarsi
e formarsi; e sviluppati, formati e coltivati non potevano mancar di prevalere e
primeggiare; come oggidì possono esser certi di tutto il contrario.
2584 Lascio che quanto gli animi erano più grandi,
tanto meglio erano disposti a godere della vita, la quale in quei tempi non
mancava, e di tanto maggior vita erano
capaci, e quindi di tanto maggior
godimento; e perciò ancora era da riputarsi a vera fortuna e privilegio della
natura il nascer grand'uomo, e s'aveva a considerare come un effettivo e
realizzabilissimo mezzo di felicità: all'opposto di quello che oggi interviene.
(26. Luglio, dì di S. Anna. 1822.).
[2596,1]
2596 Quanta sia l'influenza dell'opinione e
dell'assuefazione anche sui sensi, l'ho notato altrove p. 1733
coll'esempio del gusto, che pur sembra uno de' sensi più difficili ad essere
influiti da altro che dalle cose materiali. Aggiungo una prova evidente. Io mi
ricordo molto bene che da fanciullo mi piaceva effettivamente e parevami di buon
sapore tutto quello che (per qualunque motivo ch'essi s'avessero) m'era lodato
per buono da chi mi dava a mangiare. Moltissime delle quali cose,
ch'effettivamente secondo il gusto dei più, sono cattive, ora non solo non mi
piacciono, ma mi mi dispiacciono. Nè per tanto il mio gusto intorno ai detti
cibi s'è mutato a un tratto, ma appoco appoco, cioè di mano in mano che la mente
mia s'è avvezzata a giudicar da se, e s'è venuta rendendo indipendente dal
giudizio e opinione degli altri, e dalla prevenzione che preoccupa la
sensazione. La qual assuefazione ch'è propria dell'uomo, e ch'è generalissima,
potrà essere ridicolo, ma pur è verissimo il dire che influisce anche in queste
minuzie, e determina il giudizio
2597 del palato sulle
sensazioni che se gli offrono, e cambia il detto giudizio da quello che soleva
essere prima della detta assuefazione. In somma tutto nell'uomo ha bisogno di
formarsi; anche il palato: ed è cosa facilissimamente osservabile che il
giudizio de' fanciulli sui sapori, e sui pregi e difetti dei cibi relativamente
al gusto, è incertissimo, {confusissimo} e
imperfettissimo: e ch'essi in moltissimi, anzi nel più de' casi non provano
punto nè il piacere che gli {uomini fatti} provano nel
gustare tale o tal cibo, nè il dispiacere nel gustarne tale o tal altro. Lascio
i villani, e la gente avvezza a mangiar poco, o male, o di poche qualità di
cibi, il cui giudizio intorno ai sapori (anzi il sentimento ch'essi ne provano)
è poco meno imperfetto e dubbio che quel dei fanciulli. Tutto ciò a causa
dell'inesercizio del palato.
[2602,1]
Ἔργα νέων, βουλαὶ
δὲ μέσων, εὺχαὶ δὲ γερόντων.
*
Verso di non so qual poeta
antico, applicabile {e proporzionabile} alle diverse
età del genere umano, come lo è qualunque cosa si possa dire intorno alle
diverse età dell'individuo. E infatti del secol nostro non è proprio altro che
il desiderio (eternamente
inseparabile dall'uomo {+anche il più
inetto, e debole, e inattivo e non curante;} per cagione dell'amor
proprio che spinge alla felicità, la qual mai non s'ottiene) e il lasciar fare.
(7. Agosto. 1822.).
[2607,1] Così tosto come il bambino è nato, convien che la
madre che in quel punto lo mette al mondo, lo consoli, {accheti il suo pianto,} e gli
alleggerisca il peso di quell'esistenza che gli dà. E l'uno de' principali
uffizi de' buoni genitori nella fanciullezza e nella prima gioventù de' loro
figliuoli, si è quello di consolarli, {d'incoraggiarli alla vita;} perciocchè i
dolori e i mali e le passioni riescono in quell'età molto più gravi, che non a
quelli che per lunga esperienza, o solamente per esser più lungo tempo vissuti,
sono assuefatti a patire. E in verità conviene che il buon padre e la buona
madre studiandosi di racconsolare i loro figliuoli, emendino alla meglio, ed
alleggeriscano il danno che loro hanno fatto col procrearli. Per Dio! perchè
dunque nasce l'uomo? e perchè genera? per poi racconsolar quelli che ha generati
del medesimo essere stati generati? (13. Agosto 1822.).
[2610,1] Dicasi quel che si vuole. Non si può esser grandi se
non pensando e operando contro ragione, e in quanto si pensa e opera contro
ragione, e avendo la forza di vincere la propria riflessione, o di lasciarla
superare dall'entusiasmo, che sempre e in qualunque caso trova in essa un
ostacolo, e un nemico mortale, e una virtù estinguitrice, e raffreddatrice.
(22. Agosto 1822.).
[2628,1]
Isocrate nel Panegirico p. 133.
cioè prima del mezzo, (quando entra a parlare delle due guerre Persiane)
lodando i costumi e gl'istituti di coloro che ressero
Atene e Sparta innanzi al
tempo d'esse guerre, dice, ἴδια μὲν ἄστη τὰς ἑαυτῶν
πόλεις ἡγούμενοι, κοινὴν δὲ πατρίδα τὴν ῾Eλλάδα νομίζοντες
εἶναι
*
. (30. Settembre 1822.)
[2629,3] Le sensazioni o fisiche o massimamente morali che
l'uomo può provare, sono, niuna di vero piacere, ma indifferenti o dolorose.
Quanto alle indifferenti la sensibilità non giova nulla. Restano solo le
dolorose. Quindi la sensibilità, benchè
2630
assolutamente considerata sia disposta indifferentemente a sentire ogni sorta di
sensazioni, in sostanza però non viene a esser altro che una maggior capacità di
dolore. Quindi è che necessariamente l'uomo sensibile, sentendo più vivamente
degli altri, e quel che l'uomo può vivamente sentire in sua vita non essendo
altro che dolore, dev'esser più infelice degli altri. Egli più capace
d'infelicità, e questa capacità non può mancar d'esser empiuta nell'uomo.
(5. Ottobre 1822.).
[2643,1]
2643 L'amor della vita cresce quasi come l'amor del
danaio, e, com'esso, cresce in proporzione che dovrebbe scemare. Perciocchè i
giovani disprezzano e prodigano la vita loro, ch'è pur dolce, e di cui molto
avanza loro; e non temono la morte: e i vecchi la temono sommamente, e sono
gelosissimi della propria vita, ch'è miserabilissima, e che ad ogni modo poco
hanno a poter conservare. E così il giovane scialacqua il suo, come s'egli
avesse a morire fra pochi dì, e il vecchio accumula e conserva e risparmia come
s'avesse a provvedere a una lunghissima vita che gli restasse. (24. Ottob.
1822.).
[2645,2] La storia greca, romana ed ebrea contengono le
reminiscenze delle idee acquistate da ciascuno nella sua fanciullezza. Ciascun
nome, ciascun fatto delle dette storie, e massime i principali e più noti ci
richiamano idee quasi primitive per noi, e sono in certo modo legati alla storia
della vita, e della fanciullezza
2646
massimente[massimamente], delle cognizioni, de'
pensieri di ciascuno di noi. Quindi l'interesse che ispirano le dette storie, e
loro parti, e tutto ciò che loro appartiene; interesse unico nel suo genere,
come fu osservato da Chateaubriand
(Génie ec.); interesse che non può esserci mai ispirato da
verun'altra storia, sia anche più bella, varia, grande, e per se più importante
delle sopraddette; sia anche più importante per noi, come le storie nazionali.
Le suddette tre sono le più interessanti perchè sono le più note; perchè sono le più domestiche, familiari, pratiche, e quasi
strette parenti di ciascun uomo civile e colto, ancorchè di patria diversissimo
da queste tre nazioni. E perciò elle sono le più, anzi le sole, feconde di
argomenti {storici} veramente propri d'epopea, di
tragedia, ec.
2647 e all'interesse dei detti argomenti,
massime nella poesia, non si può supplire in verun conto, nè con veruna
industria, cavando argomenti {o dall'immaginazione, o}
dalle altre storie, neppur dalle patrie. Aggiungasi alle tre dette storie,
quella della guerra troiana, la quale interessa sommamente per le dette ragioni,
anzi più delle altre tre, perchè i poemi d'Omero e di Virgilio, l'hanno
resa più nota e familiare a ciascuno, che verun'altra, e perch'ella a cagione
dei detti poemi, delle favole ec. è più legata alle ricordanze della nostra
fanciullezza, che non sono la storia greca e romana, e neanche l'ebrea. Tutto
ciò è relativo, e l'interesse delle dette storie non deriva particolarmente
dalle loro proprie e intrinseche qualità, ma dalla circostanza estrinseca
dell'essere le medesime familiari
2648 a ciascuno fin
dalla sua fanciullezza; tolta la qual circostanza, che ben si potrebbe togliere,
dipendendo dalla educazione ec., questo interesse o si confonderebbe e
agguaglierebbe con quello delle altre storie, e argomenti storici, o sarebbe
anche superato. (Roma. 25. Nov. 1822.).
[2661,1]
Et
quamquam optatissimum est, perpetuo fortunam quam florentissimam
permanere; illa tamen aequabilitas vitae non tantum habet
sensum,
*
(mallem sensus 2do
casu, quod magis tullianum est) quantum cum ex saevis et perditis rebus ad meliorem statum fortuna
revocatur.
*
Cic. ap. Ammian. Marcell. XV. 5. (23. Dic.
antivigilia di Natale 1822.)
[2673,2]
Pianger si de' il
nascente ch'incomincia Or a solcare il mar di tanti mali, E con gioia al
sepolcro s'accompagni L'uscito de' travagli della vita.
*
Poeta
antico appo Plutarco
Come debba il giovane udir le
poesie, volgarizzamento di Marcello Adriani il giovane, pagina ultima, cioè
p. 169. del tomo primo Opuscoli morali
di Plutarco volgarizzati da
Marcello Adriani il
giovine stampati per la prima volta in
Firenze, Piatti, 1819.
(19. Feb. 1823.). {{V. la p. seg. [p.
2674,3]}}
[2673,3]
Dei
beni umani il più supremo colmo È sentir meno il
duolo.
*
Sentenza che racchiude la somma di tutta la
filosofia morale e antropologica. Poeta antico nel luogo citato qui sopra.
(19. Feb. 1823.).
[2683,3]
L'excès de la raison et
de la vertu, est presque aussi funeste que celui des plaisirs (Aristot.
de mor. II. 2. t. 2. p. 19.); la nature nous a
donné des goûts qu'il est aussi dangereux d'éteindre que
d'épuiser.
*
Même ouvrage ch. 78. t. 6. p. 456.
(29. Marzo. Sabato Santo. 1823.).
[2684,1]
2684 L'uomo sarebbe felice se le sue illusioni
giovanili {(e
fanciullesche)} fossero realtà. Queste sarebbero realtà, se
tutti gli uomini le avessero, e durassero sempre ad averle: perciocchè il
giovane d'immaginazione e di sentimento, entrando nel mondo, non si troverebbe
ingannato della sua aspettativa, nè del concetto che aveva fatto degli uomini,
ma li troverebbe e sperimenterebbe quali gli aveva immaginati. Tutti gli uomini
più o meno (secondo la differenza de' caratteri), e massime in gioventù, provano
queste tali illusioni felicitanti: è la sola società, e la conversazione
scambievole, che civilizzando e istruendo l'uomo, e assuefacendolo a riflettere
sopra se stesso, a comparare, a ragionare, disperde immancabilmente queste
illusioni, come negl'individui, così ne' popoli, e come ne' popoli, così nel
genere umano ridotto allo stato sociale. L'uomo isolato non {le} avrebbe mai perdute; ed elle son proprie del giovane in
particolare non tanto a causa del calore immaginativo, naturale a quell'età,
quanto della inesperienza, e del vivere isolato che fanno i giovani. Dunque se
l'uomo avesse continuato a vivere isolato, non avrebbe mai perdute le sue
illusioni giovanili, e tutti gli uomini le
2685
avrebbero e le conserverebbero per tutta la vita loro. Dunque esse sarebbero
realtà. Dunque l'uomo sarebbe felice. Dunque la causa originaria e continua
della infelicità umana è la società. L'uomo, secondo la natura sarebbe vissuto
isolato e fuor della società. Dunque se l'uomo vivesse secondo natura, sarebbe
felice. (Roma 1. Aprile. Martedì di Pasqua.
1823.).
[2685,2] A noi pare bene spesso di provar del piacere
dicendo, o fra noi stessi o con altri, che noi ne abbiamo provato. Tanto è vero
che il piacere non può mai esser presente, e quantunque da ciò segua ch'esso non
può neanche mai esser passato, tuttavia si può quasi dire ch'esso può piuttosto
esser passato che presente. (Roma. 12. Aprile
1823.).
[2702,1]
2702 Materia della pigrizia non sono propriamente le
azioni faticose, ma quelle, faticose o no, nelle quali non è piacere presente, o
vogliamo dire opinione di piacere. Niuno è pigro al bere o al mangiare. Lo
studio è cosa faticosissima. Ma se l'uomo vi prova piacere, ancorchè pigro ad
ogni altra cosa, non sarà pigro a studiare, anzi travaglierà nello studio
gl'interi giorni. E forse la massima parte delle persone assolutamente studiose,
sono infingarde, e pure nello studio operano e si affaticano continuamente. Il
fine dei pensieri e delle azioni dell'uomo è sempre e solo il piacere. Ma i
mezzi di conseguir quello che l'uomo si propone come piacere, ora hanno piacere
in se stessi, ora no. Questi ultimi sono materia della pigrizia, ancorchè
domandino pochissima fatica, ancorchè il piacere a cui condurrebbero sia
vicinissimo e prontissimo e certissimo, ancorchè l'uomo faccia molta stima di
questo piacere e lo desideri, ancorchè finalmente il fine al quale questi mezzi
conducono sia necessario, o molto
2703 utile ad
ottenere altri piaceri. Così l'uomo si astiene di comparire a una festa (dove
crede che si sarebbe trovato con piacere) per non assettarsi; e se si fosse
trovato all'ordine, o se non se gli fosse richiesto d'assettarsi, sarebbe andato
alla festa: la qual era pure un piacer vicino e pronto, e che si otteneva
certamente con un'ora di pochissima fatica. Così la pigrizia ritiene ancora da
quei travagli che sono necessari a procacciarsi il mangiare e il bere, perchè
essi in se non hanno piacere. Così da cento altre azioni utili, cioè conducenti
più o men tosto al piacere (giacchè questo è il significato di utile), ma non
piacevoli in se: e tanto più quanto più è lontano il piacere ch'esse
procacciano, e quanto elle sono più faticose, più lunghe, e meno piacevoli.
(20. Maggio 1823.).
[2736,1] È cosa indubitata che i giovani, almeno nel presente
stato degli uomini, dello spirito umano e delle nazioni, non solamente soffrono
più che i vecchi (dico quanto all'animo), ma eziandio (contro quello che può
parere, e che si è sempre detto e si crede comunemente), s'annoiano più che i
vecchi, e sentono molto più di questi il peso della vita, e la fatica e la pena
e la difficoltà di portarlo e di strascinarlo. E questa si è una conseguenza dei
principii posti nella mia teoria del
piacere. Perciocchè ne' giovani è
2737 più
vita o più vitalità che nei vecchi, cioè maggior sentimento dell'esistenza e di
se stesso; e dove è più vita, quivi è maggior grado di amor proprio, o maggiore
intensità e sentimento e stimolo {e vivacità} e forza
del medesimo; e dove è maggior grado o efficacia di amor proprio, quivi è
maggior desiderio e bisogno di felicità; e dove è maggior desiderio di felicità,
quivi è maggiore appetito e smania ed avidità e fame {e
bisogno} di piacere: e non trovandosi il piacere nelle cose umane è
necessario che dove n'è maggior desiderio quivi sia maggiore infelicità, ossia
maggior sentimento dell'infelicità; {quivi maggior senso di
privazione e di mancanza e di vuoto; quivi} maggior noia, maggior
fastidio della vita, maggior difficoltà e pena di sopportarla, maggior disprezzo
e noncuranza della medesima. Quindi tutte queste cose debbono essere in maggior
grado ne' giovani che ne' vecchi; siccome
2738 sono,
massime in questa presente mortificazione e monotonia della vita umana, che
contrastano colla vitalità ed energia della giovanezza; in questa mancanza di
distrazioni violente che stacchino il giovine da se medesimo, e lo tirino fuori
del suo interno; in questa impossibilità di adoperare sufficientemente la forza
vitale, di darle sfogo ed uscita dall'individuo, di versarla fuori, e
liberarsene al possibile; in somma in questo ristagno della vita al cuore e alla
mente e alle facoltà interne dell'uomo, e del giovane massimamente.
[2796,1]
Καὶ μοι δοκεῖ, εἴ
τις τῶν ϑεῶν πάντας ἀνϑρώπους εἰς ἕνα που χῶρον συναγαγών, ἕκαστον
ἀπαιτήσει τὴν ἑαυτοῦ διηγήσασϑαι τύχην, εἶτα πάντων εἰπόντων, ἑκάστου
πύϑοιτο πάλιν, ποίαν ἔχειν ἕλοιτο; πάντας ἂν ἀποροῦντας σιγῆσαι μηδένα
ζηλωτὸν ϑεωμένους. ᾽Eντεῦϑεν ἄρα τινές, Tραύσους οἶμαι τὸ γένος
*
(nationem hanc) προσαγορεύουσι, τικτομένου μέν τινος
ὠλοϕύροντο σκοποῦντες, εἰς ὀσα ἦλϑε κακά, ἀπιόντος δὲ πανήγυριν
*
(festum) ἦγον, ὅσων ἠλευϑέρωται δυσχερῶν
ἐννοόυμενοι.
*
Χορικίου Σοϕιστοῦ ᾽Eπιτάϕιος ἐπὶ
Προκοπίῳ Σοϕιστῇ Γάζης. Oratio funebris in Procopium Sophistam-Gazaeum (§. 35. p. {{859.}}) primum edita gr. et lat. a Fabric. in B. G. edit. vet. t.
8. p. 841-63. lib. 5. c. 31.
(19. Giugno 1823).
[2861,1] In ciascun punto della vita, anche nell'atto del
maggior piacere, anche nei sogni, l'uomo {+o il vivente} è in istato di desiderio, e quindi
non v'ha un solo momento nella vita (eccetto quelli di totale assopimento e
sospensione dell'esercizio de' sensi e di quello del pensiero, da qualunque
cagione essa venga) nel quale l'individuo non sia in istato di pena, tanto
maggiore quanto egli o per età, o per carattere e natura, o per circostanze
mediate o immediate, o abitualmente o attualmente, è in istato di maggior
sensibilità {ed esercizio della vita,} e viceversa.
(30. Giugno 1823.). {{V. p. 3550.}}
[2862,1]
2862 L'amicizia, non che la piena ed intima confidenza
tra' fratelli, rade volte si conserva all'entrar che questi fanno nel mondo,
ancorchè siano stati allevati insieme, ed abbiano esercitato l'estremo grado di
questa confidenza sino a quel momento; e di più seguano ancora a convivere. E
pure se l'uomo è capace di piena ed intima confidenza, e s'egli dovrebbe
conservarla perpetuamente verso qualcuno, questo dovrebb'essere verso i fratelli
coetanei, ed allevati con lui nella
fanciullezza: e dico dovrebb'essere, non per forza naturale {della}
{congiunzione di sangue,} la qual forza è nulla e
immaginaria, e niente ha che fare nel produr quella confidenza o nel
conservarla, ma per forza naturale dell'abitudine e dell'abitudine contratta
{nel} primo principio delle idee e delle abitudini
dell'individuo, e nella prima capacità di contrarle, {e
conservata} tutto quel tempo che dura la maggiore intensità e
disposizione {ed ampiezza,} e il maggior esercizio di
questa capacità. Nondimeno questa confidenza così fortemente stabilita e
radicata si perde per la varietà che s'introduce nel carattere de' fratelli
mediante il commercio cogli altri individui della società. Ma se questo
2863 commercio non avesse avuto luogo, quella
confidenza sarebbe stata perpetua, com'ella non è mai cessata fino a quell'ora.
Che vuol dir ciò, se non che nei caratteri degli uomini, novantanove parti son
opera delle circostanze? e che per diversissimi ch'essi appariscano, come spesso
accade anche tra fratelli, in questa diversità non è opera della natura, se non
una parte così menoma che saria stata impercettibile? È quasi impossibile il
caso che tutte le minute circostanze e avvenimenti che incontrano all'un de'
fratelli nell'uso della società, incontrino all'altro, o sieno uguali a quelle
che incontrano all'altro, ancorchè postogli da vicino. Questa diversità
diversifica due caratteri {che parevano affatto, ed erano
quasi affatto, compagni,} e com'ella è inevitabile, così la
diversificazione di {questi} caratteri nella società
non può mancare. E ho detto le minute circostanze, contentandomi di queste,
perchè {anche} la somma di cose minutissime basta a
produrre grandissimi e visibilissimi effetti sull'indole degli uomini, massime
allora ch'eglino sono principianti nel mondo, e che {in
essi} la capacità delle abitudini e delle opinioni, ossia la
formabilità dell'indole, è ancor
2864
{molta e} grande e in buon essere. (30. Giugno.
1823.).
[2876,1] L'uomo si rassegna a soffrire {passivamente,} o a non godere, ma niuno si rassegna a faticare invano
e senza niuna speranza, o a faticar molto per cose da nulla; niuno si rassegna a
soffrire attivamente senz'alcun frutto. Quindi è che dall'abito della
rassegnazione sempre nasce {noncuranza, negligenza,}
indolenza, inattività, e finalmente pigrizia, e torpidezza, e insensibilità, e
quasi immobilità. (2. Luglio. 1823.).
[2883,1]
Io provo {presentemente} un piacere, io vorrei che
la condizione di tutta la mia vita, di tutta l'eternità, fosse uguale a
quella in cui mi trovo in questo momento. Questo è ciò che nessun uomo
dice mai nè può dire di buona fede, neppur per un solo momento, neppure
nell'atto del maggior piacere possibile. Ora se egli in quel momento provasse in
verità un piacer presente e perfetto (e se non è perfetto, non è piacere), egli
dovrebbe naturalmente desiderare di provarlo sempre, perchè il fine dell'uomo è
il piacere; e quindi desiderare che tutta la sua vita fosse tale qual è per lui
{quel} momento, e di più desiderare di viver
sempre, per sempre godere. Ma egli è certissimo che
2884 nessun uomo ha concepito nè formato mai questo desiderio nemmeno nel punto
più felice della sua vita, e nemmeno durante quel solo punto: egli è certissimo
che non ha concepito nè mai concepirà questo desiderio per un solo istante
neppur l'uomo, qualunque sia, che fra tutti gli uomini ha provato o è per
provare il massimo possibile piacere. E ciò perchè nemmeno in quel punto niuno
mai si trovò pienamente soddisfatto, nè lasciò nè sospese {{punto}} il desiderio nè anche {la speranza
di} un maggiore ed assai maggior piacere. Con che egli non venne in
quel punto a provare un vero e presente piacere. Bensì dopo passato quel tal
punto l'uomo spesse volte desidera che tutta la sua vita fosse conforme a quel
punto, ed esprime questo desiderio con se stesso e cogli altri di buona fede. Ma
egli ha il torto, perchè ottenendo il suo desiderio, lascerebbe di approvarlo
ec. (3. Luglio 1823.).
[2936,1]
2936 Le cose ch'esistono non sono certamente per se nè
piccole nè vili: {+nè anche una gran
parte di quelle fatte dall'uomo.} Ma esse e la grandezza e le qualità
loro sono di un altro genere da quello che l'uomo desidererebbe, che sarebbe, o
ch'ei pensa esser necessario alla sua felicità, ch'egli s'immaginava nella sua
fanciullezza e {prima} gioventù, e ch'ei s'immagina
ancora tutte le volte ch'ei s'abbandona alla fantasia, e che mira le cose da
lungi. Ed essendo di un altro genere, benchè grandi, e forse talora più grandi
di quello che il fanciullo o l'uomo s'immaginava, l'uomo nè il fanciullo non è
giammai contento ogni volta che giunge loro dappresso, che le vede, le tocca, o
in qualunque modo ne fa sperienza. E così le cose esistenti, e niuna opera della
natura nè dell'uomo, non sono atte alla felicità dell'uomo. (10. Luglio.
1823.). Non ch'elle sieno cose da nulla, ma non sono di quella sorta
che l'uomo indeterminatamente vorrebbe, e ch'egli confusamente giudica, prima di
sperimentarle. Così elleno son nulla alla felicità dell'uomo, non essendo un
nulla per se medesime. E chi potrebbe chiamare un nulla la
2937 miracolosa e stupenda opera della natura, e l'immensa egualmente
che artificiosissima macchina e mole dei mondi, benchè a noi per verità ed in
sostanza nulla serva? poichè non ci porta in niun modo mai alla felicità. Chi
potrebbe disprezzare l'immensurabile e arcano spettacolo dell'esistenza, di
quell'esistenza di cui non possiamo nemmeno stabilire nè conoscere o
sufficientemente immaginare nè i limiti, nè le ragioni, nè le origini; qual uomo
potrebbe, dico, disprezzare questo per la umana cognizione infinito e misterioso
spettacolo della esistenza e della vita delle cose, benchè nè l'esistenza e vita
nostra, nè quella degli altri esseri giovi veramente nulla a noi, non valendoci
punto ad esser felici? ed essendo per
noi l'esistenza così nostra come universale scompagnata dalla felicità, ch'è la
perfezione e il fine {dell'esistenza,} anzi l'unica
utilità che l'esistenza rechi a quello ch'esiste? e quindi esistendo noi e
facendo parte della università della esistenza, senza niun frutto per noi? Ma
con tutto ciò come possiamo chiamar vile e nulla quell'opera di cui non vediamo
2938 nè potremo mai vedere nemmeno i limiti? nè
arrivar mai ad intendere nè anche a sufficientemente ammirare l'artifizio e il
modo? anzi neppur la qualità della massima parte di lei? cioè la qualità
dell'esistenza della più parte delle cose comprese in essa opera; o vogliamo dir
la massima parte di esse cose, cioè degli esseri ch'esistono. Pochissimi de'
quali, a rispetto della loro immensa moltitudine, son quelli che noi conosciamo
pure in qualunque modo, anche imperfettamente. Senza parlar delle ragioni e
maniere occulte dell'esistenza che noi non conosciamo nè intendiamo punto,
neppur quanto agli esseri che meglio conosciamo, e neppur quanto alla nostra
specie e al nostro proprio individuo. (10. Luglio. 1823.).
[2938,1] Questo ch'io dico delle opere della natura, dicasi
eziandio proporzionatamente di molte o grandi o belle o per qualunque cagione
notabili e maravigliose opere degli uomini, o sieno materiali, o appartengano
puramente alla ragione; o di mano o d'intelletto o d'immaginativa; scoperte,
invenzioni, scienze, speculazioni ec. ec.
2939
discipline pratiche o teoriche; navigazioni, manifatture, edifizi, costruzioni
d'ogni genere, opere d'arte ec. ec. (11. Luglio. 1823.).
[2941,1] Il principal difetto della ragione non è, come si
dice, di essere impotente. In verità ella può moltissimo, e basta per
accertarsene il paragonare l'animo e l'intelletto di un gran filosofo con quello
di un selvaggio o di un fanciullo, o di questo medesimo filosofo avanti il suo
primo uso della ragione: e così il paragonare il mondo civile presente sì
materiale che morale, col mondo selvaggio presente, e più col primitivo. Che
cosa non può la ragione umana nella speculazione? Non penetra ella fino
all'essenza delle cose che esistono, ed anche di se medesima? non ascende fino
al trono di Dio, e non
2942 giunge ad analizzare fino
ad un certo segno la natura del sommo Essere? (vedi quello che ho detto altrove
in questo proposito pp. 1627-28) La ragione dunque per se, e come ragione,
non è impotente nè debole, anzi per facoltà di un ente finito, è potentissima;
ma ella è dannosa, ella rende impotente colui che l'usa, e tanto più quanto
maggiore uso ei ne fa, e a proporzione che cresce il suo potere, scema quello di
chi l'esercita e la possiede, e più ella si perfeziona, più l'essere ragionante
diviene imperfetto: ella rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra
i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello, e per così dir la stessa
esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto più impiccoliscono
quanto ella cresce; e quanto è maggiore la sua esistenza in intensità e in
estensione, tanto {l'esser delle cose} si scema e
restringe ed accosta verso il nulla. Non diciamo che la ragione vede poco. In
effetto la sua vista si stende quasi in infinito, {+ed è acutissima sopra ciascuno oggetto,} ma essa
vista ha questa proprietà che lo spazio e gli oggetti le appariscono tanto più
piccoli quanto ella più si stende
2943 e quanto meglio
e più finamente vede. Così ch'ella vede sempre poco, e in ultimo nulla, non
perch'ella sia grossa e corta, ma perchè gli oggetti e lo spazio tanto più le
mancano quanto ella più n'abbraccia, e più minutamente gli scorge. Così che il
poco e il nulla è negli oggetti e non nella ragione, {+1. (benchè gli oggetti sieno, e sieno grandi a
qualunqu'altra cosa, eccetto solamente ch'alla ragione).}
Perciocch'ella per se può vedere assaissimo, ma in atto ella tanto meno vede
quanto più vede. Vede però tutto il visibile, e in tanto in quanto esso è e può
mai esser visibile a qualsivoglia vista. (11. Luglio 1823.).
[2944,1] Gridano che la poesia debba esserci contemporanea,
cioè adoperare il linguaggio e le idee e dipingere i costumi, e fors'anche gli
accidenti de' nostri tempi. Onde condannano l'uso delle antiche finzioni,
opinioni, costumi, avvenimenti. {Puoi vedere la
p. 3152.}
Ma io dico che tutt'altro potrà esser contemporaneo a questo secolo fuorchè la
poesia. Come può il poeta adoperare il linguaggio e seguir le idee e mostrare i
costumi d'una generazione d'uomini per cui la gloria è un fantasma, la libertà
la patria l'amor patrio non esistono, l'amor vero è una
2945 fanciullaggine, e insomma le illusioni son tutte svanite, le
passioni, non solo grandi e nobili e belle, ma tutte le passioni estinte? Come
può, dico, ciò fare, ed esser poeta? Un poeta, una poesia, senza illusioni senza
passioni, sono termini che reggano in logica? Un poeta in quanto poeta può egli
essere egoista e metafisico? e il nostro secolo non è tale caratteristicamente?
come dunque può il poeta essere caratteristicamente contemporaneo in quanto
poeta?
[2965,1] Così discorrere del fanciullo. Il quale neanche si
può così semplicemente dire che trovi piacevole a vedere la gioventù, appena, e
la prima volta ch'ei la vede; che gli paia, come si dice, bella assolutamente e per se, e più bella della
vecchiezza, al primo vederla.
2966 Ho notato altrove
pp. 1198-99
pp.
1750-52 quanto spesso una persona giovane gli paia, e sia da lui
espressamente giudicata bruttissima, e
una persona vecchia bellissima (ancorchè ella sia a tutti gli altri brutta,
eziandio per vecchia), e ciò per varie circostanze. E i sopraddetti effetti non
hanno luogo nel fanciullo, o non v'hanno luogo costantemente e sicuramente nè in
modo che non sia accidentale e di circostanza, se non dopo essersi sviluppata in
lui la inclinazione naturale verso la gioventù, massime in ordine agl'individui
della propria specie; il quale sviluppo, specialmente ne' paesi meridionali,
accade nel fanciullo assai presto, e molto prima ch'egli sia in grado ec. V. l'Alfieri nella sua Vita.
Accade, dico, almeno in parte. E anche circa il cieco nato che acquisti
improvvisamente il vedere, dubito molto che egli ne' primi momenti, e anche ne'
primi giorni, trovi assolutamente bello, come si dice, l'aspetto della
giovanezza per se medesimo, e più bello che quello della vecchiezza. ec. Del
resto il cieco nato, restando pur cieco, troverà certo più piacevole
2967 p. e. la voce giovanile che la senile, e tutte le
altre sensazioni che gli verranno da persone giovani, in parità di circostanze,
le troverà più piacevoli di quelle che gli verranno da persone vecchie; e l'idea
ch'egli concepirà della giovanezza, qualunque ella sia, sarà per lui più
piacevole, e, come si dice, più bella che la contraria, e piacevole e bella per
se medesima. Ma tutto ciò sarà effetto della inclinazione, e non derivato
originalmente dall'intelletto. ec.
[2987,3] La gioventù non era fra gli antichi un bene inutile,
e un vantaggio di cui niun frutto si potesse cavare, nè la vecchiezza era uno
incomodo e uno
2988 svantaggio che niun bene, {niun comodo,} niun godimento togliesse, e niuna
privazione recasse seco. Quindi e molto meno frequente che a' tempi nostri era
il numero di quelli che in gioventù si uccidevano, e molti più vecchi suicidi si
trovano commemorati nell'antichità che non si veggono al presente. Come dire
Pomponio Attico e molti filosofi
greci e romani. Perocchè al presente le contrarie cagioni producono effetto
contrario. Il giovane moltissimo desidera e nulla ha, neppure ha come distrarre,
divertire, ingannare il suo desiderio, e occupare la sua forza vitale,
adoperarla, sfogarla. Quindi più giovani suicidi oggidì che fra gli antichi non
pur giovani solamente, ma giovani e vecchi insieme. Il vecchio nulla perde per
la vecchiezza, e poco, o meno ferventemente e impetuosamente e smaniosamente,
desidera. Quindi è così raro un vecchio suicida oggidì, che parrebbe quasi
miracolo. E pure il giovane che si uccide, privasi della gioventù, e rinunzia a
una vita, ch'ei si può ancora promettere,
2989 di molti
anni. Il vecchio si priva della vecchiezza (qual privazione Dio buono) e
rinunzia a pochi anni o mesi di vita. Nonpertanto per mille giovani suicidi
appena e forse neanche si troverà oggi un solo vecchio suicida, e questo, se pur
si troverà, sarà forse tale per qualche estrema disgrazia, in qualche caso ove
la vita fosse già disperata, e per salvarsi da una morte più trista, e sicura.
Ma neanche nell'estreme sventure è costume de nostri vecchi il ricorrere
volontariamente alla morte. Applicate queste considerazioni a quello che ho
detto altrove p. 294
p.
2643 circa l'amor della vita nei vecchi, l'amore e la cura della vita
crescenti in proporzione che per l'aumento dell'età scema il valore d'essa vita.
(18. Luglio 1823.).
[3027,2] Ho discorso altrove p. 826 di
quel luogo di Cic. nella Vecchiezza, dove dice che l'animo nostro, non si sa come,
sempre mira alla posterità ec. e ne deduce ch'egli abbia un sentimento
naturale della sua propria eternità e indestruttibilità. Ho mostrato come questo
effetto viene dal desiderio dell'infinito, ch'è una conseguenza dell'amor
proprio, e dal continuo ricorrer che l'uomo fa colla speranza
3028 al futuro, non potendo esser mai soddisfatto del presente, nè
trovandovi piacere alcuno, e d'altronde non rinunziando mai alla speranza, fino
a trapassar con essa di là dalla morte, non trovando più in questa vita dove
ragionevolmente fermarla. Ma il suddetto effetto non è naturale. Esso viene
dall'esperienza già fatta, che la memoria degli uomini insigni si conserva, dal
veder noi medesimi conservata presentemente e celebrata la memoria di tali
uomini, e dal conservarla e celebrarla noi stessi. Onde introdotta nel mondo
questa fama superstite alla morte, essa è stata ed è bramata e cercata, come
tanti altri beni {+o di opinione o
qualunque,} di cui la natura niun desiderio ci aveva ispirato, e che
sono comparsi nel mondo di mano in mano per varie circostanze, non da principio,
nè creati dalla natura. Nei primissimi principii della società, quando ancor non
v'era esempio di rammemorazioni e di lodi tributate ai morti, neppur gli uomini
coraggiosi e magnanimi, quando anche desiderassero la stima de' loro compagni e
contemporanei, pensarono mai
3029 a travagliare per la
posterità, nè, molto meno, a trascurare il giudizio de' presenti per proccurarsi
quello de' futuri, o rimettersi alla stima de' futuri. Che se il tempo che ho
detto, colle circostanze che ho supposte non v'è mai stato, supponendo però
ch'egli sia stato o sia mai per essere in alcun luogo, certamente ne verrebbe
l'effetto che ho ragionato, cioè che niuno benchè magnanimo, benchè insigne tra'
suoi connazionali o compagni, avrebbe o concepirebbe alcuna cura o pensiero
della posterità. (25. Luglio. dì di San Giacomo. 1823.).
[3040,1] L'uomo in cui concorressero grande {e colto} ingegno, e risolutezza, si può affermare
senz'alcun dubbio che farebbe {e otterrebbe} gran cose
nel mondo, e che certo non potrebbe restare oscuro, in qualunque condizione
l'avesse posto la fortuna della nascita. Ma l'abito della prudenza nel
deliberare esclude ordinariamente la facilità e prontezza del risolvere, ed
anche la fermezza nell'operare. Di qui è che gli uomini d'ingegno grande ed
esercitato sono per lo più, anzi quasi sempre prigionieri, per così dire,
dell'irresolutezza, {+difficili a
risolvere, timidi, sospesi, incerti, delicati, deboli nell'eseguire.}
Altrimenti essi dominerebbero il mondo, il quale, perchè la risolutezza per se
può sempre più che la prudenza sola, fu {ed è} e sarà
sempre in balia degli uomini mediocri. (26. Luglio, dì di S. Anna.
1823.).
[3058,2]
Corruptio optimi pessima. Questo proverbio si
verifica nominatamente negli uomini, negli spiriti sensibilissimi che col tempo
e coll'uso del mondo divengono più insensibili degl'insensibilissimi per natura,
come ho detto altrove pp. 1473-74
pp.
1648-49
pp. 2039-41
pp.
2107-110
pp.
2208-210
pp.
2473-74, e danno nell'eccesso contrario ec. (28. Luglio.
1823.)
[3061,1] Niuna cosa nella società è giudicata, nè {{infatti riesce}} più vergognosa del vergognarsi.
(29. Luglio. 1823.).
[3078,1] La più bella e fortunata età dell'uomo, la sola che
potrebb'esser felice oggidì, ch'è la fanciullezza, è tormentata in mille modi,
con mille angustie, timori, fatiche dall'educazione e dall'istruzione, tanto che
l'uomo adulto, anche in mezzo all'infelicità che porta la cognizion del vero, il
disinganno, la noia della vita, l'assopimento della immaginazione, non
accetterebbe di tornar fanciullo colla condizione di soffrir quello stesso che
nella fanciullezza ha sofferto. E perchè così tormentata
3079 e fatta infelice quella povera età, nella quale l'infelicità
parrebbe quasi impossibile a concepirsi? Perchè l'individuo divenga colto e
civile, cioè acquisti la perfezione dell'uomo. Bella perfezione, e certo voluta
dalla natura umana, quella che suppone necessariamente la {somma} infelicità di quel tempo che la natura ha manifestamente
ordinato ad essere la più felice parte della nostra vita. Torno a domandare.
Perchè fatta così infelice la fanciullezza? E rispondo più giusto. Perchè l'uomo
acquisti a spese di tale infelicità quello che lo farà infelice per tutta la
vita, cioè la cognizione di se stesso e delle cose, le opinioni, i costumi le
abitudini contrarie alle naturali, e quindi esclusive della possibilità di esser
felice; perchè colla infelicità della fanciullezza si compri e cagioni quella di
tutte le altre età; o vogliamo dire perch'ei perda colla felicità della
fanciullezza, quella che la natura avea destinato {e
preparato} siccome a questa, così a ciascun'altra età dell'uomo, {+e ch'altrimenti egli avrebbe ottenuta in
effetto.}
(1. Agosto. 1823.).
[3107,1] Altra proprietà dell'uomo si è che laddove la
superiorità, laddove la virtù congiunta colla fortuna non produce se non un
interesse debole, cioè l'ammirazione; per lo contrario la sventura in qualunque
{caso}, ma molto più la sventura congiunta colla
virtù, produce un interesse vivissimo, durevole e dolcissimo. Perocchè l'uomo si
compiace nel sentimento della compassione, perchè nulla sacrificando, ottiene
con essa quel sentimento che in ogni cosa e in ogni occasione gli è gratissimo,
cioè una quasi coscienza di proprio eroismo e nobiltà d'animo. La sventura è
naturalmente cagione di dispregio e anche d'odio verso lo sventurato, perchè
l'uomo per natura odia, come il dolore, così le idee dolorose. Mirando dunque,
malgrado la sciagura, alla virtù dello sciagurato, e non {abbominandolo nè} disdegnandolo quãtunque[quantunque] tale, e finalmente giungendo a compassionarlo, cioè a
voler coll'animo entrare a parte de' suoi
3108 mali,
pare all'uomo di fare uno sforzo sopra se stesso, di vincere la propria natura,
di ottenere una prova della propria magnanimità, di avere un argomento con cui
possa persuadere a se medesimo di esser dotato di un animo superiore
all'ordinario; tanto più ch'essendo proprio dell'uomo l'egoismo, e il
compassionevole interessandosi per altrui, stima con questo interesse che niun
sacrifizio gli costa, mostrarsi a se stesso straordinariamente magnanimo,
singolare, eroico, più che uomo, poichè può non essere egoista, e impegnarsi
seco medesimo per altri che per se stesso. L'uomo nel compatire s'insuperbisce e
si compiace di se medesimo: quindi è ch'egli goda nel compatire, e ch'ei si
compiaccia della compassione. {Veggansi le pagg. 3291-97. e
3480-2.}
L'atto della compassione è un atto d'orgoglio che l'uomo fa tra se stesso. Così
anche la compassione che sembra l'affetto il più lontano, anzi il più contrario,
all'amor proprio, e che sembra non potersi in nessun modo e per niuna parte
ridurre o riferire a questo amore, non
3109 deriva in
sostanza (come tutti gli altri affetti) se non da esso, anzi non è che amor
proprio, ed atto di egoismo. {+Il quale arriva a prodursi e fabbricarsi un piacere
col persuadersi di morire, o d'interrompere le sue funzioni, applicando
l'interesse dell'individuo ad altrui. Sicchè l'egoismo si compiace
perchè crede di aver cessato o sospeso il suo proprio essere di egoismo.
V. p.
3167.}
[3154,1] 2. Poco ai tempi d'Omero valeva ed operava quello che negli uomini si chiama cuore,
moltissimo l'immaginazione. Oggi per lo contrario (e così a' tempi di Virgilio) l'immaginazione
3155 è generalmente sopita, agghiacciata, intorpidita,
estinta; difficilissimo è ravvivarla anche al gran poeta, il quale altresì
difficilmente può esser oggi gagliardamente ispirato dalla immaginativa, ed
esser grande per quella parte che propriamente spetta all'immaginazione e per
ciò che da lei deriva, come furono Omero
e Dante. Se l'animo degli uomini colti è
ancor capace d'alcuna impressione, d'alcun sentimento vivo, sublime e poetico,
questo appartien propriamente al cuore. Ed infatti oggidì appresso gli altri
poeti di verso e di prosa, il cuore è sottentrato universalmente e quasi del
tutto all'immaginazione, quello gl'ispira, quello essi mirano a commuovere, e su
quello realmente operano sempre ch'ei sono atti a riuscire nel loro intento. I
poeti d'immaginazione oggidì, manifestano sempre lo stento e lo sforzo e la
ricerca, e siccome non fu la immaginazione che li mosse a poetare, ma essi che
si espressero dal cervello e dall'ingegno,
3156 e si crearono e fabbricarono
una immaginazione artefatta, così di rado o non mai riescono a risuscitare e
riaccendere la vera immaginazione, già morta, nell'animo de' lettori, e non
fanno alcun buono effetto. Così dico di quelle parti che ne' moderni {scrittori} sono di pura immaginazione. Lord Byron è un'eccezione di regola,
forse unica, per se stesso. {V. p. 3477.} Quanto all'effetto
delle sue poesie sopra i lettori, dubito ch'elle debbano essere eccettuate dal
numero delle altre poesie d'immaginazione. {V. p. 3821.} L'animo nostro è
troppo diverso dal suo. Male ei ci può restituire quella immaginativa ch'egli ha
conservata, ma che noi abbiamo per sempre perduta. {#1. Anche Omero e
Dante hanno assai che fare per
ridestar la nostra immaginazione. Contuttociò, quantunque la fantasia di
L. Byron sia
certo naturalmente straordinaria, nondimeno è pur vero che anch'ella è in
grandissima parte artefatta, o vogliamo dire spremuta a forza, onde si vede
chiaramente che il più delle poesie di L. Byr. vengono dalla volontà e da un abito
contratto dal suo ingegno, piuttosto che da ispirazione e da fantasia
spontaneamente mossa.} Ora tra i poeti epici egli è pure strano che
Omero antichissimo abbia tanto
mirato al cuore, e che Virgilio e i
moderni non si sieno proposti per oggetto finale ed essenziale de' loro poemi
che di muovere l'immaginazione. Perocchè il soggetto essenziale e unico
principale de' loro poemi si è un Eroe felice e un'impresa felicemente
3157 terminata. Ora la felicità non vale che per la
maraviglia, la quale spetta all'immaginazione e nulla al cuore. Tanto possono
fare errare i più grandi spiriti le regole e l'arte, e tanto nascondere la
natura dell'uomo, de' tempi, delle cose, traviarli dal vero, travisar loro e
occultare il proprio scopo e la propria essenza di quelle cose medesime ch'essi
intraprendono ed alle quali esse regole appartengono. {Veramente di tutti i poemi epici, il più antico, cioè
l'iliade, è, quanto all'insieme, allo scopo totale e non
parziale, al tutto e non alle parti, all'intenzion finale e primaria, non
episodica, addiettiva e secondaria e quasi estrinseca, accidentale ec.; è,
dico il più sentimentale, anzi il solo sentimentale; cosa veramente strana a
dirsi, e che par contraddittoria ne' termini, ed è infatti mostruosa ed
opposta alla natura de' progressi e della storia dello spirito umano e degli
uomini, e delle differenze de' tempi, alla natura rispettivamente
dell'antico al moderno, e viceversa ec. È anche il poema più Cristiano.
Poichè interessa pel nemico, pel misero ec. ec.}
[3158,1] 4. Oggi, come ho già detto p. 564
pp.
3141. sgg., e proporzionatamente eziandio a' tempi di Virgilio, si può dir che più non esista
interesse pubblico, se non in quei pochi che le cose pubbliche amministrano, e
che il pubblico rappresentano,
3159 anzi, si può dir,
lo compongono {e} costituiscono. Ed è ben cosa
ragionevole e consentanea che l'interesse pubblico negli altri più non esista (e
chi governa non legge poemi). Ora dunque i poemi il cui soggetto non è che
qualche felicità {e gloria} nazionale, poco possono
oggidì interessare, o certo assai meno che a' tempi d'Omero. Ma la sventura, e massime degl'immeritevoli, è
sempre dell'interesse privato di ciascheduno uomo. Niuno è che non si stimi
infelice e conseguentemente nol sia, e niuno è parimente che non si reputi
immeritevole della infelicità ch'ei sostiene. Queste disposizioni benchè comuni
a tutti i tempi, sono massimamente sensibili oggidì, poichè {+per le circostanze politiche} la vita non ha più
come {vivamente} occuparsi e distrarsi, e {d'altronde} il lume della filosofia dissipa ben tosto, o
soffoca nel nascere, o impedisce del tutto qualunque illusione di felicità.
Quindi eziandio indipendentemente dalla compassione, egli era
3160 tanto più conveniente oggidì che a' tempi d'Omero il far molto giuocare ne' poemi epici le sventure
degli uomini, quanto che oggi il sentimento della infelicità nelle nazioni
civili è più vivo che fosse mai nel genere umano, ed {è} il sentimento e il pensiero per così dir dominante, {+da cui niuno oramai trova più come
distrarsi.} E la infelicità individuale degli uomini è, per così dire,
il carattere o il segno di questo secolo. Tutto al contrario di quel d'Omero, il quale forse godette di quella
maggior felicità o minore infelicità che possa godersi dall'uomo nello stato
sociale, e che sempre risulta dalla grande attività della vita e dalle grandi
{e forti} illusioni, cose proprissime di quel
tempo, massime nella Grecia. Or dunque oggidì le sventure
cantate da' poeti, non possono non interessar grandemente, e più che in ogni
altro tempo, e tutti; essendo il sentimento della propria sventura l'universale
e più continuo sentimento degli uomini d'oggidì, ed amando naturalmente gli
uomini di parlare e
3161 udir parlare delle cose
proprie, e riguardando ciascheduno la infelicità come propria sua cosa, e
dilettandosi gli uomini singolarmente di quelli che loro più si assomigliano, nè
potendosi trovar somiglianza più universale che quella della infelicità, e
compiacendosi ciascheduno di vedere in altrui o di legger ne' poeti i suoi
propri sentimenti, e contando per somma ventura ogni volta ch'egli incontra o
nella vita o ne' libri qualche notabile conformità o di casi o di circostanze o
di opinioni o di carattere o di pensieri o d'inclinazioni o di modi o di vita e
abitudini, colle sue proprie; e consolandosi ciascheduno delle sue sventure
coll'esempio vivamente rappresentato, e più col vederle quasi celebrate e piante
in altrui {+(e ciò in soggetto e
circostanze e persone e avvenimenti illustri, come son quelli cantati ne'
poemi epici),} innalzando il concetto di se stesso quasi il canto del
poeta avesse per soggetto la di lui stessa infelicità, ed intenerendosi nella
lettura quasi sui proprii mali. Chè in verità qualora leggendo i poeti
(versificatori o prosatori) {o le storie} noi ci
sentiamo
3162 commuovere da quelle vere o finte
calamità, e ci lasciamo andare alle lagrime, crediamo forse di piangere le
miserie altrui ma più spesso e più veramente, o più intensamente piangiamo in
quel med. punto le nostre proprie, o mescoliamo il pensiero di queste al
pensiero di quelle, e questa mescolanza (ch'è vera e propria e debita arte, e
dev'essere scopo, del poeta l'occasionarla) è principal cagione di quelle nostre
lagrime. E ci accade allora (e così ne' teatri ec.) come ad Achille piangente sul capo di Priamo il suo vecchio padre e la breve vita a se
destinata ec. ec. sublimissimo e bellissimo e naturalissimo quadro di Omero. {+Le sventure, quando sieno nazionali, o in altra maniera
più {particolarmente} appartenenti ai lettori,
interesseranno sempre più, per la maggior somiglianza e prossimità, che non
è quella dello sventurato in generale, e perchè sarà tanto più facile e
pronto il passaggio dell'animo del lettore da quelle calamità alle sue
proprie ec. Onde sarà sempre importantissimo che il soggetto del poema sia
nazionale, e questi soggetti saranno sempre preferibili agli altri, e la
nazionalità conferirà moltissimo all'interesse.}
[3171,1]
3171 Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la
potenza dell'umano intelletto, nè l'altezza e nobiltà dell'uomo, che il poter
l'uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua
piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de' mondi, si sente essere
infinitesima parte di un globo ch'è minima parte d'uno degli infiniti sistemi
che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua
piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde
quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle
cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell'esistenza;
allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile
della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la
quale rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e
intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener
3172 col pensiero questa immensità medesima della
esistenza e delle cose. Certo niuno altro essere pensante su questa terra giunge
mai pure a concepire o immaginare di esser cosa piccola o in se o rispetto
all'altre cose, eziandio ch'ei sia, quanto al corpo, una bilionesima parte
dell'uomo, per nulla dire dell'animo. E veramente quanto gli esseri più son
grandi, quale sopra tutti gli esseri terrestri si è l'uomo, tanto sono più
capaci della conoscenza e del sentimento della propria piccolezza. Onde avviene
che questa conoscenza e questo sentimento anche tra gli uomini sieno infatti
tanto maggiori e più vivi, ordinari, continui e pieni, quanto l'individuo è di
maggiore e più alto e più capace {intelletto} ed
ingegno. (12. Agosto. dì di S. Chiara. 1823.).
[3183,1] Gli uomini che nel mondo sono stimati e sono tenuti
da quanto gli altri o da più degli altri, lo sono per l'ordinario in quanto
coll'uso della società essi si sono allontanati dalla natura lor propria e dagli
abiti naturali dell'uomo generalmente, ed hanno in se oscurata e coperta la
natura, o sanno, sempre che vogliono, coprirla. E quanto più è oscurata in loro
e coperta e mutata sì la natura individuale e lor propria, vale a dire il loro
natural carattere, e gli abiti a che essa {particolar
natura} gli avrebbe condotti, sì la natura generale degli uomini,
tanto la stima generale verso di essi è maggiore. Voglio dir che la più parte
delle qualità che negli uomini ottengono stima appo il mondo, o sono totalmente
acquisite e per nulla naturali, anzi spesso contrarie alla natura lor propria o
generale; ovvero sono talmente svisate
3184 dal
naturale che per naturali non si ravvisano, e più che sono svisate, più, per
l'ordinario, si stimano. Perocchè egli è ben raro che una qualità semplicemente
naturale, e tale qual ella è da natura, sia stimata punto nella società, e
quando pur sialo, questa stima non è nè durevole, nè salda, nè generale, nè
molta, {ed} è sempre inferiore a quella delle qualità
acquisite o snaturate, le quali si apprezzano per regola, stabilmente e
seriamente, ma le naturali quasi per gioco, per rarità, per variare, per
passatempo, momentaneamente. Quelle si stimano come gravi, serie, e da negozio;
queste come lievi, di poca importanza ed utilità, da {semplice} trattenimento e da ozio: e la società presto se ne
annoia.
[3197,1] In molti luoghi di questi miei pensieri pp.
1370-72
pp.
1432-33
pp.
1455-56
pp.
1628-29
pp. 1828-30
pp. 2151-52
pp. 2268-69
pp. 2484-85
pp. 2569-72 ho
dimostrato come l'uomo debba quasi tutto alle circostanze, all'assuefazione,
all'esercizio; quanta parte di ciò che si chiama talento naturale, e diversità o
superiorità o inferiorità di talenti, non sia per verità altro che assuefazione,
esercizio, ed opera di circostanze non naturali nè necessarie ma accidentali, e
diversità di assuefazioni e di circostanze, maggiore o minore assuefazione, e
maggiore o minor favore o disfavore di circostanze e di accidenti secondarii: la
diversità delle quali cose accresce a dismisura le piccole differenze e le
piccole superiorità o inferiorità di facoltadi che si trovano naturalmente {e primitivamente} tra questo e quello ingegno di questo
o quello individuo o nazione, in questo o quel secolo. Io però non intendo con
ciò di negare che non v'abbiano diversità naturali fra i vari talenti, le varie
facoltà, i vari primitivi caratteri degli uomini; ma solamente affermo e
dimostro che tali diversità assolutamente naturali, innate, e primitive sono
molto
3198 minori di quello che altri ordinariamente
pensa. Del resto che gl'intelletti, gli spiriti, insomma gli animi degli uomini
differiscano naturalmente e primitivamente gli uni dagli altri, con minute
differenze bensì, ma pur vere ed effettive e notabili differenze; e che varie
sieno le loro naturali disposizioni, maggiori in altri, in altri minori, ed
ordinate in quelli a certi oggetti, in questi a certi altri, è cosa, come da
tutti e sempre creduta, così vera e reale, e dimostrata da molte osservazioni,
le quali, o alcune di esse, verrò qui sotto segnando per capi, sommariamente
però, ed in modo che sopra ciascun capo potrà e dovrà molto più estendersi il
discorso di quello che io sia per estenderlo.
[3265,1]
3265 Si può dire che le viste, i disegni, {i proponimenti, i fini,} le speranze, i desiderii
dell'uomo, tutto ciò in somma che ne' suoi pensieri ha relazione al futuro,
tanto più si stendono, cioè tanto più mirano e tendono, o giungono, lontano,
quanto minore naturalmente è lo spazio di vita che gli rimane, {e viceversa.} Niun pensiero del bambino appena nato ha
relazione al futuro, se non considerando come futuro l'istante che dee succedere
al presente momento, perocchè il presente non è in verità che istantaneo, e
fuori di un solo istante, il tempo è sempre e tutto o passato o futuro. Ma
considerando il presente e il futuro non esattamente e matematicamente, ma in
modo largo, secondo che noi siamo soliti di concepirlo e chiamarlo, si dee dire
che il bambino non pensa che al presente. Poco più là mira il fanciullo; ond'è
che proporre al fanciullo (p. e. negli studi) uno scopo lontano (come la gloria
e i vantaggi ch'egli acquisterà nella maturità della vita o nella vecchiezza, o
anche pur nella giovanezza), è assolutamente inutile per muoverlo (onde è
sommamente giusto ed utile l'adescare il fanciullo allo studio col proporgli
onori o vantaggi ch'egli
3266 possa e debba conseguire
ben tosto, e quasi di giorno in giorno, che è come un ravvicinare a' suoi occhi
lo scopo della gloria e della utilità {degli studi,}
senza il quale ravvicinamento è impossibile ch'ei fissi mai gli occhi in detto
scopo, e per conseguirlo si assoggetti volentieri alle fatiche e alle sofferenze
ripugnanti alla natura, che gli studi richieggono). Più si stendono le viste del
giovane, ma meno assai di quelle dell'uomo maturo e riposato, i cui calcoli sul
futuro oltrepassano bene spesso, senza ch'ei se n'avvegga, lo spazio di vita
naturalmente concesso ai mortali. Perciocchè l'uomo maturo comincia già a
compiacersi supremamente e contentarsi della speranza, e pascerne la sua vita.
Della quale speranza si nutre parimente, e con essa favella e delira anche il
giovane, e il fanciullo altresì; ma non in modo che d'essa si contentino, e che
non cerchino di prontamente effettuarla e recarla in opera, e venire al fatto.
Il che nasce dall'ardore di quelle età, dall'attività dell'animo unita e
cospirante con quella del corpo, dalla
3267 freschezza
e forza del loro amor proprio, e quindi dall'energia ed efficacia de' loro
desiderii impazienti d'indugio, e però non sofferenti di proporsi un oggetto
ch'ei non possano o ch'ei non credano di potere in poco spazio e dentro un
picciolo termine conseguire; finalmente dall'inesperienza ch'egli hanno intorno
alla vanità delle umane speranze, alla difficoltà che l'uomo prova in condurle a
fine, e alla nullità eziandio degli stessi beni sperati, la quale
inevitabilmente apparisce così tosto com'ei sono posseduti. Le contrarie cagioni
producono la lunghezza e lontananza delle viste nell'uomo maturo; e l'eccesso di
dette contrarie qualità producono l'eccesso del contrario effetto nella
vecchiezza, la quale ridotta a non potersi ragionevolmente promettere più che un
brevissimo avanzo di vita, pure nella estensione delle sue viste supera {+di gran lunga} tutte le altre età
dell'uomo. Perocchè il vecchio per la debolezza di corpo e d'animo, e pel
disinganno de' beni umani già provati, e per lo illanguidimento dell'amor
proprio che va di pari colla quasi diminuzione e raffreddamento
3268 della vita, non è capace se non di fievoli
desiderii, e quindi si contenta di propor loro uno scopo lontano e in esso
fermarli, e i suoi desiderii si contentano di rimanervi; per la {diuturna} esperienza fatta della vanità e del tristo
esito delle speranze, con un quasi stratagemma, le indirizza a luoghi così
lontani ch'elle non possano se non assai tardi o non mai, avvicinandosi a quelli
e giungendovi, scomparire; per la irresoluzione propria dell'età sua, rimettendo
ogni azione al dipoi, e costretto di rimettere eziandio e quasi differire le sue
speranze, e gli oggetti de' suoi desiderii e il loro conseguimento ch'ei si
propone, o ch'ei si compiace, per dir meglio, di vagheggiare; e per {l'abito della} tardità e lentezza nell'operare a cui la
gravezza e l'impotenza dell'età lo costringe, e per la pigrizia e negligenza e
torpore dell'animo che ne deriva {+e n'è
pur cagione,} i suoi desiderii altresì e le sue speranze ne divengono
tarde e pigre e lente e quasi trascurate (benchè sempre però bastantemente vive
per mantenerlo e quasi allattarlo, come alla vita umana
3269 indispensabilmente ricercasi), ed ei giunge a persuadersi fra se
stesso non con l'intelletto, ma con l'immaginazione e con la non ragionata
abitudine dell'altre facoltà del suo spirito, che il tempo e la natura {e le} cose sian {divenute} ed
abbiano a riuscir così lente e pigre com'esso {necessariamente} è. (26. Agosto. 1823.)
[3269,1] Il poeta lirico nell'ispirazione, il filosofo nella
sublimità della speculazione, l'uomo d'immaginativa e di sentimento nel tempo
del suo entusiasmo, l'uomo qualunque nel punto di una forte passione,
nell'entusiasmo del pianto; ardisco anche soggiungere, mezzanamente riscaldato
dal vino, vede e guarda le cose come da un luogo alto {+e superiore a quello in che la mente degli uomini suole
ordinariamente consistere.} Quindi è che scoprendo in un sol tratto
molte più cose ch'egli non è usato di scorgere a un tempo, e d'un sol colpo
d'occhio discernendo e mirando una moltitudine di oggetti, ben da lui veduti più
volte ciascuno, ma non mai tutti insieme (se non in altre simili congiunture),
egli è in grado di scorger con essi i loro rapporti scambievoli, e per la novità
di quella moltitudine
3270 di oggetti tutti insieme
rappresentantisegli, egli è attirato e a considerare, benchè rapidamente, i
detti oggetti meglio che per l'innanzi non avea fatto, e ch'egli non suole; e a
voler guardare e notare i detti rapporti. Ond'è ch'egli ed abbia in quel momento
una straordinaria facoltà di generalizzare (straordinaria almeno relativamente a
lui ed all'ordinario del suo animo), e ch'egli l'adoperi; e adoperandola scuopra
di quelle verità generali e perciò veramente grandi e importanti, che indarno
fuor di quel punto e di quella ispirazione {e quasi μανία e
furore} o filosofico o passionato o poetico o altro, indarno, dico,
con lunghissime e pazientissime {+ed
esattissime} ricerche, esperienze, confronti, studi, {ragionamenti,} meditazioni, esercizi della mente,
dell'ingegno, della facoltà di pensare di riflettere di osservare di ragionare,
indarno, ripeto, non solo quel tal uomo o poeta o filosofo, ma qualunqu'altro o
poeta o ingegno qualunque o filosofo acutissimo e penetrantissimo, anzi pur
molti filosofi insieme cospiranti, e i secoli stessi col successivo avanzamento
dello spirito umano, cercherebbero di scoprire, {o}
d'intendere, o {di} spiegare, siccome
3271 colui, mirando a quella ispirazione, facilmente e
perfettamente e pienamente fa a se stesso in quel punto, e di poi {a se stesso ed} agli altri, purch'ei sia capace di ben
esprimere i propri concetti, ed abbia bene e chiaramente e distintamente
presenti le cose allora concepite e sentite. (26. Agos. 1823.).
[3271,1] Secondo ch'io osservo e che si potrà spiegare colle
ragioni da me recate in altri luoghi pp. 97-99
p.
1589
p.
1605, l'abito di compatire, quello di beneficare, o di operare in
qualunque modo per altrui, e, mancando ancora la facoltà, l'inclinazione alla
beneficenza e all'adoperarsi in pro degli altri, sono sempre (supposta la parità
delle altre circostanze di carattere o indole, educazione, coltura di spirito, o
rozzezza, e simili cose) in ragion diretta della forza, della felicità, del poco
o niun bisogno che l'individuo ha dell'opera e dell'aiuto altrui, ed in
proporzione inversa della debolezza, della infelicità, dell'esperienza delle
sventure e dei mali, sieno passati, o massimamente presenti, del bisogno che
l'uomo ha degli altrui soccorsi ed uffici. {Veggansi le pagg.
3765-68.} Quanto più l'uomo è in istato di esser
3272 soggetto di compassione, o di bramarla, o di
esigerla, e quanto più egli la brama o l'esige, anche a torto, e si persuade di
meritarla, tanto meno egli compatisce, perocch'egli allora rivolge in se stesso
tutta la natural facoltà, e tutta l'abitudine che forse per lo innanzi egli
aveva, di compatire. Quanto l'uomo ha maggior bisogno della beneficenza altrui,
tanto meno egli è, non pur benefico, ma inclinato a beneficare; tanto meno egli
non solo esercita, ma ama in se quella beneficenza che dagli altri desidera o
pretende, e crede a torto o a ragione di meritare, o di abbisognarne. L'uomo
debole, e sempre bisognoso di quegli uffici maggiori o minori che si ricevono e
si rendono nella società, e che sono il principale oggetto a cui la società è
destinata, o quello a cui principalmente dovrebbe servire la scambievole
comunione degli uomini; pochissimo o nulla inclina a prestar la sua opera
altrui, e di rado o non mai, o bene scarsamente la presta, ancor dov'ei può, ed
{ancora} agli uomini più deboli e più bisognosi di
lui. L'uomo assuefatto alle sventure, e
3273 massime
quegli a cui la vita è sinonimo e compagno del patimento, nulla sono mossi, o
del tutto inefficacemente, dalla vista o dal pensiero degli altri mali e
travagli e dolori. L'amor proprio in un essere infelice è troppo occupato
perch'egli possa dividere il suo interesse tra questo essere e i di lui simili.
Assai egli ha da esercitarsi quando egli ha le sue proprie sventure; sieno pur
molto minori di quelle che se gli rappresentano in qualunque modo in altrui. Se
le proprie sventure sono presenti, la compassione, come ho detto, tutta rivolta
e impiegata sopra se stesso, in esso lui si consuma, e nulla n'avanza per gli
altri. Se sono passate, posto ancora che piccolissime fossero, la rimembranza di
esse fa che l'uomo non trovi nulla di straordinario nè di terribile ne'
patimenti e disastri degli altri, nulla che meriti di farlo {come} rinunziare al suo amor proprio per impiegarlo in altrui
beneficio; come già pratico del soffrire, egli si contenta di consigliar
tacitamente e fra se stesso agl'infelici, che si rassegnino alla lor sorte, e si
crede in diritto di esigerlo, quasi
3274 egli medesimo
n'avesse già dato l'esempio; perocchè ciascuno in qualche modo si persuade di
aver tollerato o di tollerare le sue disgrazie e le sue pene virilmente al
possibile, e con maggior costanza, che gli altri, o almeno il più degli uomini,
nel caso suo, non farebbero o non avrebbero fatto; nella stessa guisa che
ciascuno si pensa sopra tutti gli altri essere o essere stato indegno de' mali
ch'ei sostiene o sostenne. Oltre di che l'abito d'insensibilità verso l'altrui
sciagure, contratto nel tempo ch'ei fu sventurato, non è facile a
dispogliarsene, sì perch'esso è troppo conforme all'amor proprio, che vuol dire
alla natura dell'uomo; sì perchè grande e profonda è l'impressione che fa nel
mortale la sventura, e quindi durevole l'effetto che produce e che lascia, e ben
sovente decisivo del suo carattere per tutta la vita, e perpetuo.
[3301,1] Come l'uomo sia quasi tutto opera delle circostanze
e degli accidenti: quanto poco abbia fatto in lui la natura: quante di quelle
medesime qualità che in lui più naturali si credono, anzi di quelle ancora che
non d'altronde mai si credono poter derivare che dalla natura, nè per niun modo
acquistarsi, e necessariamente in lui svilupparsi e comparire, non altro sieno
in effetto che acquisite, e {tali che} nell'uomo posto
in diverse circostanze, non mai si sarebbero sviluppate, nè sarebbero comparse,
nè per niun modo esistite: come la natura non ponga quasi
3302 nell'uomo altro che disposizioni, ond'egli possa essere tale o
tale, ma niuna o quasi niuna qualità ponga in lui; di modo che l'individuo non
sia mai tale quale egli è, per natura, ma solo per natura possa esser tale, e
ciò ben sovente in maniera che, secondo natura, tale ei non dovrebb'essere, anzi
pur tutto l'opposto: come insomma l'individuo divenga (e non nasca) quasi tutto
ciò ch'egli è, qualunque egli sia, cioè sia divenuto. Qual cosa pare più
naturale, più inartifiziale, {più spontanea,} meno
fattizia, più ingenita, meno acquistabile, più indipendente e più disgiunta
dalle circostanze e dagli accidenti, che quel tal genere di sensibilità con cui
l'uomo suol riguardare la donna, e la donna l'uomo, ed essere trasportato l'uno
verso l'altra; quel tal genere, dico, di affetti e di sentimenti che l'uomo, e
massimamente il giovane nella prima età, senz'ombra di artifizio, senza
intervento di volontà, anzi tanto più quanto egli è più giovane, più semplice ed
inesperto, e quanto meno il suo carattere
3303 è stato
modificato e influito dall'uso del mondo e dalla conversazione degli uomini e
pratica della società, suol provare alla vista {+o al pensiero} di donne giovani e belle, o nel
trattenersi seco loro; e così le donne giovani cogli uomini giovani e belli?
quel tressaillement, quell'emozione,
quell'ondeggiamento e confusione di pensieri e di sentimenti tanto più
indistinti e indefinibili quanto più vivi, che parte par che abbiano del
materiale, parte dello spirituale, ma molto più di questo, in modo che par
ch'egli appartengano interamente allo spirito, anzi alla più alta e più pura e
più intima parte di esso? Or questo genere di sentimenti e di affetti e di
pensieri, questa qualità del giovane, cioè questa tale sensibilità, e la facoltà
ed abito di provare questi siffatti sentimenti, non è per niun modo naturale nè
innata, ma acquisita, ossia prodotta di pianta dalle circostanze, e tale che se
queste non fossero state, l'uomo neppur conoscerebbe nè potrebbe pur concepire
questa qualità, nè anche sospettare d'esserne capace.
3304 Il genere umano naturalmente è nudo, e, seguendo la natura,
almeno in molte parti del globo, egli non avrebbe mai fatto uso de' vestimenti,
siccome le vesti sono affatto ignote p. e. ai Californii. {Nè
l'uomo nè} il giovane non avrebbe mai veduto {nè
immaginato} nelle donne (e così la donna negli uomini) nulla di
nascosto. E nulla vedendo di nascosto, {{nè}}
{potendo desiderare o sperar di vedere,} e ben
conoscendo fin dal principio la nudità {e la forma}
dell'altro sesso, egli non avrebbe mai provato per la donna altro affetto, altro
sentimento, altro desiderio, che quello che per le {lor} femmine provano gli altri animali; nè avrebbe concepito intorno
a lei altro pensiero che quello di mescersi seco lei carnalmente; nè l'aspetto o
il pensiero o la compagnia della donna avrebbe in lui cagionato, neppur nella
primissima gioventù, verun altro effetto che un desiderio il più puramente e
semplicemente sensuale che possa mai dirsi, {un impeto a
soddisfare tal desiderio,} ed un piacere (molto languido in se stesso
per l'abitudine {+e l'assuefazione}
incominciata sin dalla nascita, e sempre continuata) altrettanto carnale {che quel desiderio,} e interamente, unicamente
3305 e manifestissimamente materiale, cioè appartenente
e derivante dalla sola materia e dal senso, nè più nè meno che quel piacere che
in lui avrebbe prodotto la vista di un color rosso bello e vivo o altra tal
sensazione; se non solamente che quel diletto sarebbe stato per natura maggiore
di questi; siccome tra gli altri diletti, {o}
naturalmente {{o per circostanze,}} qual è maggiore qual
è minore, non in se, ma rispetto agli uomini e agli animali, insomma agli esseri
che li provano, e ne' quali essi diletti nascono ed hanno l'essere.
[3318,1]
3318 Un francese, un inglese, un tedesco che ha
coltivato il suo ingegno, e che si trova in istato di pensare, non ha che a
scrivere. Egli trova una lingua nazionale moderna già formata, stabilita e
perfetta, imparata la quale, ei non ha che a servirsene. Nè dal principio della
loro letteratura in poi, è stato mai bisogno ad alcuno scrittore di queste
nazioni, qual ch'ei si fosse, il formarsi una lingua moderna, cioè tale che
volendo scrivere, come ognun deve, alla moderna, ei potesse col di lei mezzo
esprimere i suoi concetti in qualsivoglia genere. Come dal principio delle loro
letterature in poi, quelle nazioni non hanno mai intermesso di coltivar esse
medesime gli studi in esse introdotti; o creando e inventando nuovi generi o
discipline, con esse hanno naturalmente e sin dal loro principio creato o
formato il linguaggio che loro si conveniva; o accettando generi o discipline
forestiere, non mai per ancora in esse nazioni conosciute o trattate, insieme
con essi generi e discipline accettarono senza contrasto alcuno quei modi e quei
vocaboli, ancorchè forestieri, che con esse erano congiunte, e che a volerle
trattare indispensabilmente si richiedevano; così non è stato mai tempo alcuno
in
3319 cui gli scrittori di quelle nazioni, avendo che
scrivere, non avessero come scrivere; mai tempo alcuno in cui quelle nazioni non
avessero lingua nazionale moderna per qualunque genere di letteratura e per
qualsivoglia disciplina da loro trattata.
[3347,1] La stagione e il clima freddo dà maggior forza di
agire, e minor voglia di farlo, maggior contentezza del presente, inclinazione
all'ordine, al metodo, e fino all'uniformità. Il caldo scema le forze di agire,
e nel tempo stesso ne ispira ed infiamma il desiderio, rende suscettibilissimi
della {{noia,}} intolleranti dell'uniformità della vita,
vaghi di novità, malcontenti di se stessi e del presente. Sembra che il freddo
fortifichi il corpo e leghi l'animo: che il caldo addormenti e ammollisca e
illanguidisca e intorpidisca il corpo, eccitando e svegliando e sciogliendo
l'animo. L'attività del corpo è propria de' settentrionali, de' meridionali
quella dell'animo. {Nel freddo si ha la
forza di agire, ma non senza incomodo. La temperatura dell'aria che vi
circonda, opponendosi à ce que voi possiate uscir
di casa e di camera senza patimento, vi consiglia l'inazione e l'immobilità
nel tempo stesso che vi dà la forza dell'azione e del moto. Si può dir che
se ne sente la forza e la difficoltà nel tempo stesso. Nel caldo tutto
l'opposto. Si sente la facilità
dell'azione e del moto nel tempo stesso che se ne scarseggiano le forze.
L'uomo prova espressamente un senso di libertà fisica che viene
dall'amicizia dell'aria e della natura che lo circonda, un senso che lo
invita al movimento e all'azione, ch'egli talora confonde con quello della
forza, ma che n'è ben differente, come l'uomo si può avvedere, quando
cedendo all'inquietezza che quel senso gl'ispira, e dandosi all'azione, la
totale mancanza di forze che gli sopraggiunge, gli toglie quel senso di
libertà, e l'obbliga a desiderare e cercare il riposo. Anche per se medesima
la debolezza e il rilasciamento prodotto da causa non morbosa, come dal
caldo, dà una certa facilità di determinarsi all'azione al movimento al
travaglio, più che la tensione prodotta dal freddo. Può parere un paradosso,
ma l'esperienza anche individuale lo prova. Pare che il corpo rilasciato sia
più maneggiabile a se medesimo. Bensì la sua capacità di travagliare è poco
durevole. ec.} Ma il corpo non opera se non mosso dall'animo. Quindi è
che i settentrionali sebbene senza controversia sia lor propria l'attività e
laboriosità, pur sono veramente i più quieti popoli della terra; e i meridionali
i più inquieti, benchè sia lor propria l'infingardaggine. I settentrionali hanno
bisogno di grandissimo impulso a muoversi, a sollevarsi, a cercar novità: ma
3348 mossi che sieno, non sono facili a racquietare.
Vedesi nelle loro storie, nelle quali, massime nelle moderne, e massime in
quelle della Germania, pochissime rivoluzioni si
troveranno (specialmente a paragone di quelle de' meridionali) ma queste
lunghissime, come quella di religione mossa da Lutero, e convertita ben tosto in rivoluzione politica. Sopportano
facilmente la tirannia, finch'ella non gli spinge à
bout, come gli Svizzeri. Ubbidiscono volentieri, e comandati
travagliano (anche eccessivamente) più volentieri che se operassero
spontaneamente. Vedesi nella loro milizia. I meridionali sono facili e pronti e
frequenti a muoversi, rivoltosi, poco tolleranti della tirannide, poco amici
dell'ubbidire, ma facilissimi ancora a racquietare, facilissimi a ritornare in
riposo; mobili, volubili, instabili, vaghi di novità politiche, incapaci di
mantenerla[mantenerle]; vaghi di libertà,
incapaci di conservarla; al contrario de' settentrionali che di rado la cercano,
{poco} se ne curano; cercata o comunque acquistata,
lunghissimamente la conservano. Infatti essi, e in particolare i tedeschi o
teutoni, sono i soli in europa che serbino qualche
vestigio di libertà, qualche immagine
3349 delle
antiche repubbliche; i soli appo cui le repubbliche si veggano per esperienza
poter durare anche a' tempi moderni. Verbigrazia gli Svizzeri, le città libere
di Germania, le repubblichette de' Fratelli Moravi ec.
Nel mezzogiorno d'Europa non esiste più neppure un'ombra
di repubblica in alcun luogo, fuori di San-Marino. In
Germania ve n'ha non poche, ed alcuni piccoli
principati di colà si governano oggi, o per volontà del principe (come Saxe-Gotha) o per
costituzione, quasi a maniera di repubblica e stato franco.
[3360,1] Tanto l'uomo è gradito e fa fortuna nella
conversazione e nella vita, quanto ei
3361 sa ridere.
(5. Sett. 1823.).
[3382,2] È tanto mirabile quanto vero, che la poesia la quale
cerca per sua natura {e proprietà} il bello, e la
filosofia ch'essenzialmente ricerca il vero, cioè la cosa più contraria al
bello; sieno le facoltà le
3383 facoltà le più affini
tra loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran filosofo,
e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi nè l'uno nè l'altro non può esser
nel gener suo nè perfetto nè grande, s'ei non partecipa {+più che mediocremente} dell'altro genere, quanto
all'indole primitiva dell'ingegno, alla disposizione naturale, alla forza
dell'immaginazione. Di ciò ho detto altrove p. 1383
p.
1650
pp.
3269-71. Le grandi verità, e massime nell'astratto e nel metafisico o
nel psicologico ec. non si scuoprono se non per un quasi entusiasmo della
ragione, nè da altri che da chi è capace di questo entusiasmo. (Eccetto ch'elle
sieno scoperte appoco appoco, piuttosto dal tempo e dai secoli, che dagli
uomini, in guisa che a nessuno in particolare possa attribuirsene il
ritrovamento, il che spesso accade). La poesia e la filosofia sono entrambe del
pari, quasi le sommità dell'umano {spirito,} le più
nobili e le più difficili facoltà a cui possa applicarsi l'ingegno umano. E
malgrado di ciò, e dell'esser l'una di loro, cioè la poesia, la più utile
veramente di tutte le facoltà, sì la poesia,
3384 come
la filosofia sono del pari le più sfortunate e dispregiate di tutte le facoltà
dello spirito. Tutte l'altre dánno pane, molte di loro recano onore {anche} durante la vita, aprono l'adito alle dignità ec.:
tutte l'altre, dico, fuorchè queste, dalle quali non v'è a sperar altro che
gloria, e soltanto dopo la morte. Povera e nuda vai,
filosofia.
*
{#1. Petr.
Son. La gola, il sonno.} Della sorte
ordinaria de' poeti mentre vivono, non accade parlare. Chi s'annunzia per
medico, per legista, per matematico, per geometra, per idraulico, per filologo,
per antiquario, per linguista, per perito anche in una sola lingua; il pittore
eziandio e lo scultore e l'architetto; il musico, non solo compositore ma
esecutore, tutti questi son ricevuti nelle società con piacere, trattati nelle
conversazioni e nella vita civile con istima, ricercati ancora, onorati,
invitati, e quel ch'è più premiati, arricchiti, elevati alle cariche e dignità.
Chi s'annunzia solo per poeta o per filosofo, ancorch'egli lo sia veramente, e
in sommo grado, non trova chi faccia caso di lui, non ottiene neppure ch'altri
gli parli con leggiere testimonianze di stima. La ragione si è che tutti si
credono esser filosofi,
3385 ed aver quanto si richiede
ad esser poeti, sol che volessero metterlo in opera, o poterlo facilissimamente
acquistare e adoperare. Laddove chi non è matematico, pittore, musico ec. non si
crede di esserlo, e riguarda come superiori per questo conto a lui ed al comune
degli uomini, quei che lo sono. Il genio, da cui principalmente pende e nasce la
facoltà poetica e la filosofica, non si misura a palmi, come ciò che si richiede
a esser medico o geometra. Quindi nasce che quello ch'è più raro tra gli uomini
tutti si credano possederlo. E quindi è che le due più nobili, più {difficili} e più rare, {+anzi straordinarie,} facoltà, la poesia e la
filosofia, tutti credano possederle, o poterle acquistare a lor voglia. Oltre
che il genio non può essere nè giudicato, nè sentito, nè conosciuto, nè aperçu che dal genio. Del quale mancando quasi tutti,
nol sentono nè se n'avveggono quand'ei lo trovano. E il gustare, e potere anche
mediocremente estimare il valor delle opere di poesia e di filosofia, non è che
de' veri poeti e de' veri filosofi, a differenza delle opere dell'altre facoltà.
ec.
[3410,1] Gli uomini che vivono in solitudine sono
inclinatissimi al metodo. Ma non tanto quelli che nella solitudine sono
occupati, o che perciò appunto vivono in solitudine, (ne' quali, {+siccome in tutti quelli che sono molto
occupati,} il metodo e l'ordine dell'azioni sarebbe ragionevolissimo,
perchè l'ordine così di luogo come di tempo è sempre risparmio dell'uno o
dell'altro, e il disordine al contrario) quanto in quelli che nulla hanno da
fare, come malati cronici, carcerati, vecchi ritirati per cagionevolezza
dell'età, per debolezza, o per abito di pigrizia. Questi sogliono esser metodici
fino all'ultimo eccesso. Pare che l'uomo sia tanto più
3411 geloso di ordinare la sua vita quanto meno ha da occuparla, o
quanto meno la occupa. {Intendo per occupazioni anche le distrazioni gli spassi
ec.} Non potendo o non volendo impiegare il tempo, si occupa a
regolarlo e partirlo e distinguerlo. L'ordinare le sue operazioni diviene
l'unica sua operazione e occupazione. (11. Sett. 1823.). Io {ho} conosciuto uno di questi che dal capo al piè della
giornata non aveva una sola cosa da fare, e lagnavasi della brevità del tempo, e
che il giorno non bastava alle sue occupazioni quotidiane; e perciò sopportava
di mala voglia qualunque straordinaria distrazione o altro, che gli occupasse
alcun poco di tempo. (11. Sett. 1823.)
[3430,2] Natura insegna il curare e onorare i cadaveri di
quelli che in vita ci furon cari o conoscenti per sangue o per circostanze ec. e
l'onorar quelli di chi fu in vita onorato ec. {Veggasi a questo
proposito la Parte primera de la Chronica del Peru di
Pedro de Cieça de Leon. en
Anvers 1554. 8.vo piccolo. cap. 53. fine. a
car. 146. p. 2. cap. 62. 63. 100. 101. principio.} Ma ella
non insegna di seppellirli nè di abbruciarli, nè di torceli in altro modo
davanti agli occhi. Anzi a questo la natura ripugna, perchè il separarci
perpetuamente da' cadaveri de' nostri è, naturalmente parlando, separazione più
dolorosa che la morte loro, la qual non facciam noi, ma questa è volontaria ed
opera nostra, e quella è quasi insensibile a chi si trova presente, e accade
bene spesso a poco a poco; questa è manifestissima e si fa in un punto. E
separarsi da' cadaveri tanto è quasi in natura quanto separarsi dalle persone di
chi essi furono, perchè degli uomini non si vede che il corpo, il quale, ancor
morto, rimane, ed è, naturalmente, tenuto per la persona stessa, benchè mutata
(piuttosto che in luogo di
3431 quella), e per tutto
ciò ch'avanza di lei. Ma d'altra parte il lasciare i cadaveri imputridire sopra
terra e nelle proprie abitazioni, volendoseli conservare dappresso e presenti, è
mortifero, e dannoso ai privati e alla repubblica. I poeti, oltre all'avere
insegnato che nella morte sopravvive una parte dell'uomo, anzi la principale e
quella che costituisce la persona, e che questa parte va in luogo a' vivi non
accessibile e a lei destinato, onde vennero a persuadere che i cadaveri de'
morti, non fossero i morti stessi, nè il solo nè il più che di loro avanzava;
oltre, dico, di questo, insegnarono che l'anime degl'insepolti erano in istato
di pena, non potendo niuno, mentre i loro corpi non fossero coperti di terra,
passare al luogo destinatogli nell'altro mondo. Così vennero a fare che il
seppellire i morti o le loro ceneri, e levarsegli dinanzi, fosse, com'era utile
e necessario ai vivi, così stimato utile e dovuto ai morti, e desiderato da
loro; che paresse opera d'amore verso i morti quello che per se sarebbe stato
segno di disamore, e opera d'egoismo; che l'amore
3432
così consigliato e persuaso imponesse quello ch'esso medesimo naturalmente
vietava; {+che venisse ad esser secondo
natura e suggerito dall'amor naturale, quello che per se aveva al tutto
dello snaturato;} e che fosse inumanità e spietatezza il trascurar
quello che senza ciò sarebbesi tenuto per inumano e spietato. Così gli antichi e
primi poeti e sapienti facevano servire l'immaginazione de' popoli, e le
invenzioni e favole proprie a' bisogni e comodi della società, conformando
quelle a questi, e si verifica il detto di Orazio nella poetica ch'essi furono gl'istitutori e i
fondatori del viver cittadinesco e sociale, onde Orfeo ed Anfione furono eziandio tenuti per fondatori di città. E così gli
antichi dirigevano la religione al ben pubblico e temporale, e secondo che
questo richiedeva la modellavano, e di questo facevano la ragione e il principio
e l'origine de' dogmi di essa: opponendola alla natura dove questa si opponeva
alle convenienze della vita sociale; e vincendo la natura fortissima,
coll'opinione ancor più forte, massime l'opinion religiosa. (15.
Settembre. 1823.). {+Chi
riguarda come legge naturale il seppellire o abbruciare ec. i cadaveri,
troverà forse in queste osservazioni di che mutar sentenza.}
[3432,1] Per molte cagioni, anche lievi, l'uomo si getta al
pericolo, anche della morte; di più sacrifica
3433
determinatamente se stesso, danari, robba, comodità, speranze ec. Ma ben pochi
si trovano che per cagioni anche gravi, anche per vive passioni, per amore
ardente ec. si sottopongano o sieno veramente capaci di sottoporsi a un dolore
corporale, anche non grande. S'incontra spesso e facilmente, a occhi veggenti e
volontariamente il pericolo della morte, e quegli stessi non son capaci
d'incontrar volontariamente e scientemente un dolor corporale certo. (15.
Sett. 1823.)
[3435,1] L'immaginazione e le grandi illusioni onde gli
antichi erano governati, e l'amor della gloria che in lor bolliva, li facea
sempre mirare alla posterità ed all'eternità, e {cercare} in ogni loro opera la perpetuità {+e proccurar sempre l'immortalità loro e delle opere
loro.} Volendo onorare un defonto[defunto] innalzavano un monumento che contrastasse coi secoli, e che
ancor dura forse, dopo migliaia d'anni. Noi spendiamo sovente nelle stesse
occasioni quasi altrettanto in un apparato funebre, che dopo il dì dell'esequie
si disfa, e non ne resta vestigio. La portentosa solidità delle antiche
fabbriche d'ogni genere, fabbriche che ancor vivono, mentre le nostre, {anche pubbliche,} non saranno certo vedute da posteri
molto lontani; le piramidi, gli obelischi, gli archi di trionfo,
3436 la profondissima impronta delle antiche {medaglie e} monete, che passate per tante mani, dopo
tante vicende, tanti secoli ec. ancor si veggono belle e fresche, e si leggono,
dove i coni delle nostre monete di cent'anni fa son già scancellati; tutte
queste e tant'altre simili cose sono opere, effetti, e segni delle antiche
illusioni e dell'antica forza e dominio d'immaginazione. Se fabbricavano per
fasto i monumenti del loro fasto dovevano durare in eterno, e il loro orgoglio
non si appagava dell'ammirazione di un secolo, ma tutti in perpetuo dovevano
esser testimoni della sua potenza e {contribuire a}
pascere la sua vanità: se per diletto, per bellezza, ornamento ec. tutto questo
s'aveva da propagare nel futuro in perpetuo; se per utile tutte le generazioni
avvenire avevano a partecipare di quella utilità; se il principe, se il comune,
se i privati, se per comodo, {per onore, per vantaggio}
particolare o pubblico; se in memoria di successi ricordevoli o privati o
pubblici; se in ricompensa di virtù, di belle azioni, di beneficii pubblici o
privati; se in onor privato o pubblico, di vivi o di morti; se in testimonianza
d'amore ec. ec. qualunque fine si proponessero, qualunque
3437 effetto dovesse seguitare a quell'opera, esso aveva ad essere
eterno, s'aveva a stendere in tutto l'avvenire, non aveva {a} cessar mai. Le grandi illusioni onde gli antichi erano animati non
permettevano loro di contentarsi di un effetto piccolo e passeggero, di
proccurare un effetto che avesse a durar poco, instabile, breve; di soddisfarsi
d'una idea ristretta a poco più che a quello ch'essi vedevano. L'immaginazione
spinge sempre verso quello che non cade sotto i sensi. Quindi verso il futuro e
la posterità, perocchè il presente è limitato e non può contentarla; è misero ed
arido, ed ella si pasce di speranza, e vive promettendo sempre a se stessa. Ma
il futuro per una immaginazione gagliardissima non debbe aver limiti; altrimenti
non la soddisfa. Dunque ella guarda e tira verso l'eternità.
[3440,1] Il giovane innanzi la propria esperienza, per
qualunque insegnamento udito o letto, di persone stimate da lui o no, amate o
disamate, credute o non credute, {ec.} non si
persuaderà mai efficacemente che il mondo non sia una bella cosa, nè deporrà il
desiderio e la speranza ch'egli ha della vita e degli uomini e de' piaceri
sociali, nè l'opinione favorevolissima, e nel fondo del cuore,
3441 fermissima, della possibilità, anzi probabilità di
esser felice pigliando parte alla vita, all'azione ec. Perchè? perchè
quest'opinione, desiderio, speranza, non è capriccio ma natura, nè si estirpa
dall'animo, come le opinioni o passioni accidentali, nè val tenerezza e
pieghevolezza e docilitate d'età nè d'indole a render queste cose estirpabili.
Altrimenti sarebbe estirpabile la natura stessa, la quale ha provvveduto di
speranza alla fanciullezza e alla gioventù, e agguagliato colla speranza il
desiderio di quelle età. (15. Sett. 1823.).
[3443,1]
Quante volte diss'io Allor pien di spavento, Costei per {fermo} nacque in paradiso.
*
Petr.
Canz. Chiare fresche e dolci acque.
Καὶ γελάϊς δ᾽ ἱμερόεν∙
τό μοι ᾽μὰν Καρδίαν ἐν στήϑεσιν ἐπτόασεν
*
Saffo ap. Longin. sezione
10. È proprio dell'impressione che fa la bellezza
3444 (e così la grazia e l'altre illecebre, ma la bellezza
massimamente, perch'ella non ha bisogno di tempo per fare impressione, e come la
causa esiste tutta in un tempo, così l'effetto {è}
istantaneo) è proprio, dico, della impressione che fa la bellezza su quelli
d'altro sesso che la veggono o l'ascoltano o l'avvicinano, lo spaventare; e
questo si è quasi il principale e il più sensibile effetto ch'ella produce a
prima giunta, o quello che più si distingue e si nota e risalta. E lo spavento
viene da questo, che allo spettatore o spettatrice, in quel momento, pare
impossibile di star mai più senza quel tale oggetto, e nel tempo stesso gli pare
impossibile di possederlo com'ei vorrebbe; perchè neppure il possedimento
carnale, che in quel punto non gli si offre affatto al pensiero, anzi questo n'è
propriamente alieno; ma neppur questo possedimento gli parrebbe poter soddisfare
e riempiere il desiderio ch'egli concepisce di quel tale oggetto; col quale ei
vorrebbe diventare una cosa stessa (come profondamente, benchè in modo
scherzevole osserva Aristofane nel Convito di Platone): ora ei non vede che questo possa mai
essere.
3445 La forza del desiderio ch'ei concepisce in
quel punto, l'atterrisce per ciò ch'ei si rappresenta {subito} tutte in un tratto, benchè confusamente, al pensiero le pene
che per questo desiderio dovrà soffrire; perocchè il desiderio è pena, e il
vivissimo e sommo desiderio, vivissima e somma, e il desiderio perpetuo e non
mai soddisfatto è pena perpetua. Ora a lui pare e che quel desiderio non sarà
mai soddisfatto (o non ne vede il come, e gli par cosa troppo ardua e difficile
e improbabile), e ch'esso non sarà mai per estinguersi da se medesimo, come
quando proviamo un dolor vivissimo, ci pare a prima giunta ch'ei sarà perpetuo,
e che ne sia impossibile la consolazione, e che niuna cosa mai lo consolerà.
Tutto questo accade principalmente (ed oggimai unicamente) ai giovani prima
d'entrar nel mondo, o sul loro primo ingresso (talvolta, e non di rado, ancora
ai fanciulli). I quali e son più suscettibili di vivezza d'impressione e di
vivezza di desiderio ec., e sono inesperti del quanto presto e facilmente
l'amore
3446 o si dilegui o si soddisfaccia, e del
come; e che al mondo non v'ha cosa veramente amabile; e di quanto sia facile
ottenere ogni cosa ch'ei brama da quegli oggetti ch'ei stima inaccessibili ec.
ec.
[3466,1]
Ces hommes qui existent
ainsi
*
(les Chartreux de Rome) sont pourtant les mêmes à qui la guerre et toute son
activité suffiraient à peine s'ils s'y étaient accoutumés. C'est un
sujet inépuisable de réflexion que
3467 les
différentes combinaisons de la destinée humaine sur la terre. Il se
passe dans l'intérieur de l'ame mille accidents, il se forme mille
habitudes qui font de chaque individu un monde et son histoire.
Connaître un autre parfaitement serait l'étude d'une vie entière;
qu'est-ce donc qu'on entend par connaître les hommes? les gouverner,
cela se peut, mais les comprendre, Dieu seul le fait.
*
Corinne, livre 10. Chap. 1. t. 2. p.
114. Ciò vuol dire che l'uomo è sommamente e infinitamente o
indeterminatamente conformabile, e non è possibile conoscer mai tutti i modi e
tutte le differenze in cui lo spirito degl'individui, secondo la diversità delle
circostanze (ch'è infinita o indeterminabile), si conforma o si può conformare;
per la stessa ragione per cui non si possono conoscere tutte le circostanze
possibili ad aver luogo, che possono influire sullo spirito degl'individui, nè
tutte quelle che hanno effettivamente influito su tale o tale individuo
determinato, nè le loro combinazioni scambievoli, nè le loro minute diversità
che producono non piccole differenze di carattere ec.
3468 La maggior cognizione adunque che si possa avere dell'uomo è
quella di sapere perfettamente e ragionatamente che gli uomini non si possono
mai ben conoscere, perchè l'uomo è indefinitamente variabile negl'individui, e
l'individuo stesso per se. E il più certo segno di tal cognizione si è quello di
non maravigliarsi mai un punto, e di esser bene e ragionatamente e veramente
disposto a non maravigliarsi di qualunque strana {e inaudita
e nuova} indole, carattere, qualità, facoltà, azione di qualunque
individuo umano noto o ignoto ci possa venire agli orecchi o agli occhi, ci
accada o possa accader d'intendere o di vedere, {+in bene o in male.} Chi è veramente giunto a
questa disposizione, e l'ha in se ben perfetta, radicata e costante, ed
efficace, può dire di conoscer l'uomo il più ch'è possibile all'uomo.
È[E] più infatti non può se non Dio, come
ben dice la Staël, perchè Dio solo può
conoscere e conosce tutti i possibili. Or gli uomini non si possono
perfettamente {conoscere,} chi non conosca poco men che
tutti i possibili, dico, i possibili di questa natura e di questa terra.
(19. Sett. 1823.).
[3480,1] Io notava un vecchio ributtantemente egoista,
compiacersi di parlare di certi suoi piccolissimi sacrifizi e sofferenze
volontarie (vere o false ch'elle fossero, e volontarie veramente o no), e farlo
con una certa quasi verecondia, che ben dimostrava, massime a chi conoscesse il
carattere della persona, lui essere persuaso di fare e sostener cose eroiche, e
che quei sacrifizi e patimenti dimostrassero in lui una gran superiorità
d'animo, e rinunzia di se stesso e del suo amor proprio. Egli aveva ben caro che
così paresse agli
3481 altri, e a questo fine ne
parlava, ma dava bene ad intendere che tale si era infatti la sua propria
opinione. Tanto poteva in un animo il più radicato nel più schietto e completo
egoismo, intollerante d'ogni menomo incomodo, e capace di sacrificar chi e che
che sia ad una sua menoma comodità; tanto poteva, dico, in un animo qual esso
era infatti, e di più totalmente inerte, solitario, e segregato affatto dalla
società, il desiderio di parere sì agli occhi altrui, sì ancora a' suoi propri,
capace di grandi sacrifizi, superiore all'amor proprio, il contrario di egoista,
ed insomma eroe. E tanto è vero che non si trova quasi uomo così impudentemente
e perfettamente egoista nel fatto, che non desideri grandemente di comparire
almeno a se stesso, e non si persuada effettivamente, e non si compiaccia
sommamente dell'opinione di essere un eroe. Perocchè a tutti è grato il fare
stima di se, e si può esser certi che tutti, o in un modo o nell'altro, si
stimano, e grandemente, e così continuamente come e' si amano, che vuol dir
tuttafiata, senza intervallo alcuno,
3482 benchè la
stima di se stesso (come anche l'amore, secondo che altrove s'è dimostrato pp. 2488-92 ) abbia in un
medesimo individuo ora il più ora il manco, secondo diverse circostanze e
cagioni. Del resto puoi vedere la {pag. {124}.}
3108-9. e pp. 3167-9.
{+Questo che io dico dei vecchi {egoisti} si può applicare ai fanciulli, egoisti
estremi, ignari ancora dell'eroismo, perchè niuno gliene ha parlato, e
nondimeno vaghi di molte piccole glorie, come di star male o di farlo
credere, perchè si parli di loro nella famiglia, e per aver qualche
somiglianza cogli adulti, alla quale aspirano generalmente e continuamente
in mille cose, solo per vanità o vogliamo dire ambizione ec. V. l'Alfieri di sè che facea gli esercizi militari da
piccolo.}
(20. Sett. vigilia della Festa di Maria Santissima Addolorata. 1823.).
[3488,2] Molti sono timidi i quali sono insieme
coraggiosissimi. Voglio dire che molti si perdono d'animo nella società, i quali
nè fuggono nè temono ed anche volontariamente incontrano i pericoli
3489
{e i danni e le fatiche e le sofferenze ec.;} e non
sostengono gli sguardi o le parole amichevoli o indifferenti di tali di cui
sosterrebbero facilissimamente l'aspetto minaccioso e l'armi nemiche in
battaglia o in duello. La timidità spetta per così dire ai mali dell'animo, il
coraggio a quelli del corpo. L'una teme de' danni e delle pene interne, l'altro
brava i danni e le sofferenze esteriori. L'una s'aggira intorno allo spirituale,
l'altro al materiale. E tanto è lungi che la timidità escluda il coraggio, che
anzi ella piuttosto lo favorisce, e da essa si può dedurre {con verisimiglianza} che l'uomo che n'è affetto sia coraggioso.
Perocchè la timidità è abito di temer la vergogna, la quale assai facilmente e
spesso incontra chi teme e fugge i pericoli. Onde il temer la vergogna, ch'è
male, per così dire, interno e dell'animo, giacchè nulla nuoce al corpo nè alle
cose esteriori, ed opera sul pensiero solo, ed ai sensi non dà noia; fa che
l'uomo non tema i danni esteriori, e non fugga e, bisognando, affronti il
pericolo {+ed eziandio la certezza}
di soffrirli, preponendo i mali o i pericoli esterni e materiali agl'interni e
spirituali,
3490 e l'anima, per così dire, al corpo; e
volendo innanzi soffrire ne' sensi, nella roba ec. che nello spirito, e morire
piuttosto che patir la {pena della} vergogna. Chè {in} questo e non altro consiste quel coraggio che viene
da sentimento di onore, e gli effetti del medesimo. Il qual coraggio ha origine
e fondamento, anzi è esso stesso una spezie di timidità, o certo {una spezie} di qualità contraria alla sfrontatezza,
all'impudenza, all'inverecondia. (21. Sett. Festa della Beatissima Vergine
Addolorata. 1823.). {{V. la pag. seg. [p.
3491,3].}}
[3497,1] Le speranze che dà all'uomo il Cristianesimo sono
pur troppo poco atte a consolare l'infelice e il travagliato in questo mondo, a
dar riposo all'animo di chi si trova impediti quaggiù i suoi desiderii,
ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l'adito ai
piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla
fortuna. La {promessa e l'aspettativa}
{di} una felicità grandissima e somma ed intiera bensì,
ma 1.o che l'uomo non può comprendere nè immaginare nè pur concepire o
congetturare in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione, 2.o
ch'egli sa bene di non poter mai nè concepire nè immaginare nè averne veruna
idea finchè gli durerà questa vita, 3.o ch'egli sa espressamente esser di natura
affatto diversa ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da quella
che quaggiù gli è negata, da quella il cui desiderio e la cui privazione forma
il soggetto e la causa della sua infelicità; una tal promessa, dico, e una tale
3498 espettativa è ben poco atta a consolare in
questa vita l'infelice e lo sfortunato, a placare {e
sospendere} i suoi desiderii, a compensare quaggiù le sue privazioni.
La felicità che l'uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una
felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo
tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di
questa vita e di questa esistenza, non di un'altra vita e di una esistenza che
noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo
concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la perfezione e il fine
dell'esistenza. Noi desideriamo di esser felici perocchè esistiamo. Così
chiunque vive. È chiaro adunque che noi desideriamo di esser felici, non
comunque si voglia, ma felici secondo il modo nel quale infatti esistiamo. {#1. L'uomo non desidera la felicità
assolutamente, ma la felicità umana (così gli altri animali), nè la felicità
qualch'ella sia, ma una tale, benchè non definibile, felicità. Ei la
desidera somma e infinita, ma nel suo genere, non infinita in questo senso
ch'ella comprenda la felicità del bue, della pianta, dell'Angelo e tutti i
generi di felicità ad uno ad uno. Infinita è realmente la sola felicità di
Dio. Quanto all'infinità, l'uomo desidera una felicità come la divina, ma
quanto all'altre qualità ed al genere di essa felicità, l'uomo non potrebbe
già veramente desiderare la felicità di Dio. L'uomo che invidia al suo
simile un vestito, una vivanda, un palagio, non è propriamente mai tocco nè
da invidia nè da desiderio dell'immensa e piena felicità di Dio, se non solo
in quanto immensa, e più in quanto piena e perfetta. Veggasi la p. 3509. massime in
margine.} È chiaro che la nostra esistenza desidera la
perfezione e il fin suo, non già di un'altra esistenza, e questa a lei
inconcepibile. La nostra esistenza desidera dunque la sua propria felicità; chè
desiderando quella di un'altra esistenza, ancorch'ella in questa s'avesse poi a
tramutare, desidererebbe, si può dire, una felicità non propria ma altrui,
3499 ed avrebbe per ultimo e vero fine non se stessa,
ma altrui, il che è essenzialmente impossibile a qualsivoglia Essere in
qualsivoglia operazione o inclinazione o pensiero ec. Laonde la felicità che
l'uomo desidera è necessariamente una felicità conveniente e propria al suo
presente modo di esistere, e della quale sia capace la sua presente esistenza.
Nè egli può mai lasciare di desiderar questa felicità per niuna ragione, nè per
niuna ragione può mai desiderare altra felicità che questa. E non è più
possibile che l'uomo mortale desideri veramente la felicità de' Beati, di quello
che il cavallo la felicità dell'uomo, o la pianta quella dell'animale; di quel
che l'animale erbivoro invidii al carnivoro o la sua natura, o la carne di cui
lo vegga cibarsi, all'uomo il piacere degli studi e delle cognizioni, piacere
che l'animale non può concepire nè che possa esser piacere, nè come, nè qual
piacere sia; e così discorrendo. E ben vero che nè l'uomo, nè forse l'animale nè
verun altro essere, può esattamente definire {+nè a se stesso nè agli altri,} qual sia
assolutamente e in generale la felicità ch'ei desidera; perocchè
3500 niuno forse l'ha mai provata, nè proveralla, e
perchè infiniti altri nostri concetti, ancorchè ordinarissimi e giornalieri,
sono per noi indefinibili. Massime quelli che tengono più della sensazione che
dell'idea; che nascono più dall'inclinazione e dall'appetito, che
dall'intelletto, dalla ragione, dalla scienza; che sono più materiali che
spirituali. Le idee sono per lo più definibili, ma i sentimenti quasi mai;
quelle si possono bene e chiaramente e distintamente comprendere ed abbracciare
e precisar col pensiero, questi assai di rado o non mai. Ma ciò non ostante, sì
l'animale che l'uomo sa bene e comprende, o certo sente, che la felicità ch'ei
desidera è cosa terrena. Quell'infinito medesimo a cui tende il nostro spirito
(e in qual modo e perchè, s'è dichiarato altrove pp. 165. sgg.
pp.
179-81
pp.
3027-29), quel medesimo è un infinito terreno, bench'ei non possa aver
luogo quaggiù, altro che confusamente nell'immaginazione e nel pensiero, o nel
semplice desiderio ed appetito de' viventi. Oltre di ciò niuno è che viva
senz'alcun desiderio determinato e chiaro e definibilissimo, negativo o
positivo, nel conseguimento
3501 del quale o di più
d'uno di loro, ei ripone sempre o espressamente o confusamente, benchè pur
sempre per errore, la sua felicità e 'l suo ben essere. Quel trovarsi senz'alcun
desiderio al mondo, se non quello di un non so che, {#1. quell'essere infelice senza mancare di niun bene nè
patire assolutamente niun male,} è impossibile; e se Augusto diceva d'essere in questo caso,
poteva parergli che così fosse, ma s'ingannava; e niuno mai si trovò veramente
in tal caso nè è per trovarvisi, perchè a niuno mai mancò nè è per mancar
materia di qualche desiderio determinato, più o men vivo, o ch'esso miri a cosa
che ci manchi, o a cosa che noi abbiamo e ci dispiaccia. {#2. Anzi a nessuno è per mancar mai materia di molti e
vivi desiderii determinati di questa specie.} Or tutti questi
desiderii determinati che noi abbiamo, ed avremo sempre, e che non soddisfatti,
ci fanno infelici, sono tutti di cose terrene. Promettere all'uomo, promettere
all'infelice una felicità celeste, benchè intera e infinita, {e superiore senza paragone alla terrena, e a' piccoli beni ch'egli
desidera,} si è come a un che si muor di fame e non può ottenere un
tozzo di pane, preparargli un letto morbidissimo, o promettergli degli
squisitissimi e beatissimi odori. Con questo divario che l'affamato concepirebbe
pure il piacer che fosse per provare il suo odorato da quella sensazione,
3502 e questo piacere sarebbe della medesima natura di
quello ch'ei desidera e non ottiene, cioè materiale e sensibile come l'altro.
Non così possiamo dire de' piaceri celesti promessi a chi desidera e non ottiene
i terreni, nel qual caso l'uomo si trova naturalmente e necessariamente sempre,
e l'infelice massimamente, benchè tutti a rigore sono infelici, e lo sono perchè
tutti e sempre si trovano nel detto caso. Ora i piaceri celesti, al contrario di
ciò che s'è detto qui sopra, son di natura affatto diversi da quelli che noi
desideriamo e non ottenghiamo, e non ottenendo siamo infelici; e questa lor
natura non può da noi per verun modo mai essere conceputa. Onde segue che la
consolazione che può derivare dallo sperarli, sia nulla in effetto; perchè a chi
desidera una cosa si promette un'altra ch'è diversissima da quella; a chi è
misero per un desiderio non soddisfatto, si promette di soddisfare un desiderio
ch'ei non ha e non può per sua natura avere nè formare; a chi brama un piacer
noto, e si duole di un male noto, si promette un piacere e un bene ch'ei non
conosce nè può conoscere, {e} ch'ei non vede nè può
vedere come sia per esser bene, {e} come possa
piacergli;
3503 a chi è misero in questa vita, e
desidera necessariamente la felicità di questa esistenza, ed altra esistenza non
può concepire nè desiderarne la felicità, si promette la beatitudine di una
tutt'altra esistenza e vita, di cui questo solo gli si dice, ch'ella è
sommamente e totalmente e più ch'ei non può immaginare diversa dalla sua
presente, e ch'ei non può figurarsi per niun conto qual ella sia. Come l'uomo
non può nè collo intelletto nè colla immaginazione nè con veruna facoltà nè
veruna sorta d'idee oltrepassare d'un sol punto la materia, e s'egli crede
oltrepassarla, e concepire o avere un'idea qualunque di cosa non materiale,
s'inganna del tutto; così egli non può col desiderio passare d'un sol punto i
limiti della materia, nè desiderar bene alcuno che non sia di questa vita e di
questa sorta di esistenza ch'ei prova; e s'ei crede desiderar cosa d'altra
natura, s'inganna, e non la desidera, ma gli pare di desiderarla. Come dunque ei
non può desiderar bene alcuno d'altra natura, così la promessa e la speranza di
tali beni, non può per modo alcuno
3504 consolarlo
realmente nè de' mali di questa vita nè della mancanza de' di lei beni, {+nè (quando e' non fosse infelice)
rallegrarlo e dilettarlo e compiacerlo colla dolcezza dell'aspettativa, e
intrattenerlo e contribuire quaggiù al suo contento.} Di più, l'uomo
si pasce per verità e si sostiene e vive grandissima parte della sua vita, anzi
pur tutta la vita sua, della speranza, ancorchè lontana, la qual è un piacere,
ma come e perchè? Perchè l'uomo va immaginando e contemplando seco stesso {a parte} a parte il godimento ch'egli attende o spera, e
prova diletto nel considerare e rappresentarsi il modo in che egli ne godrà,
{+e le sue qualità e condizioni e
circostanze,} anticipando ed {anzi}
assaporando {effettivamente} colla immaginazione mille
volte il piacer futuro. Ma questa contemplazione, questa rappresentazione,
quest'anticipazione, questo gusto o assaggio, questo deliro o sogno che ci fa
parere e ci rende infatti presente il piacer futuro, ancor più ch'ei nol sarà
quando si troverà presente in effetto (se egli si troverà mai presente), come
può aver luogo intorno a un piacere assolutamente inconcepibile, non solo nel
più e nel meno, o nella specie, ma nel genere, di modo che le nostre idee non
hanno alcun potere di abbracciarne o di avvicinarne nè pure una menoma parte?
Come ci può per verun deliro {o veruno sforzo}
dell'immaginazione {o dell'intelletto} parer presente
3505 quello a cui nè l'immaginazione nè
l'intelletto non si possono {neppure} a grandissimo
tratto avvicinare; quello che non è fatto nè per questa immaginazione nè per
questo intelletto; quello ch'è di natura affatto diversa da ciò che
l'immaginazione o l'intelletto può concepire o congetturare; quello che non
sarebbe ciò ch'egli è, s'a noi fosse possibile pure il congetturarlo; quello che
spetta a tutt'altra natura che la nostra presente? Come può per alcun modo o in
alcuna parte entrar nella mente nostra {una tutt'}altra
natura?
[3509,1] Niente d'assoluto. - Veggasi il pensiero antecedente, {#1. in particolare p. 3498-9. margine.} nel quale si dimostra che {nè} l'uomo nè alcun vivente non desidera neppur la
felicità assolutamente, ma relativamente, e solo s'ella conviene alla di lui
propria natura, ed è richiesta dal di lui modo {particolare} di essere ec. e in quanto ella sia tale. ec. Nè perchè
una cosa sia felicità, per questo solo ei la desidera, nè si compiace nello
sperarla, quando ella non convenga al suo modo di essere ec. - {Si può però dire per un lato, che l'uomo
desidera la felicità assolutamente. Veggasi la p. 3506. Ei non desidera tale o tale felicità,
s'a lui non conviene: e dovendo desiderare una tale felicità, ei non può desiderar se non la
conforme e propria al suo modo di essere. Ma la felicità assolutamente e
indeterminatamente considerata, e s'ei così la considera, ei non può non
bramarla, cioè in quanto felicità semplicemente.} Di qual cosa par che
si possa ragionare più assolutamente che della lunghezza o estensione di una
data porzione di tempo? la quale si misura {esattamente} coll'oriuolo, e si divide
3510
perfettamente in parti anche minutissime, non col pensiero solo, ma con
gl'istrumenti da ciò, e come fosse quasi materia, e queste parti si annoverano e
si raccolgono, e il loro numero si conosce colla certezza che dà l'aritmetica.
Ora egli è certissimo che la lunghezza di una medesima quantità di tempo ad
altri è {veramente} maggiore ad altri minore, e ad un
medesimo individuo può essere, ed è, quando maggiore quando minore. Onde può
dirsi con verità che una medesima data porzione di tempo or dura più or meno ad
un medesimo individuo, ed a chi più a chi meno. Lasciamo stare che il tempo
disoccupato, annoiato, {incomodato,} addolorato e
simili, riesce e si sente esser più lungo che quel medesimo o altrettanto spazio
di tempo, occupato, dilettevole, passato in distrazione e simili; {#1. Nella rimembranza è molte volte il
contrario, che più corto pare il tempo passato senza occupazione e uniformemente, perchè allora nella
memoria l'una ora l'un dì si confonde e quasi sovrappone coll'altro, in modo
che molti paiono un solo, non avendovi differenza tra loro, nè moltitudine
di azioni o passioni che si possa numerare, l'idea della qual moltitudine si
è quella che produce l'idea della lunghezza del tempo, massime passato ec.
Ma di questo pensiero {+altrove s'è
scritto}
pp.368-69} e ciò ad un medesimo individuo, o a diversi
individui d'una sola specie in un tempo medesimo, o in tempi di
versi[diversi.] Lasciando questo, si osservi che
agli animali i quali vivono meno dell'uomo per lor natura, a quelli che vivono
al più trent'anni, venti, dieci, cinqu'anni,
3511 un
anno solo, alcuni mesi, un solo mese, alcuni giorni soltanto (chè egli v'ha
{effettivamente} animali {{che
rispondano}} a tutte queste differenze di durata, e a cento e
mill'altre intermedie); a questi animali, dico, una data porzione di tempo è
veramente più lunga e dura più che all'uomo, e tanto più quanto la lor vita
naturale è più corta; e l'idea che ciascun d'essi si forma ed acquista
naturalmente della durata {e quantità} di una tal
porzione qualunque di tempo, è assolutamente maggiore di quella che l'uomo
concepisce; {{e maggiore}} in ragione esattamente
inversa della lunghezza ordinaria del viver loro. E s'egli è vero {+come dicono,}
che nel fiume Apanis nella Scizia vi abbia
degli animaletti, tra i quali, quei, i quali essendo nati il
mattino, muojono la sera, sono i più vecchi, e muojono carichi di
figli, di nipoti, di pronipoti, e di anni, a lor modo
*
(Genovesi, Meditazioni filosofiche sulla Religione e sulla
Morale. Meditaz. 1. Piacere dell'esistenza. § o articolo 12.
Bassano, Remondini 1783. p. 26. Vedilo dall'articolo 11. al fine della
Meditazione);
3512 se questo, dico, è vero
(che ben può essere, {#1. Se non è, può
essere, e al nostro caso tanto è il poter essere quanto l'essere in fatto.
Immaginiamo, se non è, che sia, e come di un'ipotesi discorriamo di quello
che necessariamente seguirebbe se così fosse. Essendo l'ipotesi
possibilissima e similissima al vero, l'argomento avrà la medesima forza, e
tanto nel caso presente varrà e proverà l'immaginazione e la supposizione,
quanto la verità, tanto il supposto e l'immaginato quanto il vero ed
effettivo.} e se non d'essi animaletti, d'altri, visibili o
invisibili; e se no, discorrasi proporzionatamente di quelli che, come di certo
si sa, vivono pochissimi giorni), egli è certissimo che l'idea che questi
animali si formano e naturalmente acquistano della durata e quantità p. e. di
una mezz'ora di tempo, è tanto maggiore della nostra idea, che noi non possiamo
pur concepire il quanto. E veramente una mezz'ora dùra per essi indefinibilmente
più che per noi, stante la rapidità delle loro azioni, {sensazioni,} passioni ed eventi; il velocissimo succedersi di questi,
gli uni agli altri; la inconcepibile prontezza del loro sviluppo; la rapidità,
per così dire, della lor vita ed esistenza; e stante ch'essi in una mezz'ora, in
un minuto, vivono ed esistono, si può ben dire, assai più che noi nè gli altri
più macrobii animali, in quel medesimo spazio, non
fanno; e la loro esistenza in un minuto è veramente di quantità e d'intensità
ec. maggiore che la nostra non è, in altrettanto spazio, e che noi non possiamo
pure immaginare. In contrario senso ragionisi dell'idea che dovettero aver gli
uomini naturalmente della durata e quantità di una data porzione di tempo,
quando la
3513 la lor vita naturale era
strabocchevolmente più lunga della presente; e proporzionatamente dell'idea che
debbono averne le nazioni (se ve n'ha) che vivono ordinariamente più di noi
(siccome v'ha certo di quelle che vivono meno, e prestissimo giungono alla
maturità, e ciò ne' climi caldi, come nell'America meridionale, ove le donne si maritano di 10 o 12 anni, e tra gli
orientali ec. {V. p.
3898.} e vedi a questo proposito l'Indica di Arriano, c. 9. sect. 1-8. e
Plinio se ha nulla ec.); e dell'idea che n'hanno gli
animali più longevi dell'uomo, come l'elefante, il cervo, la cornice, la
tartaruga, alla quale pigrissima e tardissima nelle sue operazioni, la natura
diede, non lunghissima vita, ma moltissimi anni. E dico, non lunghissima vita,
perch'ella stante la tardità de' suoi movimenti ed azioni, alla quale
corrisponde quella del suo incremento e sviluppo naturale ec. e di tutta la sua
natura, vive ed esiste in un dato spazio di tempo assai meno che l'uomo in
altrettanto spazio non fa. E così proporzionatamente gli altri animali più
longevi di noi. E dalle suddette osservazioni si raccoglie che la somma {e quantità} della vita, e però la
3514 durata e lunghezza della medesima, è generalmente e appresso a
poco altrettanta in effetto negli animali ed esseri brachibiotati, che ne' macrobiotati e
negl'intermedii, e niente {minore,} e così viceversa.
Onde la durata di un medesimo spazio di tempo è naturalmente e generalmente
{e costantemente}
{+salve le varie circostanze della vita
di una stessa specie e individuo, accennate di sopra, come la noia, il
piacere ec. che variano l'idea e 'l sentimento della durata ec. sempre però
dentro i limiti e la proporzione e in rispetto dell'idea d'essa durata,
propria particolarmente della specie per sua natura ec.} per gli uni
maggiore per gli altri minore ec. e non si può determinare ec. nè giudicarne
assolutamente come noi facciamo ec. (24. Sett. 1823.).
[3517,1]
3517
Alla p. 3412.
fine. Altrettanto però è certo che una società capace di repubblica
durevole, non può essere che leggermente o mezzanamente corrotta; che una
società pienamente corrotta (come la moderna) non è assolutamente capace d'altro
stato durevole che del monarchico quasi assoluto; e che il non essere
assolutamente capace se non di assoluta monarchia, e l'essere incapace di
durevole stato franco, è certo segno di società pienamente corrotta. Così,
apparentemente, si ravvicinano i due estremi, di società primitiva, di cui non è
proprio altro stato che la monarchia; e di società totalmente guasta, di cui non
è propria che l'assoluta monarchia. Colla differenza che questa società non è
onninamente capace di altro stato durevole, quella sì; e che in questa non può
durar che una monarchia assoluta cioè dispotica, in quella una tal monarchia non
poteva assolutamente durare; ma l'era propria una monarchia piena bensì ed
intera, ma non assoluta nè dispotica; una monarchia dove il re era padron di
tutto, e il suddito niente manco libero. Del resto s'egli è
3518 proprio carattere sì della società primitiva come della più
corrotta l'essere ambedue per natura monarchiche di governo, non è questo il
solo capo in cui si veda che le cose umane ritornano dopo lungo circuito e dopo
diversissimo errore ai loro principii, e giunte (come or pare che siano) al
termine di lor carriera, o tanto più quanto a questo termine più s'avvicinano,
si trovano di nuovo in gran parte cogli effetti medesimi, e nel medesimo luogo,
stato ed essere che nel cominciar d'essa carriera. Bensì per cagioni ben diverse
e contrarie a quelle d'allora: onde questi effetti e questo stato sono ben
peggiori ritornando, che allora non furono; e se e dove furon buoni {e convenienti all'umana società ed alla felicità
sociale} nel principio, son pessimi nel ritorno e nel fine {ec.}
(25. Sett. 1823.).
[3520,1] Tre stati e condizioni della vecchiezza rispetto
alla giovanezza ed alle altre età. {+Puoi vedere la p. 3846.}1.o
Quando il genere umano era appresso a poco incorrotto, o certo proclive ed
abituato generalmente alla virtù, e quando l'esperienza insegnava all'individuo
le cose utili {a se ed agli altri,} senza disingannarlo
delle oneste, e delle inclinazioni virtuose, nobili, magnanime
3521 ec.; nè gli dimostrava la perversità degli uomini,
che ancora non erano perversi, nè lo disgustava e faceva pentire della virtù,
che ancor non era, se non altro, dannosa, e ch'egli per naturale istituto aveva
intrapreso fin da principio di seguire, e seguiva; allora i vecchi, come più
ricchi d'esperienza e più saggi, erano più venerabili e venerati, più stimabili
e stimati, ed anche in molte parti più utili a' loro simili {e compagni} ed al corpo della società, che non i giovani e quelli
dell'altre età. 2. Cominciata a corrompere la società umana e giunta la
corruzione al mezzo, o più oltre, l'esperienza dovette fare tutto il contrario
delle cose dette di sopra, e distruggendo le buone disposizioni naturali, e le
qualità contratte ne' primi anni, render l'individuo tanto peggiore di
carattere, d'animo, di costumi, di qualità, di azioni o di desiderii, quanto più
egli avesse sperimentato. Allora dunque i vecchi furono (nella gran società)
molto meno stimabili e stimati, quanto alla virtù ed all'onestà, che i giovani
{ec.}; molto più tristi, svergognati,
3522 finti, coperti, furbi, traditori, malvagi insomma,
{alieni dal ben fare,} e dannosi, o inclinati a far
danno, a' compagni e alla società. Laddove quei dell'altre età, e massime i
giovani, furono molto più degni di stima e molto più utili o men dannosi, perchè
meno corrotti; più buoni perchè più naturali; più proprii a ben fare, più
misericordiosi, più benefici, perchè men freddi, più generosi per natura
dell'età, men guasti dall'esempio {e dalle cattive
massime,} o non ancor guasti ec. 3. Passata che fu la corruzione
sociale di gran lunga oltre il mezzo, e giunta, si può dire, al suo colmo, nel
quale oggidì si trova e riposa, ed è, a quel che sembra per riposar lungamente o
in perpetuo; non fu e non è bisogno di molta nè lunga esperienza nè d'assai mali
esempi per corrompere negl'individui la sempre buona natura ed indole primitiva;
nascono, si può dir, gli uomini già corrotti; il primitivo, e seco la virtù ed
ogni sorta di bontà effettiva, è sparito quasi onninamente dal mondo; il
giovane, anzi pure il fanciullo, in brevissimo tratto è maturo e vecchio di
malizia,
3523 di frode, di malvagità, e conosce il
mondo assai più che i vecchi stessi per lo passato non facevano ec. Quindi per
ben contrarie cagioni {+e con ben
contrari effetti veggasi la (p.
3517-8.)} son tornate le cose appresso a poco nel loro stato
primiero. I giovani massimamente, sono ben più odiosi e dannosi de' vecchi,
perchè in essi alla disposizione intera e alla decisa volontà di mal fare si
aggiunge il potere e la facoltà; e l'ardor giovanile, e la forza e l'impeto e il
fiore delle passioni, che un dì conduceva gli uomini al bene, ora conducendogli
dirittamente e pienamente e decisamente al male, rende gl'individui tanto più
{cattivi,} perniciosi ed odiabili, quanto esso
ardore è più grande. Laddove i vecchi sono, non dirò già più stimabili nè
venerabili, ma più tollerabili e meno da essere odiati e fuggiti che quelli
dell'altre età, siccome meno potenti di mal fare, benchè a ciò solo inclinati; e
siccome anche meno desiderosi di nuocere e di far bene a se e male altrui,
perchè più freddi, e di più sedate passioni, e dalla lunga esperienza più
disingannati
3524 de' piaceri e de' vantaggi di questa
vita, e fatti meno avidi, e di desiderii men vivi: essendo la freddezza e
l'esperienza che un dì furon cagione d'ogni male e malvagità, divenute oggi
cagione, non già di bene nè di bontà, ma di minor male e cattiveria, che non il
calor naturale e l'inesperienza che già furon cagioni principali di bontà, ed or
sono cagioni di maggiore ribalderia. Da principio dunque fu la vecchiezza {rispetto} alla gioventù (e proporzionatamente all'altre
età), come il meglio al bene; poscia come il cattivo al buono; in ultimo è (e
probabilmente sarà sempre) come il manco male al male, o come il cattivo al
pessimo.
[3526,1] Sopravvenendo il pericolo, ridere, diventare allegro
fuor dell'uso, o più che il momento prima non si era, o di malinconico farsi
giulivo; divenir loquace essendo taciturno {di natura,}
o rompere il silenzio fino allora per qualunque ragione tenuto; scherzare,
saltare, cantare, e simili cose, non sono già segni di coraggio, come si
stimano, ma per lo contrario son segni di timore. Perciocchè dimostrano che
l'uomo ha bisogno di distrarsi dall'idea del pericolo, e particolarmente di
scacciarla col darsi ad intendere ch'e' non sia pericolo, o non sia grave. E
questo è ciò
3527 che l'uomo proccura di fare dando
segni straordinarii d'allegrezza in tali occasioni; ingannar se stesso
dimostrandosi di non aver nulla a temere, perocch'ei fa cose contrarie a quelle
che il timore propriamente e immediatamente {suol}
cagionare. Affine di non temere, l'uomo proccura di persuadersi ch'ei non teme,
ond'ei possa dedurre che non v'è ragion sufficiente o necessaria di timore. Egli
è un effetto molto ordinario di questa passione il muover l'uomo a cose
contrarie a quelle {a} che immediatamente ella il
moverebbe, ma e quelle e queste sono ugualmente effetti di vero timore. E quelle
sono in gran parte, o sotto un certo aspetto, finte; queste veraci. Il timore
muove l'uomo a far quasi una pantomima appresso se stesso. Per questo nelle
solitudini e fra le tenebre e in luoghi, cammini, occasioni pericolose o che
tali paiono, è uso naturale dell'uomo il cantare, non tanto ad effetto di
figurarsi e fingersi una compagnia, o di farsi compagnia (come si dice) da se
stesso; quanto perchè il cantare par proprio onninamente di chi non teme:
appunto perciò chi teme, canta. (Vedi a tal
3528
proposito un luogo molto opportuno del
Magalotti segnato da me nelle
prime carte di questi pensieri, sul principio, se non erro, del 1819.
p.
43). Dai medesimi principii (più che dal bisogno di distrazione) nasce
che in un pericolo comune o creduto tale, e vero o immaginario assolutamente,
piace, conforta, rallegra l'udire il canto degli altri, il vedergli intenti alle
lor solite operazioni, l'accorgersi o il credere ch'essi o non istimino che vi
sia pericolo, o nulla per sua cagione tralascino o mutino del loro ordinario, e
di quello che infino allora facevano o che, senza il pericolo, avrebbero fatto;
o che non lo temano, e sieno intrepidi ec. Il coraggio veduto o creduto negli
altri, o l'opinione che non vi sia pericolo, veduta o creduta in essi,
incoraggisce l'individuo che teme. Nello stesso modo il mostrar di non temere a
se stesso è un farsi coraggio, o col persuadersi che non vi sia pericolo, o col
dare a se stesso in se stesso un esempio di coraggio e di non temere questo
pericolo, ancorchè vi sia. Or chi ha bisogno che gli sia fatto coraggio e di
aver nello stesso pericolo esempi di coraggio, e altrimenti teme, non
3529 è certamente coraggioso, o in tale occasione non
ha coraggio. E chi ha bisogno per non temere, di credere che non vi sia
pericolo, cioè ragion di temere, o di sminuirsi l'opinion del pericolo, {e} di credere che questo pericolo, questa ragione sia
piccola, o minore e più leggera ch'ella non è, ed altrimenti teme; non è
coraggioso, perchè niun teme quello ch'ei non crede da temersi, e niun teme
fuori dell'opinion del pericolo, vera o falsa, o ancor menoma ch'ella sia, {+o non ragionata, ma quasi istinto e
passione} (come quella di cui vedi la p. 3518-20. e massime 3519. marg.)
[3545,1] Il più deciso effetto, e quasi la somma degli
effetti che produce in un uomo di raro ed elevato spirito la cognizione e
l'esperienza degli uomini, si è il renderlo indulgentissimo verso qualunque
maggiore e più {eccessiva} debolezza, piccolezza,
sciocchezza, ignoranza, stoltezza, malvagità, vizio e difetto altrui, naturale o
acquisito; laddove egli era verso queste cose severissimo prima di tal
cognizione; e il renderlo facilissimo ad apprezzare e lodare le menome virtù e i
piccolissimi pregi, che innanzi alla detta esperienza ei soleva dispregiare, non
curare, stimare indegni di lode, e quasi confondere o non distinguere dalle
3546 imperfezioni; insomma il renderlo facilissimo e
solito a stimare, e difficilissimo, insolito, anzi quasi dimentico del
dispregiare e del non curare, tutto all'opposto di quel ch'egli era per lo
innanzi. Tanto poco vagliono gli uomini. E da ciò si può dedurre e far {esatto} giudizio quanto sia il valor vero e la virtù
vera degli uomini. (28. Sett. 1823.). {{v. p.
3720.}}
[3546,1] In una città piccola, massime dove sia poca
conversazione, non essendo determinato il tuono della società, {+(neppur un tuono proprio particolarmente
d'essa città, qual sempre sarebbe in una città piccola, quando veggiamo che
anche le grandi hanno sempre notabilissime nuances
di tuono lor proprio, e differenze da quello dell'altre, anche dentro una
stessa nazione)} ciascun fa tuono da se, e la maniera di ciascuno,
qual ch'ella sia, è tollerata e giudicata per buona e conveniente. Così a
proporzione in una nazione, dove non v'abbia se non pochissima società, come in
italia. Il tuono sociale di questa nazione non
esiste: ciascuno ha il suo. Infatti non v'è tuono di società che possa dirsi
italiano. Ciascuno italiano ha la sua maniera di conversare, o naturale, o
imparata dagli stranieri, o comunque acquistata. Laddove in una nazione
socievole, e così a proporzione in una città grande, non è, non solo stimato, ma
neppur tollerato, chi non si
3547 conforma alla maniera
comune di trattare, e chi non ha il tuono degli altri, perchè questa maniera
comune esiste, e il tuono di società è determinato, più o meno strettamente, e
non è lecito uscirne senza esser messo, nella società ec., fuor della legge, e
considerato come da men degli altri, perchè dagli altri diverso, diverso dai
più. (28. Sett. 1823.).
[3552,2]
Alla p. 3388.
Il vino (ed anche il tabacco e simili cose) e tutto ciò che produce uno
straordinario vigore o del corpo tutto o della testa, non pur giova
all'immaginazione, ma eziandio all'intelletto, ed all'ingegno generalmente, alla
facoltà di ragionare, di pensare, e di trovar delle verità ragionando (come ho
provato più volte per esperienza), all'inventiva ec. Alle volte per lo contrario
giova sì all'immaginazione, sì all'intelletto, alla mobilità del pensiero e
della mente, alla fecondità, alla copia, alla facilità e prontezza dello
spirito, del parlare, del ritrovare, del raziocinare, del comporre, {#1. alla prontezza della memoria, alla
facilità di tirare le conseguenze, di conoscere i rapporti ec. ec.}
ec. una certa debolezza di corpo, di nervi ec.
3553 una
rilasciatezza non ordinaria ec. come ho pure osservato in me stesso più volte.
Altre volte all'opposto.
[3553,2] Ho notato altrove p. 108 che la
debolezza per se stessa è cosa amabile, quando non ripugni alla natura del
subbietto in ch'ella si trova, o piuttosto al modo in che noi siamo soliti di
vedere e considerare la rispettiva specie di subbietti; o ripugnando, non
distrugga però la sostanza d'essa natura, e non ripugni più che tanto:
3554 insomma quando o convenga al subbietto, secondo
l'idea che noi della perfezione di questo ci formiamo, e concordi colle {altre} qualità d'esso subbietto, secondo la stessa idea
{+(come ne' fanciulli e nelle
donne);} o non convenendo, nè concordando, non distrugga però
l'aspetto della convenienza nella nostra idea, ma resti dentro i termini di
quella sconvenienza che si chiama grazia (secondo la mia teoria della grazia), come può esser negli
uomini, o nelle donne in caso ch'ecceda la proporzione ordinaria, ec. Ora
l'esser la debolezza per se stessa, e s'altro fuor di lei non si oppone,
naturalmente amabile, è una squisita provvidenza della natura, la quale avendo
posto in ciascuna creatura l'amor proprio in cima d'ogni altra disposizione, ed
essendo, come altrove ho mostrato pp. 872. sgg. , una necessaria e propria conseguenza
dell'amor proprio in ciascuna creatura l'odio dell'altre, ne seguirebbe che le
creature deboli fossero troppo sovente la vittima delle forti. Ma la debolezza
essendo naturalmente amabile e dilettevole altrui per se stessa, fa che altri
ami il subbietto in ch'ella si trova, e l'ami per amor proprio, cioè perchè da
esso riceve diletto. {La debolezza
ordinariamente piace ed è amabile e bella nel bello. Nondimeno può piacere
ed esser bella ed amabile anche nel brutto, non in quanto nel brutto, ma in
quanto debolezza, (e talor lo è) purch'essa medesima non sia {la} cagione della bruttezza nè in tutto nè in
parte.} Senza ciò i fanciulli,
3555 massime
dove non vi fossero leggi sociali che tenessero a freno il naturale egoismo
degl'individui, sarebbero tuttogiorno écrasés dagli
adulti, le donne dagli uomini, e così discorrendo. Laddove anche il selvaggio
mirando un fanciullo prova un certo piacere, e {quindi}
un certo amore; e così l'uomo civile non ha bisogno delle leggi per contenersi
di por le mani addosso a un fanciullo, benchè i fanciulli sieno per natura
esigenti ed incomodi, ed in quanto sono (altresì per natura) apertissimamente
egoisti, offendano l'egoismo degli altri più che non fanno gli adulti, e quindi
siano per questa parte naturalmente odiosissimi (sì a coetanei, sì agli altri).
Ma il fanciullo è difeso {per se stesso} dall'aspetto
della sua debolezza, che reca un certo piacere a mirarla, e quindi ispira
naturalmente (parlando in genere) un certo amore verso di lui, perchè l'amor
proprio degli altri trova in lui del piacere. E ciò, non ostante che la stessa
sua debolezza, rendendolo assai bisognoso degli altri, sia cagione essa medesima
di noia e di pena agli altri, che debbono provvedere in qualche modo a' suoi
bisogni, e lo renda per natura molto esigente ec. Similmente discorrasi
3556 delle donne, nelle quali indipendentemente
dall'altre qualità, la stessa debolezza è amabile perchè reca piacere ec. Così
di certi animaletti o animali (come la pecora, {i cagnuolini,
gli agnelli,} gli uccellini ec. ec.) in cui l'aspetto della lor
debolezza rispettivamente a noi, in luogo d'invitarci ad opprimerli, ci porta a
risparmiarli, a curarli, ad amarli, perchè ci riesce piacevole. {ec.} E si può osservare che tale ella riesce anche ad
altri animali di specie diversa, che perciò gli risparmiano e mostrano talora di
compiacersene e di amarli ec. Così i piccoli degli animali non deboli quando son
maturi, sono risparmiati ec. dagli animali maturi della stessa specie (ancorchè
non sieno lor genitori), ed eziandio d'altre specie (eccetto se non ci hanno
qualche nimicizia naturale, o se per natura non sono portati a farsene cibo
ec.); ed apparisce in essi animali una certa o amorevolezza o compiacenza verso
questi piccoli. Similmente negli uomini verso i piccoli degli animali che
cresciuti non son deboli. E di questa compiacenza non n'è solamente cagione la
piccolezza per se (ch'è sorgente di grazia, come ho detto altrove), p.
200
pp.
1880-81
{#1. nè la sola sveltezza che in questi
piccoli suole apparire (siccome ancora nelle specie piccole di animali) e
che è cagion di piacere per la vitalità che manifesta e la vivacità ec.
secondo il detto altrove p. 221
pp. 1716-17
p. 1999
pp. 2336-37 da me
sull'amor della vita, onde segue quello del vivo ec.} ma v'ha la
3557 sua parte eziandio la debolezza. (29-30.
Sett. 1823.). {{V. p. 3765.}}
[3568,2]
Δῆλον δ᾽ ὡς καρτεροῦσι
πολλὴν κακοπάϑειαν οἱ πολλοὶ τῶν ἀνϑρώπων γλιχόμενοι τοῦ ζῆν, ὡς ἐνούσης
τινὸς εὐημερίας (prosperitatis. Victorius) ἐν αὐτῷ, καὶ γλυκύτητος ϕυσικῆς
*
. Aristot.
Polit. l. 3. ed. Flor. Iunt. 1576. p. 211.
(1. Ottobre. 1823.)
[3596,1] Ma Goffredo
(e questo è un altro grandissimo, {ed intimo,} benchè
poco o non mai osservato difetto della Gerusalemme, e benchè
colpa della natura de' tempi moderni {e delle raffinate
idee,} anzi che del Tasso),
Goffredo è personaggio pochissimo
interessante, e forse nulla, perchè i suoi pregi e 'l suo valore son troppo
morali. Egli è persona troppo seria, troppo poco, anzi niente amabile, benchè
per ogni parte stimabile. E come può essere amabile un uomo assolutamente privo
d'ogni passione, e tutto ragione? {+un
carattere freddissimo?} Difficilmente ancora può farsi amare chi non è
o non apparisce
3597 capace per niun modo di amare. Ora
il Tasso gli fa un pregio di questa
incapacità. (c. 5. st. 61-4.)
Achille è interessantissimo perch'egli
è amabilissimo. Ed è amabilissimo non solamente a causa del suo sovrano valor
personale, ma eziandio per la stessa ferocia, {+per la stessa intolleranza, per la stessa
suscettibilità, veemenza ed impeto di carattere e di passioni, superbia,
carattere e maniere disprezzanti (veri mezzi di farsi amare, e forse soli
ec.) iracondo, incapace di sopportare un'ingiuria, soverchiatore, un poco
étourdi, volage ec.} e per lo stesso
capriccio, qualità che congiunte colla gioventù e colla bellezza, e di più col
coraggio, {la forza e i tanti altri pregi, fortune,
circostanze, e meriti reali di Achille,} sono sempre amabilissime, e fanno amatissimo chi
le possiede. Ciò avviene anche oggidì {e sempre avverrà. (E
veramente Achille è un personaggio
completamente amabile: non sarebbe tale se mancasse dei detti
difetti).} Nondimeno s'elle si trovassero oggi in una persona civile
in quel grado in cui Omero le dipinge in
Achille, esse parrebbero certamente
eccessive, e mal riuscirebbero; ma ben bisogna distinguere i tempi antichissimi
da' moderni, e la misura conveniente a nazioni semirozze da quella che può star
bene nelle civili. {+Del resto poi il
poema epico in qualunque secolo dee proporre un personaggio che sia
singolare, e le cui qualità eccedano le ordinarie anche quanto alla misura.
Questo personaggio non dev'esser solamente amabile ed ammirabile ma
mirabilmente amabile, e singolarmente ammirabile.} Il Tasso si guardò bene dal dar negli
eccessi per questa parte, rispetto a Rinaldo. Ei gli diede le dette qualità, per le quali lo fece amabile
(mentre Goffredo non lo è) e perchè
amabile, interessante assai più di Goffredo (quanto può essere quel leggiero interesse che si prende per
uomini non isventurati, e in impresa che {non} può più
starci a cuore, secondo il già detto in tal proposito. pp. 3126.
sgg.
pp. 3147-48
3598 Se il Tasso eccedette in Rinaldo, ciò fu piuttosto dal lato contrario. Cioè nel farlo ancor
troppo ragionevole, troppo pio e devoto. Colle quali qualità ei si credette di
ornarlo e renderlo più interessante, e si stimò in dovere di attribuirgliele, e
facendo altrimenti avrebbe creduto di peccare, non solo contro la morale o la
religione, ma contro la poesia e contro il buon giudizio e contro la proprietà
del poema epico. Egli arriva sino a farlo confessare e far la sua penitenza sul
monte Oliveto, prima di andare all'impresa del bosco (c. 18. stanza 6-17.). Egli avrebbe creduto lasciare
una gran macchia nell'onor di Rinaldo e una grande mancanza nella stima de' lettori verso di lui,
s'e' non gli avesse fatto purgar la coscienza ed assolverlo de' peccati
dell'uccision di Gernando e delle fornicazioni con Armida. Contuttociò il carattere di Rinaldo riesce bene amabile. Ma Goffredo non ha nè ferocia, nè capriccio, nè impeto,
nè passione veruna; non è giovane, non risplende per bellezza; il suo coraggio e
la sua prodezza di cuore e di mano piuttosto si afferma di quello che si {dimostri e si} faccia operare; i suoi pregi eroici
3599 si riducono ad una somma pietà e devozione e {cura e} zelo religioso (ma non superstizioso nè passionato in niun modo) e quasi
santità, {+1. sì di pensieri, sì di
parole e sì di fatti} che lo fanno degno di visioni celesti e di
conversar cogli Angeli e co' Beati, e d'impetrare o far miracoli (v. fra gli altri luoghi c. 13. st. 70 e
segg.), e ad un eccellente senno; qualità niente amabili, perchè
tutte, per così dire, immateriali. Adunque Goffredo non è amabile, ma stimabile solamente. Adunque non è che
pochissimo interessante o nulla; massime oggidì ch'è svanito l'interesse
dell'impresa, come ho già detto a suo luogo p. 3147, e quel
zelo o fanatismo di religione, nel quale il Tasso lo fa singolare.
[3676,1]
3676
Alla p. 3349.
Non è da trascurare una differenza che si trova fra il carattere, {il costume ec.} degli antichi settentrionali e abitatori
de' paesi freddi, e quel de' moderni; differenza maggior di quella che suol
trovarsi generalmente dagli antichi ai moderni. Perocchè gli antichi
settentrionali ci sono dipinti dagli storici per ferocissimi, inquietissimi,
attivissimi non solo di carattere, ma di fatto, {+per impazienti del giogo, sempre vaghi di novità, sempre
macchinanti, sempre ricalcitranti e insorgenti,} e per quasi
assolutamente indomabili e indomiti. Germani, Sciti ec. I moderni al contrario
sono così domabili, che certo niun popolo meridionale lo è altrettanto. E tanto
son lungi dalla ferocia, che non v'ha gente più buona, più mansueta, più
ubbidiente, più tollerante di loro. E se v'ha parte
d'europa dove meno si macchini, e si ricalcitri al
comando, e si desideri novità e si odi la soggezione, ciò è per l'appunto fra i
popoli settentrionali. In questa tanta diversità di effetti hanno certamente
gran parte da un lato la diversità de' governi antico e moderno, dall'altro la
poca coltura del popolo nelle regioni settentrionali. Ma grandissima parte v'ha
certamente ancora la differenza materiale della vita. Gli antichi
3677 settentrionali, mal difesi contra le inclemenze
dell'aria dalle spelonche, proccurantisi il vitto colla caccia (Georg. 3. 370. sqq.
etc.), alcuni anche erranti e senza tetto, come gli Sciti ec., erano
anche più ὑπαίθριοι di vita, che non sono i meridionali oggidì. Introdotti gli
usi e i comodi sociali, i popoli {civilizzati} del Nord
divennero naturalmente i più casalinghi della terra. Niuna cosa rende
maggiormente quiete e pacifiche sì le nazioni che gl'individui, niuna men
cupidi, anzi più nemici di novità, che la vita casalinga e le abitudini
domestiche, le quali affezionano al metodo, rendono contenti del presente ec.
come ho detto ne' pensieri citati in quello a cui questo si riferisce pp. 2752-55
pp. 2926-28. Quindi è
seguíto che non per sole circostanze passeggere e accidentali, come la maggiore
o più divulgata e comune coltura di spirito ec. ma naturalmente e costantemente,
nel sistema di vita sociale, e dopo resa la civiltà comune al nord come al sud,
i popoli del mezzogiorno, come meno casalinghi, sieno
stati, sieno, ed abbiano a essere più inquieti e più attivi di quelli del settentrione, sì d'animo, sì di fatti,
3678 al contrario di quello che porterebbe la pura
natura degli uni e degli altri comparativamente considerata. Ond'è che i
settentrionali moderni e civili sieno in verità molto più diversi e mutati da'
loro antichi, che non sono i meridionali dagli antichi loro, sì di carattere, sì
di usi, di azioni ec.
[3684,1]
3684 Non v'è persona che riesca più intollerabile e che
meno sia tollerata nella società, di uno intollerante. (14. Ott.
1823.).
[3745,2] Il piacere è sempre passato o futuro, e non mai
presente, nel modo stesso che la felicità è sempre altrui e non mai di nessuno,
o sempre condizionata e non mai assoluta: e così è impossibile che altri dica
con {pieno} sentimento di
3746
vero dire, e con piena sincerità e persuasione, io provo
un piacere, ancorchè menomo, quantunque tutti dicono io n'ho provato e proverò; quanto è impossibile
che alcun dica di cuore io son felice, o Beato
me, quando però tutti dicono beato il
tale o il tal altro,
{e}
io sarei felice se mi trovassi tale o tale, e beato me se
ottenessi tale o tal cosa, e se fosse questo o questo. E le cagioni per cui sono impossibili parimente le due
cose sopraddette, sono appresso a poco le stesse. E come il non esser niuno che
dica me beato, dimostra che tutti s'ingannano
quelli che dicono beato te o lui, e io sarei beato in
tale o tal caso (e tutti gli uomini
così parlano e parleranno sempre {+e di
cuore}); così il non esser chi dica di vero animo io provo piacere presentemente, dimostra che niuno provò nè proverà
mai piacere alcuno, benchè tutti si pensino e {moltissimi
affermino} con sentimento di verità, di averne provato e di averne a
provare. (21. Ott. 1823.).
[3765,1]
Alla p. 3557.
principio. L'aspetto della debolezza riesce piacevole e amabile
principalmente ai forti, sia della stessa specie sia di diversa. (forse per
quella inclinazione che la natura ha messa, come si dice, ne' contrarii verso i
contrarii). Quindi la debolezza in una donna riesce più amabile all'uomo che
all'altre donne, in un fanciullo più amabile agli adulti che agli altri
fanciulli. E la donna è più amabile all'uomo che all'altre donne, anche pel
rispetto della debolezza ec. Ed all'uomo tanto più quanto egli è più forte, non
solo per altre cagioni, ma anche per questa, che l'aspetto della debolezza gli
riesce tanto più piacevole, quando è in un oggetto {{altronde}} amabile ec. Ed anche per questa causa i militari, e le
3766 nazioni militari generalmente sono più portate
verso le donne, o verso τὰ παιδικά ec. (V. Aristot.
Polit. 2. Flor. 1576. p. 142.). Le cose dette della
debolezza si possono anche dire della timidità. Piace l'aspetto della timidità
in un oggetto d'altronde amabile, e quando essa medesima non disconvenga. Piace
p. e. ne' lepri, ne' conigli ec. Piace massimamente ai forti o assolutamente o
per rispetto a quei tali oggetti. Piace ai più coraggiosi, e questo ancora si
riferisca a quel che ho detto de' militari. Il veder che uno teme e ha ragion di
temere, e ch'e' non si può difendere, è cosa amabile, e induce i forti e i
coraggiosi, o della stessa specie o di diversa, a risparmiare quei tali oggetti;
quando non v'abbia altra causa che operi il contrario, come nel lupo verso la
pecora ec. Cause indipendenti dalla timidità e dal coraggio. E da ciò, almeno in
parte, deriva che gl'individui e le nazioni forti e coraggiose sogliono
naturalmente essere le più benigne; e in contrario è stato osservato che
gl'individui e i popoli più deboli e timidi sogliono essere i più crudeli verso
i viventi più deboli di loro, verso i loro {stessi}
individui più deboli ec. Ed
3767 è proposizione
costante e generale che la timidità la codardia e la debolezza amano molto di
accompagnarsi colla crudeltà, colla inclemenza e spietatezza e durezza de'
costumi e delle azioni ec. (Che il timore sia naturalmente crudele, perchè
sommamente egoista, e così la viltà ec. l'ho notato in più luoghi pp. 2206-208
pp. 2387-89
p. 2630). Ciò non solo si osserva negli uomini, ma eziandio negli
altri animali. E con molta verisimiglianza, se non anche con verità, si
attribuisce al leone la generosità verso gli animali di lui più deboli e timidi
ec. quando la natura, cioè una nimistà naturale, o la fame ec. non lo spinga ad
opprimerli ec. o ve lo spinga talora, ma non in quel tal caso, o quando la
natura non glieli abbia destinati particolarmente per cibo, chè allora sarà ben
difficile ch'ei se ne astenga, o se ne astenga per altro che per sazietà. Si
applichino queste osservazioni a quelle da me fatte circa la compassionevolezza
naturale ai forti, e la naturale immisericordia e durezza dei deboli ec. e
viceversa quelle a queste (p. 3271.
segg.) Si suol dire, e non è senza esempio nelle storie che le donne
3768 divenute potenti {in
qualunque modo,} sono state e sono generalmente come più furbe e
triste, così più crudeli e meno compassionevoli verso i loro nemici, o
generalmente ec. di quel che sieno stati o sieno, o che sarebbero stati o
sarebbero, gli uomini, in parità d'ogni altra circostanza. Ed è ben noto che i
Principi più deboli e vili sono sempre stati i più crudeli proporzionatamente
alle varie qualità ed al vario spirito de' tempi a cui sono vissuti o vivono, e
alle varie circostanze in cui si sono rispettivamente trovati o trovansi, e
secondo le varie epoche e vicende della vita di ciascheduno ec. (24. Ott.
1823.).
[3769,1] Ho detto in questo discorso come sia necessario che
il soggetto dell'epopea sia nazionale, e come dannoso sarebbe ch'ei fosse
universale ec. (se non nel modo usato dal Tasso ec.). Ma per altra parte la nazionalità del soggetto limita,
quanto a se, l'interesse e il grand'effetto del poema, a una sola nazione. Non
v'è altro modo di ovviare a questo gran male (il qual fa ancora che i posteri,
dopo le tante mutazioni politiche che cagiona il tempo, distruttore o cangiatore
delle nazioni, o de' loro nomi, ch'è tutt'uno,
3770 e
loro carattere nazionale ec. non considerino più quegli antichi, nè possano
considerarli, come lor nazionali, e che a lungo andare, immancabilmente, non vi
sia più nazione a cui quel poema sia nazionale), se non di costringere
l'immaginazion de' lettori qualunque a persuaderli di esser compatrioti e
contemporanei de' personaggi del poeta, a trasportarli in quella nazione e in
quei tempi ec. Illusione conforme a quella che deono proccurare i drammatici ec.
Or tra tutti gli epici quel che meglio l'ha proccurata si è Omero nell'iliade,
siccome fra tutti gli storici Livio.
Vero è che questo viene in grandissima parte da quelle tante cagioni altrove da
me esposte pp. 3125. sgg., le quali fanno che tutte le nazioni
civili in tutti i tempi sieno {state e sieno per
essere} connazionali e contemporanee de' troiani, greci {antichi} romani {antichi} ed
ebrei {antichi.} Infatti dopo l'iliade, il poema epico che meglio proccura la detta illusione
universale, si è l'Eneide, perchè di soggetto
troiano e romano. Ma vero è ancora che, massime quanto ai troiani, le dette
cagioni si riducono alla sola iliade (ed
all'Eneide),
3771
onde l'illusione ch'essa proccura, non viene da cause a lei affatto estrinseche,
anzi l'iliade è tanto più mirabile quanto essa sola, o essa
principalmente (cioè aiutata dall'Eneide ec.),
ha potuto rendere {e rende} tutti gli uomini civili
d'ogni nazione e tempo compatrioti e contemporanei de' troiani. Questo ella
consegue mediante le reminiscenze della fanciullezza ec. le quali l'accompagnano
perchè sin da fanciulli conosciamo l'iliade, o i
fatti da essa narrati e inventati, e la mitologia in essa contenuta, ec. e le
prime nozioni della mitologia che apprendiamo, sono strettamente legate e in
{buona} parte composte delle invenzioni d'Omero ec. ec. Ma tutto questo non sarebbe
{nè sarebbe stato} se l'iliade non fosse sempre stata così celebre. Nè così celebre sarebbe
stata sempre senza il suo sommo merito. Vero è che questo non ha che fare in
particolare colla condotta ec. ec. (25. Ott. 1823.).
[3821,2]
Alla p. 3156.
- quando eziandio il sentimentale di Lord
Byron, quello che spetta al giuoco delle passioni, al cuore,
all'espressione alla pittura all'imitazione de' caratteri e de' sentimenti degli
uomini, alla scienza e considerazione dello spirito dell'uomo, dell'uomo interno
ec. (del che le poesie di Lord Byron
sommamente abbondano, anzi sono composte) pochissimo si communica a' lettori, e
veramente è poco fatto per comunicarsi agli animi altrui. E ciò appunto perchè
esso pare, e forse è, piuttosto dettato dall'immaginazione che dal sentimento e
dal cuore, piuttosto immaginato che sentito, immaginato che vero, inventato che
imitato o congetturato, creato che ritratto ed espresso, e {insomma ha certamente} più dell'immaginoso che del passionato e
sentimentale, ed è per sua natura più atto e disposto ad operare sulla
immaginazione che sul cuore di chi legge. E così parrebbe che Lord Byron avesse voluto, e così certo accade. E perciò
il suo effetto è debole, {cioè} poco intimo, e quindi
poco durevole, benchè possa esser fortissimo al primo tratto, il che non è
incompatibile col superficiale. L'effetto delle poesie di Lord Byron, tanto e così perpetuamente ed estremamente
sentimentali, l'effetto del sentimentale di esse, non è sentimentale per le
dette ragioni. Or veggiamo che per ciò è poco intimo, e poco si comunica il
movimento dell'autore e di esse, perchè questo non essendo {quasi} proprio ad agire che sull'immaginazione, l'
3822 immaginazione de' lettori oggidì è generalmente poco atta a
ricevere forti, cioè intime e durevoli impressioni: il che è quello ch'io
diceva, e il proposito di questo discorso. E quel movimento delle poesie e de'
poeti che spetta solamente o principalmente all'immaginazione, sia che nasca da
essa sola nel poeta, e in essa sola abbia avuto luogo, sia che in essa sola
possa agir ne' lettori {+e ad essa sola
comunicarsi,} (questo è più probabilmente il caso nostro, perchè io
credo che Lord Byron veramente senta,
non solo imagini, anzi l'eccesso e la straordinaria forza e qualità de' suoi
sentimenti sia quel che gli noccia) difficilmente e in piccola parte e poco
gagliardamente si comunica ai lettori d'oggidì. Diversamente certo accadeva
negli antichi (lo vediamo infatti anche oggi ne' fanciulli e ne' giovani ancora
inesperti del mondo, o nella prima gioventù, quando ella, in pratica, ancor non
filosofa, come tutti fanno nell'altre età, o dopo l'esperienza; cioè tutti oggi
filosofano, quanto alla vita ec. chi in teoria e in pratica, chi {in} questa sola). Oggi anche gli antichi sommi poeti
presto ci stancano e lasciano in secco, se e quando non sono che immaginosi,
ancorchè in questo medesimo sommi, straordinarii e pieni d'arte. Le poesie di
Lord Byron molto più e più presto ci
stufano e lascian freddi, per la grande uniformità che vi si sente, la quale può
esser vera, e nascere da mancanza {della} vera {e sottile} arte poetica (sì bene e distintamente
conosciuta e {sì eccellentemente e maestrevolmente}
praticata dagli antichi); e può anche esser che sia apparente, e nasca solo dal
continuo eccesso in ogni cosa,
dalla continua intensità, dal continuo risalto
3823
straordinario di ciascuna parte. Il che da un lato produce l'effetto
dell'uniformità, e lo è veramente, in quanto è continuo eccesso ec. benchè
variato, quanto si voglia, ne' suoi subbietti, qualità ec. Dall'altro lato
stanca come l'uniformità, perchè troppo affatica gli animi, {+che ben tosto non possono più tener dietro
all'entusiasmo del poeta,} come la vista {presto} si stanca di colori tutti vivissimi, benchè e belli e varii;
e perchè il molto {ed ἀϑρόον,} sia pur bonissimo,
presto sazia; come chi bee ad un tratto un boccale di liquore, ha subito estinta
la sete, nè perchè tu gli offra altro liquore diverso e squisitissimo, ha voglia
di gustarlo, ma egli ha perduto per allora la facoltà di provar piacere dal
bere, e da' grati liquori. Come nel corpo così nell'animo la facoltà {la virtù} di provar piacere è scarsa; bisogna
risparmiarla, o ch'ella è ben tosto esaurita. Il corpo e l'animo cede e vien
meno al soverchio piacere, come al soverchio dolore. Ben rare sono le cose
piacevoli, e i piaceri ben piccoli. Ma fossero pur frequentissimi e grandissimi.
Nè il corpo nè l'animo umano hanno la forza di goder più che tanto, e anche
indipendentemente dall'assuefazione che rende indifferenti le sensazioni da
principio piacevoli o dolorose, anche restando ai piaceri e ai dolori la lor
forza, manca all'uomo la facoltà di sentirli, se e' son troppo grandi, {o se son troppi ec.} La facoltà di soffrire è assai
maggiore nell'uomo. Pur se il dolore è soverchio, nè il corpo nè l'animo umano
non è capace di sentirlo, e non soffre, o per poco spazio, dopo il quale la sua
facoltà di soffrire vien meno. L'uomo non può molto godere, non solo perchè
pochi e piccoli sono i piaceri,
3824 ma anche rispetto a se stesso, perchè egli è molto
limitatamente capace del piacere, e
quegli stessi che vi sono, così piccoli e pochi, bastano a vincere di gran lunga
la sua capacità. Bacco e Venere sono
piaceri, ma l'uomo dopo un quarto d'ora ec. diviene incapace di gustarli, e
soccombe alla loro forza {niente meno che} a quella de'
tormenti e de' morbi. (3. Nov. 1823.).
[3835,1] L'esaltamento di forze proveniente da' liquori o da'
cibi o da altro accidente (non morboso), se non cagiona, come suole sovente, un
torpore e una specie di assopimento letargico (come diceva il Re di Prussia), essendo un
accrescimento di vita, accresce l'effetto essenziale di essa, ch'è il desiderio
del piacere, perocchè coll'intensità della vita cresce {quella del}l'amor proprio, e l'amor proprio è desiderio della propria
felicità, e la felicità è piacere {#1. V. p. 3905.}
{Puoi vedere la p. 3842. seg..} Quindi l'uomo in quello
stato è oltre modo, e più ch'ei non suole, avido {e
famelico} di sensazioni piacevoli, e inquieto per questo desiderio, e
le cerca, e tende con più forza e più direttamente e immediatamente al vero fine
della sua vita e del suo essere e di se stesso, e alla vera somma e sostanza
ultima della felicità, ch'è il piacere, poco, {o men del suo
solito,} curando le altre cose, che spesso son fini delle operazioni e
desiderii umani, ma fini secondarii, benchè tuttogiorno si prendano per primarii
{e per felicità}; perch'essi stessi tendono
essenzialmente ad un altro fine, e tutti ad un fine medesimo, cioè a dire al
piacere. In somma l'uomo è allora rispetto a se stesso ed al solito suo, quello
che sono {sempre} i più forti rispetto agli altri, cioè
più sitibondi della felicità, e più inquieti da' desiderii, cioè dal desiderio
della propria felicità, e più immediatamente e specialmente, e in modo più
espresso, sensibile e manifesto sì agli altri che a se medesimi, avidi del
piacere
3836 (al quale tutti tendono e sempre, ma i più
forti più, e più immediatamente e chiaramente, o ciò più spesso e più
ordinariamente degli altri), perocch'essi sono {abitualmente} più vivi degli altri.
[3837,1]
3837 Il giovane che al suo ingresso nella vita, si
trova, per qualunque causa e circostanza ed in qual che sia modo, ributtato dal
mondo, innanzi di aver deposta la tenerezza verso se stesso, propria di
quell'età, e di aver fatto l'abito {e il callo} alle
contrarietà, alle persecuzioni e malignità degli uomini, agli oltraggi, punture,
smacchi, dispiaceri che si ricevono nell'uso della vita sociale, alle sventure,
ai cattivi successi nella società e nella vita civile; il giovane, dico, che o
da' parenti, come spesso accade, o da que' di fuori, si trova ributtato ed
escluso dalla vita, e serrata la strada ai godimenti (di qualsivoglia sorta) o
più che agli altri o al comune de' giovani non suole accadere; o tanto che tali
ostacoli vengano ad essere straordinari e ad avere maggior forza che non
sogliono, a causa di una sua non ordinaria sensibilità, immaginazione,
suscettibilità, {delicatezza di spirito e d'indole,}
vita interna, e quindi straordinaria tenerezza verso se stesso, maggiore amor
proprio, maggiore smania e bisogno di felicità e di godimento, maggior capacità
e facilità di soffrire, maggior delicatezza sopra ogni offesa, ogni danno,
ogn'ingiuria, ogni disprezzo, ogni puntura {ed ogni
lesione} del suo amor proprio; un tal giovane trasporta e rivolge bene
spesso tutto l'ardore {{e la {morale e
fisica}}} forza o generale della sua età, o particolare della
sua indole, o l'uno e l'altro insieme, tutta, dico, questa forza e questo ardore
che lo spingevano verso la felicità, l'azione, la vita, ei la rivolge a
proccurarsi l'infelicità, l'inattività, la morte morale.
3838 Egli diviene misantropo di se stesso e il suo maggior nemico,
egli vuol soffrire, egli vi si ostina, i partiti {più tristi,
più acerbi verso se stesso,} più dolorosi e più spaventevoli, e che
prima di quella sua poca esperienza della vita egli avrebbe rigettati con
orrore, divengono del suo gusto, ei li abbraccia con trasporto, dovendo
scegliere uno stato, il più monotono, il più freddo, il più penoso per la noia
che reca, il più difficile a sopportarsi perchè più lontano e men partecipe
della vita, è quello ch'ei preferisce, ei vi si compiace tanto più quanto esso è
più orribile per lui, egl'impiega tutta la forza del suo carattere e della sua
età in abbracciarlo, e in sostenerlo, e in mantenere ed eseguire la sua
risoluzione, e in continuarlo, {+e si
compiace fra l'altre cose in particolare nell'impossibilitarsi a poter mai
fare altrimenti, e nello abbracciar quei partiti che gli chiudano per sempre
la strada di poter vivere, o soffrir meno, perchè con ciò ei viene a ridursi
e a rappresentarsi come ridotto in uno estremo di sciagura, il che piace,
come altrove ho detto p. 313
pp. 2217-21 , e se
qualche cosa mancasse e potesse aggiungersi al suo male, ei non sarebbe
contento ec.} egl'impiega tutta la sua vita morale in abbracciare,
sopportare e mantenere {costantemente} la sua morte
morale, tutto il suo ardore in agghiacciarsi, tutta la sua inquietezza in
sostenere la monotonia e l'uniformità della vita, tutta la sua costanza in
scegliere di soffrire, voler soffrire, continuare a soffrire, {+tutta la sua gioventù in invecchiarsi
l'animo, e vivere esteriormente da vecchio, ed abbracciare e seguir
gl'istituti, le costumanze, i modi, le inclinazioni, il pensare, la vita de'
vecchi.} Come tutto ciò è un effetto del suo ardore e della sua forza
naturale, egli va molto al di là del necessario: se il mondo a causa di suoi
difetti o morali o fisici, o di sue circostanze, gli nega tanto di godimento,
egli se ne toglie il decuplo; se la necessità l'obbliga a soffrir tanto, egli
elegge di soffrire dieci volte di più; se gli nega un bene ei se ne interdice
uno assai maggiore; se gli contrasta qualche godimento, egli si priva di tutti,
e rinunzia affatto al godere.
[3854,2] Quello che noi chiamiamo spirito nei caratteri, nelle maniere, ne' moti ed atti,
nelle parole, ne' motti, ne' discorsi, nelle azioni, negli scritti e stili ec.
ci piace, e ciò a tutti, perch'egli è vita, e desta sensazioni vive sotto
qualche rispetto, {+o desta sensazioni
{qualunque,} e molte, e spesse, il che è cosa
viva, perchè il sentire lo è. Infatti lo spirito si chiama anche vivacità ec. o semplicemente, o vivacità di spirito, di carattere, stile, modi ec.
ec..} Il suo contrario in certo modo è morte, e non desta sensazioni,
o poche, leggere,
3855 non rapide, non varie, non
rapidamente succedentisi e variantisi, il che è cosa morta. Noi lo chiamiamo spirito perchè siamo soliti di
considerar la vita come cosa immateriale, e appartenente a cose non materiali, e
di chiamare spirito ciò ch'è vivo e vive e cagiona la vita ec.; e la materia
siamo soliti di considerarla come cosa morta, e non viva per se, nè capace di
vita ec. (10. Nov. ottava del dì de' Morti. 1823.).
[3876,1] Dico che l'uomo è sempre in istato di pena, perchè
sempre desidera invano ec. Quando l'uomo si trova senza quello che positivamente
si chiama dolore o dispiacere o cosa simile, la pena inseparabile dal sentimento
della vita, gli è quando più, quando meno sensibile, secondo ch'egli è più o
meno occupato o distratto {da checchessia e massime} da
quelli che si chiamano piaceri, secondo che per natura o per abito o attualmente
egli è più vivo e più sente la vita, ed ha maggior vita abituale o attuale ec.
Spesso la detta pena è tale che, per qualunque cagione, e massime perch'ella è
continua, e l'uomo v'è assuefatto fino dal primo istante della sua vita, non
l'osserva, e non se n'avvede espressamente, ma non però è men vera. Quando l'uom
se n'avvede, e ch'ella sia diversa da' positivi dolori, dispiaceri ec., ora ella
ha nome di noia, ora la chiamiamo con altri nomi. Sovente essa pena, che non
vien da altro se non dal desiderare invano, e che in questo solo consiste, e che
per conseguenza tanto è maggiore {{e più sensibile}}
quanto il desiderio abitualmente o attualmente è più vivo, sovente, dico, ella è
maggiore nell'atto e nel punto medesimo del piacere, che nel tempo
3877 della indifferenza e quiete {e
ozio} dell'animo, e mancanza di sensazioni {o
concezioni ec. passioni ec.} determinatamente grate o ingrate; e
talvolta maggiore eziandio che nel tempo del positivo dispiacere, o sensazione
ingrata sino a un certo segno. Ella è maggiore, perchè maggiore e più vivo in
quel tempo è il desiderio, come quello ch'è punto e infiammato dalla presente e
attuale apparenza del piacere, a cui l'uomo continuamente sospira; {#1. dalla vicina anzi presente,
straordinaria e fortissima, {+e
fermissima e vivissima} anzi si può dir certa speranza} e
quasi dal vedersi vicinissima e sotto la mano la felicità, ch'è il suo perpetuo
e sovrano fine, senza però poterla afferrare, perocchè il desiderio è ben più
vivo allora, ma non più fruttuoso nè più soddisfatto che all'ordinario. Il
desiderio del piacere, nel tempo di quello che si chiama piacere è molto più
vivo dell'ordinario, più vivo che nel tempo d'indifferenza. Non si può meglio
definire l'atto del piacere umano, che chiamandolo un accrescimento del naturale
e continuo desiderio del piacere, tanto maggiore accrescimento quanto quel
preteso e falso piacere è più vivo, quella sembianza è sembianza di piacer
maggiore. L'uomo desidera allora la felicità più che nel tempo d'indifferenza
ec. e con {assolutamente} eguale inutilità. Dunque il
desiderio essendo più vivo da un lato, ed egualmente vano dall'altro, la pena
compagna naturale del sentimento della vita, la qual nasce appunto e consiste in
questo desiderio di felicità e {quindi} di piacere,
dev'esser maggiore e più sensibile nell'atto del piacere (così detto) che
all'ordinario. Essa lo è infatti (se non quando e quanto la sensazione
piacevole, o l'immaginazione
3878 piacevole, o quella
qualunque cosa in cui consiste e da cui nasce il così detto piacere, serve e
debb'esser considerata come una distrazione e una forte occupazione ec.
dell'animo, {dell'amor proprio, della vita} e dello
stesso desiderio; e questo è il migliore e più veramente piacevole effetto del
piacere umano o animale; occupare l'animo, e, non soddisfare il desiderio ch'è
impossibile, ma per una parte, e in certo modo, quasi distrarlo, e riempiergli
quasi la gola, come la focaccia di Cerbero insaziabile). E l'uomo, che in uno stato
ordinario bene spesso, anzi forse il più del tempo, appena si avvede di detta
pena, nell'atto del piacere, se ne avvede sempre o quasi sempre, ma non sempre
l'osserva nè ha campo di porvi mente, e ben di rado l'attribuisce alla sua vera
cagione e ne conosce la vera natura; di radissimo poi {+nè in quel punto, nè mai, o ch'ei rifletta sul suo stato
d'allora in qualche altro tempo, o che mai non lo consideri ec.}
rimonta al principio e generalizza ec. nel qual caso egli ritroverebbe quelle
{universali e grandi} verità che noi andiamo
osservando e dichiarando, e che niuno forse ancora ha bene osservate, o
interamente e chiaramente comprese e concepute ec. (13. Nov.
1823.).
[3879,1]
Alla p. 3715.
Sono molte volte che la noia è un non so che di più vivo, che ha più sembianza
perciò di passione, e quindi avviene che non sia sempre in tali casi chiamata
noia, benchè filosoficamente parlando, ella lo sia, consistendo in quel medesimo
in cui consiste quel che si chiama noia, cioè nel desiderio di felicità lasciato
puro, senza infelicità nè felicità positiva, e differendo solo nel grado da
quella che noia comunemente è chiamata. E differisce nel grado, in quanto ell'è
noia, in certo modo più intensa, sensibile e viva, qualità che l'avvicinano
all'infelicità così chiamata positivamente, e che paiono poco convenevoli
3880 alla noia. Ella infatti, benchè del genere stesso,
è più passione è più penosa, che la noia, così comunemente chiamata, non è. Ed è
tale perch'ella nasce e consiste in un desiderio più vivo, e al tempo stesso
ugualmente vano. Questa sorta di passione è quella che provano generalmente i
giovani quando sono in istato di non piacere e non dispiacere. Essi sono poco
capaci della noia comunemente detta. Essi sono poco capaci di trovarsi giammai
senza un'attuale, ancorchè indeterminata passione, {#1. Se non {in} quanto essi sono
più capaci di occupazione e distrazion forte dell'animo, e quando essi si
trovano attualmente in tale stato (che accade loro più frequentemente che
agli altri per molte ragioni) del che vedi la pag. 3878. principio.} più viva d'essa
noia, perchè il loro amor proprio, e quindi il lor desiderio di felicità e di
piacere, ugualmente vano che nell'altre età, è molto più vivo, generalmente
parlando. Incapaci di noia comunemente detta, benchè privi di piacere e
dispiacere, sono ancora similmente quegli stati dell'individuo, di cui ho detto
p. 3835.-6. 3876-8. e simili. Altresì lo stato
di desiderio presente e vivo determinato a qual si sia cosa; benchè privo anche
questo stato, di piacere e dispiacere positivo ec. E così discorrendo. Questa
sorta di passione, diversa dalla noia comunemente detta, ma dello stesso genere
ec., questa ancora io voglio comprendere sotto il nome di noia, e ad essa ancora
si deve intendere ch'io abbia riguardo quando affermo che la noia corre
immancabilmente e immediatamente a riempiere qualunque vuoto lasciato dal
piacere o dispiacer così detto ec. e che l'assenza dell'uno e dell'altro è noia
per sua natura, e che mancando essi, v'è la noia necessariamente, e che posta
tal mancanza è posta la noia ec. come alle p. 3713-5. (13. Nov. 1823.).
[3881,4] Il vino, il cibo ec. dà talvolta una straordinaria
prontezza vivacità, rapidità, facilità, fecondità d'idee, di ragionare,
d'immaginare, di motti, d'arguzie, sali, risposte ec. vivacità di spirito,
furberie, risorse, trovati, sottigliezze grandissime di pensiero, profondità,
verità astruse, tenacità
3882 e continuità ed esattezza
di ragionamento anche lunghissimo e induzioni successive moltissime, senza
stancarsi, facilità di vedere i più lontani e sfuggevoli rapporti, e di passare
rapidamente dall'uno all'altro senza perderne il filo ec. volubilità somma di
mente ec. Questo secondo le condizioni particolari delle persone, ed anche le
loro circostanze sì attuali {in quel punto,} sì
abituali in quel tempo, sì abituali nel resto della vita ec. Ma quello
accrescimento di facoltà prodotto dal vino, {{ec.}} è
indipendente per se stesso dall'assuefazione. E gli uomini più stupidi di
natura, d'abito ec. divengono talora in quel punto spiritosi, ingegnosissimi ec.
{+V. p. 3886.} Questo si applichi alle mie
osservazioni p. 1553
pp. 1819-22
pp. 3197-206
pp. 3345-47 dimostranti che il talento {e le
facoltà dell'animo ec.} essendo in gran parte cosa fisica, e influita
dalle cose fisiche ec. la diversità de' talenti in gran parte è innata, e
sussiste {anche} indipendentemente dalla diversità
delle assuefazioni, esercizi, circostanze, coltura ec. (14. Nov.
1823.).
[3895,1] Il sonno e tutto quello che induce il sonno, {ec.} è per se stesso piacevole, secondo la mia teoria del piacere ec pp.
172-73. Non c'è maggior piacere (nè maggior felicità) nella vita, che
il non sentirla. (20. Nov. 1823.).
[3902,5] L'uomo che ha molta capacità e quindi facilità,
prontezza e moltiplicità di assuefazione, per questa medesima causa ha
altrettanta capacità, facilità ec. di dissuefazione. Viceversa nel caso
contrario. E sempre proporzionatamente, anzi sempre ugualmente, alla misura
dell'una capacità risponde quella dell'altra. L'una
3903 e l'altra o sono la cosa stessa diversamente considerata, o due effetti
gemelli d'una stessa causa, che non può produr l'uno senza produr l'altro nel
medesimo grado. Dalle medesime cagioni fisiche, morali ec. che producono
l'assuefabilità di un uomo o dell'uomo ec. nasce altrettanta sua dissuefabilità.
E dall'una si può argomentare all'altra. L'uomo è assuefabile; dunque egli è
dissuefabile; o viceversa. Il tale individuo ha tanta capacità di assuefazione;
dunque tanta di dissuefazione nè più nè meno.
[3922,1] Ma oltre di tutto ciò, bisogna accuratamente
distinguere la forza dell'animo dalla forza del corpo. L'amor proprio risiede
nell'animo. L'uomo è tanto più infelice generalmente, quanto è più forte e viva
in lui quella parte che si chiama animo. Che la parte detta corporale sia più
forte, ciò per se medesimo non fa ch'egli sia più infelice, nè accresce il suo
amor proprio, se non in quanto il maggiore o minor vigore del corpo è per certe
parti {+e rispetti, e in certi
modi,} legato e corrispondente e proporzionato a quello della parte
chiamata animo. Ma nel totale e sotto il più de' rispetti, tanto è lungi che la
maggior forza del corpo sia cagione di maggiore amor proprio e infelicità, che
anzi questa e quello sono {naturalmente} in ragione
inversa della forza propriamente corporale, sia abituale sia passeggera. L'amor
proprio e quindi l'infelicità sono in proporzione diretta del sentimento della
vita. Ora accade, generalmente e naturalmente parlando, che ne' più forti di
corpo la vita sia bensì maggiore, ma il sentimento della vita minore, e tanto
minore quanto maggiore si è e la somma della vita e la forza. Ne' più deboli
{di corpo} viceversa. O volendoci esprimere in
altro modo, e forse più chiaramente, ne' più forti
3923
di corpo la vita esterna e{è} maggiore, ma l'interna è
minore; e al contrario ne' più deboli di corpo. Infatti è cosa osservata che
generalmente, naturalmente, e in parità di altre circostanze, le nazioni e
gl'individui più deboli di corpo sono più disposti e meno impediti a pensare,
riflettere, ragionare, immaginare, che non sono i più forti; e un individuo
medesimo lo è più in uno stato e tempo di debolezza corporale o di minor forza,
che in istato di forza corporale, o di forza maggiore. Gli uomini sensibili, di
cuore, di fantasia; insomma di animo mobile, suscettibile, e più vivo in una
parola che gli altri, sono delicati e deboli di complessione, e ciò così
ordinariamente, che il contrario, cioè molta e straordinaria sensibilità ec. in
un corpo forte, sarebbe un fenomeno. {#2.
V. p. 3945.} La vita
è il sentimento dell'esistenza. Questo è tutto in quella parte dell'uomo, che
noi chiamiamo spirituale. Dunque la maggiore o minor vita, e quindi amor proprio
e infelicità, si dee misurare dalla maggior forza non del corpo ma dello
spirito. E la maggior forza dello spirito consiste nella maggior delicatezza,
finezza ec. degli organi che servono alle funzioni spirituali. Delicatezza
d'organi difficilmente si trova in una complessione non delicata; e viceversa
ec. La delicatezza del fisico interno corrisponde naturalmente ed è accompagnata
da quella dell'esterno. Di più la forza del corpo rende l'uomo più materiale, e
quindi propriamente parlando, men vivo, perchè la vita, cioè il sentimento
dell'esistenza, è nello spirito e dello spirito. {+Così le passioni ed azioni, le sensazioni e piaceri
{ec.} materiali, tanto più quanto sono più
forti; {#1. (rispettivamente alla
capacità ed agli abiti fisici e morali, ec. dell'individuo)}; le
attuali attualmente, le abituali abitualmente.} Le sensazioni
materiali in un corpo forte, o in un individuo che per esercizio o per altra
3924 cagione ha acquistato maggior forza corporale
ch'ei non aveva per natura, o in un corpo debole che si trovi in passeggero
stato di straordinaria forza, sono più forti, ma non perciò veramente più vive,
anzi meno perchè più tengono del materiale, e la materia (cioè quella parte
delle cose e dell'uomo che noi più peculiarmente chiamiamo materia) non vive, e
il materiale non può esser vivo, e non ha che far colla vita, ma solo colla
esistenza, la quale considerata senza vita, non è capace nè di amor proprio nè
d'infelicità. Così la materia non è capace di vita, e una cosa, un'azione, una
sensazione ec. quanto è più materiale, tanto è men viva. Insomma ciascuna specie
di viventi rispetto all'altre, ciascuno individuo rispetto a' suoi simili,
ciascuna nazione rispetto all'altre, ciascuno stato dell'individuo sia naturale,
sia abituale, sia attuale e passeggero, rispetto agli altri suoi stati, quanto
ha più del materiale, e meno dello spirituale, tanto è, propriamente parlando,
men vivo, tanto meno partecipa della vita e per quantità e per intensità e
grado, tanto ha minor somma e forza di amor proprio, e tanto è meno infelice.
Quindi tra' viventi le specie meno organizzate, avendo un'esistenza più
materiale, e meno di vita propriamente detta, sono meno infelici. Tra le nazioni
{umane} le settentrionali, più forti di corpo, men
vive di spirito, sono meno infelici delle meridionali. Tra gl'individui umani i
più forti di corpo, men delicati di spirito, sono meno infelici. Tra' vari stati
degl'individui, quello p. e. di ebbrietà, benchè più vivo quanto al corpo,
essendo però men vivo quanto
3925 allo spirito (che in
quel tempo è obruto dalla materia, e le
sensazioni spirituali dalle materiali, e le azioni stesse dello spirito, {{benchè più forti ec,}} hanno allora più del materiale
che all'ordinario), e quindi la vita essendo allora più materiale, e quindi
propriamente men vita (come in tempo di sonno o letargo, benchè questo sia
inerte, e l'ebbrietà più svegliata ancora e più attiva talvolta che lo stato sobrio), è meno infelice.
[3941,3] La facoltà d'imitazione non è che facoltà di
assuefazione; perocchè chi facilmente si avvezza, vedendo o sentendo o con
qualunque senso apprendendo, o finalmente leggendo, facilmente, ed anche in poco
tempo, riducesi ad abito quelle tali sensazioni
3942 o
apprensioni, di modo che presto, e ancor dopo una volta sola, e più o manco
perfettamente, gli divengono come proprie; il che fa ch'egli possa benissimo e
facilmente rappresentarle ed al naturale, esprimendole piuttosto che imitandole,
poichè il buono imitatore deve aver come raccolto e immedesimato in se stesso
quello che imita, sicchè la vera imitazione non sia propriamente imitazione,
facendosi d'appresso se medesimo, ma espressione. {#1. Giacchè l'espressione de' propri affetti o pensieri
{o} sentimenti o immaginazioni ec. comunque
fatta, io non la chiamo imitazione ma espressione.} Or come la facoltà
d'imitare sia qualità e parte principalissima e forse il tutto de' grandi
ingegni, e così degli altri talenti in proporzione, è cosa da molti osservata
è[e] spiegata. Dunque riconfermasi che
l'ingegno è facoltà di assuefazione. (6. Dec. 1823.). {{V. p. 3950.}}
[3942,2]
Alla p. 3275.
marg. Anzi molti di questi amano più di aver de' nemici che degli
amici, son più contenti di essere odiati che amati, e si attaccano volentieri
con chicchessia, non per sensibilità, neanche per misantropia, per l'odio
naturale verso gli altri ec., ma perchè il loro stato naturale è lo stato di
guerra, ed amano più di combattere che di stare in pace e posarsi, e più la vita
inquieta che la tranquilla. E ciò semplicissimamente, senza malignità, senza
carattere nè passioni nere e odiose. Infatti essi sono {apertissimi,} sincerissimi, compassionevolissimi, e beneficano più
degli altri, ma le stesse persone che essi compatiscono o beneficano, amerebbero
più
3943 di averle a combattere e di esserne odiati. E
similmente cogli altri uomini i quali hanno più caro di averli contrarii che
affezionati o indifferenti, e però tuttogiorno, senza passione alcuna, o ben
leggera, e sopra menomissime bagattelle gli stuzzicano e provocano ed offendono
o con parole o con fatti, per avere il piacer di combatterli e di stare in
guerra. E come ciascuno s'immagina ordinariamente quello che più desidera, così
essi ordinariamente si compiacciono in pensare che gli altri vogliano loro male,
e in torcere ogni menoma azione e parola altrui verso loro a cattiva intenzione
ed ostile, e pigliano occasione da tutto di entrare in lizza con chicchessia,
anche coi più familiari, intrinseci, compagni ed amici. Torno a dire che tutto
ciò è con grandissima semplicità ed anche nobiltà, o certo non doppiezza e non
viltà, di carattere; senza umor tetro e malinconico (anzi questi tali sono per
l'ordinario allegrissimi o tirano all'allegria) senza carattere atrabilare, nè
quella che si chiama δυσκολία e morositas, carattere
acre ec. {indole e costume puntiglioso,}
{#1. Chi sia accorto, facilmente distingue
e nella speculazione e nella pratica, e in ciascuna persona e caso
particolare, e nel generale, il carattere e costume puntiglioso, e i fatti
puntigliosi, dal carattere ec. ch'io qui descrivo (il quale non è neppur lo
stesso che quello del Burbero benefico di Goldoni) che certo in realtà sono cose molto
diverse e distinte.} anzi tutte queste cose son proprie degli uomini
deboli e sfortunati (e quindi con verità si attribuiscono pariticolarmente a'
vecchi, massime donne), {senza incontentabilità, malumore,
scontentezza,} senza umore soverchiamente collerico ed accensibile. La
forza del corpo {e dell'età} e la prosperità delle
circostanze, dà a questi tali tanta confidenza in se stessi, che non che
cerchino o curino il favor degli altri, sono più soddisfatti di averli
contrarii, e godono di riguardar gli altri piuttosto come nemici che come amici
o indifferenti, ed anche di averli veramente nemici più o meno, secondo la
qualità delle occasioni
3944 e la forza fisica di
questi tali. La loro conversazione e compagnia e convitto, massime a lungo
andare, è veramente molto difficile e dispiacevole, benchè essi sieno incapaci
di tradimento, e servizievoli e benefici e compassionevoli e generosi. Essi
sono, malgrado questo, poco capaci di amare, e poco fatti per essere amici, ma
essi sono altresì più capaci e desiderosi di aver de' nemici, che atti ad
esserlo, perchè son più buoni all'ira che [all'ira
che] all'odio, a combattere che a odiare, a vendicarsi che a
perseguitare. Anzi costoro son quasi incapaci di odiare, e l'ira eziandio {propriamente presa} in essi è molto blanda e breve,
forse perchè frequentissima. (6. Dec. 1823.).
[3952,1]
3952 Dal detto altrove pp. 109-11
pp. 1234-36
pp. 1701-706 circa le
idee concomitanti annesse alla significazione o anche al suono stesso e ad altre
qualità delle parole, le quali idee hanno tanta parte nell'effetto, massimamente
poetico ovvero oratorio ec., delle scritture, ne risulta che necessariamente
l'effetto d'una stessa poesia, orazione, verso, frase, espressione, parte
qualunque, maggiore o minore, di scrittura, è, massime quanto al poetico,
infinitamente vario, secondo gli uditori o lettori, e secondo le occasioni e
circostanze anche passeggere e mutabili in cui ciascuno di questi si trova.
Perocchè quelle idee concomitanti, indipendentemente ancora affatto dalla parola
o frase per se, sono differentissime per mille rispetti, secondo le dette
differenze appartenenti alle persone. Siccome anche gli effetti poetici {ec.} di mille altre cose, anzi forse di tutte le cose,
variano infinitamente secondo la varietà e delle persone e delle circostanze
loro, abituali o passeggere o qualunque. Per es. una medesima scena della natura
diversissime sorte d'impressioni può produrre e produce negli spettatori secondo
le dette differenze; come dire se quel luogo è natio, e quella scena collegata
colle reminiscenze dell'infanzia ec. ec. se lo spettatore si trova in istato di
tale o tal passione, ec. ec. E molte volte non produce impressione alcuna in un
tale, al tempo stesso che in un altro la fa grandissima. Così discorrasi delle
parole e dello stile che n'è composto e ne risulta, e sue qualità e differenze
ec. e questa similitudine è molto a proposito.
[3956,3] Si dice con ragione, massime delle cose umane, {+e terrene,} che tutto è piccolo. Ma
con altrettanta ragione si potrebbe dire, anche delle menome cose, che tutto è
grande, parlando cioè relativamente, come ancor parlano quelli che chiamano
tutto piccolo, perchè nè piccola nè grande non è cosa niuna assolutamente.
Sicchè non è per vero dire nè più ragionevole nè più filosofico il considerare
qualsivoglia cosa umana o qualunque, come piccola, che il considerare essa
medesima cosa come grande, e grandissima ancora, se così piace. E ben vi sono
{quasi} altrettanti aspetti e riguardi, tutti
egualmente
3957 degni di filosofo, altrettanti, dico,
per la seconda affermazione che per la prima. Ed anche il mondo intero e
universo e tutta la università delle cose o esistenti o possibili o
immaginabili, a paragone di cui chiamiamo piccole e menome le cose umane,
terrene, sensibili, a noi note, e simili, può nello stesso modo esser
considerata come piccola e menoma cosa, e d'altro lato come grande e
grandissima. Niente manco che mentre delle cose umane si chiamano piccole
verbigrazia quelle degli oscuri privati a paragone di quelle de' vastissimi e
potentissimi regni, e nondimeno queste ancora, grandissime a paragon di quelle,
si chiamano da' filosofi piccolissime e nulle sotto altro rispetto, è ben
ragionevole che sotto diversi rispetti, quelle eziandio de' privati ed
oscurissimi individui, sieno chiamate, anche da' filosofi, grandi e grandissime,
di grandezza niente men vera o niente più falsa che quella delle cose de'
massimi imperii. (8. Dec. 1823.).
[3976,1] Non è propria de' tempi nostri altra poesia che la
malinconica, nè altro tuono di poesia che questo, sopra qualunque subbietto ella
possa essere. Se v'ha oggi qualche vero poeta, se questo sente mai veramente
qualche ispirazione di poesia, e va poetando seco stesso, o prende a scrivere
sopra qualunque soggetto, da qualunque causa nasca detta ispirazione, essa è
certamente malinconica, e il tuono che il poeta piglia naturalmente o seco
stesso o con gli altri nel seguir questa inspirazione (e senza inspirazione non
v'è poesia degna di questo nome) è il malinconico. Qualunque sia l'abito, la
natura, le circostanze ec. del poeta, pur ch'ei sia di nazione civile, così gli
accade, e come a lui così a un altro che non avrà di comune con lui se non
questo solo. ec. Fra gli antichi avveniva tutto il contrario. Il tuono naturale
che rendeva la loro cetra era quello della gioia o della forza {+della solennità} ec. La poesia loro
era tutta vestita a festa, anche, in certo modo, quando il subbietto l'obbligava
ad esser trista. Che vuol dir ciò? O che gli antichi avevano meno sventure reali
di noi, (e questo non è forse vero), o che meno le sentivano e meno le
conoscevano, il che viene a esser lo stesso, e a dare il medesimo risultato,
cioè che gli antichi erano dunque meno infelici de' moderni. E tra gli antichi
metto anche, proporzionatamente, l'Ariosto ec. (12. Dec. 1823.).
[3990,2] Tutto è follia in questo mondo fuorchè il
folleggiare. Tutto è degno di riso fuorchè il ridersi di tutto. Tutto è vanità
fuorchè le belle illusioni e le dilettevoli frivolezze. (17. Dec.
1823.).
[4024,5] Gli uomini di natura, costume, o circostanza ed
occasione, allegri, sono generalmente disposti a far servigio o beneficio, e
compatire,
4025 e i malinconici in contrario, o certo
meno. Di ciò equivalentemente ho detto altrove molto a lungo pp.
69-70
p.
255. (31. Gen. 1824.).
[4031,1]
4031 Certo le condizioni sociali e i governi e ogni
sorta di circostanze della vita influiscono sommamente e modificano il carattere
e i costumi delle varie nazioni, anche contro quello che porterebbe il
rispettivo loro clima e l'altre circostanze naturali, ma in tal caso quello
stato o non è durevole, o debole, o cattivo, o poco contrario al clima, o poco
esteso nella nazione, o ec. ec. E generalmente si vede che i principali
caratteri o costumi nazionali, anche quando paiono non aver niente a fare col
clima, o ne derivano, o quando anche non ne derivino, e vengano da cagioni
affatto diverse, pur corrispondono mirabilmente alla qualità d'esso clima o
dell'altre condizioni naturali d'essa nazione o popolo o cittadinanza ec. Per
es. io non dirò che il modo della vita sociale rispetto alla conversazione e
all'altre infinite cose che da questa dipendono o sono influite, proceda
assolutamente e sia determinato nelle varie nazioni
d'europa dal loro clima, ma certo ne' vari modi
tenuti da ciascuna, e propri di ciascuna quasi fin da quando furono ridotte a
precisa civiltà e distinta forma nazionale, ovvero da più o men tempo, si scopre
una curiosissima conformità {generale} col rispettivo
clima in generale considerato. Il clima d'italia e di
Spagna è clima da passeggiate e massime nelle lor
parti più meridionali. Ora queste nazioni non hanno conversazione affatto, nè se
ne dilettano: e quel poco che ve n'è in italia, è nella
sua parte più settentrionale, in Lombardia, dove certo si
conversa assai più che in Toscana, a
Napoli, nel Marchegiano, in
Romagna, dove si villeggia
4032 e si fanno tuttodì partite di piacere, ma non di conversazione, e
si chiacchiera assai, e si donneggia assaissimo, ma non si conversa; in
Roma ec. Il clima
d'Inghilterra e di Germania
chiude gli uomini in casa propria, quindi è loro nazionale e caratteristica la
vita domestica, con tutte l'altre infinite qualità di carattere e di costume e
di opinione, che nascono o sono modificate da tale abitudine. Pur vi si conversa
più assai che in italia e Spagna
(che son l'eccesso contrario alla conversazione) perchè il clima è per tale sua
natura meno nemico alla conversazione, poichè obbligandoli a vivere il più del
tempo sotto tetto e privandoli de' piaceri della natura, ispira loro il
desiderio di stare insieme, per supplire a quelli, e riparare al vôto del tempo
ec. Il clima della Francia ch'è il centro della
conversazione e la cui vita e carattere e costumi e opinioni è tutto
conversazione, tiene appunto il mezzo tra quelli d'Italia
e Spagna, Inghilterra e
Germania, non vietando il sortire, {e il trasferirsi da luogo a luogo,} e rendendo
aggradevole il soggiornare al coperto: siccome la vita
d'Inghilterra e Germania tiene
appunto il mezzo, massime {in quest'ultimi tempi,} per
rispetto alla conversazione, tra la vita d'Italia e
Spagna e quella di Francia, e
così il carattere ec. che ne dipende. E già in mille altre cose la
Francia, siccome il suo clima, tiene il mezzo fra'
meridionali e settentrionali, del che altrove in più luoghi pp.
1045-46
pp.
2989-90. Non parlo delle meno estrinseche e più spirituali influenze
del clima sulla complessione e abitudine del corpo e dello spirito, {+anche fin dalla nascita,} che pur
grandissimamente
4033 contribuiscono a cagionare e
determinare la varietà che si vede nella vita delle nazioni, popolazioni,
individui tutti partecipi (come son oggi) di una stessa sorta di civiltà, circa
il genio e l'uso della conversazione. (15. Feb. 1824.).
[4037,6] Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel
conversare, e massime gli sprezzanti avessero più amor proprio degli altri e più
stima di se, e i timidi meno. Tutto al contrario. I timidi per eccesso di amor
proprio e per il troppo conto che fanno di se, temendo sempre di sfigurare e
perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di acquistarla e di
figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del proprio onore, del
proprio concetto, del proprio amore, e occupati e legati da questo pensiero,
sono senza coraggio, e non si ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti fanno al
contrario
4038 per la contraria cagione, cioè per aver
poca cura e poco concetto concetto di se, o desiderio della stima degli altri
(che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura, o per
abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano
di offendere l'amor proprio degli altri, e n'hanno poca cura, per poco amor di
se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille scrupoli e riguardi, e non
impetrano mai da se stessi non che di lederlo menomamente, ma di porsene a
rischio benchè leggero e lontano, e ciò per soverchio amor proprio, il quale
parrebbe che dovesse principalmente offendere e muoverli ad offendere quello
degli altri. E così per soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar
dispregio degli altri, e infatti non gli spregiano, anzi gli stimano
eccessivamente non per altro che per lo smisurato desiderio e conto che fanno
della loro stima, anche conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema
che hanno di perderla, eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per
rispetto al merito di coloro. Tali sono ordinariamente i fanciulli e i giovani
ancora inesperti e inesercitati nel commercio umano e nelle palestre dell'amor
proprio, dov'esso riporta tanti colpi, che alla fine incallisce; e tali sono più
o manco, per più o men lungo tempo, ed alcune per tutta la vita, le persone
sensibili e immaginose, le quali restano {sovente}
fanciulle anche in età matura, e vecchia, sì quanto a {molte} altre cose, sì quanto a questa della timidità {nel consorzio umano,} che in esse è sempre difficile a
vincere più {assai} che negli altri, e in alcune è
assolutamente invincibile, come {fu} in Rousseau. La cagione si è l'eccesso
dell'amor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza
dell'animo; ed insieme la vivacità della immaginazione, la quale non mai
veramente spenta {in loro,} nè anche quando pare
affatto agghiacciata, e quando effettivamente ha cessato affatto di partorire
alcun piacere all'individuo medesimo, continuamente,
4039 secondo la sua natura, va fingendo ad esso amor proprio che è per se
vivissimo, mille falsi pericoli e difficoltà, o smisuratamente accrescendo e
moltiplicando i veri. Sì, Rousseau e gli
altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da
un'invincibile e irrepugnabile timidità, anzi mauvaise
honte ed erubescenza, non furono e non son tali se non
per eccesso di amor proprio e d'immaginazione. Altro danno e infelicità somma
della soprabbondanza della vita interna dell'anima (oltre i tanti da me altrove
notati p. 1382
p.
1584
pp. 2410-14
pp.
2629-30
pp. 2736-39
p.
2861
pp.
3921. sgg.), della sensibilità, della squisitezza dell'ingegno, della
natura riflessiva, immaginosa ec. Poichè in essa l'amor proprio essendo
eccessivo e però tanto più bisognoso di successi, e desiderando la stima altrui
e temendo la disistima molto più che gli altri non fanno, e impedito di
conseguire e costretto ad incontrare quelli che gli altri con molto minor
desiderio e bisogno conseguono facilissimamente ogni dì, ed evitano con molto
minor tema, e che quando nol conseguissero o non lo evitassero, ne sarebbero
molto meno afflitti e infelicitati, per la minore vivacità {e
sensibilità} dell'amor proprio, ed anche della immaginazione, la quale
a quegli altri accresce eziandio per se stessa e con mille false esagerazioni e
finzioni la grandezza delle perdite fatte, di quello che essi desiderano
naturalmente di conseguire, di quello che non ottengono, dei mali successi
incontrati nella società, delle ἀσχημοσύναι, che anche bene spesso non son vere
affatto, ma fabbricate di pianta dall'immaginazione, e non esistono se non
nell'idea di questi tali, e così anche i buoni successi o gli oggetti che essi
si propongono di conseguire che spessissimo sono vani e immaginari, e da niuno
ottenuti nè possibili ad ottenere ec. ec. (1. Marzo. penultimo dì di
Carnevale. 1824.) Ciò che ho detto dell'immaginazione, dico
4040 dell'amor proprio, il quale in questi tali, anche
quando sembra rotto e fiaccato dall'uso de' mali, {dispiaceri, punture ec.} anzi minore assai che non è negli altri, e
quasi al tutto agghiacciato, addormentato e spento, è sempre in verità vivissimo
assai più che negli altri anche giovani e principianti, caldissimo, e {ancora} in istato da esser chiamato tenerezza di se
stesso (come suol essere nella gioventù) benchè sia in loro più {negativo che} positivo, più atto a impedire che a
cagionare, piuttosto causa di passione che d'azione ec. quale egli è
proporzianatamente[proporzionatamente] anche
ne' primi anni di questi tali. (3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri.
1824.).
[4041,7] Gli uomini sarebbono felici se non avessero cercato
e non cercassero di esserlo. Così molte nazioni o paesi sarebbero ricchi e
felici (di felicità nazionale) se il governo, anche con ottima e sincera
intenzione, non cercasse
4042 di farli tali, usando a
questo effetto dei mezzi (qualunque) in cose dove l'unico mezzo che convenga si
è non usarne alcuno, lasciar far la natura, come p. e. nel commercio ch'è più
prospero quanto è più libero, e men se ne impaccia il governo. Similmente dicasi
de' filosofi ec. Del resto la vita umana è come il commercio; tanto più prospera
quanto men gli uomini, i filosofi ec. se ne impacciano, men proccurano la sua
felicità, lasciano più far la natura. (7. Marzo. prima Domenica di
Quaresima. 1824.).
[4058,1] È un grand'errore di quelli che hanno a congetturare
o indovinare le risoluzioni o gli andamenti d'altri, sia nelle cose private sia
nelle pubbliche, e queste o politiche o militari, e sia con dati o senza dati,
il considerare con ogni sorta di acutezza e di prudenza quello che sia più utile
a quei tali di risolvere o di fare, più conveniente, più secondo lo stato loro e
delle cose, più giusto, più savio, e trovatolo, risolversi che essi faranno o
determineranno, ovvero fanno e determinano appunto questa o queste cose {+o l'una di queste in ogni modo.}
Diamo uno sguardo all'intorno alla vita, alle azioni e risoluzioni degli uomini,
e vedremo che per dieci ben fatte, convenienti ed utili a quei che le fanno, ve
n'ha mille malissimo fatte, sconvenientissime, inutilissime, dannosissime a essi
medesimi, più o meno, contrarie alla prudenza, a quello che avrebbe risoluto o
fatto un uomo savio e perfetto, trovandosi nel caso loro. Vedremo che gli uomini
il più delle volte non deliberano maturamente quando v'ha bisogno di maturità,
non conoscono l'importanza delle cose che hanno a risolvere o a fare, non
sospettano nemmeno che sia loro utile o necessario di consultare intorno ad
esse, e non entrano affatto in alcuna consulta. Parlo egualmente de' grandi e
de'
4059 piccoli, delle cose pubbliche e delle private,
piccole relativamente e grandi. È certissimo che gli affari degli uomini
qualunque, che vanno male, non vanno così (se non di rado) senza loro colpa o
insufficienza; or come dunque dovrà essere regola per indovinare le opere o
risoluzioni loro, il cercare quello che lor sia più utile e conveniente? Il
numero o degli sciocchi assolutamente, o degl'inetti ai carichi e alle cose che
hanno a maneggiare, benchè valorosi nel resto, o di quelli che anche al loro
carico sono adattati, ma non perfetti, o insomma delle risoluzioni e delle
azioni mal prese e mal fatte, inutili o dannose a chi le ha fatte o prese,
sconvenienti al caso, o finalmente tali che nelle date circostanze non erano le
migliori; il numero dico di tali azioni, risoluzioni ed uomini soverchia ed ha
sempre soverchiato di grandissima lunga quello delle azioni, risoluzioni ed
uomini loro contrarii, come apparisce da tutte le antiche e moderne storie sì
civili sì militari sì private, e dall'osservazione della vita e avvenimenti
giornalieri privati o pubblici. Onde quella regola in vece di condurre alla
probabilità dell'indovinare, conduce chi la segue ad avere cento probabilità per
una, contro quella {o quelle cose} che egli sceglie e
quel giudizio o congettura che ei forma. Di più, assolutamente parlando, è
falsissimo e malissimo considerato il persuadersi che gli uomini nel caso
proprio veggano quel medesimo che in esso caso veggono gli altri posti fuori di
esso, e pensino e sentano e sieno disposti {allo}
stesso modo. Onde ancorchè pognamo {in due persone}
perfetta parità di prudenza, di esperienza, insomma di attitudine a risolvere e
fare in un dato caso quello che si conviene, è certissimo che se di queste due
persone l'una
4060 si troverà nel caso e l'altra fuori
considerandolo senza comunicare con quella, {il più delle
volte} la risoluzione o il modo dell'azione dell'una sarà diversissima
{più o meno} da quello che all'altra parrà si fosse
convenuto. Aggiungasi la diversità dei principii, delle abitudini e di mille
altre cose anche minime che diversificando gli spiriti (giacchè non si dà
spirito perfettamente uguale ad un altro, più che si dieno due fisonomie al
tutto conformi), diversificano altresì con mille modi le risoluzioni ed azioni
di uno da quelle di un altro, anche supponendo in ambedue ugual capacità, e
parità di caso, anzi diversificano le risoluzioni e azioni di una persona stessa
in casi uguali o simiglianti. Senza poi parlare delle passioni e delle occasioni
e circostanze del momento, spesso minime, che così minime modificano sovente e
sovente cagionano al tutto e determinano le risoluzioni ed azioni di uno, mentre
che l'altro che vuole indovinarle non è affetto da tali circostanze, sia
fisiche, sia morali, sia qualunque. La vera regola per isbagliare il meno
possibile, e la vera politica in tali casi, è conoscere quanto si può il
carattere, le abitudini, le qualità della data persona, applicarle al caso di
cui si tratta, e rinunziando a ogni prudenza propria, mettendosi ne' piedi di
quella, piuttosto come poeta, che come ragionatore, congetturar quello ch'egli è
per fare o risolvere, {anzi risolvere, per così dire, in vece
sua.} come il drammatico congettura quello che un dato uomo di un dato
carattere in un dato caso sarebbe per dire, e congetturatolo parla in persona di
esso. (5. Aprile. 1824.). {+V. il Guicc. ed. Friburgo. t.
4. p. 106.}
[4060,1] L'uomo (per l'amor della vita) ama naturalmente e
desidera e abbisogna di sentire, o gradevolmente, o comunque purchè sia
vivamente (la qual vivezza qualunque, non può essere senza positivo diletto, nè
sensazione indifferente
4061 veramente). {Sì} Ιl sentire dispiacevolmente {come} il non sentire sono cose assolutamente penose per lui. E talora
è men penosa, anzi più grata una sensazione con alquanto di dispiacevole, che la
privazion di sensazioni. Se l'uomo potesse sentire infinitamente, di qualunque
genere si fosse tal sensazione, purchè non dispiacevole, esso in quel momento
sarebbe felice, perchè la sensazione è così viva, il vivo (non dispiacevole in
se) è piacevole all'uomo per se stesso e qualunque ei sia. Dunque l'uomo
proverebbe in quel momento un piacere infinito, e quella sensazione, benchè
d'altronde indifferente, sarebbe un piacere infinito, quindi perfetto, quindi
l'uomo ne saria pago, quindi felice.
[4064,1] Ciascuno, e massimamente gli spiriti più delicati,
sensibili e suscettibili, pervenuto a una certa età ha fatto esperienza in se
stesso di più e più caratteri. Le circostanze fisiche, morali e intellettuali,
cambiandosi continuamente nello spazio della vita di un uomo, e nelle sue
diverse età, cambiandosi, dico, per rispetto a lui, cambiano continuamente il
suo carattere, di modo che di tempo in tempo egli è uomo veramente nuovo di
spirito, come dicono i fisici che di sette in sette anni (se non erro) egli è
rinnovato di corpo. Gli uomini sensibili in particolare non solo cambiano
carattere e più rapidamente degli altri, ma facilmente e ordinariamente
acquistano caratteri contrari tra se, e massime a quel primo carattere che si
sviluppò in essi, a quello più conforme alla loro natura, a quello che il primo
potè in loro esser chiamato carattere. La coltura dell'intelletto fra l'altre
cose cagiona in una persona stessa a proporzione de' suoi progressi, e
coll'andar del tempo, una
4065 variazione singolarmente
rapida e singolarmente grande. Chi non sa quanto i principii, le opinioni e le
persuasioni influiscano e determinino i caratteri degli uomini? Ora ciascuno
individuo quando nasce è precisamente, quanto all'intelletto nello stato
medesimo in cui fu il primo uomo. Quegl'individui che coll'andar del tempo si
sono posti a livello delle cognizioni del nostro tempo, sono necessariamente
passati per tutti quegli stati per cui lo spirito umano è passato dal principio
del mondo fino al dì d'oggi (almeno per quei gradi per cui egli è passato
progredendo e avanzando), e ha sperimentato in se tutti gli avvenimenti
dell'intelletto che il genere umano ha sperimentato in tanti secoli quanti sono
corsi dalla sua origine insino a ora. La storia del suo intelletto è quella
appunto di tutti questi secoli {ristretta e} compresa
in venti o trent'anni di tempo. Laonde da tutti i cambiamenti che il suo
intelletto ha provati, cambiamenti che più volte l'hanno portato a persuasioni e
stati contrarissimi ai passati, e in ultimo a un sistema di persuasioni ed a uno
stato contrarissimo al suo primitivo; da tutti questi cambiamenti, dico,
deggiono di necessità essere risultate in lui tante diversità e successivi
cambiamenti di carattere, quanti ne sono stati prodotti nelle nazioni e nel
genere umano in generale dai diversi principii e opinioni e dal diverso {progresso e} stato di cognizioni in tutto il tempo che
ci è bisognato per portarlo dal suo primitivo stato al presente. (8.
Aprile. 1824.) Onde questo tale individuo rinchiude e compendia in
se, non solo la storia dello spirito umano, ma quella eziandio de' caratteri
{successivi} delle nazioni, in quanto essi ebbero
origine e dipendenza dalle opinioni e conoscenze, che certo è grandissima e
forse la massima parte. (8. Aprile. 1824.).
[4070,1] Gli uomini governati in pubblico o in privato da
altri, e tanto più quanto il governo è più stretto, {(i
fanciulli, i giovani ec.)} accusano sempre, o tendono naturalmente ad
accusare de' loro mali o della mancanza de' beni, delle noie e scontentezze
loro, quelli che li governano, anche in quelle cose nelle quali è evidentissima
l'innocenza di questi, e la impossibilità o d'impedire o rimediare a quei mali o
di proccurar quei beni, e la totale indipendenza e irrelazione di queste cose
con loro. La cagione è che l'uomo essendo sempre infelice, naturalmente tende ad
incolparne altresì sempre non la natura delle cose e degli uomini, molto meno ad
astenersi dall'incolpare alcuno, ma ad incolpar sempre qualche persona o cosa
particolare in cui possa sfogar l'amarezza che gli cagionano i suoi mali, e che
egli possa per cagione di questi fare oggetto e di odio e di querele, le quali
sarebbero assai men dolci di quello che sono a chi soffre se non cadessero
contro alcuno riputato in colpa del suo soffrire. Questa naturale tendenza opera
poi che il misero si persuade anche effettivamente di quello che egli immagina,
e quasi desidera che sia vero. Da ciò è nato che egli ha immaginato i nomi e le
persone di fortuna, di fato, incolpati sì lungamente dei mali umani, e sì
sinceramente odiati dagli antichi infelici, e contro i quali anche oggi, in
mancanza d'altri
4071 oggetti, rivolgiamo seriamente
l'odio e le querele delle nostre sventure. Ma molto più dolce fu agli antichi ed
è a' moderni l'incolpare qualche cosa sensibile, e massime qualche altro uomo,
non solo per la maggior verisimiglianza, e quindi facilità di persuaderci della
sua colpa, che è quello che ci bisogna, ma più ancora perchè l'odio e le querele
sono più dolci quando si rivolgono sopra cose presenti che ne possano essere
testimoni, e sottoposte alla vendetta che noi con esso odio vano e con esse vane
querele intendiamo fare di loro. Massimamente poi è dolce l'odio e il lamento
quando è rivolto sui nostri simili, sì per altre cagioni, sì perchè la colpa non
può veramente appartenere se non a esseri intelligenti. Quelli che ci governano
sono {da noi facilmente} scelti a far questa persona di
rei de' nostri mali, {+che non hanno
altro reo manifesto o accusabile,} e a servir di {soggetto e} scopo della vana vendetta che ci è dolce fare de'
medesimi mali. Essi sono in fatti in tali casi i più adattati, e quelli di cui
ci possiamo dolere esteriormente e interiormente con più di verisimilitudine.
Quindi è che chi governa in pubblico o in privato è sempre oggetto d'odio e di
querele de' governati. Gli uomini sono
sempre scontenti perchè sono sempre infelici. Perciò sono scontenti del
loro stato, perciò medesimo di chi li governa. (Essi sentono e sanno bene di
essere infelici, di patire, di non godere, e in ciò non s'ingannano. Essi
pensano aver diritto di esser felici, di godere, di non patire, e in ciò ancora
non avrebbero il torto, se non fosse che in fatto questo che essi pretendono è,
non che altro, impossibile.)
4072 E come non si può
fare che gli uomini sieno mai felici, e però nè anche che sieno contenti, così
niun governante nè pubblico nè privato, qualunque amore abbia a' soggetti,
qualunque cura del loro bene, qualunque sollecitudine di scamparli o sollevarli
dai mali, qualunque merito insomma verso di loro, non può mai ragionevolmente
sperare che essi non l'odino e non lo querelino, anche i più savi, perchè è
natura nell'uomo il lagnarsi di qualcuno, quasi altrettanto che l'essere
infelice, e questo qualcuno è per l'ordinario e molto naturalmente quello che li
governa. Però circa il governare non v'ha pur troppo che due partiti veramente
savi, o astenersi dal governo, {+sia
pubblico sia privato,} o amministrarlo totalmente a vantaggio proprio
e non de' governati. (17. Aprile. 1824. Sabato Santo.).
[4074,1]
4074
{Alla p.
4043.} Qualunque poesia o scrittura, o qualunque parte di
esse esprime o collo stile o co' sentimenti, il piacere e la voluttà, esprime
ancora o collo stile o co' sentimenti formali o con ambedue un abbandono una
noncuranza una negligenza una specie di dimenticanza d'ogni cosa. E generalmente
non v'ha altro mezzo che questo ad esprimere la voluttà. Tant'è, il piacere non
è che un abbandono e un oblio della vita, e una specie di sonno e di morte. Il
piacere è piuttosto una privazione o una depressione di sentimento che un
sentimento, e molto meno un sentimento vivo. Egli è quasi un'imitazione della
insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario
alla vita ed alla privazione di essa, perchè la vita per sua natura è dolore.
Onde è piacevole l'esserne privato in quanta parte si può, senza dolore e
senz'altro patimento che nasca o sia annesso a questa privazione. Quindi il
piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che
privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario.
Tali almeno sono i maggiori e più veraci piaceri. I piaceri vivi sono anche
manco piaceri. Sempre portano seco qualche pena, qualche sensazione incomoda,
qualche turbamento, e ciò annesso {cagionato} e
dipendente essenzialmente da loro. (19. Aprile. Lunedì di Pasqua.
1824.) Dunque la vita è un male e un dispiacere per se, poichè la
privazione di essa in quanto si può è naturalmente piacere. Infatti la vita è
naturalmente uno stato violento, poichè {naturalmente}
priva del suo sommo e naturale
4075 bisogno, desiderio,
fine, e perfezione che è la felicità. E non cessando mai questa violenza, non
v'è un solo momento di vita sentita che sia senza positiva infelicità e positiva
pena e dispiacere. (20. Aprile. Martedì di Pasqua. 1824.). {{+ [p. 4057,2]}}
[4079,1] Nel Dialogo della Natura e dell'Anima ho
considerato come la ragione e l'immaginazione e in somma le facoltà mentali
eccellenti nell'uomo sopra quelle di ciascun altro vivente, gli sieno causa di
non poter mai o quasi mai, e in ogni modo difficilmente, far uso di tutte le sue
forze naturali, come fanno tutto dì e
4080 senza
difficultà veruna tutti gli altri animali. Aggiungi. Si dice che i pazzi hanno
una forza straordinaria, a cui non si può resistere, massime da solo a solo. Si
crede che la loro malattia dia questa forza per se stessa, al contrario di tutte
l'altre infermità. Non è egli chiaro che ciò procede dal non aver essi in se
medesimi niuno impedimento a usare tutte le loro forze naturali? che i pazzi
hanno più forza degli altri, solo perchè usano tutte quelle che hanno, o maggior
parte che gli altri non usano? appunto come fa un animale nè più nè meno. Dal
che deduco: quanti animali che si dicono fisicamente essere più forti dell'uomo,
in verità non lo sono! quante forze debbe avere perdute l'uomo per i progressi
del suo spirito, non solo radicalmente, ma anche per essere impedito a usare
quelle che gli rimangono! quanto è più forte l'uomo, anche corrotto e
indebolito, di quel che egli si crede. I pazzi lo dimostrano, che sovente
superano di forze fisiche persone molto più robuste di loro, ed animali creduti
ordinariamente più forti dell'uomo a corpo a corpo. L'ubbriachezza accresce le
forze non solo radicalmente, ma eziandio negativamente per l'uso, che ella
impedisce o turba, della ragione. Senza un'assoluta mancanza o sospensione di
quest'uso, niuno uomo nè anche irriflessivo, nè anche fanciullo, nè anche
selvaggio, nè anche disperato (i quali però tutti si vede per esperienza che
hanno {o piuttosto mostrano di avere} a proporzione
molta più forza de' loro contrari), non usa, nè anche ne' maggiori bisogni, ne'
maggiori pericoli, tutte le forze precisamente che egli ha in tutte le loro
specie e in tutta la loro estensione. Non così gli animali: o certo essi
risparmiano infinitamente minor parte delle loro
4081
forze, anche ne' menomi pericoli, bisogni, desiderii, propositi, che non
risparmia l'uomo, anche il più disperato ec., ne' maggiori. (23. Apr.
1824.). {{Il detto de' pazzi dicasi
proporzionatamente de' disperati.}}
{{V. p. 4090.}}
[4096,2] Il tale diceva non esser ben detto quel che si
afferma comunemente che basta l'apparenza p. e. a un letterato per essere
stimato, benchè manchi della sostanza. Ora l'apparenza non solo basta, ma è la
sola cosa che basti, ed è necessaria e la sola necessaria. Perocchè la sostanza
senza l'apparenza non fa effetto alcuno e nulla ottiene, e l'apparenza colla
sostanza non fa nè ottiene niente di più che senza essa: onde si vede la
sostanza essere inutile, e il tutto stare nella sola apparenza. (1.
Giugno. 1824.).
[4103,6]
Il est
aisé de voir la prodigieuse révolution que cette époque
*
(celle
du Christianisme) dut produire dans les mœurs. Les
femmes, presque toutes d'une imagination vive et d'une ame ardente, se
livrèrent à des vertus qui les flattoient d'autant plus, qu'elles
étoient pénibles. Il est presque égal pour le bonheur de satisfaire de
grandes passions, ou de les vaincre. L'ame est heureuse par ses efforts;
et pourvu qu'elle s'exerce, peu lui importe d'exercer son activité
contre elle - même.
*
Thomas
Essai sur les Femmes.
Oeuvres, Amsterdam 1774. tome 4.
p. 340. (24. Giugno. Festa di S. Giovanni Battista.
1824.).
[4105,2] L'infelicità abituale, ed anche il solo essere
abitualmente privo di piaceri e di cose che lusinghino l'amor proprio, estingue
a lungo andare nell'anima la più squisita ogn'immaginazione, ogni virtù di
sentimento, ogni vita ed attività e forza, e quasi ogni facoltà. La cagione è
che una tale anima, dopo quella prima inutile disperazione, e contrasto feroce o
doloroso colla necessità, finalmente riducendosi in istato tranquillo, non ha
altro espediente per vivere, nè altro produce in lui la natura stessa ed il
tempo, che un abito di tener continuamente represso e prostrato l'amor proprio,
perchè l'infelicità offenda meno e sia tollerabile e compatibile colla calma.
Quindi un'indifferenza e insensibilità verso se stesso maggior che è possibile.
Or questa è una perfetta morte dell'animo e delle sue facoltà. L'uomo che non
s'interessa a se stesso, non e capace d'interessarsi a nulla, perchè nulla può
interessar l'uomo se non in relazione a se stesso, più o men vicina e palese, e
di qualunque sorte ella sia. Le bellezze della
4106
natura, la musica, le poesie più belle, gli avvenimenti del mondo, felici o
tragici, le sventure o le fortune altrui, anche dei suoi più stretti, non fanno
in lui nessuna impressione viva, non lo risvegliano, non lo riscaldano, non gli
destano immagine, sentimento, interesse alcuno, non gli danno nè piacere nè
dolore, se bene pochi anni avanti lo empievano di entusiasmo e lo eccitavano a
mille creazioni. Egli stupisce stupidamente della sua sterilità e della sua
immobilità e freddezza. Egli è divenuto incapace di tutto, inutile a se e agli
altri, di capacissimo ch'egli era. La vita è finita quando l'amor proprio ha
perduto il suo ressort. Ogni potenza dell'anima si
estingue colla speranza. Voglio dire colla disperazione placida, perchè la
furiosa è pienissima di speranza, o almeno di desiderio, ed anela smaniosamente
alla felicità nell'atto stesso che impugna il ferro o il veleno contro se
medesimo. Ma il desiderio è più spento che sia possibile in un'anima avvezza a
vederli sempre contrariati, e ridotta o per riflessione o per abito o per
ambedue a sopirli e premerli. L'uomo che non desidera per se stesso e non ama se
stesso non è buono agli altri. Tutti i piaceri, i dolori, i sentimenti e le
azioni che gl'inspiravano le cose dette di sopra, cioè la natura e il resto, si
riferivano in un modo o nell'altro a se stesso, e la loro vivezza consisteva in
un ritorno vivo sopra se medesimo. Sacrificandosi ancora agli altri, non
d'altronde egli ne aveva la forza se non da questo ritorno e rivolgimento sopra
di se. Ora
4107 senz'alcuna ferocia, nè misantropia nè
rancore nè risentimento, senza neppure egoismo, {+quell'anima già poco prima sì tenera} è
insensibile alle lagrime, inaccessibile alla compassione. Si moverà anche a
soccorrere, ma non a compatire. Beneficherà o sovverrà, ma per una fredda idea
di dovere o piuttosto di costume, senza un sentimento che ve lo sproni, un
piacere che gliene venga. La noncuranza vera e pacifica di se stesso è
noncuranza di tutto, e quindi incapacità di tutto, ed annichilamento dell'anima
la più grande e fertile per natura.
[4118,2] Compassione nata dalla bellezza anche verso chi per
molti capi non la merita, perpetuata anche nella posterità che si stima esser
sempre un giudice giusto. Vedi Thomas
loc. cit. qui dietro, chapitre
26. p. 46-7.
(26. Agos. 1824.).
[4120,20] Non solo, come ho detto altrove p.
646, nessun secolo barbaro si credette esser tale, ma ogni secolo si
credette e si crede essere il non plus ultra dei
progressi dello spirito umano, e che le sue cognizioni, scoperte ec. e massime
la sua civilizzazione difficilmente o in niun modo possano essere superate dai
posteri, {+certo non dai passati.}
(10. Ott. Domenica. 1824.). {V. la p. 4124.} Così non
v'è nazione nè popoletto così barbaro e selvaggio che
4121 non si creda la prima delle nazioni, e il suo stato, il più
perfetto, civile, felice, e quel delle altre tanto peggiore quanto più diverso
dal proprio. V. Robertson
Stor. d'America,
Venez. 1794. t. 2. p. 126. 232-33. Così le
nazioni mezzo civili, o imperfette, anche in europa ec. E
così sempre fu. (15. Ottobre. Festa di Santa Teresa di Gesù. 1824.).
[4140,2] Tanto è necessaria l'arte nel viver con gli uomini
che anche la sincerità e la schiettezza conviene usarla seco loro con artificio.
(Milano. 22. Sett. 1825.)
[4141,3] Nel corso del sesto lustro l'uomo prova tra gli
altri un cangiamento sensibile e doloroso nella sua vita, il quale è che laddove
egli per lo passato era solito a trattare per lo più con uomini di età o
maggiore o almeno uguale alla sua, e di rado con uomini più giovani di se,
perchè i più giovani di lui non erano che fanciulli, allora spessissimo si trova
a trattare con uomini più giovani, perchè egli ha già molti inferiori di età,
che non sono però fanciulli, di modo che egli si trova quasi cangiato il mondo
dattorno, e non senza sorpresa, se egli vi pensa, si avvede di essere riguardato
da una gran parte dei suoi compagni come più provetto di loro, cosa tanto
contraria alla sua abitudine che spesso accade che per un certo tempo egli non
si avveda ancora di questa cosa, e séguiti a stimarsi {generalmente} o più giovane o coetaneo dei suoi compagni, come egli
soleva, e con verità, per l'addietro. (Bologna. 8.
Ottobre. 1825.)
[4149,6] Io sono, si perdoni la metafora, un sepolcro
ambulante, che porto dentro di me un uomo morto, un cuore già sensibilissimo che
più non sente ec. (Bologna. 3. Nov.
1825.).
[4153,5] Il mezzo più efficace di ottener fama è quello di
far creder al mondo di esser già famoso. (Bologna.
21. Nov. 1825.). {{Analogo e confermativo
4154
{+ di questo detto è quello di Labruyère, che più facile è far
passare un'opera mediocre in grazia di una riputazione dell'autore già
ottenuta e stabilita, che l'ottenere o stabilire una riputazione con
un'opera eccellente.}}}
[4160,10] Siccome ad essere vero e grande filosofo si
richiedono i naturali doni
4161 di grande immaginativa
e gran sensibilità, quindi segue che i grandi filosofi sono di natura la più
antifilosofica che dar si possa quanto alla pratica e all'uso della filosofia
nella vita loro, e per lo contrario le più goffe o dure, fredde e
antifilosofiche teste sono di natura le più disposte all'esercizio pratico della
filosofia. Sommo filosofo fu il Tasso
pei suoi tempi quanto alla contemplazione. Ma chi meno di lui disposto per
natura alla pratica della filosofia? chi più disposto anzi alla pratica delle
dottrine più illusorie, di quelle dell'entusiasmo ec.? E infatti chi meno
filosofo di lui nella pratica, e nell'effetto che gli accidenti della vita
producevano nel suo spirito? Viceversa chi meno filosofo in teoria che certi
spensierati e imperturbabili e sempre lieti e tranquilli uomini, che pur nella
pratica sono il modello e il tipo del carattere e della vita filosofica?
Veramente, siccome la natura trionfa sempre, accade generalmente che i più
filosofi per teoria, sono in pratica i meno filosofi, e che i men disposti alla
filosofia teorica, sono i più filosofi nell'effetto. E si potrebbe anzi dire che
la mira, l'intenzione e la somma della filosofia teorica {e
de' suoi precetti ec.} non consiste effettivamente in altro che nel
proposito di rendere la vita e il carattere di quelli che la posseggono,
conforme a quello di coloro che non ne sono capaci per natura. Effetto che ella
difficilmente ottiene. {{(Bologna. 20. Dic.
1825.).}}
[4164,2] Spessissimo noi, come un malato, {un convalescente,} che si cura, un povero che si procaccia il vitto
con gran fatica, usando una infinita pazienza per solo conservarci la vita, non
facciamo altro che patire infinitamente per conservarci, {per
non perdere,} la facoltà di patire, ed esercitar la pazienza per
preservarci il potere di esercitarla, per continuarla ad esercitare.
(Bologna. 4. Feb. 1826.).
[4166,4]
{(Tanto è lungi che)} Non solo noi non possiamo sapere
nè anche sufficientemente congetturare tutto quello di cui sia capace, aiutata
da circostanze favorevoli, la natura umana in universale, ma eziandio di un solo
individuo, o passato o presente o futuro, noi non possiamo sapere {esattamente} nè congetturare quanta estensione, in
circostanze appropriate, avessero potuto {o pur
potranno} acquistare le sue facoltà.
(Bologna. 21. Feb. 1826.).
[4167,12] Molti divengono insensibili alle lodi, e restano
però sensibili al biasimo ed al ridicolo, sensibilità che essi perdono assai più
tardi o non mai. E ben più difficilmente si perde questa sensibilità che quella.
Certamente poi niuno si trova che essendo sensibile alle lodi, sia insensibile
ai biasimi, alle censure, alle male voci o calunnie, ai motteggi; bensì
viceversa si trovano molti. Tanto, anche nelle cose puramente sociali, la
facoltà di provar piacere è nell'uomo più caduca e più limitata che quella di
sentir dispiacere. (Bologna. 9. Marzo.
1826.)
[4168,3]
Alla p. 4137.
L'uomo tende ad un fine principale e unico. Ogni suo atto volontario o di
pensiero o d'opera è indirizzato a questo fine. Questo fine è dunque il suo
sommo bene. E questo sommo bene che è? Certamente la felicità. {Sin qui tutti i filosofi sono d'accordo, antichi e
moderni.} Ma che è, ed in che consiste, e di che natura è la felicità
conveniente e propria alla natura dell'uomo, desiderata sommamente e
supremamente, anzi per verità unicamente, dall'uomo, cercata e procacciata
continuamente dall'uomo? Che cosa è per conseguenza il sommo bene dell'uomo, il
fine dell'uomo? Qui non v'è setta, non v'è filosofo, nè tra gli antichi nè tra i
moderni, che non discordi dagli altri. Sonovi alcuni che si maravigliano di
tanta discordia dei filosofi in questo punto, dopo tanta loro concordia nel
rimanente. Ma che maraviglia? Come trovare, come determinare, quello che non
esiste, che non ha natura nè essenza alcuna, ch'è un ente di ragione? Il fine
dell'uomo, il sommo suo bene, la sua felicità, non esistono. Ed egli cerca e
cercherà sempre sommamente ed unicamente queste cose, ma le cerca senza sapere
di che natura sieno, in che consistano, nè mai lo saprà, perchè infatti queste
cose non esistono, benchè per natura dell'uomo sieno il necessario fine
dell'uomo. Ecco spiegate le famose controversie intorno al sommo bene. Il sommo
bene è voluto, desiderato, cercato di necessità, e ciò sempre e sommamente anzi
unicamente, dall'uomo; ma egli nel volerlo, cercarlo, desiderarlo, non ha mai
saputo nè mai saprà che cosa esso sia (le dette controversie medesime ne sono
prova); e ciò perchè il suo sommo bene non esiste in niun modo. Il fine della
natura dell'uomo esisterà forse in natura. Ma bisogna ben distinguerlo dal fine
cercato
4169 dalla natura dell'uomo. Questo fine non
esiste in natura, e non può esistere per natura. E questo discorso debbe
estendersi al sommo bene di tutti gli animali e viventi. (11. Marzo.
Vigil. della Domenica di Passione. 1826.
Bologna.).
[4169,1] L'uomo (e così gli altri animali) non nasce per
goder della vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che
gli succedano, per conservarla. Nè esso, nè la vita, nè oggetto alcuno di questo
mondo è propriamente per lui, ma al contrario esso è tutto per la vita. -
Spaventevole, ma vera proposizione e conchiusione di tutta la metafisica.
L'esistenza non è per l'esistente, non ha per suo fine l'esistente, nè il bene
dell'esistente; se anche egli vi prova alcun bene, ciò è un puro caso:
l'esistente è per l'esistenza, tutto per l'esistenza, questa è il suo puro fine
reale. Gli esistenti esistono perchè si esista, l'individuo esistente nasce ed
esiste perchè si continui ad esistere e l'esistenza si conservi in lui e dopo di
lui. Tutto ciò è manifesto dal vedere che il vero e solo fine della natura è la
conservazione delle specie, e non la conservazione nè la felicità
degl'individui; la qual felicità non esiste neppur punto al mondo, nè per
gl'individui nè per la specie. Da ciò necessariamente si dee venire in ultimo
grado alla generale, sommaria, {suprema} e terribile
conclusione detta di sopra. (Bologna 11. Marzo.
1826.).
[4174,2] Tutto è male. Cioè tutto quello che {è,} è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna
cosa esiste per fin di male; l'esistenza è un male e ordinata al male; il fine
dell'universo è il male; l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento naturale
dell'universo non sono altro che male, nè diretti ad altro che al male. Non v'è
altro bene che il non essere; non v'ha altro di buono che quel che non è; le
cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il
complesso dei tanti mondi che esistono; l'universo; non è che un neo, un
bruscolo in metafisica. L'esistenza, per sua natura ed essenza propria e
generale, è un'imperfezione, un'irregolarità, una mostruosità. Ma questa
imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perchè tutti i mondi che
esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente
infiniti nè di numero nè di grandezza, sono per conseguenza infinitamente
piccoli a paragone di ciò che l'universo potrebbe essere se fosse infinito; e il
tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir
così, del non esistente, del nulla.
[4183,2] Il mangiar soli, τὸ μονοϕαγεῖν, era infame presso i
greci e i latini, e stimato inhumanum, e il titolo di
μονοϕάγος si dava ad alcuno per vituperio, come quello di τοιχωρύχoς, cioè di
ladro. V. Casaub. ad Athenae. l. 2. c. 8. {+e gli Addenda a quel
luogo.} Io avrei meritata quest'infamia presso gli antichi.
(Bologna. 6. Luglio. 1826.). Gli
antichi però avevano ragione, perchè essi non conversavano insieme a tavola, se
non dopo mangiato, e nel tempo del simposio propriamente detto, cioè della
comessazione, ossia di una compotazione, usata da loro dopo il mangiare, come
oggi dagl'inglesi, e accompagnata al più da uno spilluzzicare di qualche poco di
cibo per destar la voglia del bere. Quello è il tempo in cui si avrebbe più
allegria, più brio, più spirito, {più buon umore,} e
più voglia di conversare {e di ciarlare.}
{#(1.) Così appunto la pensavano gli antichi. V. Casaub.
ib. l. 8. c. 14. init.} Ma nel tempo delle
vivande tacevano, o parlavano assai poco. Noi abbiamo dismesso l'uso
naturalissimo e allegrissimo della compotazione, e parliamo mangiando. Ora io
non posso mettermi nella testa che quell'unica ora
4184
del giorno in cui si ha la bocca impedita, in cui gli organi esteriori della
favella hanno un'altra occupazione (occupazione interessantissima, e la quale
importa moltissimo che sia fatta bene, perchè dalla buona digestione dipende in
massima parte il ben essere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e
morale dell'uomo, e la digestione non può esser buona se non è ben cominciata
nella bocca, secondo il noto proverbio o aforismo medico), abbia da esser
quell'ora appunto in cui più che mai si debba favellare; giacchè molti si
trovano, che dando allo studio o al ritiro per qualunque causa tutto il resto
del giorno, non conversano che a tavola, e sarebbero bien
fachés[fâchés] di
trovarsi soli e di tacere in quell'ora. Ma io che ho a cuore la buona
digestione, non credo di essere inumano se in
quell'ora voglio parlare meno che mai, e se però pranzo solo. Tanto più che
voglio potere smaltire il mio cibo in bocca secondo il mio bisogno, e non
secondo quello degli altri, che spesso divorano e non fanno altro che imboccare
e ingoiare. Del che se il loro stomaco si contenta, non segue che il mio se ne
debba contentare, come pur bisognerebbe, mangiando in compagnia, per non fare
aspettare, e per osservar le bienséances che gli
antichi non credo curassero troppo in questo caso; altra ragione per cui essi
facevano molto bene a mangiare in compagnia, come io credo fare ottimamente a
mangiar da me. (Bologna. 6. Luglio. 1826.).
{{V. p. 4245. 4248. 4275.}}
[4185,2] Pare affatto contraddittorio nel mio sistema sopra
la felicità umana, il lodare io sì grandemente l'azione, l'attività,
l'abbondanza della vita, e quindi preferire il costume e lo stato antico al
moderno, e nel tempo stesso considerare come il più felice o il meno infelice di
tutti i modi di vita, quello degli uomini i più stupidi, degli animali meno
animali, ossia più poveri di vita, l'inazione e la infingardaggine dei selvaggi;
insomma esaltare sopra tutti gli stati quello di somma vita, e quello di tanta
morte quanta è compatibile coll'esistenza animale. Ma in vero queste due cose si
accordano molto bene insieme, procedono da uno stesso principio, e ne sono
conseguenze necessarie non meno l'una
4186 che l'altra.
Riconosciuta la impossibilità tanto dell'esser felice, quanto del lasciar mai di
desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza
della vita dell'anima ad un fine impossibile a conseguirsi; riconosciuto che
l'infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro nè
deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il
suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto
maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più
sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado
possibile d'infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta
tendenza. Le specie e gl'individui {animali} meno
sensibili, {men vivi} per natura loro, hanno il minor
grado possibile di tal sentimento. Gli stati di animo meno sviluppato, e quindi
di minor vita dell'animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli
stati umani. Tale è quello del primitivo o selvaggio. Ecco perchè io preferisco
lo stato selvaggio al civile. Ma incominciato ed arrivato fino a un certo segno
lo sviluppo dell'animo, è impossibile il farlo tornare indietro, impossibile,
tanto negl'individui che nei popoli, l'impedirne il progresso. Gl'individui e le
nazioni d'europa e di una gran parte del mondo, hanno da
tempo incalcolabile l'animo sviluppato. Ridurli allo stato primitivo e selvaggio
e[è] impossibile. Intanto dallo
4187 sviluppo e dalla vita del loro animo, segue {una} maggior sensibilità, quindi un maggior sentimento
della suddetta tendenza, quindi maggiore infelicità. Resta un solo rimedio: La
distrazione. Questa consiste nella maggior somma possibile di attività, di
azione, che occupi e riempia le sviluppate facoltà e la vita dell'animo. Per tal
modo il sentimento della detta tendenza sarà o interrotto, o quasi oscurato,
confuso, coperta e soffocata la sua voce, ecclissato. Il rimedio è ben lungi
dall'equivalere allo stato primitivo, ma i suoi effetti sono il meglio che
resti, lo stato che esso produce è il miglior possibile, da che l'uomo è
incivilito. - Questo delle nazioni. Degl'individui similmente. P. e. il più
felice italiano è quello che per natura {e per abito} è
più stupido, meno sensibile, di animo più morto. Ma un italiano che o per natura
o per abito abbia l'animo vivo, non può in modo alcuno acquistare o ricuperare
la insensibilità. Per tanto io lo consiglio di occupare quanto può più la sua
sensibilità. - Da questo discorso segue che il mio sistema, in vece di esser
contrario all'attività, allo spirito di energia che ora domina una gran parte di
europa, {+agli
sforzi diretti a far progredire la civilizzazione in modo da render le
nazioni e gli uomini {sempre} più attivi e più
occupati,} gli è anzi direttamente e fondamentalmente favorevole
(quanto al principio, dico, di attività {+e quanto alla civilizzazione considerata come aumentatrice di occupazione,
di movimento, di vita reale, di azione, e somministratrice dei mezzi
analoghi}), non ostante e nel tempo stesso che esso sistema considera
lo stato selvaggio, l'animo il meno sviluppato, il meno sensibile, il meno
attivo, come la miglior condizione possibile
4188 per
la felicità umana. (Bologna 13. Luglio
1826.).
[4194,1] La condotta di Tiberio nell'impero, da principio non pur
affabile, benigna, moderata, ma eziandio umile; insomma più che civilis
(v. Sueton.
Tiber. c. 24-33), le sue
difficoltà di accettar l'impero ec. paragonate colla
seguente condotta tirannica, si attribuiscono a profonda politica,
dissimulazione e simulazione. Io non vi so veder niente di finto, nè di
artifiziale. Tiberio era certamente, a
differenza di Cesare, di natura timida.
A differenza poi e di Cesare che fin da
giovanetto andò continuamente elevandosi, ed abituando successivamente l'animo e
il carattere a grandezze sempre maggiori; e di Augusto che pure fin da giovanetto si vide alla testa degli affari;
Tiberio, nato privato, vissuto la
gioventù e l'età matura in sospetto di Augusto e de' costui parenti, ed anche in non piccolo pericolo (otto
anni passò ritirato in Rodi per fuggirlo o scemarlo), non
aveva l'animo nè il carattere formato al potere, quando la fortuna gliel pose in
mano. Però nel principio fu modesto, anzi timido ed umile, anche dopo liberato
da ogni timore, come dice espressamente Suetonio (c. 26.); {+v.
p. 4197. capoverso 6.} nè qui v'era dissimulazione: io non
ci veggo altro che un uomo avvezzo a soggiacere, avvezzo a temere ed evitar di
offendere, che ridotto a soprastare, conserva ancora l'abito di tal timore e di
tale evitamento. Egli lo perdè col tempo, e coll'esperienza continuata del suo
potere, e della soggezione, anzi abbiezione, degli altri. Questo non è
smascherarsi; questo è mutar carattere e natura, per mutazione di circostanze.
4195
Tiberio era certamente cattivo, perchè
vile, e debole. {+V. p. 4197. capoverso 7.} Questo fu causa
che il potere lo rendesse un tiranno, perchè la sua natura era tale che
l'influenza del principato doveva farne un cattivo carattere di principe. Ma qui
non ci entra simulazione. Io non sono mai stato nè principe nè cattivo. Pur
disprezzato e soggetto sempre fino all'età quasi matura; vedutomi poi per le
circostanze, uguale a molti e superiore ad alcuni; da principio benignissimo ed
umile cogl'inferiori, sono poi divenuto verso loro un poco esigente, {un poco intollerante, φιλόνεικος, μεμψίμοιρος,} ed anche
cogli uguali un poco chagrin, e più difficile a
perdonare un'ingiuria, {una piccola mancanza,} più
risentito, più facile a concepir qualche seme di avversione, {più desideroso, se non altro, di vendettucce,} ec. Se la mia natura
fosse stata cattiva, io sarei divenuto tanto più insopportabile quanto più tardi
sono pervenuto alla superiorità, ed in età men facile ad accostumarmici. Noi
siamo tutti inclinati a suppor negli uomini antichi o moderni, assenti o
presenti, noti o ignoti, e nelle loro azioni e condotta, una politica, un'arte,
una simulazione quasi continua, e qualche fine occulto. Ma credete a me che v'è
{al mondo} assai meno politica, assai meno
finzione, assai meno tendenze occulte, meno intrighi, meno maneggi, meno arte,
{e più di sincerità e di vero} che non si crede. 1.
Gli uomini di talento (indispensabile fondamento a simil condotta) sono assai
più rari che non si stima. 2. Anche gli uomini i più persuasi della necessità o
utilità dell'arte nel consorzio umano, {e i più disposti ad
essa per volontà,} non hanno la pazienza di usarla troppo spesso, di
fingere, di nascondere e dissimulare troppo a lungo. 3. Condotte calcolate e
dirette costantemente a qualche fine, sono più immaginarie che reali, perchè è
natura di qualunque uomo d'essere incostante, ne' suoi gusti, desiderii,
opinioni, in tutto; di esser contraddittorio
4196 ed
incoerente nelle sue azioni, massime ec.; di operare contro i proprii principii;
di operare contro i proprii interessi. ec. 4. Finalmente la natura per
combattuta che sia, per quanto la vogliam credere abbattuta, può ancora, ed
opera nel mondo, assai più che non si crede. Ora la natura è l'opposto
dell'arte: la finzione tende a nasconder la natura, ma questa trapela ad ogni
momento, in dispetto d'ogni massima, d'ogni volontà, d'ogni disciplina.
(Bologna. 3. Sett. Domenica. 1826.).
Del resto le atrocissime crudeltà usate scopertamente in seguito da Tiberio, e gran parte di queste senza
nessuna utilità proposta, ma per solo piacere e soddisfazione del gusto e
dell'animo suo, mostrano che l'anima di Tiberio era più vile che doppia per sua natura, e col regno era
divenuta più malvagia che politica. (Bologna 4.
Sett. 1826.).
[4197,8] Che gli uomini abbiano trovate e pongano in opera
delle arti per combattere, soggiogare, recare al loro uso e servigio il resto
della natura animata o inanimata, non è cosa strana. Ma che abbiano trovato ed
usino arti {e regole} per combattere e vincere gli
uomini stessi, che queste arti sieno esposte a tutti gli uomini, e tutti
ugualmente le apprendano ed usino, o le possano apprendere e usare, questo ha
dell'assurdo; perchè se due uomini sanno ugualmente di scherma, che giova la
loro arte a ciascuno de' due? che superiorità ne riceve l'uno sopra l'altro? non
sarebbe per ambedue lo stesso, che ambedue fossero ignoranti della scherma, o
che tutti e due combattessero alla naturale? {+V. p.
4214.} Un libro, una scoperta di Tattica o di strategica o di
poliorcetica ec. pubblicata ed esposta all'uso comune, a che giova? se l'amico e
il nemico l'apprendono del pari, ambedue con più arte e più fatica di prima, si
trovano nella stessissima condizione rispettiva di prima. Il coltivare queste
tali arti, o scienze che si vogliano dire, il proccurarne l'
4198 incremento, e molto più il diffonderne la coltura e la
conoscenza, è la più inutile e strana cosa che si possa fare; è propriamente il
metodo di ottener con fatica e spesa quello che si può ottenere senza fatica nè
spesa; di eseguire artificialmente e di render necessaria l'arte laddove la
natura bastava, e laddove col metodo artificiale non si ottiene il menomo
vantaggio sopra il naturale. Insomma è il metodo di moltiplicare e complicar le
ruote {e le molle} di un orologio, e di far con più
quel medesimo che si poteva fare e già si faceva con meno. Il simile dico della
politica, del macchiavellismo ec. e di tutte le arti inventate per combattere e
superchiare i nostri simili. (Bologna. 10. Sett.
1826.).
[4198,1] Se una volta in processo di tempo l'invenzione p. e.
dei parafulmini (che ora bisogna convenire esser di molto poca utilità),
piglierà più consistenza ed estensione, diverrà di uso più sicuro, più
considerabile e più generale; se i palloni aereostatici, e l'aeronautica
acquisterà un grado di scienza, e l'uso ne diverrà comune, e la utilità (che ora
è nessuna) vi si aggiungerà ec.; se tanti altri trovati moderni, come quei della
navigazione a vapore, dei telegrafi ec. riceveranno applicazioni e
perfezionamenti tali da cangiare in gran parte la faccia della vita civile, come
non è inverisimile; e se in ultimo altri nuovi trovati concorreranno a questo
effetto; certamente gli uomini che verranno di qua a mille anni, appena
chiameranno civile la età presente, diranno che noi vivevamo in continui ed
estremi timori e difficoltà, stenteranno a comprendere come si potesse menare
{e sopportar} la vita essendo di continuo esposti
ai pericoli delle tempeste, dei fulmini ec., navigare con tanto rischio di
sommergersi, commerciare
4199 e comunicar coi lontani
essendo sconosciuta o imperfetta la navigazione aerea, l'uso dei telegrafi ec.,
considereranno con meraviglia la lentezza dei nostri presenti mezzi di
comunicazione, la loro incertezza ec. Eppur noi non sentiamo, non ci accorgiamo
di questa tanta impossibilità {o difficoltà} di vivere
che ci verrà attribuita; ci par di fare una vita assai comoda, di comunicare
insieme assai facilmente e speditamente, di abbondar di piaceri e di comodità,
in fine di essere in un secolo raffinatissimo e lussurioso. Or credete pure a me
che altrettanto pensavano quegli uomini che vivevano avanti l'uso del fuoco,
della navigazione ec. ec. quegli uomini che noi, {specialmente in questo secolo,} con magnifiche dicerie rettoriche
predichiamo come esposti a continui pericoli, continui ed immensi disagi, bestie
feroci, intemperie, fame, sete; come continuamente palpitanti e tremanti {dalla paura,} e tra perpetui patimenti ec. E credete a
me che la considerazione detta di sopra è una perfetta soluzione del ridicolo
problema che noi ci facciamo: come potevano mai vivere gli uomini in quello
stato; come si poteva mai vivere avanti la tale o la tal altra invenzione.
(Bologna. 10. Settembre. Domenica.
1826.).
[4204,1] Contraddizioni innumerabili, evidenti e continue si
trovano nella natura considerata non solo metafisicamente e razionalmente, ma
anche materialmente. La natura ha dato ai tali animali l'istinto, {le arti,} le armi da perseguitare e assalire i tali
altri, a questi le armi da difendersi, l'istinto di preveder l'attacco, di
fuggire, di usar mille diverse astuzie per salvarsi. La natura ha dato agli uni
la tendenza a distruggere, agli altri la tendenza a conservarsi. La natura ha
dato ad alcuni animali l'istinto e il bisogno di pascersi di certe tali piante,
frutta ec., ed ha armato queste tali piante di spine per allontanar gli animali,
queste tali frutta di gusci, di bucce, d'inviluppi d'ogni genere,
artificiosissimi e diligentissimi, o le ha collocate nell'alto delle piante ec.
La natura ha creato le pulci e le cimici perchè ci succino il sangue, ed
ha[a] noi ha dato l'istinto di cercarle e di
farne strage. L'enumerazione di tali ed analoghe contrarietà si estenderebbe in
infinito, ed abbraccierebbe ciascun regno, {ciascuno
elemento,} e tutto il sistema della natura. Io avrò torto senza
dubbio, ma la vista di tali fenomeni mi fa ridere. Qual è il fine, qual è il
voler sincero e l'intenzione vera della natura? Vuol ella che il tal frutto sia
mangiato dagli animali o non sia mangiato? Se sì, perchè l'ha difeso con sì dura
crosta e con tanta cura? se no,
4205 perchè ha dato ai
tali animali l'istinto {e l'appetito} e forse anche il
bisogno di procacciarlo e mangiarselo? I naturalisti ammirano la immensa
sagacità ed arte della natura nelle difese somministrate alla tale o tale specie
animale o vegetabile o qualunque, contro le offese esteriori di qualunque sia
genere. Ma non pensano essi che era in poter della natura il non crear queste
tali offese? che essa medesima è l'autrice unica delle difese e delle offese,
del male e del rimedio? E qual delle due sia il male e quale il rimedio nel modo
di vedere della natura, non si sa. Si sa ben che le offese non sono meno
artificiosamente e diligentemente condotte dalla natura che le difese; che il
nibbio {o il ragno} non è meno sagace di quel che la
gallina o la mosca sia amorosa o avveduta. Intanto che i naturalisti e gli
ascetici esaminando le anatomie de' corpi organizzati, andranno in estasi di
ammirazione verso la provvidenza per la infinita artificiosità ed accortezza
delle difese di cui li troverà forniti, io finchè non mi si spieghi meglio la
cosa, paragonerò la condotta della natura a quella di un medico, il quale mi
trattava con purganti continui, ed intendendo che lo stomaco ne era molto
debilitato, mi ordinava l'uso di decozioni di china e di altri attonanti per
fortificarlo e minorare l'azione dei purganti, senza però interromper l'uso di
questi. Ma, diceva io umilmente, l'azione dei purganti non sarebbe minorata
senz'altro, se io ne prendessi de' meno efficaci o in minor dose, quando pur
debba continuare d'usarli? (Bologna. 25. Sett.
1826.). {{V. p. seg. [p.
4206,2]}}
[4216,1] Rettorica. Citiamo qui un esempio di acutezza e di
filosofia de' rettorici. Demetrio (rettorico de' più
stimati) περὶ ἑρμηνείας, della
elocuzione, sezione 67. parlando delle figure
della {dizione} (σχήματα τῆς λέξεως {+opposte a σχήματα τῆς διανοίας
sententiarum o sententiae: λέξεως verborum.}), le quali non sono altro
che costrutti e frasi fuor di regola, di ragione, d'uso ec. sgrammaticature
*
, direbbe
l'Alfieri. Bisogna servirsi di tali figure non in troppa
abbondanza, chè ella è cosa poco elegante, e dà una certa
disuguaglianza al discorso, e fa il discorso disuguale. {Non bisogna tuttavolta usar le
figure a man piena: cosa goffa e che ec.} Gli antichi, i
quali usano però gran quantità di figure, riescono nel dir loro più
familiari e correnti che non fanno i moderni quando sono senza
figure. {La cagione è che} quelli le
adoperano con arte.
*
χρῆσϑαι μέν τοι τoῖς σχήμασι μὴ πυκνoῖς: ἀπειρόκαλον
γὰρ καὶ παρεμϕαῖνóν
4217 τινa τοῦ λóγου
ἀνωμαλίαν. Oἱ γοῦν ἀρχαῖοι, πολλὰ σχήματα ὲν τoῖς λóγοις τιϑέντες,
συνηϑέστεροι τῶν ἀσχηματίστων εἰσί, διὰ τὸ ἐντέχνως
τιϑέναι)
*
. L'osservazione è verissima in tutte le lingue; la
causa, proprio il contrario di quel che dice Demetrio. Gli antichi usavano le figure
naturalmente, senz'arte, e per non saper bene le regole generali della
grammatica: i moderni le pescano negli antichi, le usano a posta, sono
irregolari per arte. Perciò paiono, come sono, artifiziati, affettati, stentati,
diversi dal dir corrente. Caro Demetrio, non ogni buon {effetto o}
successo è da attribuirsi all'arte. Concedete qualche coserella alla natura,
{ed anche all'ignoranza,} benchè voi siate un
maestro di arte rettorica.
{{V. p.
4222.}}
[4219,1]
{Alla p.
4208.}
Damascio nel luogo citato nel pensiero
antecedente, colonna 1033. dice del suo maestro ed eroe Isidoro filosofo: ῾Pητορικῆς
καὶ ποιητικῆς πολυμαϑίας μικρὰ ἥψατο, εἰς δὲ τὴν ϑειοτέραν ϕιλοσοϕίαν
ἐξώρμησε τὴν ᾽Aριστοτέλους. ὁρῶν
δὲ ταύτην τῷ ἀναγκαίῳ μᾶλλον ἢ τῷ oἰκείῳ
*
(proprio, privato,
individuale) νῷ πιστεύoυσαν, καὶ τεχνικὴν μὲν ἱκανῶς
εἶναι σπουδάζουσαν, τὸ δὲ ἔνϑεον ἢ νοερὸν oὐ πάνυ προβαλλομένην, ὀλίγου
καὶ τaύτης ὁ ᾽Iσίδωρος ἐποιήσατο λόγον. ὡς δὲ τῶν Πλάτωνoς ἐγεύσατο νοημάτων, οὐκέτι παπταίνειν ἠξίoυ πόρσιον, ὡς ἔϕη Πίνδαρος
*
(Olymp., od. 1. et od. 3. fin.
Phyth. od. 3.)
ἀλλὰ τέλος ἔχειν ἤλπιζεν εἰ τῆς Πλάτωνoς διανοίας εἴσω τῶν ἀδύτων δυνηϑείη
διαβαλεῖν
*
(sic), καὶ πρὸς τoύτῳ
*
(in
margine corrigitur τoῦτο) ὁ πᾶς αὐτῷ δρóμος ἐτέτατo τῆς
σπουδῆς.
*
Rhetoricas, poeticasque artes parum attigit: sed ad
sanctiorem Aristotelis
philosophiam se convertit, vidensque illam necessariis ratiocinationibus
magis quam proprio sensui credere, et ut via ac ratione procedat,
divinis autem imaginationibus non adeo uti, parum etiam de hac
sollicitus fuit: ubi autem Platonis sententias gustavit, non iam aspicere, ut ait Pindarus, dignatus est
ulterius. Sed finem consecuturum speravit
*
(dic, perfectionem,
vel quid simile) si {in}
Platonis sententiarum adyta
penetrare potuisset. et eo omne suum studium impetumque
convertit.
*
Versio Andreae
Schotti. Tῶν μὲν παλαίτατα
4220
ϕιλοσοϕησάντων
*
, soggiunge Fozio, Πυϑαγóραν καὶ Πλάτωνa
ϑειάζει
*
(cioè Damascio) ... τῶν νεοστὶ δὲ Πορϕύριον καὶ ᾽Iάμβλιχoν καὶ Συριανὸν καὶ Πρόκλον, καὶ ἄλλους δὲ ἐν μέσῳ τοῦ χρóνoυ
πολὺν ϑησαυρòν συλλέξαι λέγει ἐπιστήμης ϑεοπρεποῦς. τoὺς μέν τοι ϑνητὰ
καὶ ανϑρώπινα ϕιλοπονουμένους,
*
{+colonna 1036.}
ἢ συνιέντας ὀξέως ἢ ϕιλομαϑεῖς εἶναι βουλομένους, οὐδὲν
μέγα ἀνύττειν[ἀνύτειν] εἰς τὴν ϑεοπρεπῆ
καὶ μεγάλην σοϕίαν. τῶν γὰρ παλαιῶν ᾽Aριστοτέλη καὶ Χρύσιππoν, εὐϕυεστάτouς γενομένους, ἀλλὰ καὶ ϕιλομαϑεστάτoυς
γεγονότας, ἔτι δὲ καὶ ϕιλοπόνους, οὐκ ἀναβῆναι ὅμως τὴν ὅλην ἀνάβασιν.
τῶν νεωτέρων ῾Iεροκλέα τε καὶ
εἴ τις ὅμοιος, οὐδὲν μὲν ἐλλείποντας εἰς ἀνϑρωπίνην παρασκευήν, τῶν δὲ
μακαρίων νοημάτων πολλαχῆ πολλῶν ὲνδεεῖς γενομένους ϕησίν.
*
Θειάζει vuol dire esalta, divinizza, loda a cielo, voce e senso
usitato a Fozio. Antiquissimos etc. De recentioribus etc., et alios mediae
aetatis, magnum thesaurum collegisse divinae scientiae dicit. Eos autem
qui in caducis, et humanis studiis libenter occupantur, vel qui
intelligere acute
*
(cito), ac scire multa
volunt, non magnopere conferre ad sublimem ac divinam sapientiam.
Antiquorum enim Aristotelem et
Chrysippum
ingeniosissimos, et discendi cupidissimos, quin etiam laboriosos, nec
tamen omnino ad summum ascendisse. Recentium vero Hieroclem, et similes, scientiis humanis
nulli quidem fuisse inferiores, sed in divinis notionibus non admodum
fuisse versatos
*
tradit. Schott. Più sotto nella stessa colonna 1036. dice Damascio d'Isidoro: ἐξαίρετον δ᾽ ἦν
αὐτῷ παρὰ τοὺς ἄλλους καὶ τοῦτο ϕιλοσόϕους οὐκ ἠβούλετο συλλογισμοῖς
ἀναγκάζειν μóνον, οὔτε ἑαυτòν οὔτε τoὺς συνóντας, ἐπακολουϑεῖν τῇ
ἀληϑείᾳ μὴ ὁρωμένην κατὰ μίαν ὁδòν πορεύεσϑαι συνελαυνομένους ὑπò τοῦ
λóγου, oἷoν τυϕλοῦ τινòς ὀρϑὴν ἀγομένου
*
(in margine ἀγομένους)
πορείαν∙ ἀλλὰ πείϑειν ἐσπoύδαζεν ἀεί, καὶ ὄψιν
ἐντιϑέναι τῇ ψυχῇ, μᾶλλον δὲ ἐνοῦσαν διακαϑαίρειν.
*
Luogo
corrotto, di cui però s'intende appresso a poco il senso. Hoc etiam a ceteris philosophis distabat Isidorus, quod non sola
Syllogismorum vi se at suos vellet adhaerere veritati: cumque veritas
non una videatur via, nolebat eos ratione, veluti caeca in rectam viam
ductrice, impelli. Sed persuadere semper adnisus est, et oculos ad
animam referre
*
(dic, visum, speciem intromittere): aut si inessent,
4221
repurgare.
*
- Ridete? Or traducete queste che vi paiono
stoltizie, dalla lingua antica filosofica nella moderna, e voi vedrete accadere
quello che dice il Dutens, cioè quante verità
(qui però si tratterà di errori) si troverebbero negli antichi, credute moderne,
se si sapessero tradurre i loro detti nella lingua modernamente adottata per la
filosofia. Queste scempiaggini del filosofo mistico Isidoro, comuni in gran parte agli altri mistici di
quello e dei vicini secoli, e dominanti in quei tempi di sogni e di creuseries, che altro sono se non, con solo diverse
parole, le misticherie di quei moderni, che quando non ci possono provare con
ragioni quello che vogliono, quando sono obbligati a confessare che argomenti
per provarlo non vi sono, che anzi abbondano gli argomenti in contrario,
ricorrono alla gran prova del sentimento, e pretendono che questo debba esser l'unica guida, canone,
maestro della verità nelle cose che più importano? E noi che ridiamo di questi
passi di Damascio, non ridiamo di
queste sentenze moderne, anzi le ripetiamo e magnifichiamo. Questo è proprio il
caso del mutato nomine (propriamente il nome e non
altro) de te fabula. Che altro è questo sentimento,
questa sensibilità, {questo entusiasmo, queste
ispirazioni,} che non tutti hanno da natura, o chi più chi meno, ma
che ci si dà per il principal mezzo di conoscere il vero, {ed
a cui si debba subordinare ogni altro mezzo, compresa la ragione;} che
altro è, dico, se non quello che Isidoro chiamava εὐμοιρία in
quest'altro luogo (che ci fa ridere) di Damascio ap. lo stesso Fozio, colonna 1034{?}
ἀγχίνοιαν καὶ ὀξύτητα ὁ ᾽Iσίδωρος, ϕησίν
*
(Δαμάσκιος), ἔλεγεν οὐ τὴν εὐκίνητον ϕαντασίαν, οὐδὲ τὴν δοξαστικὴν εὐϕυΐαν, οὐδὲ
μόνην (ὡς ἄν τις oἰηϑείη) διάνοιαν εὔτροχον καὶ γóνιμον ἀληϑείας: οὐ γὰρ
εἶναι ταύτας αἰτίας, ἀλλὰ τῇ αἰτίᾳ δουλεύειν εἰς νόησιν. Tὴν δὲ εἶναι
ϑείαν κaτὰ κωχήν
*
(in margine corrig. κατοχήv), ἠρέμα διανοίγουσαν καὶ ὑποκαϑαίρουσαν τὰ τῆς ψυχῆς ὄμματα,
καὶ τῷ νοερῷ ϕωτὶ καταλάμπουσαν, εἰς ϑέαν καὶ γνώρισιν τοῦ ἀληϑοῦς καὶ
τοῦ ψευδοῦς. εὐμοιρίαν ταύτην ἐκεῖνος ὠνóμαζε. καὶ ὡς οὐδὲν γένοιτ' ἂν
ὄϕελος ἄνευ εὐμοιρίας, ὡς οὐδὲ ὀϕϑαλμῶν ὑγιαινóντων ὄϕελος ἄνευ τοῦ
οὐρανίου ϕωτός, διετείνετο.
4222 Sollertiam et
acrimoniam Isidorus dixit esse
imaginationem non facile mobilem, neque ingenium facile opiniones
comminiscens, neque solam, ut aliquis putarit, intelligentiam volubilem
et gignentem veritatem. Neque enim has esse caussas, sed ad
intelligendum caussae servire: divinum vero esse instinctum, sedate
aperientem et repurgantem animae oculos, et intelligibili lumine
illustrantem, ad verum falsumque et videndum et cognoscendum. Bonam
constitutionem ipse appellavit, nullumque sine ea esse emolumentum,
neque oculorum sanorum commodum sine coelesti lumine
asseveravit.
*
- Del resto, ho detto che questi principii
erano comuni e dominanti in quei secoli; ma Damascio ha ragion di dire, ἐξαίρετον δ᾽ ἦν
αὐτῷ
*
ec. e di fare Isidoro singolare dagli altri, perchè pochi filosofi anteriori o
contemporanei (e così posteriori) avevano osato così sfacciatamente ripudiar la
ragione, o sottometterla al sentimento, all'entusiasmo, all'ispirazione;
disprezzare il senso universale per esaltar l'individuale; deprimere e
condannare Aristotele, appunto perchè
seguace τοῦ ἀναγκαίου cioè dei metodi esatti di conoscere il vero, di ragionare,
di convincere, per principii incontrastabili, conseguenze necessariamente
dedotte; ed anteporgli Platone
{Pitagora ec. perchè
non ragionatori,} perchè πιστεύοντας al libero sentimento e
all'immaginario, che Isidoro chiama
divino. ec. (Bologna. 17. Ottobre.
1826.).
[4226,4]
Bellissima è l'osservazione di Ierocle nel libro de Amore fraterno, ap. Stobeo serm. ὅτι κάλλιστον ἡ ϕιλαδελϕία etc. 84. Grot. 82. Gesner. che essendo la vita
umana come una continua guerra, nella quale siamo combattuti dalle cose di fuori
(dalla natura e dalla fortuna), i fratelli, i genitori, i parenti ci son dati
come alleati e ausiliari ec. E io, trovandomi lontano dalla mia famiglia, benchè
circondato da persone benevole, {e benchè senza
inimici,} pur mi ricordo di esser vissuto in una specie di timore
4227 o timidezza continua, rispetto ai mali
indipendenti dagli uomini, e questi, sopravvenendomi, avermi spaventato, ed
abbattuto e afflitto l'animo assai più del solito, non per altro se non perchè
io mi sentiva essere come solo in mezzo a nemici, cioè in mano alla nemica
natura, senza alleati, per la lontananza de' miei;
(Recanati. 16. Nov. 1826.)
{{e per lo contrario, ritornando fra loro, aver provato un
vivo e manifesto senso di sicurezza, di coraggio, e di quiete d'animo, al
pensiero, all'aspettativa, al sopravvenirmi di avversità, malattie
ec.}}
[4228,1]
4228 Molto impropriamente la questione del sommo bene è
stata chiamata la questione dei fini. Il fine dell'uomo è noto e certo a
ciascuno che interroghi se medesimo: un piacere perfetto, non dico in se, e però
non importa se sommo o non sommo, ma perfetto rispetto ad esso uomo; un piacere
che lo contenti del tutto. Questo è il nostro fine, notissimo a tutti, benchè
poi non si possa conoscere di qual natura sia o possa essere questo piacere
perfetto, niuno avendolo sperimentato mai; e per conseguenza che cosa e di qual
natura sia o possa essere la felicità umana. Se la virtù, o la voluttà del
corpo, o altre cose tali, possano proccurare all'uomo il piacere perfetto; o
qual di loro più; o in somma donde possa o debba l'uomo conseguire il piacer
perfetto che egli desidera, e che è il suo fine, questo può ben cadere e cade in
questione; ma tal questione è dei mezzi, non già dei fini. Il fine è certo, il
mezzo s'ignora, e la cagione di questa ignoranza è in pronto. La cagione, dico,
si è che il mezzo o i mezzi di ottener questo fine, che niuno ha mai ottenuto,
non esistono al mondo; che per conseguenza il sommo bene, che ci possa o debba
dare il piacer perfetto che cerchiamo, non si trova, è un'immaginazione, come lo
è questo piacer perfetto esso stesso, quanto alla sua natura; e che infine
l'uomo sa e saprà ben sempre che cosa desiderare, ma non mai che cosa cercare,
cioè che mezzo che cosa possa soddisfare il suo desiderio, dargli il piacer
perfetto, cioè che cosa sia il suo sommo bene, dal quale debba nascere la sua
felicità. (Recanati. 28. Nov. 1826.).
[4229,4] È naturale all'uomo, debole, misero, sottoposto a
tanti pericoli, infortunii e timori, il supporre, il figurarsi, il fingere anco
gratuitamente un senno, una sagacità e prudenza, un intendimento e
discernimento, {una perspicacia, una esperienza}
superiore alla propria, in qualche persona, alla quale poi mirando in ogni suo
duro partito, si riconforta o si spaventa secondo che vede quella o lieta o
trista, o sgomentata o coraggiosa, e sulla sua autorità si riposa senz'altra
ragione; spessissimo eziandio, ne' più gravi pericoli e ne' più miseri casi, si
consola e fa cuore, solo per la {buona speranza e}
opinione, ancorchè manifestamente falsa o senza niuna apparente ragione, che
egli vede o s'immagina essere in quella tal persona; o solo anco per una ciera
lieta o ferma che egli vede in quella. Tali sono assai sovente i figliuoli,
massime nella età tenera, verso i genitori. Tale sono stato io, anche in età
ferma e matura, verso mio padre; che in ogni cattivo caso, o timore, sono stato solito per
determinare, se non altro, il grado della mia afflizione o del timor mio
proprio, di aspettar di vedere o di congetturare il suo, e l'opinione e il
giudizio che
4230 egli portava della cosa; nè più nè
meno come s'io fossi incapace di giudicarne; e vedendolo {o
veramente o nell'apparenza} non turbato, mi sono ordinariamente
riconfortato d'animo sopra modo, con una assolutamente cieca sommissione alla
sua autorità, o fiducia nella sua provvidenza. E trovandomi lontano da lui, ho
sperimentato frequentissime volte un sensibile, benchè non riflettuto, desiderio
di tal rifugio. Ed è cosa {mille volte} osservata {e veduta per prova} come gli uomini di guerra, anche
esperimentatissimi e veterani, sogliano pendere nei pericoli, nei frangenti,
nelle calamità della guerra, dalle opinioni, dalle parole, dagli atti, dal
volto, di qualche lor capitano, eziandio giovane e immaturo, che si abbia
guadagnato la lor confidenza; e secondo che veggono, o credono di veder fare a
lui, sperare o temere, dolersi o consolarsi, pigliar animo o perdersi di
coraggio. Onde suol tanto giovare nel Capitano la fermezza d'animo, e la
dissimulazione del dolore o del timore nei casi ov'è sommamente da temere o
dolersi. E questa qualità dell'uomo è ancor essa una delle cagioni per cui tanto
universalmente e così volentieri si è abbracciata e tenuta, come ancor si tiene,
la opinione di un Dio provvidente, cioè di un ente superiore a noi di senno e
intelletto, il qual disponga ogni nostro caso, e indirizzi ogni nostro affare, e
nella cui provvidenza possiamo riposarci dell'esito delie cose nostre. (9.
Dic. Vigilia della Venuta della S. Casa di Loreto. 1826.
Recanati.). La credenza di un ente senza
misura più savio e più conoscente di noi, il quale dispone e conduce di continuo
tutti gli avvenimenti, e tutti a fin di bene, eziandio quelli che hanno maggior
sembianza di mali per noi, e che veglia sulla nostra sorte; e tutto ciò con
ragioni e modi a noi sconosciuti, e che noi non possiamo in guisa alcuna
scoprire nè intendere, di maniera che non dobbiamo darcene pensiero veruno;
questa credenza è agli uomini universalmente, e massime ai deboli ed infelici,
un conforto maggior d'ogni altro possibile: il qual conforto non da altro
procede, nè consiste in altro, che un riposo, uno acquetamento, ed una
confidenza
4231 cieca nell'autorità, nel senno, e nel
provvedimento altrui. (9. Dic. 1826.).
[4239,5] Per il Manuale di filosofia pratica. Pazienza
quanto giovi per mitigare e render più facile, più sopportabile, ed anco
veramente più leggero lo stesso dolor corporale; cosa sperimentata e osservata
da me in quell'assalto nervoso al petto, sofferto ai 29 di Maggio 1826. in
Bologna; dove il dolore si accresceva effettivamente
colla impazienza, e colla inquietezza. Consiste in una non resistenza, una
rassegnazione
4240 d'animo, una certa quiete dell'animo
nel patimento. E potrà essere disprezzata questa virtù quanto si voglia, e
chiamata vile: ella è pur necessaria all'uomo, nato e destinato inesorabilmente,
inevitabilmente, irrevocabilmente a patire, e patire assai, e con pochi
intervalli. Ed ella nasce, e si acquista eziandio non volendo, naturalmente,
coll'abitudine del sopportare un travaglio o una noia. La pazienza e la quiete,
è in gran parte quella cosa che a lungo andare rende così tollerabile, p. e. a
un carcerato, il tedio orrendo della solitudine e del non far nulla; tedio da
principio asprissimo a tollerare, per la resistenza che l'uomo fa a quella noia,
e l'impazienza e smania ed avidità ed ansietà di esserne fuori, la quale
passata, e dolore e noia si rendono assai più facili e più leggeri. E in ciò
consiste la pazienza, che è una qualità negativa più che altrimenti. (30.
Dic. 1826. Recanati.). {{v. p.
4267.}}
[4243,8]
Alla p. 4156.
A noi non pare che così fatti sfoghi, questo gridare, questo pianger forte,
strapparsi i capelli, gittarsi in terra, voltolarsi, dar del capo nelle pareti,
cose usate nelle sventure dagli antichi, usate dai selvaggi, usate tra noi
oggidì dalle genti del volgo, possano essere di niun conforto al dolore; e
4244 veramente a noi non sarebbero, perchè non ci siamo
più inclinati e portati dalla natura in niun modo; e quando anche le facessimo,
le faremmo forzatamente, sarebbe studio e non natura, e però cosa inutile: tanto
è mutata, vinta, cancellata in noi la natura dall'assuefazione. Ma egli è però
certo che questi atti, insegnati dalla natura medesima (il che non si può
volgere in dubbio), sono a chi li pratica naturalmente, un conforto grandissimo
ed un compenso molto opportuno nelle calamità. Quella resistenza che l'animo fa
naturalmente alla sciagura e al dolore, è il più penoso che abbiano le
disavventure, è il maggior dolore che prova l'uomo. Quando l'animo è domato,
ogni calamità, per grave che sia, è tollerabile. Questo domar l'animo, questo
ridurlo a cedere alla necessità e conformarsi allo andamento e alla condizion
delle cose, lo fa in noi il tempo, il quale però il Voltaire chiama consolatore. Ma lo fa con lunghezza; e
quella prima resistenza, oltre al durar di più, ha questo ancora di più
doloroso, che ella si rivolge e si esercita contro di noi stessi; ella è
dell'animo all'animo. Laddove nei selvaggi e nelle persone volgari, ella si
esercita contro le cose esterne, per così dire; e siccome le sue operazioni sono
più vive, così ella langue e manca più presto. Ella abbatte il corpo, e però
travaglia assai meno l'animo; bensì perchè col corpo anco l'animo è abbattuto,
perciò quelle tali persone, dopo quegli atti, si trovano aversi domato l'animo e
ridotto, per dir così, alla dedizione, da loro stessi, senza aspettare il tempo;
onde quando si risvegliano da quei furori, da quelle smanie, hanno già l'animo
accomodato a sopportar la sventura, a poterla guardar fermamente in viso, senza
esser però coraggiosi. Ed è già notato e notasi giornalmente che nei plebei il
dolore delle grandi sventure dura assai meno che nelle persone colte. Sicchè
quegli sfoghi sono veramente una medicina {#1. quasi un narcotico} preparata dalla
4245
natura medesima, perchè l'uomo potesse sopportare i suoi mali più leggermente. E
noi siamo ridotti a non saper nè pure intendere come essi giovino a quelli che
naturalmente gli vediamo esercitare. Ed è questo un altro beneficio della
filosofia e della civiltà, che pretendendo insegnarci a sopportare le calamità
meglio che non fa a noi la natura, e predicandoci il disprezzo del dolore, e
facendoci vergognar di mostrarlo, come di cosa indegna di uomini, e da
vigliacchi e indotti; ci ha privati di quel soccorso che la natura ci aveva
apprestato, molto più efficace di qualsivoglia dei loro. {+V. p.
4283.}
(Recanati 15. 1827. S. Paolo, primo eremita.).
[4247,1] Magistrato {#1
Ministro, funzionario qualunque} da bene. Magistrato malvagio. Qual è
il segno da riconoscerlo? Di tutte le altre cose non ne troverete una, dove
stabilito ancora e confessato il fatto, non sieno vari e opposti giudizi, o
interpretazioni qual buona qual sinistra. Rigoroso, severo: se tu lo lodi per
questo capo, altri per questo medesimo lo chiamerà vendicativo, crudele,
ministro della tirannide, esecutore di vendette e risentimenti privati sotto
specie di pubblici, nemico dei cittadini, fanatico, persecutore, odiatore dei
lumi, della libertà, del progresso della civilizzazione. Clemente: sarà freddo,
debole, protettore dei vizi e dei malvagi, complice dei perturbatori della
società, fautore delle male opere. Se vi sono partiti, ed egli ne favorisce uno,
l'altro o gli altri lo condannano; se nessuno, egli è un insensato, un vile,
almeno un furbo. {Così dell'ambizione; ec. ec.} Ma
quanto all'astinenza o all'appetenza dell'altrui o del pubblico, voi non
troverete due persone che concordato il fatto, discordino nel lodarlo o nel
biasimarlo, o anche nell'interpretarlo. E questo è quasi il solo capo dal quale
in verità suol dipendere il nome che uno acquista nei magistrati di uomo da
bene, o di tristo. Da bene è sinonimo di disinteressato, malvagio di cupido;
integrità di disinteresse ec. Da ciò parrebbe che gli uomini non fossero
d'accordo se non nel concetto della roba, e che l'ufficiale pubblico potesse a
suo modo dispor della vita, dell'onore, della libertà, di tutti gli altri beni
dei cittadini, purchè rispettasse i danari e le possessioni. (4. Feb.
Domenica. 1827.).
[4249,4] + [p. 4249,2]
Io, con licenza di Milord, non credo che sia vera quest'ultima cosa, nè che
fosse vera al tempo suo, ma ben sono della sua opinione in quanto al Petrarca. {{V. p.
4263.}}
[4254,4]
I know, by my own
experience, that the more one works, the more willing one is to work. We
are all, more or less, des animaux d'habitude.
I remember very well, that when I was in business, I wrote four or five
hours together every day, more willingly than I should now half an
hour.
*
Chesterfield, Letters to his son, lett. 318.
I have so
little to do, that I am surprised how I can find time to write to you so
often. Do not stare at the seeming paradox; for it is an undoubted
truth, that the less one has to do, the less time one finds to do it in.
One yawns, one procrastinates; one can do it when one will, and
therefore one seldom does it at all; whereas those who have a great deal
of business, must (to use a vulgar expression) buckle to it; and then
they always
4255 find time enough to do it in.
Lett. 320.
*
It is not without
some difficulty that I snatch this moment of leisure from my extreme
idleness, to inform you of the present lamentable and astonishing state
of affairs here.
*
Lett. 321.
(12. Marzo. 1827.). {{v. p.
4281.}}
[4255,6] Dei nostri sommi poeti, due sono stati
sfortunatissimi, Dante e il Tasso. Di ambedue abbiamo e visitiamo i
sepolcri: fuori delle patrie loro ambedue. Ma io, che ho pianto sopra quello del
Tasso, non ho sentito alcun moto
di tenerezza a quello di Dante: e così
credo che avvenga generalmente. E nondimeno non mancava in me, nè manca negli
altri, un'altissima stima, anzi ammirazione, verso Dante; maggiore forse (e ragionevolmente) che verso
l'altro. Di più, le sventure di quello furono senza dubbio reali e grandi; di
questo appena siamo certi che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie:
tanta è la scarsezza e l'oscurità delle notizie che abbiamo in questo
particolare: tanto confuso, e pieno continuamente di contraddizioni, il modo di
scriverne del medesimo Tasso. Ma noi
veggiamo in Dante un uomo d'animo forte,
d'animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; oltracciò un uomo che
contrasta e combatte con essa, colla necessità col fato. Tanto più ammirabile
certo, ma tanto meno amabile e commiserabile. Nel Tasso veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria,
soccombente, atterrato, che ha ceduto all'avversità, che soffre continuamente e
patisce oltre modo. Sieno ancora immaginarie
4256 e
vane del tutto le sue calamità; la infelicità sua certamente è reale. Anzi senza
fallo, se ben sia meno sfortunato di Dante, egli è molto più infelice.
(Recanati. 14. Marzo. 1827.). {{(Si può applicare all'epopea, drammatica ec.)}}.
[4256,1] È molto notabile nella considerazione comparativa
delle antiche e delle moderne nazioni civili, che quelle furono tutte quante di
situazione meridionali. Dell'Italia non era ben civile
che la parte meridionale. Del resto dell'europa, la
grecia sola. Dell'Asia, solo
il mezzodì, sì quello civilizzato dai greci, e sì
l'India, la Persia ec.
Dell'Affrica non parlo, la quale è meridionale tutta.
Or questo doveva necessariamente produrre, e produsse, una grandissima
differenza, sì nei costumi, nei modi del vivere, negli esercizi, nelle
instituzioni pubbliche e private, sì nei caratteri dei popoli civili e della
civiltà antica, dai costumi, dai caratteri, dalla civiltà moderna. Perchè,
secondo quella verissima osservazione già fatta da altri, che la civiltà è
andata sempre, e va tuttavia progredendo dal sud al nord, ritirandosi da quello;
i popoli civili moderni sono tutti settentrionali, o più settentrionali che gli
antichi; o certo risedendo, come è manifesto, la maggior civiltà moderna nel
settentrione (ciò si vede anche in America), il resto dei
popoli più o manco civili, pigliano dai settentrionali il carattere della lor
civiltà. E in somma la civiltà antica fu una civiltà meridionale, la nostra è
una civiltà settentrionale. Proposizione che siccome a prima vista si riconosce
per verissima moralmente, così nè più nè meno è vera letteralmente presa, e
geograficamente. Differenza del resto grandissima e sostanzialissima, se non
principale, e includente in se tutte le altre. L'antichità medesima e la maggior
naturalezza degli antichi, è una specie di meridionalità nel tempo. (14.
Marzo. 1827. Recanati.).
[4259,5] Pel manuale di
filosofia pratica. A voler vivere tranquillo, bisogna essere occupato
esteriormente. Error mio nel voler fare una vita, tutta e solamente interna, a
fine e con isperanza di esser quieto. Quanto più io era libero da fatiche e da
occupazioni estrinseche, da ogni cura di fuori, fino dalla necessità di parlare
per chiedere il mio bisognevole (tanto che io passava i giorni senza profferire
una sillaba) tanto meno io era quieto nell'animo. Ogni menomo accidente che
turbasse il mio modo e metodo ordinario (e n'accadevano ogni giorno, perchè tali
minuzie sono inevitabili) mi toglieva la quiete. Continui timori e
sollecitudini, per queste ed altre simili baie. Continuo poi il travaglio della
immaginazione, le previdenze spiacevoli, le fantasticherie disgustose, i mali
immaginarii, i timori panici. Gran differenza è dalla fatica e dalla
occupazione, e dalle cure e sollecitudini stesse, alla inquietudine. Gran
differenza dalla tranquillità all'ozio. Le persone massimamente di una certa
immaginazione, le quali essendo per essa molto travagliati negli affari, nella
vita attiva o semplicemente sociale, e molto irresoluti (come nota la Staël nella Corinna a proposito
Lord Nelvil); e le
quali perciò appunto tendono all'amor del metodo, e alla fuga dell'azione e
della società, e alla solitudine;
4260 s'ingannano in
ciò grandemente. Esse hanno più che gli altri, per viver quiete, necessità di
fuggir se stesse, e quindi bisogno sommo di distrazione e di occupazione
esterna. Sia pur con noia. Si annoieranno per esser tranquille. Sia ancora con
afflizioni e con angustie. Maggiori sarebbero quelle che senza alcun fondamento
reale, fabbricherebbe loro inevitabilmente la propria immaginazione nella vita
solitaria, interiore, metodica. Chi tende per natura all'amor del metodo, della
solitudine, della quiete, fugga queste cose più che gli altri, o attenda più a
temperarle co' lor contrarii; se vuol potere veramente esser quieto. Al che lo
aiuterà poi il giudicare e pensar filosoficamente delle cose e dei casi umani.
Ma certo un uom d'affari {{(senz'ombra di filosofia)}}
ha l'animo più tranquillo nella continua folla e nell'affanno delle cure e delle
faccende; e un uom di mondo nel vortice e nel mar tempestoso della società; di
quello che l'abbia un filosofo nella solitudine, nella vita uniforme, e
nell'ozio estrinseco. (Recanati. 24. Marzo.
1827.)
[4261,2] Tutti siamo naturalmente inclinati a stimar noi
medesimi uguali a chi ci è superiore, superiori agli uguali, maggiori di ogni
comparazione cogl'inferiori; in somma ad innalzare il merito proprio sopra {quel degli altri fuor di modo e ragione.} Questo è
natura universale, e vien da una sorgente comune a tutti. Ma un'altra sorgente
d'orgoglio {e di disistima altrui,} sconosciuta affatto
a noi; divenuta, per l'assuefazione incominciata sin dall'infanzia, naturale e
propria; è ai Francesi e agl'Inglesi la stima della propria nazione. Tant'è: il
più umano e ben educato e spregiudicato francese o inglese, non può mai far che
trovandosi con forestieri, non si creda cordialmente e sinceramente di trovarsi
con un inferiore a se (qualunque si sieno le altre circostanze); che non
disprezzi più o meno le altre nazioni prese in grosso; e che in qualche modo,
più o meno, non dimostri {esteriormente} questa sua
opinione di superiorità. Questa è una molla, una fonte {ben
distinta} di orgoglio, e di stima di se in pregiudizio o abbassamento
d'altrui, della quale niun altro fra i popoli civili, se non gli uomini delle
dette nazioni, possono avere o formarsi una giusta idea. I Tedeschi che
potrebbero con altrettanto diritto aver lo stesso sentimento, ne sono impediti
dalla lor divisione, dal non esserci nazion tedesca. I Russi sentono di esser
mezzo barbari; gli Svedesi, i Danesi, gli Olandesi, di essere troppo piccoli, e
di poter poco. Gli Spagnuoli del tempo di Carlo quinto e di Filippo
secondo, ebbero certamente questo sentimento, come veggiamo dalle
storie, niente meno che i francesi e gl'inglesi di oggidì, e con diritto uguale;
forse, senza diritto alcuno, l'hanno anche oggi; e così i Portoghesi: ma chi
pone oggi in conto gli Spagnuoli e i Portoghesi, parlando di popoli civili?
Gl'italiani forse l'ebbero (e par veramente di sì) nei secoli 15.o e 16.o e
parte del precedente e del susseguente; per conto della lor civiltà, che essi
ben conoscevano, e gli altri riconoscevano, esser superiore a quella di tutto il
resto d'europa. Degl'italiani d'oggi non parlo; non so
ben se ve n'abbia.
[4266,1] In qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere,
tu non lo trovi mai: tu non provi altro che noia, e spesso disgusto. Bisogna,
per provar piacere in qualunque azione ovvero occupazione, cercarvi qualche
altro fine che il piacere stesso. (Può servire al Manuale di filosofia pratica). (30. Marzo.
1827.). Così accade (fra mille esempi che se ne potrebbero dare)
nella lettura. Chi legge un libro (sia il più piacevole e il più bello del
mondo) non con altro fine che il diletto, vi si annoia, anzi se ne disgusta,
alla seconda pagina. Ma un matematico trova diletto grande a leggere una
dimostrazione di geometria, la qual certamente egli non legge per dilettarsi.
{+V. p. 4273.} E forse per questa ragione gli
spettacoli e i divertimenti pubblici per se stessi, senza altre circostanze,
sono le più terribilmente noiose e fastidiose cose del mondo; perchè non hanno
altro fine che il piacere; questo solo vi si vuole, questo vi si aspetta; e una
cosa da cui si aspetta e si esige piacere (come un debito) non ne dà quasi mai:
dà anzi il contrario. Il piacere (si può dir con perfettissima verità) non vien
mai se non inaspettato; e colà dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo.
Per questo nel bollore della gioventù, quando l'uomo si precipita col desiderio
e colla speranza dietro al piacere, ei non prova che spaventevole e tormentoso
disgusto e noia nelle più dilettevoli cose della vita. E non si comincia a
provar qualche piacere nel mondo, se non sedato quell'impeto, e cominciata
4267 la freddezza, e ridotto l'uomo a curarsi poco e a
disperare {omai} del piacere. (30. Marzo.
1827.). {{Simile è in ciò il piacere alla quiete,
la quale quanto più si cerca {e si desidera} per se
e da se sola, tanto si trova e si gode meno, come ho esposto in altro
pensiero poco addietro pp. 4259-60. Il desiderio stesso
di lei, è necessariamente esclusivo di essa, ed incompatibile seco
lei.}}
[4272,2] Un uomo disarmato, alle prese con una bestia di
corporatura e di forze uguale a lui, {p. e. con un grosso
cane,} difficilmente resterà superiore, verisimilmente sarà vinto. Per
vincere, gli bisogna qualche arma, che diagli una forza non naturale, e una
decisa superiorità. La ragione è perchè il cane vi adopra e vi mette tutto se
stesso, fa ancor più del suo potere; dove che l'uomo riserva sempre una gran
parte di se medesimo fuor di fazione, e fa sempre meno di quello che può. Il
cane non guarda a pericolo, non considera, non usa prudenza. L'uomo al
contrario, se non è disperato affatto, stato al quale egli arriva difficilmente,
eziandio che abbia piena ragione di disperarsi. Egli si risparmia sempre, perchè
sempre spera; e così risparmiandosi, non ottiene quello che la speranza gli
promette, o non fugge quello che egli sperasi di fuggire; quello che, {se} non lo sperasse, otterrebbe o fuggirebbe. E che
questa sia veramente la cagion di ciò, vedetelo in un fanciullo: il quale assai
più facilmente che un uomo riuscirà pari o superiore in una zuffa con un animale
di forze uguali alle sue; zuffa che egli medesimo talvolta attaccherà
volontariamente. Il fanciullo, {e più il bambino,}
adopra tutto se stesso, come una bestia, o poco meno. E per questo lato io non
trovo niente d'inverisimile nella favola di Ercole bambino, strozzatore dei due serpenti. E la crederò vera più
facilmente che quella del medesimo Ercole adulto, sbranatore del leone nemeo, senza altre armi che le
sue braccia, come nell'altra battaglia, cioè in quella de' serpenti. (3.
Aprile. 1827.).
[4274,2] Pel manuale di
filosofia pratica. A me è avvenuto di conservare per lo più ogni
amicizia contratta una volta, eziandio con persone difficilissime, di cui tutti
a poco andare si disgustavano, o che si disgustavano con tutti. E la cagion, per
quello che io posso trovare, è che io non mi disgusto mai di un amico per sue
negligenze, e per nessuna sua azione che mi sia o nocevole o dispiacevole; se
non quando io veggo chiaramente, o posso con piena ragione giudicare in lui un
animo e una volontà determinata di farmi dispiacere e offesa. Cosa che in verità
è rarissima. Ma a vedere il procedere degli altri comunemente nelle amicizie, si
direbbe che gli uomini non le contraggono se non per avere il piacere di
romperle; e che questo è il principal fine a cui mirano nell'amicizia: tanto
studiosamente cercano e tanto cupidamente abbracciano le occasioni di rompersi
coll'amico, eziandio frivolissime, ed eziandio tali che essi medesimi nel fondo
del loro cuore non possono a meno di non discolpar l'amico, e di non conoscere
che quella offesa o dispiacere, almen secondo ogni probabilità, non venne da
volontà determinata di offenderli. (7. Apr. 1827.).
[4275,1]
Alla p.
4275[4245.] Un'altra cagione per
la quale io amo la μονοϕαγία è per non avere (come necessariamente avrei se
mangiassi in compagnia) dintorno alla mia tavola, assistenti al mio pasto,
d'importuns laquais, épiant nos
discours, critiquant tout bas nos maintiens, comptant nos morceaux d'un
oeil avide, s'amusant à nous faire attendre à boire, et murmurant d'un
trop long dîner.
*
(Rousseau, Émile.)
Disgraziatamente non mi è mai riuscito di assuefarmi a provar piacere in
presenza di persone che, di mia certa scienza, lo condannino, lo deridano, se ne
annoino; non ho mai potuto comprendere come gli altri sopportino anzi si
compiacciano, di siffatti testimonii, l'occupazione e i pensieri dei quali in
quel tempo, tutti sanno essere appunto quelli detti di sopra. Anche gli antichi
a tavola si faceano servire, ma da schiavi, cioè da genti che essi stimavano
meno che uomini, o certo, meno uomini che essi. Però aveano forse ragione di non
curarsi, e di non temere le loro railleries e
disapprovazioni. Ma i nostri servitori sono nostri uguali. Ed è bene strano che
noi, tanto sensibili sopra ogni menomo ridicolo, ogni menoma parola o pensiero
che noi possiamo sapere o sospettare in altrui a nostro disfavore; non ci diamo
cura alcuna di quelli dei servitori in quel tempo, i quali, non sospettiamo, ma
sappiamo ben certo quali sieno intorno di noi: e che mentre non potremmo senza
molestia starcene fermi e oziosi a sedere in un luogo dove fosse presente uno
che noi sapessimo che attualmente si trattenesse in dir male di noi ed in
ischernirci; possiamo poi, avendo molti dintorno di questa sorte, gustare
tranquillamente, e {pienamente senza disturbo alcuno,
i} piaceri della tavola. L'opinione che gli antichi avevano dei loro
schiavi, li giustifica anche per un altro verso, cioè del loro non curarsi
dell'incomodo, della noia, della rabbia che i loro servi dovevano
necessariamente provare nel tempo, e per cagione, di quei loro piaceri; e che
ciascun di noi proverebbe se si trovasse nel
4276 luogo
dei nostri servi quando assistono alle nostre tavole. In vero l'umanità e la
cordialità nostra possono essere un poco accusate, quando elle ci permettono
abitualmente di godere in presenza di persone che il nostro godimento fa patire,
e il cui patimento ci sta sotto gli occhi; e nondimeno godere senza il menomo
disturbo. Non è molto umano il divertirsi in una conversazione mentre il vostro
cocchiere sta esposto alla pioggia: ma in fine voi non lo vedete. Non è molto
umano lo stornar gli occhi dai patimenti degli altri per non esserne afflitto o
turbato, perchè quel pensiero non vi guasti i vostri diletti. Ma il dilettarsi
tranquillamente e a tutto suo agio, finchè n'è capace il corpo e lo spirito,
avendo, non lontane, ma presenti, non nel pensiero, ma negli occhi, persone
uguali a noi, che manifestamente (e con tutta ragione) soffrono, e non per altra
causa, ma pel nostro stesso godere, quanto sarà umano? Io confesso che non mi è
riuscito mai di provar piacere in cosa che io, non dico vedessi, non sapessi, ma
che pur sospettassi che fosse di molestia o di noia ad alcuno: perchè non mi è
mai riuscito di potermi in quel tempo cacciar quel pensiero dalla mente. E ciò,
quando anche non fosse ragionevole in quella tal persona il darsene quella
molestia. Perciò non voglio mangiare in compagnia, per non aver servitori
intorno: perchè appunto io voglio alla tavola provar piacere: e mangiando solo,
non voglio averne che mi assistano. Tanto più che io per bisogno, e con molta
ragione, voglio mangiare a grand'agio, e con lunghezza di tempo (non parendomi
anche che il tempo sia male impiegato in questo, come par che stimino molti, che
si affrettano d'ingoiare ogni cosa, e di levarsi su, quasi che questo momento
fosse il più bello del desinare); la qual lunghezza, con altrettanta ragione, da
chi mi servisse, sarebbe trovata estremamente fastidiosa e intollerabile.
(7. Apr. 1827.).
[4277,1]
4277 Allegano in favore della immortalità dell'animo il
consenso degli uomini. A me par di potere allegare questo medesimo consenso in
contrario, e con tanto più di ragione, quanto che il sentimento ch'io sono per
dire, è un effetto della sola natura, e non di opinioni e di raziocinii o {di} tradizioni; o vogliamo dire, è un puro sentimento e
non è un'opinione. Se l'uomo è immortale, perchè i morti si piangono? Tutti sono
spinti dalla natura a piangere la morte dei loro cari, e nel piangerli non hanno
riguardo a se stessi, ma al morto; in nessun pianto ha men luogo l'egoismo che
in questo. Coloro medesimi che dalla morte di alcuno ricevono qualche
grandissimo danno, se non hanno altra cagione che questa di dolersi di quella
morte, non piangono; se piangono, non pensano, non si ricordano punto di questo
danno, mentre dura il lor pianto. Noi c'inteneriamo veramente sopra gli estinti.
Noi naturalmente, e senza ragionare; avanti il ragionamento, e mal grado della
ragione; gli stimiamo infelici, gli abbiamo per compassionevoli, tenghiamo per
misero il loro caso, e la morte per una sciagura. Così gli antichi; presso i
quali si teneva al tutto inumano il dir male dei morti, e l'offendere la memoria
loro; e prescrivevano i saggi che i morti e gl'infelici non s'ingiuriassero,
congiungendo i miseri e i morti come somiglianti: così i moderni; così tutti gli
uomini: così sempre fu e sempre sarà. Ma perchè aver compassione ai morti,
perchè stimarli infelici, se gli animi sono immortali? Chi piange un morto non è
mosso già dal pensiero che questi si trovi in luogo e in istato di punizione: in
tal caso non potrebbe piangerlo: l'odierebbe, perchè lo stimerebbe reo. Almeno
quel dolore sarebbe misto di orrore {e di avversione}:
e ciascun sa per esperienza che il dolor che si prova per morti, non è nè misto
di orrore {o avversione,} nè proveniente da tal causa,
nè di tal genere in modo alcuno. Da che vien dunque la compassione che abbiamo
agli estinti se non dal credere, seguendo un sentimento intimo, e senza
ragionare, che essi abbiano perduto la vita
4278 e
l'essere; le quali cose, pur senza ragionare, e in dispetto della ragione, da
noi si tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque
noi non crediamo {naturalmente} all'immortalità
dell'animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi; e che
colui ch'è morto, non sia più.
[4280,1] Il vedersi nello specchio, ed immaginare che v'abbia
un'altra creatura simile a se, eccita negli animali un furore, una smania, un
dolore estremo. Vedilo di una scimmia nel Racconto di Pougens, intitolato Joco, Nuovo Ricoglitore di Milano, Marzo 1827. p. 215-6.
Ciò accade anche nei nostri bambini. V.
Roberti
Lettera di un bambino di 16
mesi. Amor grande datoci dalla natura verso i nostri simili!!
(Recanati. 13. Apr. Venerdì santo.
1827.). {{
V. p.
4419.}}
[4282,10] L'estate, oltrechè liberandoci dai patimenti,
produce in noi il desiderio de'
4283 piaceri, ci dà
anche una confidenza di noi stessi, e un coraggio, che nascono dalla facilità e
libertà di agire che noi proviamo allora per la benignità dell'aria. Dalla qual
sicurezza d'animo, e fiducia di se, nasce, come sempre, della magnanimità, della
inclinazione a compatire, a soccorrere, a beneficare; siccome dalla diffidenza
che produce il freddo, nasce l'egoismo, l'indifferenza per gli altri ec.
[4283,2] Il primo fondamento del sacrificarsi o adoperarsi
per gli altri, è la stima di se medesimo e l'aversi in pregio; siccome il primo
fondamento dell'interessarsi per altrui, è l'aver buona speranza per se
medesimo. (Firenze. 1. Luglio. 1827.).
[4283,8] Che la vita nostra, per sentimento di ciascuno, sia
composta di più assai dolore che piacere, male che bene, si dimostra per questa
esperienza. Io ho dimandato a parecchi se sarebbero stati contenti di tornare a
rifare la vita passata, con patto di rifarla nè più nè meno quale la prima
volta. L'ho dimandato anco sovente a me stesso.
4284
Quanto al tornare indietro a vivere, ed io e tutti gli altri sarebbero stati
contentissimi; ma con questo patto, nessuno; e piuttosto che accettarlo, tutti
(e così, io a me stesso) mi hanno risposto che avrebbero rinunziato a quel
ritorno alla prima età, che per se medesimo, sarebbe pur tanto gradito a tutti
gli uomini. Per tornare alla fanciullezza, avrebbero voluto rimettersi
ciecamente alla fortuna circa la lor vita da rifarsi, e ignorarne il modo, come
s'ignora quel della vita che ci resta da fare. Che vuol dir questo? Vuol dire
che nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti
abbiam provato più male che bene; e che se noi ci contentiamo, ed anche
desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per {l'ignoranza
del futuro, e per} una illusione della speranza, senza la quale
illusione {e ignoranza} non vorremmo più vivere, come
noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti.
(Firenze. 1. Luglio. 1827.).
[4284,1] È ben trista quella età nella quale l'uomo sente di
non ispirar più nulla. Il gran desiderio dell'uomo, il gran mobile de' suoi
atti, delle sue parole, de' suoi sguardi, de' suoi contegni fino alla
vecchiezza, è il desiderio d'inspirare, di communicar qualche cosa di se agli
spettatori o uditori. (Firenze. 1. Luglio.
1827.).
[4285,5] L'amore e la stima che un letterato porta alla
letteratura, o uno scienziato alla sua scienza, sono il più delle volte in
ragione inversa dell'amore e della stima che il letterato o lo scienziato porta
a se stesso. (Firenze. 5. Luglio.
1827.).
[4286,6]
Memorie della mia vita. Cangiando
spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno o mesi o
anni, m'avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai
naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantochè io non
aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io
dimorava, alle vie, alle case che io frequentava; le quali rimembranze non
consistevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi
sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun
momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva importante e
dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e copia di ricordanze annesse ai luoghi
abitati da me, io non poteva averla se non con successo di tempo, e col tempo
non mi poteva mancare. Però io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi
mesi, e coll'andar del tempo mi trovava
4287 sempre
divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo.
(Firenze. 23. Luglio. 1827.). {{Colla rimembranza, egli mi diveniva quasi il luogo
natio.}}
[4287,1] Veramente e perfettamente compassionevoli, non si
possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero più atti che gli altri,
quando sono nel fior dell'età, quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono
nulla, perchè se anche hanno materia di sofferire, non la sentono. Ma i giovani
non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le
considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d'un altro mondo,
perchè essi non hanno negli occhi che felicità. Chi patisce non è atto a
compatire. Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse
patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e
delle facoltà estrinseche. Ma non v'ha che il giovane (il quale non ha patito)
che sia così pieno di facoltà, e che non patisca nulla. Se altro non fosse, lo
stesso declinar della gioventù, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto
più si sente, quanto uno è d'altronde meno sventurato. Passati i venticinque
anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della
decadenza del suo corpo, dell'appassimento del fiore de' giorni suoi, della fuga
e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù.
(Firenze. 23. Lugl. 1827.).
[4294,5] persone la cui compagnia {e
conversazione} ci piaccia durevolmente, e si usi volentieri con
4295 frequenza e lunghezza, non sono in sostanza, e non
possono essere altre che quelle dalle quali giudichiamo che vaglia la pena di
sforzarci e adoperarci d'essere stimate, e stimate ogni giorno più. Perciò la
compagnia {e conversazione} delle donne non può esser
durevolmente piacevole, se esse non sono o non si rendono tali da rendere
durevolmente pregiabile e desiderabile la loro stima.
(Firenze. Domenica 14. Ottobre.
1827.). {{
Fin qui si stende l'Indice di questo zibaldone di
Pensieri
cominciato agli 11 Luglio, e finito ai 14 ottobre del 1827. in Firenze.}}
Fin qui si stende l'Indice di questo zibaldone di
Pensieri
cominciato agli 11 Luglio, e finito ai 14 ottobre del 1827. in Firenze.}}