Recanati. 9. Apr. Lunedì santo. 1827.
[4276,1]
To pant inglese - panteler
francese.
[4277,1]
4277 Allegano in favore della immortalità dell'animo il
consenso degli uomini. A me par di potere allegare questo medesimo consenso in
contrario, e con tanto più di ragione, quanto che il sentimento ch'io sono per
dire, è un effetto della sola natura, e non di opinioni e di raziocinii o {di} tradizioni; o vogliamo dire, è un puro sentimento e
non è un'opinione. Se l'uomo è immortale, perchè i morti si piangono? Tutti sono
spinti dalla natura a piangere la morte dei loro cari, e nel piangerli non hanno
riguardo a se stessi, ma al morto; in nessun pianto ha men luogo l'egoismo che
in questo. Coloro medesimi che dalla morte di alcuno ricevono qualche
grandissimo danno, se non hanno altra cagione che questa di dolersi di quella
morte, non piangono; se piangono, non pensano, non si ricordano punto di questo
danno, mentre dura il lor pianto. Noi c'inteneriamo veramente sopra gli estinti.
Noi naturalmente, e senza ragionare; avanti il ragionamento, e mal grado della
ragione; gli stimiamo infelici, gli abbiamo per compassionevoli, tenghiamo per
misero il loro caso, e la morte per una sciagura. Così gli antichi; presso i
quali si teneva al tutto inumano il dir male dei morti, e l'offendere la memoria
loro; e prescrivevano i saggi che i morti e gl'infelici non s'ingiuriassero,
congiungendo i miseri e i morti come somiglianti: così i moderni; così tutti gli
uomini: così sempre fu e sempre sarà. Ma perchè aver compassione ai morti,
perchè stimarli infelici, se gli animi sono immortali? Chi piange un morto non è
mosso già dal pensiero che questi si trovi in luogo e in istato di punizione: in
tal caso non potrebbe piangerlo: l'odierebbe, perchè lo stimerebbe reo. Almeno
quel dolore sarebbe misto di orrore {e di avversione}:
e ciascun sa per esperienza che il dolor che si prova per morti, non è nè misto
di orrore {o avversione,} nè proveniente da tal causa,
nè di tal genere in modo alcuno. Da che vien dunque la compassione che abbiamo
agli estinti se non dal credere, seguendo un sentimento intimo, e senza
ragionare, che essi abbiano perduto la vita
4278 e
l'essere; le quali cose, pur senza ragionare, e in dispetto della ragione, da
noi si tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque
noi non crediamo {naturalmente} all'immortalità
dell'animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi; e che
colui ch'è morto, non sia più.
[4278,1] Ma se crediamo questo, perchè lo piangiamo? che
compassione può cadere sopra uno che non è più? - Noi piangiamo i morti, non
come morti, ma come stati vivi; piangiamo quella persona che fu viva, che
vivendo ci fu cara, e la piangiamo perchè ha cessato di vivere, perchè ora non
vive e non è. Ci duole, non che egli soffra ora cosa alcuna, ma che egli abbia
sofferta quest'ultima e irreparabile disgrazia (secondo noi) di esser privato
della vita e dell'essere. Questa disgrazia accadutagli è la causa e il soggetto della nostra compassione e del
nostro pianto; Quanto {è} al presente, noi piangiamo la
sua memoria, non {{lui.}}
[4278,2] In verità se noi vorremo accuratamente esaminare
quello che noi proviamo, quel che passa nell'animo nostro, in occasion della
morte di qualche nostro caro; troveremo che il pensiero che principalmente ci
commuove, è questo: egli è stato, egli non è più, io non lo vedrò più. E qui
ricorriamo colla mente le cose, le azioni, le abitudini, che sono passate tra il
morto e noi; e il dir tra noi stessi: queste cose sono passate; non saranno
{mai} più; ci fa piangere. Nel qual pianto e nei
quali pensieri, ha luogo ancora e parte non piccola, un ritorno sopra noi
medesimi, e un sentimento della nostra caducità (non però egoistico), che ci
attrista dolcemente e c'intenerisce. Dal qual sentimento proviene quel ch'io ho
notato altrove pp. 644-46; che il cuor ci si stringe ogni volta
che, anche di cose o persone indifferentissime per noi, noi pensiamo: questa è
l'ultima volta: ciò non avrà luogo mai più: io non lo vedrò più mai: o vero:
questo è passato per sempre. {+V. p. 4282.} Di modo che
nel dolore che si prova per morti, il pensiero dominante e principale è, insieme
colla rimembranza {e su di essa fondato,} il pensiero
della caducità umana. Pensiero veramente non troppo simile nè analogo nè
concorde a quello della nostra immortalità.
4279 Alla
quale noi siamo così alieni dal pensar punto in cotali occasioni, che se noi
dicessimo {allora} a noi stessi: io rivedrò però questo
tale dopo la mia morte: io non sono sicuro che tutto sia finito tra noi, e di
non rivederlo mai più: e se noi non potessimo nel nostro pianto, usare e tener
fermo quel mai più; noi non piangeremmo mai per morti.
Ma venga pure innanzi chi che si voglia e mi dica sinceramente se gli è mai, pur
una sola volta, accaduto di sentirsi consolare da siffatto pensiero e
dall'aspettativa di rivedere una volta il suo caro defonto: che pur
ragionevolmente, poste le opinioni che abbiamo della immortalità dell'uomo, e
dello stato suo dopo morte, sarebbe il primo pensiero che in tali casi ci si
dovrebbe offrire alla mente. Ma in fatti, come dal fin qui detto apparisce,
quali si sieno le nostre opinioni, la natura e il sentimento in simili occasioni
ci portano senza nostro consenso o sconsenso a giudicare e tenere per dato, che
il morto sia spento e {passato} del tutto e per
sempre.
[4279,1] Concludo che {per quanto permette
la} infinita diversità ed assurdità dei giudizi, dei pregiudizi, delle
opinioni, delle congetture, dei dogmi, dei sogni degli uomini intorno alla
morte; noi possiamo trovare, massime se interroghiamo la pura {e semplice} natura, che essi {in
sostanza, e nel fondo del loro cuore,} piuttosto consentono in credere
la estinzione totale dell'uomo, che la immortalità dell'animo: senza che, nella
detta diversità ed assurdità, io pretenda che tal consentimento sia di gran
peso. {{(Recanati. 9. Apr.
Lunedì santo. 1827.).}}