Romanticismo. Vedi polizzine a parte, intitolate Romanticismo.
Romanticism. See separate slips, entitled Romanticism.
15,1 20,1 21,1 39,1 57,3 73,3 76,4 86,1 100,1 154,1 164,2 177 191,3 203,2 211,2 223,3 225,1 231,2 238,1 261,1 270,1 275-6 285,2 288,1 303,2 307,1 307,2 373,1 470,2 650,1 724,3 865,1 975,23 977,1 986,2 1226,1 1237,1 1245,2 1303,1 1383,1 1414,marg. 1424,3 1549 1671,1 1691,2 1777,2 1798,4 1823,1 1827,2 1847,1 1991,1 2041,1 2429,2 2475,2 2599,1 2636,1 2645,2 2663,1 2738,1 2759,2 2804,1 2857 2944,1 3095,2 3214,1 3221,segg. 3233 3388,1 3461,1 3477,4 3479,1 3482,1 3490,1 3548,2 3680-2 3946,2 3952,1 3976,1 4216,1 4234,5 4238,4[15,1] Finisco in questo punto di leggere nello Spettatore N. 91.
le
Osservaz. di Lod. di
Breme sopra la poesia moderna o romantica che la vogliamo
chiamare, e perchè ci ho veduto una serie di ragionamenti che può imbrogliare e
inquietare, e io per mia natura non sono lontano dal dubbio anche sopra le cose
credute indubitabili, però avendo nella mente le risposte che a quei
ragionamenti si possono e debbono fare, per mia quiete le scrivo. Vuole lo
scrittore (come tutti i romantici) che la poesia moderna sia fondata sull'ideale
che egli chiama patetico e più comunemente si dice sentimentale, e distingue con
ragione il patetico dal malinconico, essendo il patetico, com'egli dice, quella
profondità di sentimento che si prova dai cuori sensitivi, col mezzo
dell'impressione che fa sui sensi qualche cosa della natura, p. e. la campana
del luogo natio, (così dic'egli) e io aggiungo la vista di una campagna, di una
torre diroccata ec. ec. Questa è insomma la differenza che egli vuol che sia tra
la poesia moderna e l'antica, chè gli antichi non provavano questi sentimenti, o
molto meno di noi; onde noi secondo lui siamo in
questo superiori agli antichi, e siccome in
questo, secondo lui consiste veramente la poesia, {però} noi siamo più poeti infinitamente che gli antichi. (E questa è
la poesia dello Chateaubriand del Delille del Saint-Pierre ec. ec. per non parlare dei romantici,
che forse anche in qualche cosa differiscono ec. {E questo
patetico è quello che i francesi chiamano sensibilité e noi potremmo
chiamare sensitività.}) Or dunque bisogna eccitare questo patetico,
questa profondità di sentimento nei cuori: e qui, com'è naturale, consisterà la
somma arte del poeta. E qui è dove il Breme e tutti quanti i romantici e i Chateaubriandisti ec. ec.
scappano di strada. Che cosa è che eccita questi sentimenti negli uomini? La
natura, purissima, tal qual'è, tal quale la vedevano gli antichi: le
circostanze, naturali, non proccurate mica a bella posta, ma venute
spontaneamente: quell'albero, quell'uccello, quel canto, quell'edifizio, quella
selva, quel monte,
16 tutto da per se, senz'artifizio, e
senza che questo monte sappia in nessunissimo modo di dover eccitare questi
sentimenti, nè ch'altri ci aggiunga perchè li possa eccitare, nessun'arte ec.
ec. In somma questi oggetti, insomma la natura da per se e per propria forza
insita in lei, e non tolta in prestito da nessuna cosa, sveglia questi
sentimenti. Ora che faceano gli antichi? dipingevano così semplicissimamente la
natura, e quegli oggetti e quelle circostanze che svegliano per propria forza
questi sentimenti, e li sapevano dipingere e imitare in maniera che noi li
vediamo questi stessi oggetti nei versi loro, cioè, ci pare di vederli, per
quanto è possibile, quali sono in natura, e perchè in natura ci destano quei
sentimenti, anche dipinti e imitati con tanta perfezione ce li destano
egualmente, tanto più che il poeta ha scelti gli oggetti, gli ha posti nel loro
vero lume, e coll'arte sua ci ha preparati a riceverne quell'impressione,
dovechè in natura, e gli oggetti di qualunque specie sono confusi insieme, e in
vederli spessissimo non ci si bada, (qui cade la gran facoltà delle arti
imitative di fare per lo straordinario modo in cui presentano gli oggetti
comuni, vale a dire così imitati, che si considerino nella poesia, dovechè nella
realtà non si consideravano, e se ne traggano quelle riflessioni ec. ec. che
nella realtà per esser comuni non somministravano ec. ec. come il Gravina nella ragion
poet.) e bisogna poi perchè producano quei tali sentimenti
andarli a prendere pel loro verso: ed ecco ottenuto dagli antichi il
grand'effetto, che domandano i romantici, ed ottenuto in modo che ci rapiscono e
ci sublimano e c'immergono in un mare di dolcezza, e tutte le età e tutti i
secoli, e tutti i grandi uomini e poeti che son venuti dopo di loro, ne sono
testimoni. Ma che? quando questi poeti, imitavano così la natura, e preparavano
questa piena di sentimenti ai lettori, essi stessi o non la provavano, o non
dicevano di provarla; semplicissimamente, come pastorelli, descrivevano quel che
vedevano, e non ci aggiugnevano niente del loro; ecco il gran peccato della
poesia antica, per cui, non è {più} poesia, e i moderni
vincono a cento doppi gli antichi ec. ec. E non si avvedono i romantici, che se
questi sentimenti son prodotti dalla nuda natura, per
destarli bisogna imitare la nuda natura, e quei
semplici e innocenti oggetti, che per loro propria forza,
inconsapevoli producono nel nostro animo quegli effetti, {bisogna} trasportarli come sono nè più nè meno nella
poesia, e {che} così bene e divinamente imitati,
aggiuntaci la maraviglia e l'attenzione alle minute parti loro, che nella realtà
non si notavano, e nella imitazione si notano, è forza che destino in noi questi
stessissimi sentimenti che costoro vanno cercando, questi sentimenti che costoro
non ci sanno di grandissima lunga destare; e che il poeta quanto più parla in
persona propria e quanto più aggiunge di suo, tanto meno imita, (cosa già notata
da Aristotele, al quale volendo o non
volendo senz'avvedersene si ritorna) e che il sentimentale non è prodotto dal
sentimentale, ma dalla natura, qual ella è, e la
natura qual ella è bisogna imitare, ed hanno imitata
gli antichi, onde una similitudine d'Omero semplicissima senza spasimi e senza svenimenti, e un'ode d'Anacreonte, vi destano una folla di
fantasie, e vi riempiono la mente e il cuore senza paragone più che cento mila
versi sentimentali; perchè quivi parla la natura, e qui parla il poeta: e non si
17 avvedono che appunto questo grand'ideale dei tempi
nostri, questo conoscere così intimamente il cuor nostro, questo analizzarne,
prevederne, distinguerne ad uno ad uno tutti i più minuti affetti, quest'arte
insomma psicologica, distrugge l'illusione senza cui non ci sarà poesia in
sempeterno[sempiterno], distrugge la
grandezza dell'animo e delle azioni; (v. quel che ho detto in altro pensiero
[[p. 14]]) e che mentre l'uomo (preso in
grande) si allontana da quella puerizia, in cui tutto è singolare e
maraviglioso, in cui l'immaginazione par che non abbia confini, da quella
puerizia che così era propria del mondo a tempo degli antichi, come è propria di
ciascun uomo {al suo tempo}, perde la capacità di esser
sedotto, diventa artificioso e malizioso, non sa più palpitare per una cosa che
conosce vana, cade tra le branche della ragione, e se anche palpita (perchè il cuor nostro non è cangiato ma la mente
sola), questa benedetta mente gli va a ricercare tutti i secreti di questo
palpito, e svanisce ogn'ispirazione, svanisce ogni poesia; e non si avvedono che
s'è perduto il linguaggio della natura, e che questo sentimentale non è altro
che l'invecchiamento dell'animo nostro, e non ci permette più di parlare se non
con arte, e che quella santa semplicità, che dalla natura non può sparire perchè
la natura coll'uomo non invecchia, e la qual sola ci può destare quei veri e
dolci sentimenti che andiamo cercando, non è più propria di noi come era propria
degli antichi, e che però per parlare come questa semplicità parla, e come
insegna la natura, e destare quei sentimenti che la sola natura può destare, è
forza in questo tristissimo secolo di ragione e di lume, che fuggiamo da noi
stessi, e vediamo come parlavano gli antichi che erano ancora fanciulli, e con
occhi non maliziosi nè curiosacci ma ingenui e purissimi vedevano la santa
natura e la dipingevano: e insomma non si avvedono che essi amici della natura
sola, vengono in effetto a predicar l'arte, e noi amici dell'arte veniamo
verissimamente a predicar la natura. Qui cadrebbe in acconcio il discorrere
dell'affettazione che è il vizio generale nelle arti {belle,} e abbraccia quasi tutti i vizi, e come il sentimentale sia
facilissimamente pura affettazione, e come spessissimo invece di destare quei
sentimenti che vorrebbe, gli spenga, quando forse quel {tale} oggetto naturale o veduto o descritto li veniva destando, e
come questi sentimenti sieno d'infinita verecondia ec. ec. Ma quel ridurre che
fa il Breme la poesia moderna al solo
patetico (distinguetelo pur quanto volete dal malinconico come di sopra ho
detto), quasi che il sublime, l'impetuoso, l'esultante, il giubilante (so bene
che anche la gioja può esser patetica, ma non nei casi ch'io dico) il grazioso
disinvolto e insomma {quasi} tutta la poesia degli
antichi, l'epopea, la lirica quando non è sentimentale, i cantici di trionfo, le
descrizioni delle battaglie, i salmi di Davidde le odi di Anacreonte ec. ec. ec. non fosse poesia, o almeno ai moderni non
paresse più tale, o almeno (non si sa poi perchè, quando non si ammettano le due
cose precedenti) dai moderni non dovesse più esser coltivata; come non deve
parere una pazzia difficile a credere che sia caduta in testa d'un uomo savio?
Dunque Virgilio non è poeta altro che
nel quarto dell'Eneide, e nell'episodio di Niso ed Eurialo, e che so io? dunque
18 non ci sarà più altro che un solo genere di poesia? e in uno stesso
componimento non si dovrà più tenere altro che un tuono solo? {(E dopo tutto questo ci rinfacciano la monotonia delle favole
antiche.)} Ma che? abbiamo mutato natura affatto? non c'è più gioia se
non mezzo malinconica, non c'è più ira, non c'è più grandezza e altezza di
pensieri, senza quel condimento di patetico ec. ec.? {(E se
la poesia è arte imitativa e il suo fine è il dilettare, nè deve imitare una
cosa sola, nè una sola cosa diletta ec. E in genere non pare che il Breme faccia gran
caso della natura e del fine della poesia che consiste in dilettare col
mezzo della maraviglia prodotta dall'imitazione ec.)} Ma queste son
follie, di cui è soverchio parlare. A tener dietro con diligenza ai ragionamenti
del Breme ci si
scopre una contraddizione nascosta, ma realissima e fondamentale così del suo
sistema come del romantico. Da principio dice che gli antichi credevano tutto e
si persuadevano di mille pazzie, che l'ignoranza il timore i pregiudizi e
somministravano allora gran materia alla loro poesia, e non possono più
somministrarne ai tempi nostri; insomma evidentemente par che venga a
conchiudere, che la poesia nostra bisogna che sia ragionevole, e in proporzione
coi lumi dell'età nostra, e in fatti dice che ce la debbono somministrare la
religione, la filosofia, le leggi di società ec. ec. E così dicono i romantici.
Ma se così è, ecco l'illusione sparita, e se il poeta non può illudere non è più
poeta, è una poesia ragionevole, è lo stesso che dire una bestia ragionevole ec.
ec. E i romantici, non che facciano la poesia ragionevole, vanno in cerca di
mille superstizioni e delle più pazze cose che si possano mai pensare: il Breme poi dice che l'immaginazione
anche al presente ha la sua piena forza, e desidera di essere invasa rapita ec.
e anche
sedotta (qui vi voleva) purchè non da cose al tutto
arbitrarie nè lontane da quel vero ec. In queste
parole e specialmente in quell'anche e in quell'al tutto, mi par di scorgere chiarissimamente
l'angustia del metafisico, che vedendo la linea del suo ragionamento torcersi e
piegare, cerca di rimediarci colle parole. Ma poichè finalmente affermate che la
nostra immaginazione ha bisogno d'esser sedotta, (e in seguito poi lo conferma
il Breme senza nessuna dubitazione in
parecchi altri luoghi) il vostro ragionamento va tutto a terra:
pchè[perchè] quando uno di noi si mette a
leggere una poesia sapendo di dover esser sedotto e desiderando di esserlo,
tanto crede al più falso quanto al meno falso, tanto crede al Milton quanto a Omero, tanto agli spettri del Bürger quanto all'inferno dell'Odissea e dell'Eneide; e quel dire
che le finzioni non debbono essere al tutto arbitrarie
è una miseria, quasi che la immaginativa dei moderni potesse essere ingannata di
tanto solo, e non più, e l'intelletto nostro nel mezzo della lettura {e dell'inganno della fantasia} non comprendesse
egualmente la falsità delle invenzioni del Klopstock e di quelle di Omero e di Virgilio. Il tutto
sta se l'immaginazione nostra possa e debba esser sedotta dalla poesia o no, se
sì tutti i vostri ragionamenti seguenti sono attaccati collo sputo, e il poeta
deve pensare a sedurre come crede meglio, e s'egli non sa sedurre, la colpa è
sua, e non del genere che ha scelto. Un'altra svista del Breme (e probabilmente di tutti i suoi settari) è
dove parlando della mitologia greca, dice che la natura è vita, che la fantasia
umana e la poesia si compiace in immaginare che tutto viva, cioè conosca di essere, e qui si diffonde in magnificare
19 questa sorgente della poesia moderna che consiste
in non guardare nessuna cosa con noncuranza, in attribuir
senso a ogni cosa e riconoscer vita sotto tutte le
possibili forme, in avvivare insomma la natura col mezzo d'idee poeticamente analoghe. ecc. ecc. Dunque non solo
concede che la natura si avvivi, ma essenzialmente lo vuole, e dice di
contrapporre questo sistema vitale al mitologico ec. e
per esempio di questo avvivamento diverso da quello che faceano i mitologi, si
serve di un passo di Lord Byron dove attribuisce sospiri fragranti alla rosa innamorata. Ma che? non
vuole che si avvivi la natura così individualmente, diremo, e mediatamente, come
i mitologi faceano, personificando affetti e numi e piante ec. ma la natura
immediatamente, senza convertirla in individui, e riconoscendo vita sotto tutte le forme e non esclusivamente
sotto l'umana, in somma che tutto sia animato
e sensitivo, non che siano uomini dappertutto. Ma non si avvede il Breme, non si avvedono i romantici che
questi che debbono avvivare la natura, questi poeti, son uomini, e non possono
naturalmente e per intimo impulso concepir vita nelle cose, se non umana, e che
questo dare agli oggetti inanimati, agli Dei, e fino ai propri affetti, pensieri
e forme e affetti umani, è così naturale all'uomo che per levargli questo vizio
bisognerebbe rifarlo; non si avvede che il suppor vita nelle cose p. e.
inanimate diversa dalla nostra, ripugna di maniera al nostro istinto e alla
nostra natura, che appartiene appuntino a quello che si chiama cattivo gusto, al
gusto che si chiama gotico, che si chiama cinese; che il poeta non deve seguir
nè la ragione nè la metafisica (posto pur che la ragione ami meglio nelle cose
che non vivono, una vita diversa dalla nostra che
uguale, e così discorrete degli Dei ec.), ma la natura e l'istinto, e che per
quanto si può argomentare da questo istinto, il cavallo p. e. se avesse ragione
e immaginativa, attribuirebbe a Dio, (il cavallo sarebbe allora ragionevole,
onde nessuno si scandalizzi di quel che dirò) e alle cose inanimate ec. ec. la
figura e gli affetti e i pensieri del cavallo, e così gli altri animali; (e
questo pensiero non è mio ma dell'antico Senofane, perchè molte cose son vecchie che si credono nuove, e molta
sapienza è antica alla quale si crede che quei cervelli non arrivassero) non si
avvede che se la rosa sospira ed è innamorata, la rosa nella mente del poeta non
è mica altro che una donna; e che voler supporre che questa rosa viva, e non
viva come noi, se è possibile al metafisico, e[è] impossibilissimo al poeta e agli uditori del poeta, che non sono
mica i metafisici ma il volgo; e non si avvede che lo stesso lord Byron non ha saputo alla sua rosa e tutti i
romantici non sapranno in eterno a nessunissima cosa dare altri affetti o sensi
che umani, {perchè} diversi affetti o sensi appena ci
sappiamo persuadere che ci possano essere, non che possiamo immaginarci quali
siano. ec. ec. Quanto all'arte di poetare e di scrivere che il Breme pare che disprezzi per la
maggior parte, mi sbrigo in due parole. Questo imitar la natura questo destare i
sentimenti che voi altri volete, è facile o difficile? ognuno che li sente è
sicuro purchè si metta a scrivere di comunicarli subito agli altri, o no? Se sì,
me ne rallegro, e avrò piacere di vederne l'esperimento; se no, se questa cosa è
tra le difficili difficilissima,
20 se quand'uno ha
concepito, non ha fatto appena metà del cammino, se mille e centomila che
provando affetti e sentendo vivamente, hanno scritto, non sono riusciti a
muovere negli altri gli stessi affetti, e non si leggono da nessuno, se infiniti
esempi e ragioni provano quanta sia la forza dello stile, e come una stessa
immagine esposta da un poeta di vaglia faccia grand'effetto, e da un inferiore
nessuno, se Virgilio senz'arte non
sarebbe stato Virgilio, se in poesia un
bel corpo con vesti di cencio, dico, bei sensi senza bello stile {ordine, scelta ec.} non si soffrono e non si leggono e
sono condannati non mica dai pregiudizi ma dal tempo giudice incorrotto e
inappellabile, se colla proprietà eleganza nobiltà ec. ec. ec. delle parole e
della lingua e delle idee, colla scelta
coll'ordine colla collocazione ec. ec. infinite necessarissime doti si
procacciano alla poesia; c'è bisogno dell'arte, e di grandissimo studio
dell'arte, in questo nostro tempo massimamente, per le ragioni che più volte in
questi pensieri ho scritto. E noi vediamo che i grandi scrittori quelli che
tutto il mondo venera, quelli così infinitamente superiori ai pregiudizi, quelli
finalmente i quali se non sono veramente ed eternamente grandi, non c'è più cosa
grande nè speranza di diventar grande, noi vediamo che Cicerone (e l'eloquenza è cosa molto simile alla
poesia) studiò profondissimamente l'arte sua e la sua lingua e la gramatica e
gli esemplari greci quanto mai si può pensare, ec. e con tutto questo studio non
diventò già un uomo da nulla nè un pedante nè un imitatore e che so io, ma
diventò un Cicerone: e se Cicerone
{come scrittore e oratore,} o signor Breme, non vi quadra, come nè anche Pindaro nè Orazio, vi do subito la buona notte, e mi dispiace di
non averlo saputo prima. (E già di sopra s'è osservato che il primitivo bisogna
impararlo dagli antichi.)
[20,1] Non si ricorda il Breme di quella osservazione filosofica che è pur vecchia, dico, che
i mezzi più semplici e veri e sicuri sono gli ultimi che gli uomini trovano,
così nelle arti e nei mestieri come nelle cose usuali della vita, e così in
tutto. E così chi sente e vuol esprimere i moti del suo cuore ec. l'ultima cosa
a cui arriva è la semplicità, e la naturalezza, e la prima cosa è l'artifizio e
l'affettazione, e chi non ha studiato e non ha letto, e insomma come costoro
dicono è immune dai pregiudizi dell'arte, è innocente ec. non iscrive mica con
semplicità, ma tutto all'opposto: e lo vediamo nei fanciulli che per le prime
volte si mettono a comporre: non iscrivono mica con semplicità e naturalezza,
che se questo fosse, i migliori scritti sarebbero quelli dei fanciulli: ma per
contrario non ci si vede altro che esagerazioni e affettazioni e ricercatezze
benchè grossolane, e quella semplicità che v'è, non è semplicità ma
fanciullaggine: così dite di certe canzoni volgari ec. ec. che per un certo
verso son semplici, ma mettete un poco quella semplicità con quella di Anacreonte che pare il non plus ultra,
e vedete se vi pare che si possa pur chiamare semplicità. Onde il fine dell'arte
che costoro riprovano, non è mica l'arte, ma la natura, e il sommo dell'arte è
la naturalezza e il nasconder l'arte, che i principianti, o gl'ignoranti non
sanno nascondere, benchè n'hanno pochissima, ma quella pochissima trasparisce, e
tanto fa più stomaco quanto è più rozza: e i nove anni d'Orazio dei quali il Breme si fa beffe, non sono mica per accrescer gli
artifizi del componimento, ma per diminuirli, o meglio, per celarli
accrescendoli, e insomma per avvicinarsi sempre più alla natura, che è il fine
di tutti quegli studi e di quelle emendazioni ec. di cui il Breme si burla, di cui si burlano i romantici,
contraddicendo a se stessi; che mentre
21 bestemmiano
l'arte e predicano la natura, non s'accorgono che la minor arte è minor
natura.
[21,1] Non solamente bisogna che il poeta imiti e dipinga a
perfezione la natura, ma anche che la imiti e dipinga con naturalezza {anzi non imita la nat.[natura] chi non la imita con naturalezza.} Però Ovidio che senza naturalezza la dipinge,
cioè va tanto dietro a quegli oggetti, che finalmente ce li presenta, e ce li fa
anche vedere e toccare e sentire, ma dopo infinito stento suo, (così che a lui
bisogna una pagina per farci veder quello che Dante ci fa vedere in una terzina) e con una più tosto pertinacia
ch'efficacia; presto sazia, e inoltre non è molto piacevole, perchè non sa
nasconder l'arte, e con quel tanto aggirarsi {intorno}
agli oggetti (non solo per una pericolosa intemperanza e incontentabilità, ma
anche perchè egli senza molti tratti non ci sa subito disegnar la figura, e se
non fosse lungo non sarebbe evidente) fa manifesta la diligenza, e la diligenza
nei poeti è contraria alla naturalezza. Quello che nei poeti dee parer di
vedere, oltre gli oggetti imitati, è una bella negligenza, e questa è quella che
vediamo negli antichi, maestri di questa necessarissima e sostanziale arte,
questa è quella che vediamo nell'Ariosto, Petrarca ec. questa
è quella che pur troppo manca anche ai migliori e classici tra i moderni, questa
è quella che col sentimentale e col sistema del Breme, e nelle poesie {moderne} de' francesi, non si ottiene, e poi non si ottiene; chè
questo stesso sentimentale scopre una certa diligenza ec. scopre insomma il
poeta che parla ec.
[39,1]
Dice Bacone da Verulamio che tutte le facoltà ridotte ad arte
steriliscono.
*
Della quale verissima sentenza farò un
breve commento applicandolo in particolare alla poesia. Steriliscono le facoltà
ridotte ad arte, vale a dire gli uomini non trovano altro che le amplifichi,
come trovavano quando ell'erano ancora informi, e senza nome e senza leggi
proprie ec. e di ciò mi sovvengono
(verbo usato in questo significato dal Tasso) 4. ragioni. La 1. che {quasi} nessuno
pensa più ad accrescere una facoltà già stabilita ordinata composta e che si ha
per perfetta, perchè ognuno si contenta e si acquieta stimando la cosa già
compita il che non accadeva prima della sua riduzione ad arte; ma ciascuno che
capitava a coltivare questa facoltà, si lambiccava il cervello per ampliarla
perchè non avea nome d'esser arte; quando l'ha avuto quando anche in fatti non
sia più ricca di prima, par ch'ell'abbia già il tutto. La 2. (e questa è
relativa particolarmente alla poesia) perchè moltissimi anzi quasi tutto il
volgo di quelli che si applicano alla poesia (dite lo stesso proporzionatamente
delle altre facoltà) non ardiscono di violare nessuna delle regole stabilite di
mettere il piede un dito fuori della traccia segnata dai predecessori, credendo
pedantescamente che il poetare non si possa eseguire senza stare a quelle leggi,
insomma la 2.da ragione è la pedanteria. La 3. più comune alle persone di senno
e giudiziose {e capaci, e anche esimie} è il costume e
l'abitudine dal quale non si sanno staccare parte relativamente a se, parte agli
altri. A se, perchè coll'abito preso di leggere di sentire di scrivere quella
tal sorta di poemi di tragedie ec. non sanno fare altrimenti quantunque non
siano ritenuti da nessuna superstizione. Agli altri, perchè non ardiscono di
abbandonare le[la] consuetudine corrente, e
quantunque non sieno schiavi dei pregiudizi tuttavia dovendo comporre qualche
poesia non si risolvono a parere stravaganti ideando cose non più sentite,
dovendo pubblicare un'azione drammatica ed esporla agli occhi del popolo, se la
facessero di capriccio e senz'adattarsi alla forma usata crederebbero meritarsi
le risa o il biasimo universale, se componessero un poema epico di forma
differente da quella che si costuma da tutto il mondo stimano e in certo modo
con ragione che dovrebbero essere ripresi d'aver barattati i nomi, non
ricevendosi per poema epico se non quello che è in questa forma consueta. E così
è in fatti che se uno intitola la sua opera tragedia, il pubblico si aspetta
quello che si suole intendere per tragedia, e trovando cosa tutta differente se
ne ride. Nè senza ragione perchè il danno dell'età nostra è che la poesia sia
già ridotta ad arte, in maniera che per essere veramente originale bisogna
rompere violare disprezzare lasciare da parte intieramente i costumi e le
abitudini e le nozioni di nomi di generi ec. ricevute da tutti, cosa difficile a
fare, e dalla quale si astiene ragionevolmente anche il savio, perchè le
consuetudini vanno rispettate massimamente nelle cose fatte pel popolo come sono
le poesie, nè va ingannato il pubblico con nomi falsi.
40
E dare una nuova poesia senza nome affatto {e} che non
possa averne dai generi conosciuti è ragionevole bensì, ma di un ardire
difficile a trovarsi, e che anche ha infiniti ostacoli reali, e non solamente
immaginari nè pedanteschi. La 4. e la più forte, e la più considerabile, che
quando anche un bravo poeta voglia effettivamente astrarre da ogni idea ricevuta
da ogni forma da ogni consuetudine, e si metta a immaginare una poesia tutta sua
propria, senza nessun rispetto, difficilissimamente riesce ad essere veramente
originale, o almeno ad esserlo come gli antichi, perchè a ogni momento anche
senz'avvedersene, senza volerlo, sdegnandosene ancora, ricadrebbe in quelle
forme, in quegli usi, in quelle parti, in quei mezzi, in quegli artifizi, in
quelle immagini, in quei generi ec. ec. come un riozzolo d'acqua che corra per
un luogo dov'è passata altr'acqua: avete bel distornarlo, sempre tenderà e
ricadrà nella strada ch'è restata bagnata dall'acqua precedente. Giacchè la
natura somministra ben da se idee sempre differenti e sempre nuove, e se un
poeta non fosse stato conosciuto dall'altro appena si sarebbero trovati due
poeti che avessero fatti poemi somiglianti {perchè questo non
sarebbe stato se non opera del caso, il quale difficilmente produce simili
combinazioni che ognuno vede quanto sian rare in ogni genere.} Perciò
quando gli esempi erano o scarsi o nulli, Eschilo per es. inventando ora una ora un'altra tragedia senza forme
senza usi stabiliti, e seguendo la sua natura, variava naturalmente a ogni
composizione. Così Omero scrivendo i
suoi poemi, vagava liberamente per li campi immaginabili, e sceglieva quello che
gli pareva giacchè tutto gli era presente effettivamente, non avendoci esempi
anteriori che glieli circoscrivessero e gliene chiudessero la vista. In questo
modo i poeti antichi difficilmente s'imbattevano a non essere originali, o piuttosto erano sempre
originali, e s'erano simili era caso. Ma ora con tanti usi con tanti esempi, con
tante nozioni, definizioni, regole, forme, con tante letture ec. per quanto un
poeta si voglia allontanare dalla strada segnata a ogni poco ci ritorna, mentre
la natura non opera più da se, sempre naturalmente e necessariamente influiscono
sulla mente del poeta le idee acquistate che circoscrivono l'efficacia della
natura e scemano la facoltà inventiva, la quale se ciò non fosse, malgrado i
tanti poeti che ci sono stati, saprebbe ben da se ritrovar naturalmente e senza
sforzo (parlo della facoltà inventiva di un vero poeta) cose sempre nuove, e non
tocche da altri, almeno non in quella maniera ec.
[57,3] Circa le immaginazioni de' fanciulli comparate alla
poesia degli antichi vedi la verissima osservazione di Verter sul fine della lettera 50. Una terza sorgente degli
stessi diletti e delle stesse romanzesche idee sono i sogni.
[73,3]
L'ame est si mal à
l'aise dans ce lieu
*
, (dice la Staël delle catacombe liv. 5 ch. 2. de la Corinne) qu'il n'en peut résulter aucun bien pour elle. L'homme est
une partie de la création, il faut qu'il trouve son harmonie morale dans
l'ensemble de l'univers, dans l'ordre habituel
74
de la destinée; et de certaines exceptions violentes et redoutables
peuvent étonner la pensée, mais effraient tellement l'imagination, que
la disposition habituelle de l'ame ne saurait y gagner.
*
Queste parole sono una solennissima condanna degli orrori e dell'eccessivo
terribile tanto caro ai romantici, dal quale l'immaginazione e il sentimento in
vece d'essere scosso è oppresso e schiacciato, e non trova altro partito a
prendere che la fuga, cioè chiuder gli occhi {della
fantasia} e schivar quell'immagine che tu gli presenti.
[76,4] L'espressione del dolore antico, p. e. nel Laocoonte, nel gruppo di Niobe, nelle descrizioni di Omero ec. doveva essere per necessità
differente da quella del dolor moderno. Quello era un dolore senza medicina com'
ne ha il nostro, non sopravvenivano le sventure agli antichi come
necessariamente dovute alla nostra natura, ed anche come un nulla in questa
misera vita, ma
77 come impedimenti e contrasti a quella
felicità che agli antichi non pareva un sogno, come a noi pare, (ed
effettivamente non era tale per essi {certamente speravano,
mentre noi disperiamo, di poterla conseguire}) come mali evitabili e
non evitati. Perciò la vendetta del cielo, le ingiustizie degli uomini, i danni,
le calamità, le malattie, le ingiurie della fortuna, pareano mali tutti propri
di quello a cui sopravvenivano. (infatti il disgraziato al contrario di adesso
solea per la superstizione che si mescolava ai sentimenti e alle opinioni
naturali, esser creduto uno scellerato e in odio agli Dei, e destar più l'odio
che la compassione) Quindi il dolor loro era disperato, come suol essere in
natura, e come ora nei barbari e nelle genti di campagna, senza il conforto
della sensibilità, senza la rassegnazion dolce alle sventure da noi, non da
loro, conosciute inevitabili, non poteano conoscere il piacer del dolore, nè
l'affanno di una madre, perduti i suoi figli, come Niobe, era mescolato di nessuna amara e dolce
tenerezza di se stesso ec. ma intieramente disperato. Somma differenza tra il
dolore antico e il moderno per cui con ragione si raccomanda al poeta artista
ec. moderno di trattar soggetti moderni, non potendo a meno trattando soggetti
antichi di cadere in una di queste due, o violare il vero, dipingendo i fatti
antichi con prestare ai suoi personaggi sentimenti e affetti moderni, o non
interessare nè farsi
78 intendere dai moderni col far
sentire e parlare quei personaggi all'antica. Se non che l'offendere il vero,
nel primo caso non mi par così da schivare, purchè si salvi il verosimile,
divenendo cosa da puro erudito, quando l'effetto di quella mescolanza è buono,
il rilevare che gli antichi non avrebbero potuto provare quei sentimenti, come
io soglio anche dire dei vestimenti e delle attitudini nella pittura, ec. dove
purchè l'offesa del vero non salti agli occhi, vale a dire si salvi il
verisimile, sarà sempre meglio farsi intendere e colpire i moderni, che
assoggettarsi ad una miserabile esattezza erudita che non farebbe nessuno
effetto. Quindi non condanno punto anzi lodo p. e. Racine che avendo scelto soggetti antichi (che colla
loro natura non erano incompatibili coi sentimenti moderni, e d'altronde erano
per la loro bellezza, tragicità, forza ec. preferibili ad altri soggetti de'
giorni più bassi) gli ha trattati alla moderna. La sensibilità era negli antichi
in potenza, ma non in atto come in noi, e però una facoltà naturalissima (v. il mio discorso sui romantici), ma è
cosa provata che le diverse circostanze sviluppano le diverse facoltà naturali
dell'anima, che restano nascose e inoperose mancando quelle tali circostanze,
fisiche, politiche, morali, e soprattutto, nel nostro caso, intellettuali,
giacchè lo sviluppo del sentimento e della melanconia, è venuto soprattutto dal
progresso della filosofia, e della cognizione dell'uomo, e del mondo, e della
vanità delle cose, e della infelicità umana,
79
cognizione che produce appunto questa infelicità, che in natura non dovevamo mai
conoscere. Gli antichi in cambio di quel sentimento che ora è tutt'uno col
malinconico, avevano altri sentimenti entusiasmi ec. più lieti e felici, ed è
una pazzia l'accusare i loro poeti di non esser sentimentali, e anche il
preferire {a} quei sentimenti e piaceri loro che erano
spiritualissimi anch'essi, e destinati dalla natura all'uomo non fatto per
essere infelice, i sentimenti e le dolcezze nostre, benchè naturali anch'esse,
cioè l'ultima risorsa della natura per contrastare (com'è suo continuo scopo)
alla infelicità prodotta dalla innaturale cognizione della nostra miseria. La
consolazione degli antichi non era nella sventura, per es. un morto si consolava
cogli emblemi della vita, coi giuochi i più energici, colla lode di avere
incontrata una sventura minore o nulla morendo per la patria, per la gloria, per
passioni vive, morendo dirò quasi per la vita. La consolazione loro {anche della morte} non era nella morte ma nella vita.
{{V. p. 105. di questi
pensieri.}}
[86,1] Dice la Staël
(Corinne liv. 18. ch. 4) parlando de la statue de Niobé: sans doute dans une semblable
situation la figure d'une véritable mère serait entièrement bouleversée;
mais l'idéal des arts conserve la beauté dans le désespoir; et ce qui
touche profondément dans les ouvrages du génie, ce n'est pas le malheur
même, c'est la puissance que l'ame conserve sur ce
malheur
*
. Bellissima condanna del sistema romantico che per
conservare la semplicità e la naturalezza e fuggire l'affettazione che dai
moderni è stata pur troppo sostituita alla dignità, (facile agli antichi ad
unire colla semplicità che ad essi era sì presente e nota e propria e viva)
rinunzia ad ogni nobiltà, così che le loro opere di genio non hanno punto questa
gran nota della loro origine, ed essendo una pura imitazione del vero, come una
statua di cenci con parrucca e viso di cera ec. colpisce molto meno di quella
che insieme colla semplicità e naturalezza conserva l'ideale del bello, e rende
straordinario quello ch'è comune, cioè mostra ne' suoi eroi un'anima grande e
un'attitudine dignitosa, il che muove la maraviglia e
87
il sentimento profondo colla forza del contrasto, mentre nel romantico non
potete esser commosso se non come dagli avvenimenti ordinari della vita, che i
romantici esprimono fedelmente, ma senza dargli nulla di quello straordinario e
sublime, che innalza l'immaginazione, e ispira la meditazione profonda e la
intimità e durevolezza del sentimento. E così ancora si verifica che gli antichi
lasciavano a pensare più di quello ch'esprimessero, e l'impressione delle loro
opere era più durevole.
[100,1]
100 È cosa osservata degli antichi poeti ed artefici,
massimamente greci, che solevano lasciar da pensare allo spettatore o uditore
più di quello ch'esprimessero. (V. p.
86-87. di questi pensieri) E quanto alla cagione di ciò, non è altra
che la loro semplicità e naturalezza, per cui non andavano come i moderni dietro
alle minuzie della cosa, dimostrando evidentemente lo studio dello scrittore,
che non parla o descrive la cosa come la natura stessa la presenta, ma va
sottilizzando, notando le circostanze, sminuzzando e allungando la descrizione
per desiderio di fare effetto, cosa che scuopre il proposito, distrugge la
naturale disinvoltura e negligenza, manifesta l'arte e l'affettazione, ed
introduce nella poesia a parlare più il poeta che la cosa. Del che v. il mio discorso sopra i romantici, e
vari di questi pensieri p. 21
p.
52
p.
57. Ma tra gli effetti di questo costume, dico effetti e non cagioni,
giacchè gli antichi non pensavano certamente a questo effetto, e non erano
portati se non dalla causa che ho detta, è notabilissimo quello del rendere
l'impressione della poesia o dell'arte bella, infinita, laddove quella de'
moderni è finita. Perchè descrivendo con pochi colpi, e mostrando poche parti
dell'oggetto, lasciavano l'immaginazione errare nel vago e indeterminato di
quelle idee fanciullesche, che nascono dagl'ignoranza dell'intiero. Ed una scena
campestre p. e. dipinta dal poeta antico in pochi tratti, e senza dirò così, il
suo orizzonte, destava nella fantasia quel divino ondeggiamento d'idee confuse,
e brillanti di un indefinibile romanzesco, e di quella eccessivamente cara e
soave stravaganza {e maraviglia,} che ci solea rendere
estatici nella nostra fanciullezza. Dove che i moderni, determinando ogni
oggetto, e mostrandone tutti i confini, son privi quasi affatto di questa
emozione infinita, e invece non destano se non quella finita e circoscritta, che
nasce dalla cognizione dell'oggetto intiero, e non ha nulla di stravagante, ma è
propria dell'età matura, che è priva di quegl'inesprimibili diletti della vaga
immaginazione provati nella fanciullezza. (8. Gen. 1820.)
[154,1]
Da quello che dice Montesquieu
Essai sur le Goût. Des plaisirs de l'ame.
p. 369.-370. deducete che le regole della letteratura e belle arti non
possono affatto essere universali, e adattate a ciascheduno. Bensì è vero che la
maniera di essere di un uomo nelle cose principali e sostanziali è comune a
tutti, e perciò le regole capitali delle lettere e arti belle, sono universali.
Ma alcune piccole o mediocri differenze sussistono tra popolo e popolo tra
individuo e individuo, e massimamente fra secolo e secolo. Se tutti gli uomini
fossero di vista corta, {come sono molti}
l'architettura in molte sue parti sarebbe difettosa, e converrebbe riformarla.
{Così al contrario. Intanto ella è difettosa veramente
rispetto a quei tali.} Gli orientali aveano ed hanno più rapidità,
vivacità, fecondia ec. di spirito che gli europei. Perciò quella soprabbondanza
che notiamo nelle loro poesie ec. se sarebbe difetto tra noi, poteva non
esserlo, o esser minore appresso un popolo più capace per sua natura di seguire
e di comprendere coll'animo suo quella maniera del poeta. Lo stesso dite
dell'oscurità, del metaforico eccessivo per noi, {delle
sottigliezze, delle troppe minuzie,} dell'ampolloso ec. ec. E questa
distinzione fatela anche tra i popoli europei, e non condannate una letteratura
perchè è diversa da un'altra stimata classica. Il {tipo o la
forma del bello} non esiste, e non è altro che l'idea della
convenienza. Era un sogno di Platone che
le idee delle cose esistessero innanzi a queste, in maniera che queste non
potessero esistere altrimenti {v. Montesq.
ivi. capo 1. p. 366.} quando la loro maniera
di esistere è affatto arbitraria e dipendente dal creatore, come dice Montesquieu, e non ha nessuna ragione
per esser piuttosto così che in un altro modo, se non la volontà di chi le ha
fatte. E chi sa che non esista un altro, o più, o infiniti altri sistemi di cose
così diversi dal nostro che noi non li possiamo neppur concepire?
155 Ma noi che abbiamo rigettato il sogno di Platone conserviamo quello di un tipo
immaginario del bello. (V. il discorso di
G. Bossi nella B. Italiana). Ora l'idea della
convenienza essendo universale, ma dipendendo dalle opinioni caratteri costumi
ec. il giudizio e il discernimento di quali cose convengano insieme, ne deriva
che la letteratura e le arti, quantunque pel motivo sopraddetto siano soggette a
regole universali nella sostanza principale, tuttavia in molti particolari
debbano cangiare infinitamente secondo non solamente le diverse nature, ma anche
le diverse qualità mutabili, vale a dire opinioni, gusti, costumi ec. degli
uomini, che danno loro diverse idee della convenienza relativa.
[164,2] Il racconto è uffizio della parola, la descrizione del
disegno (eseguito in qualunque modo). Quindi non è maraviglia che quello sia più
facile di questa al parlatore. E questa è una delle primarie cagioni per cui era
falso ed assurdo quel genere {di poesia} poco fa tanto
in pregio e in uso appresso gli stranieri massimamente, che chiamavano
descrittiva. Perchè quantunque il poeta o lo scrittore possa bene assumere anche
l'uffizio di descrivere, è da stolto il farne professione, non essendo uffizio
proprio della poesia, e quindi non è possibile che non ne risulti affettazione e
ricercatezza, e stento, volendolo fare per istituto e per argomento, lasciando
stare la noia che deve nascere dalla lettura di una poesia tutta diretta a un
uffizio proprio di un'altra arte, e perciò e inferiore a questa, malgrado
qualunque studio, e stentata, e tediosa per la continuazione di una cosa che non
appartenendole non può esser troppo lunga, al contrario di quelle che le
appartengono, nelle quali nessuno biasima che poesia si ravvolga tutta intera.
(12. Luglio 1820.).
[172,1] Da questa teoria del
piacere deducete che la grandezza anche delle cose non piacevoli per
se stesse, diviene un piacere per questo solo ch'è grandezza. E non attribuite
questa cosa alla grandezza immaginaria della nostra natura. Posta la detta
teoria, si viene a conoscere (quello ch'è veramente) che il desiderio del
piacere diviene una pena, e una specie {di travaglio}
abituale dell'anima. Quindi 1. un assopimento dell'anima è piacevole. I turchi
se lo proccurano coll'oppio, ed è grato all'anima perchè in quei momenti non è
affannata dal desiderio, perchè è come un riposo dal desiderio tormentoso, e
impossibile a soddisfar pienamente; {un intervallo come il
sonno nel quale se ben l'anima forse non lascia di pensare, tuttavia non se
n'avvede.} 2. la vita continuamente occupata è la più felice, quando
anche non sieno occupazioni e sensazioni vive, e varie. L'animo occupato è
distratto da quel desiderio innato che non lo lascerebbe in pace, o lo rivolge a
quei piccoli fini della giornata (il terminare un lavoro {il
provvedere ai suoi bisogni ordinari ec.} ec. ec.) giacchè li considera
allora come piaceri (essendo piacere tutto quello che l'anima desidera), e
conseguitone uno, passa a un altro, così che è distratto da desideri maggiori, e
non ha campo di affliggersi della vanità e del vuoto delle cose, e la speranza
di quei
173 piccoli fini, e i {piccoli} disegni sulle occupazioni {avvenire} o sulle speranze di un esito {generale} lontano e desiderato, bastano a riempierlo, e a trattenerlo
nel tempo del suo riposo, il quale non è troppo lungo perchè sottentri la noia;
oltre che il riposo dalla fatica è un piacere per se. Questa dovea esser la vita
dell'uomo, ed era quella dei primitivi, ed è quella dei selvaggi, {degli agricoltori ec.} e gli animali non per altra
cagione se non per questa principalmente, vivono felici. Ed osservate come lo
spettacolo della vita occupata laboriosa e domestica, sembri anche oggidì, a chi
vive nel mondo, lo spettacolo della felicità, anche per la mancanza dei dolori,
e delle cure e afflizioni reali. 3. il maraviglioso, lo straordinario è
piacevole, quantunque la sua qualità particolare non appartenga a nessuna classe
delle cose piacevoli. L'anima prova sempre piacere quando è piena (purchè non
sia di dolore), e la distrazione viva ed intera è un piacere {rispetto a lei} assolutamente, come il riposo dalla fatica è piacere,
perchè una tal distrazione è riposo dal desiderio. E come è piacevole lo stupore
cagionato dall'oppio (anche relativamente alla dimenticanza dei mali positivi),
così quello cagionato dalla maraviglia, dalla novità, e dalla singolarità.
Quando anche la maraviglia non sia tanta che riempia l'anima, se non altro
l'occupa sempre fortemente, ed è piacevole per questa parte. Notate che la
natura aveva voluto che la maraviglia {1.} fosse cosa
ordinarissima all'uomo, 2. fosse {spessissimo} intera,
cioè capace di riempier tutta l'anima. Così accade ne' fanciulli, e accadeva ne'
primitivi, e ora negl'ignoranti, ma non può accadere senza l'ignoranza, e
l'ignoranza d'oggi non può mai esser come quella dell'uomo che non vive in
società, perchè vivendo in società,
174 l'esperienza de'
passati e de' presenti l'istruisce, più o meno, ma sempre l'istruisce, e la
novità diventa rara. 4. anche l'immagine del dolore e delle cose terribili ec. è
piacevole, come ne' drammi e poesie d'ogni sorta, spettacoli ec. Purchè l'uomo
non tema o non si dolga per se, la forza della distrazione gli è sempre
piacevole. Non è bisogno che quelle immagini siano di cose straordinarie: in
questo caso cadrebbero sotto la categoria precedente. Ma la semplice immagine
del dolore ec. è sufficiente a riempier l'animo e distrarlo. 5. la grandezza di
ogni qualsivoglia genere (eccetto del proprio {male}) è
piacevole. Naturalmente il grande occupa più spazio del piccolo, salvo se la
piccolezza è straordinaria, nel qual caso occupa più della grandezza ordinaria.
Questo ch'io dico della grandezza è un effetto materiale derivante dalla
inclinazione dell'uomo al piacere, e non dalla inclinazione alla grandezza. Si
potrebbe forse dir lo stesso del sublime, il quale è cosa diversa dal bello ch'è
piacevole all'uomo per se stesso. In somma la noia non è altro che una mancanza
del piacere che è l'elemento della nostra esistenza, e di cosa che ci distragga
dal desiderarlo. Se non fosse la tendenza imperiosa dell'uomo al piacere sotto
qualunque forma, la noia, quest'affezione tanto comune, tanto frequente, e tanto
abborrita non esisterebbe. E infatti per che motivo l'uomo dovrebbe sentirsi
male, quando non ha male nessuno? Poniamo un uomo isolato senza nessuna
occupazione spirituale o corporale, e senza nessuna cura o afflizione o dolor
positivo, o annoiato
175 dalla uniformità di una cosa
non penosa nè dispiacevole per sua natura, e ditemi per che motivo quest'uomo
deve soffrire. E pur vediamo che soffre, e si dispera, e preferirebbe qualunque
travaglio a quello stato. (Anzi è famosa la risposta affermativa data dai medici
consultati dal duca di Brancas, se la
noia potesse uccidere: Lady Morgan
France l. 8. notes) Non per altro se non per un
desiderio ingenito e compagno inseparabile dell'esistenza, che in quel tempo non
è soddisfatto, non ingannato, non mitigato, non addormentato. E la natura è
certo che ha provveduto in tutti i modi contro questo male, all'orrore e
ripugnanza del quale nell'uomo, si può paragonare quell'orrore del vuoto che gli
antichi fisici supponevano nella natura, per ispiegare alcuni effetti naturali.
Ha provveduto col dare all'uomo molti bisogni, e nella soddisfazione del bisogno
(come della fame e della sete, {freddo, caldo ec.})
porre il piacere, quindi col volerlo occupato; colla gran varietà, {colla immaginazione che l'occupa anche del nulla,} ed
anche col timore (il quale sebbene è un effetto naturale e spontaneo anch'esso
dell'amor proprio, tuttavia bisogna considerare il sistema della natura in
genere, e la mirabile armonia e corrispondenza di diversi effetti a questo o
quello scopo), coi pericoli i quali affezionano maggiormente alla vita, e
sciolgono la noia, {colle turbazioni degli elementi,}
coi dolori e coi mali istessi, perchè è più dolce il guarir dai mali, che il
vivere senza mali; {+e con tali altri
disastri, che si considerano come mali, e quasi difetti della natura,
scusandola col definirli per accidenti fuori dell'ordine; ma che forse
essendo tali ciascuno, non lo sono tutti insieme; ed appartengono anch'essi
al gran sistema universale.} In somma il sistema della natura rispetto
all'uomo è sempre diretto ad allontanar da lui questo male formidabile della
noia, che a detta di tutti i filosofi essendo così frequente all'uomo moderno, è
quasi sconosciuto al primitivo (e così agli animali). E osservate come i
fanciulli {anche} in una quasi perfetta inazione, pur
di rado o {non} mai sentano
176
il vero tormento della noia, perchè ogni minima bagattella basta ad occuparli
tutti interi, e la forza della loro immaginazione dà corpo e vita e azione ad
ogni fantasia che si affacci loro alla mente ec. e trovano in somma in se stessi
una sorgente inesauribile di occupazioni {e} sempre
varie. Questo senza cognizioni, senza esperienze, senza viaggi, senz'aver veduto
udito ec. in un mondo ristrettissimo {e uniforme.} E
laddove parrebbe che quanto più questo mondo e questo campo si accresce {e diversifica,} tanto più {ampio e
vario per} l'uomo dovesse essere il fondo delle occupazioni interne
come son quelle dei fanciulli, {e la noia tanto più
rara,} nondimeno vediamo accadere tutto il contrario. Gran lezione per
chi non vuol riconoscere la natura come sorgente quasi unica di felicità, e
l'alterazione di lei, come certa cagione d'infelicità. Del resto che la forza e
fecondità dell'immaginazione 1. come rende facilissima l'azione, così
spessissimo renda facile l'inazione, 2. sia cosa ben diversa dalla profondità
della mente, la quale per lo contrario conduce all'infelicità, è manifesto per
l'esempio de' popoli meridionali, segnatamente degl'italiani, rispetto ai
settentrionali. Giacchè gl'italiani {1.} come una volta
per il loro entusiasmo figlio di un'immaginazione viva e più ricca che profonda,
erano attivissimi, così ora una delle cagioni per cui non si accorgono o {almeno} non si disperano affatto di una vita sempre
uniforme, e di una perfetta inazione, è la stessa immaginazione ugualmente ricca
e varia, e la soprabbondanza delle sensazioni che ne deriva, la quale gl'immerge
senza che se n'avvedano in una specie di rêve, come i
fanciulli quando son soli ec. cosa continuamente inculcata dalla Staël, {laddove i
settentrionali non avendo tal sorgente di occupazione interna atta a
consolarli, per necessità ricorrono all'esterna, e divengono
attivissimi.} 2. la profondità della mente,
177 e la facoltà di penetrare nei più intimi recessi del vero dell'astratto ec.
quantunque non sia loro ignota a cagione della loro sottigliezza, {prontezza e penetrazione, (che rende loro più facile il
concepimento e la scoperta del vero, laddove agli altri bisogna più fatica,
e perciò spesso sbagliano con tutta la profondità)} contuttociò non è
il loro forte, e per lo contrario forma tutta l'occupazione e quindi
l'infelicità dei settentrionali colti (osservate perciò la frequenza de' suicidi
in inghilterra) i quali non hanno cosa che li distragga
dalla considerazione del vero. E quantunque paia che l'immaginazione anche
appresso loro sia caldissima originalissima ec. tuttavia quella è piuttosto
filosofia e profondità, che immaginazione, e la loro poesia piuttosto metafisica
che poesia, venendo più dal pensiero che dalle illusioni. {E
il loro sentimentale è piuttosto disperazione che consolazione.} E la
poesia antica perciò appunto non è stata mai fatta per loro; perciò appunto
hanno gusti tutti differenti, e si compiacciono degli {enti} allegorici, delle astrazioni ec. (V. p. 154.) perciò appunto sarà sempre vero che la
nostra è propriamente la patria della poesia, e la loro quella del pensiero.
(v. p. 143-144.)
[191,3] Con quello che dice Montesquieu,
Essai sur le Gout. Des diverses
causes qui peuvent produire un sentiment. De la sensibilité. De la
délicatesse p. 389-393. spiegate la cagione per cui c'interessino
tanto le Storie romana e greca, i fatti cantati da Omero e da Virgilio ec. le tragedie ec. composte
192
sopra quegli argomenti ec. ec. E come quell'interesse non ci possa esser
suscitato da nessun'altra storia, o poema sopra altri fatti ancorchè benissimo
cantati, come dall'Ossian, o
tragedia d'altri argomenti, quando anche appartengano alla nostra storia patria
più immediata, come agli avvenimenti de' bassi tempi ec. e molto meno dalle
poesie orientali, e da cento altre belle cose volute e messe in voga dai nostri
romantici, che di vera psicologia non s'intendono un fico. Tutto proviene dalla
moltiplicità delle cause che producono in noi un sentimento, e sono, rispetto
alle dette cose, ricordanze della fanciullezza, abitudine presa, fama universale
di quelle nazioni e di quei poeti, affezionamento ancorchè involontario,
continuo uso di sentirne parlare, rispetto venerazione ammirazione amore per
quelli che ne hanno parlato, tutte ragioni la mancanza delle quali rende
difficilissimo, e forse impossibile il fare ugualmente interessante un soggetto
nuovo, massime in poesia, dove tutto il diletto proviene dall'interesse, e non
può stare colla sola curiosità, o desiderio d'istruirsi ec. come nelle storie e
simili. E v. il mio discorso sui romantici.
Souvent notre ame se compose elle-même des raisons de plaisir, et
elle y réussit surtout par les liaisons qu'elle met aux
choses.
*
Questo e tutto l'altro che dice Montesquieu è notabilissimo, e
applicabile a diversissimi casi e condizioni nelle quali ci riesce piacevole
quello che ad altri non riesce, e a noi
193 stessi non
riusciva in altre circostanze. P. e. fu un tempo non breve in cui la poesia
classica non mi dava nessun piacere, e io non ci trovava nessuna bellezza. Fu un
tempo in cui io non trovava altro studio piacevole che la pura {e secca} filologia, che ad altri par noiosissima. Fu un
tempo in cui le scienze mi parevano studi intollerabili. E quanti nelle loro
professioni trovano piaceri, che agli altri parranno maravigliosi, non potendo
comprendere che diletto si trovi in quelle occupazioni! E nominatamente in
quello che appartiene alle lettere e belle arti, chi non sa e non vede
tuttogiorno che il letterato e l'artista trova piaceri incredibili {e sempre nuovi} nella lettura o nella contemplazione di
questa o di quell'opera, che letta o contemplata dai volgari, non sanno
comprendere che diascolo di gusto ci si trovi? E piuttosto lo troveranno in
cento altre operacce di pessima lega. Con questo spiegate ancora la diversità
de' gusti ne' diversi tempi, classi, nazioni, climi ec. (29. Luglio
1820.).
[203,2] L'affettazione nuoce anche alla maraviglia, capital
cagione del diletto nelle arti. Primieramente il conoscere il proposito toglie
204 la sorpresa. Poi, e questo è il principale, non
vedi {somma} difficoltà in una figura somigliantissima
al vero, ma stentata. Oltre che lo stento detrae al vero, perchè non appartiene
al vero se non la naturalezza, non è maraviglia, che con fatica ti sia riuscito,
quello che volevi. E non è maraviglia che tu facci una cosa volendo, come che tu
la facci, senza che gli altri si accorgono che tu l'abbi voluto. E non è
difficile il fare una cosa difficile, difficilmente, ma in modo che paia facile.
Così c'è il contrasto fra la nota difficoltà della cosa, e l'apparente
difficoltà del modo. L'affettazione toglie il contrasto ec. ec. V. se vuoi Montesquieu, Essai sur le
goût. Amsterdam 1781. du je ne sais quoi. p.
396.-397. (9. Agosto 1820.).
[211,2] È curioso che si riprenda {(dagli stranieri particolarmente)}
Michelangelo per aver troppo voluto
dimostrare la sua scienza anatomica nelle scolture, e si dia per regola di
nasconder sempre questa scienza nell'arte dello scolpire o del dipingere, ed
esser meglio ignorarla affatto che ostentarla (come si dice, mi pare, di Raffaello, che non si curò di studiarla);
e che frattanto gli stranieri massimamente non sieno mai così contenti come
quando hanno inzeppato le loro poesie di tecnicismi, di formole, di nozioni
astratte e metafisiche, di psicologia, d'ideologia, di storia naturale, di
scienza di viaggi, di geografia, di politica, e d'erudizione, scienza, arte,
mestiero d'ogni sorta. E mentre non vogliono l'erudizione antica, lodano e
abusano vituperosamente della moderna. (15. Agosto 1820.). {{Vedi la p. 238. capoverso 1.}}
[223,3] Lord
Byron nelle annotazioni al Corsaro (forse anche ad altre sue opere) cita esempi
storici, di quegli effetti delle
224 passioni, e di quei
caratteri ch'egli descrive. Male. Il lettore deve sentire e non imparare la
conformità che ha la tua descrizione ec. colla verità e colla natura, {e che quei tali caratteri e passioni in quelle tali
circostanze producono quel tale effetto;} altrimenti il diletto
poetico è svanito, e la imitazione cadendo sopra cose ignote, non produce
maraviglia, ancorchè esattissima. Lo vediamo anche nelle commedie e tragedie,
dove certi caratteri straordinari affatto, benchè veri, non fanno nessun colpo.
V. il discorso sui romantici, intorno agli altri oggetti d'imitazione. E come
non produce maraviglia, così neanche affetti e sentimenti, e corrispondenza del
cuore a ciò che si legge o si vede rappresentare. E la poesia si trasforma in un
trattato, e l'azione sua dall'immaginazione e dal cuore passa all'intelletto.
Effettivamente la poesia di Lord Byron
sebbene caldissima, tuttavia per la detta ragione, la quale fa che quel calore
non sia communicabile, è nella massima parte un trattato oscurissimo di
psicologia, ed anche non molto utile, perchè i caratteri e passioni ch'egli
descrive sono così strani che non combaciano in verun modo col cuore {di chi legge,} ma ci cascano sopra disadattamente, come
per angoli e spicoli, e l'impressione che ci fanno è molto più esterna che
interna. E noi non c'interessiamo vivamente se non per li nostri simili, e come
gli enti allegorici, o le piante o le bestie ec. così gli uomini
225 di carattere affatto straordinario non sono
personaggi adattati alla poesia. Già diceva
Aristotele che il
protagonista della tragedia non doveva essere nè affatto scellerato nè affatto
virtuoso. Schernite pure Aristotele
quanto volete, anche per questo insegnamento (come credo che abbian fatto); alla
fine la vostra psicologia, s'è vera, vi deve ricondurre allo stesso luogo, e a
ritrovare il già trovato. (24. Agosto 1820.). {{V. p. 238.
pensiero 1.}}
[225,1] La sola cosa che deve mostrare il poeta è di non
capire l'effetto che dovra{nno} produrre in chi legge,
le suoi[sue] immagini, descrizioni, affetti ec.
Così l'oratore, e ogni scrittore di bella letteratura, e si può dir quasi in
genere, ogni scrittore. Il ne paraît point chercher à vous
attendrir:,
*
dice di Demostene il Card.
Maury
Discours sur l'Éloquence, écoutez-le cependant, et il vous fera
pleurer par réflexion.
*
E quantunque anche la
disinvoltura possa essere affettata, e da ciò guasta, tuttavia possiamo dire
iperbolicamente, che se veruna affettazione è permessa allo scrittore, non è
altra che questa di non accorgersi nè prevedere i begli effetti che le sue
parole faranno in chi leggerà, o ascolterà, e di non aver volontà nè scopo
nessuno, eccetto quello ch'è manifesto e naturale, di narrare, di celebrare,
compiangere ec. Laonde è veramente miserabile {e
barbaro} quell'uso moderno di tramezzare tutta la scrittura o poesia
di segnetti e
226 lineette, e punti ammirativi doppi,
tripli, ec. Tutto il Corsaro di Lord Byron (parlo della traduzione non so del testo nè delle altre
sue opere) è tramezzato di lineette, non solo tra periodo e periodo, ma tra
frase e frase, anzi spessissimo la stessa frase è spezzata, e il sostantivo è
diviso dall'aggettivo con queste lineette (poco manca che le stesse parole non
siano così divise), le quali ci dicono a ogni tratto come il ciarlatano che fa
veder qualche bella cosa; fate attenzione, avvertite che
questo che viene è un bel pezzo, osservate questo epiteto ch'è notabile,
fermatevi sopra questa espressione, ponete mente a questa
immagine ec. ec. cosa che fa dispetto al lettore, il quale quanto
più si vede obbligato a fare avvertenza, tanto più vorrebbe trascurare, e quanto
più quella cosa gli si dà per bella, tanto più desidera di trovarla brutta, e
finalmente non fa nessun caso di quella segnatura, e legge alla distesa, come
non ci fosse. Lascio l'incredibile, continuo e manifestissimo stento con cui il
povero Lord suda e si affatica perchè ogni minima frase, ogni minimo aggiunto
sia originale e nuovo, e non ci sia cosa tanti milioni di volte detta, ch'egli
non la ridica in un altro modo, affettazione più chiara del sole, che disgusta
eccessivamente, e oltracciò stanca per l'uniformità, e per la continua fatica
dell'intelletto necessaria a capire quella studiatissima oscurissima e perenne
originalità. (25. Agosto 1820.).
[231,2]
Omero e Dante per l'età loro seppero moltissime cose, e più di
quelle che sappiano la massima parte degli uomini colti d'oggidì, non solo in
proporzione dei tempi, ma anche assolutamente. Bisogna distinguere la cognizione
materiale dalla filosofica, la cognizione fisica dalla matematica, la cognizione
degli effetti dalla cognizione delle cause. Quella è necessaria alla fecondità e
varietà dell'immaginativa, alla proprietà verità evidenza ed efficacia
dell'imitazione. Questa non può fare che non pregiudichi al poeta. Allora giova
sommamente al poeta l'erudizione, quando l'ignoranza delle cause, concede al
poeta, non solamente rispetto agli altri ma anche a se stesso, l'attribuire gli
effetti che vede o conosce, alle cagioni che si figura la sua fantasia.
(5. Settembre 1820.).
[238,1] Sono state sempre derise quelle poesie che aveano
bisogno di note per farsi intendere. E tuttavia queste note riguardavano cose
accessorie o secondarie, nomi, allusioni, fatti poco noti e male espressi ec.
Che si dirà di quei poemi che hanno bisogno di note dichiarative delle cose
sostanziali e principali, vale a dire dei caratteri, e delle proprietà ed
operazioni del cuore umano che descrivono, come sono i poemi di Lord Byron? Questi sono i riformatori
della poesia? Questi sono i grandi psicologi? Ma senza psicologia sapevamo già
da gran tempo che in questo modo non si fa effetto in chi legge. Vedi la p. 223-225.
[261,1] Osserverò che il detto fenomeno occorre molto più
difficilmente nelle poesie tetre e nere del Settentrione, massimamente moderne,
come in quelle di Lord Byron, che nelle
meridionali, le quali conservano una certa luce negli argomenti più bui,
dolorosi e disperanti; e la lettura del Petrarca, p. e. de' trionfi, e della conferenza di Achille
e di Priamo, dirò ancora di
Verter, produce questo effetto molto più che il Giaurro, o il
Corsaro ec. non ostante che {trattino
e} dimostrino la stessa infelicità degli uomini, e vanità delle cose.
(4. 8bre 1820.). Io so che letto Verter mi sono
trovato caldissimo nella mia disperazione letto Lord Byron, freddissimo, e senza entusiasmo nessuno;
molto meno consolazione.
262 E certo Lord Byron non mi rese niente più sensibile alla mia
disperazione: piuttosto mi avrebbe fatto più insensibile e marmoreo.
[270,1]
270 Quello che ho detto p. 266.-268. deve servir di regola agli scrittori
drammatici nell'esprimere e modellare i caratteri dei diversi tempi. (10.
8bre 1820.).
[274,1]
Alla p. 252
capoverso 1. Vedi in questo proposito la p. 114. pensiero ultimo, e considera la gran
contrarietà di Catone ai progressi
dello studio presso i Romani, i quali sono un vivissimo esempio di quello ch'io
dico, cioè dell'esser gli studi, tanto ameni quanto seri e filosofici,
favorevolissimi alla tirannia. V. anche Montesquieu
Grandeur etc. ch. 10. principio.
Certo la profonda filosofia di Seneca,
di Lucano, di Trasea Peto, di Erennio Senecione, di Elvidio
Prisco, di Aruleno Rustico,
di Tacito ec. non
impedì la tirannia, anzi laddove i Romani erano stati liberi senza filosofi,
quando n'ebbero in buon numero, e così profondi come questi, e come non ne
avevano avuti mai, furono schiavi. E come giovano tali studi alla tirannia,
sebbene paiano suoi nemici, così scambievolmente la
275
tirannia giova loro, 1. perchè il tiranno ama e proccura che il popolo si
diverta, o pensi (quando non si possa impedire) in vece che operi, 2. perchè
l'inoperosità del suddito lo conduce naturalmente alla vita del pensiero,
mancando quella dell'azione, 3. perchè l'uomo snervato e ammollito è più capace
e più voglioso o di pensare, o di spassarsi coll'amenità ec. degli studi
eleganti, che di operare, 4. perchè il peso, la infelicità, la monotonia, il sombre della tirannia fomenta e introduce la
riflessione, la profondità del pensare, la sensibilità, lo scriver malinconico;
l'eloquenza non più viva ed energica, ma lugubre, profonda, filosofica ec. 5.
perchè la mancanza delle vive e grandi illusioni spegnendo l'immaginazione lieta
aerea brillante e insomma naturale come l'antica, introduce la considerazione
del vero, la cognizione della realtà delle cose, la meditazione ec. e dà anche
luogo all'immaginazione tetra astratta metafisica, e derivante più dalle verità,
dalla filosofia, dalla ragione, che dalla natura, e dalle vaghe idee proprie
naturalmente della immaginazione primitiva. Come è quella de' settentrionali,
massime oggidì, fra' quali la poca vita della natura, dà luogo all'immaginativa
fondata sul pensiero,
276 sulla metafisica, sulle
astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze, sulla cognizione delle cose, sui
dati esatti ec. Immaginativa che ha piuttosto che fare colla matematica sublime
che colla poesia. (14. 8.bre 1820.).
[285,2] Si può applicare alla poesia (come anche anche alle
cose che hanno relazione o affinità con lei) quello che ho detto altrove pp. 14-21
[p. 125,1]
p. 215: che alle grandi azioni è necessario un misto di persuasione e
di passione o illusione. Così la poesia tanto riguardo al maraviglioso, quanto
alla commozione o impulso di qualunque genere, ha bisogno di un falso che pur
possa persuadere, non solo secondo le regole ordinarie della verisimiglianza, ma
anche rispetto ad un certo tal quale convincimento che la cosa stia o possa
stare effettivamente così. Perciò l'antica mitologia, o
286 qualunque altra invenzione poetica che la somigli, ha tutto il
necessario dalla parte dell'illusione, passione ec. ma mancando affatto dalla
parte della persuasione, non può più produrre gli effetti di una volta, e
massime negli argomenti moderni, perchè negli antichi, l'abitudine ci proccura
una tal quale persuasione, principalmente quando anche il poeta sia antico,
perchè immedesimatasi in noi l'idea di quei fatti, di quei tempi, di quelle
poesie ec. con quelle finzioni, queste ci paiono naturali e quasi ci persuadono,
perchè l'assuefazione c'impedisce quasi di distinguerle da quei poeti, tempi,
avvenimenti ec. e così machinalmente ci lasciamo persuadere quanto basta
all'effetto, che la cosa potesse star così. Ma applicate nuovamente le stesse o
altre tali finzioni, sia ad altri argomenti antichi, sia massimamente a soggetti
moderni o de' bassi tempi ec. ci troviamo sempre un non so che di arido e di
falso, perchè manca la tal quale persuasione, quando anche la parte del bello
immaginario, maraviglioso ec. sia perfetta. Ed anche per questa parte il Tasso non produrrà mai l'effetto dei
poeti antichi,
287 sebbene il suo favoloso e
maraviglioso è tratto dalla religion Cristiana. Ma oggidì in tanta propagazione
e incremento di lumi, nessuna finzione o nuova nuovamente applicata, trova il
menomo luogo nell'intelletto, mancando la detta assuefazione, la quale supplisce
al resto ne' poeti antichi. E questa è una gran ragione per cui la poesia oggidì
non può più produrre quei grandi effetti nè riguardo alla maraviglia e al
diletto, nè riguardo all'eccitamento degli animi, delle passioni ec. all'impulso
a grandi azioni ec. Tanto più che la religion cristiana non si presta alla
finzione persuadibile, come la pagana. A ogni modo è certo appunto per le
sopraddette osservazioni, che la pagana oggidì non potendo aver più effetto, il
poeta deve appigliarsi alla cristiana; e che questa maneggiata con vero
giudizio, {scelta,} e abilità, può tanto per la
maraviglia che per gli affetti {ec.} produrre
impressioni sufficienti e notabili. (19. 8.bre 1820.).
[288,1] Tutte le cose si desiderano perfette relativamente al
loro genere. Tuttavia perchè il perfetto è rarissimo in tutte le specie di cose,
coloro che imitano o contraffanno, sogliono mescolare alla imitazione qualche
difetto, cioè imitare piuttosto
289 e figurare e
scegliere l'individuo difettoso che il perfetto, per render la imitazione più
verisimile e credibile, e fare inganno, e persuadere che il finto sia vero. E
laddove il difetto scema pregio all'imitato e vi si biasima, accresce pregio
all'imitazione e vi si loda. Così se tu vuoi contraffare un filo di perle, non
le fai tutte tonde perfettamente, sebbene in un filo vero le vorresti tutte
così. Ed imiti piuttosto una gemma di un prezzo mediocre, di quello che
contraffarne una inestimabile. Così dunque loderemo sempre più l'Achille difettoso di Omero, che l'Enea, il perfetto eroe di Virgilio, a cagione della credibilità, del vantaggio che ne cava
l'illusione e la persuasione. Ed estenderemo questa osservazione a regolamento
di tutti i poeti, quando scelgono qualche oggetto da imitare, acciocchè
rifiutino gli eccessi tanto di perfezione quanto d'imperfezione, intorno alla
quale siamo pure nello stesso caso. Applicate quest'ultima riflessione ai
protagonisti di Lord Byron. (20.
8.bre 1820.)
[303,2] Osservano i giuristi che nel Cod.
Giustin. non si trova
legge contro i duelli (perlochè moltissimi si sforzano di tirarci scioccamente
quella di Costantino M.
304 contro i Gladiatori). Così accade a chi fa il
ritratto o la copia avanti che abbia veduto l'originale, o ad un fanciullo che
si faccia le vesti per quando sarà cresciuto.
[307,1] È un curioso andamento degli studi umani, che i geni
più sublimi liberi e irregolari, quando hanno acquistato fama stabile e
universale, diventino classici, cioè i
loro scritti entrino nel numero dei libri elementari, e si mettano in mano de'
fanciulli, come i trattati più secchi e regolari delle cognizioni esatte.
[307,2]
Omero che scriveva innanzi ad ogni
regola, non si sognava certo d'esser gravido delle regole come Giove di Minerva o di Bacco, nè che la sua irregolarità sarebbe stata misurata, analizzata,
definita, e ridotta in capi ordinati per servir di regola agli altri, e
impedirli di esser liberi, irregolari, grandi, e originali come lui. E si può
ben dire che l'originalità di un grande scrittore, producendo la sua fama,
(giacchè senza quella, sarebbe rimato oscuro, e non avrebbe servito di norma
308 e di modello) impedisce l'originalità de'
successori. Io compatisco tutti, ma in ispecie i poveri gramatici, i quali
dovendo formare la prosodia greca sopra Omero, hanno dovuto popolare il Parnaso greco di eccezioni, di
sillabe comuni ec. o almeno avvertire che molti esempi di Omero ripugnavano ai loro insegnamenti, perchè Omero innocentemente, non sapendo il gran
feto delle regole del quale erano pregni i suoi poemi, adoperava le sillabe a
suo talento, e fino nello stesso piede, adoperava la stessa sillaba una volta
{lunga,} e un'altra breve.
[373,1] La poesia e la prosa francese si confondono insieme, e
la francia non ha vera distinzione di prosa e di poesia,
non solamente perchè il suo stile poetico non è distinto dal prosaico, e
perch'ella non ha vera lingua poetica, e perchè anche relativamente alle cose, i
suoi poeti (massime moderni) sono più scrittori, e pensatori e filosofi che
poeti, e perchè Voltaire p. e. nell'Enriade, scrive con quello stesso enjouement, con quello stesso esprit, con
quella stess'aria di conversazione, con quello stesso tour e giuoco di parole di frasi di maniere e di sentimenti e
sentenze, che adopra nelle sue prose: non solamente, dico, per tutto questo, ma
anche perchè la prosa francese, oramai è una specie di poesia. Filosofi,
oratori, scienziati, scrittori d'ogni sorta, non sanno essere e non si chiamano
eleganti, se non per uno stile enfatico, similitudini, metafore, insomma stile
continuamente poetico, e montato principalmente sul tuono lirico. E ciò
massimamente è accaduto dopo l'introduzione de' poemi in prosa, siano poemi
propriamente detti, siano romanzi, opere descrittive, sentimentali ec. Ma
374 i francesi che si credono i soli maestri e modelli e
conservatori, e zelatori dello scriver classico a' tempi moderni, non so in qual
classico antico abbiano trovato questo costume, per cui non si sa essere
elegante nè eloquente, senza andare a quella perpetua, dirò così, traslazione
{e μετεωρία}
{e concitazione} di stile, ch'è propria della poesia.
(L'eloquenza di Bossuet, è appunto di
questo tenore; tutta Biblica, tutta in un gergo di convenzione; e lo stile
biblico, e questo gergo forma l'eloquenza e l'eleganza ordinaria d'ogni sorta di
scrittori francesi oggidì.) Non mai sedatezza, non mai posatezza, non
semplicità, non familiarità. Non dico semplicità nè familiarità distintiva di
uno stile o di uno scrittore particolare, ma dico quella ch'è propria
universalmente e naturalmente della prosa, che non è uno scrivere ispirato. Osservino Cicerone, osservino gli scrittori più energici
dell'antichità, e mi dicano se c'è uomo così cieco che non distingua {subito} come quella è prosa non poesia; se ridotta
questa prosa in misura, avrebbe mai niente di comune colla poesia (come
accadrebbe nelle loro prose); se la prosa antica la più elegante, eloquente,
energica, consiste, o no, in uno stile separatissimo dal poetico. Anche i loro
scrittori de' buoni secoli, sebbene la lingua francese ha sempre inclinato a
questo difetto,
375 nondimeno hanno un gusto {e un sapore} di prosa molto maggiore e più distinto
(eccetto pochi), {hanno non dico austerità, neanche gravità
{nè verecondia} (pregi ignoti ai francesi) ma
pur tanta posatezza {+e
castigatezza} di stile quanta è indispensabile alla prosa:}
come la Sévigné, Mm̃e Lambert, Racine e Boileau nelle
prose, Pascal ec. Anzi letto Pascal, e passando ai filosofi e
pensatori moderni, si nota e sente il passaggio e la differenza in questo punto.
(2. Dic. 1820.)
{{V. p. 477. capoverso 1.}}
[470,2] La natura non è perfetta assolutamente parlando, ma la
sola natura è grande, e fonte di grandezza. Perciò tutto quello che è, o si
accosta al perfetto, secondo la nostra maniera astratta di considerare, non è
grande. Osservatelo in tutte le cose: nelle opere di genio, poesia, belle arti
ec. nelle azioni, nei caratteri, nei costumi, nei popoli, nei governi ec. Un
uomo perfetto, non è mai grande. Un uomo grande, non è mai perfetto.
471 L'eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie.
Ogni eroe è imperfetto. Tali erano gli eroi antichi (i moderni non ne hanno);
tali ce li dipingono gli antichi poeti ec. tale era l'idea ch'essi avevano del
carattere eroico; al contrario di Virgilio, del Tasso ec.
tanto meno perfetti, quanto più perfetti sono i loro eroi, ed anche i loro
poemi. (3. Gen. 1821.).
[650,1]
Les
passions même les plus vives ont besoin de la pudeur pour se montrer dans une forme séduisante:
elle doit se répandre sur toutes vos actions; elle doit parer et
embellir
651 toute votre personne. On dit que
Jupiter, en formant les passions, leur donna à chacune sa
demeure; la pudeur fut oubliée, et quand elle se présenta, on ne savoit
plus où la placer; on lui permit de se mêler avec toutes les autres.
Depuis ce temps-là, elle en est inséparable.
*
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille,
dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p. 633.), p. 60-61. Che
vuol dir questo, se non che niente è buono senza la naturalezza? Applicate
questi detti della Marchesa anche alla
letteratura, inseparabile parimente dal pudore, e a quello ch'io dico del
sentimento, e del genere sentimentale nel Discorso sui romantici.
(13. Febbr. 1821.).
[724,3] I poeti, oratori, storici, scrittori in somma di bella
letteratura, oggidì in italia, non manifestano mai, si
può dire, la menoma forza d'animo (vires animi, e non
intendo dire la magnanimità), ancorchè il soggetto, o l'occasione {ec.} contenga
725 grandissima
forza, sia per stesso fortissimo, abbia gran vita, grande sprone. Ma tutte le
opere letterarie italiane d'oggidì sono inanimate, esangui, senza moto, senza
calore, senza vita (se non altrui). Il più che si possa trovar di vita in
qualcuno, come in qualche poeta, è un poco d'immaginazione. Tale è il pregio del
Monti, e dopo il Monti, ma in assai minor grado,
dell'Arici. Ma oltre che questo
pregio è rarissimo nei nostri odierni o poeti o scrittori, oltre che in questi
rarissimi è anche scarso (perchè il più de' loro pregi appartengono allo stile),
osservo inoltre che non è veramente spontaneo nè di vena, e soggiungo che non
solamente non è, ma non può essere, se non in qualche singolarissima indole.
[865,1]
865 Lodo che si distornino gl'italiani dal cieco amore
{e imitazione} delle cose straniere, e molto più
che si richiamano[richiamino] e s'invitino a
servirsi e a considerare le proprie; lodo che si proccuri ridestare in loro
quello spirito nazionale, senza cui non v'è stata mai grandezza a questo mondo,
non solo grandezza nazionale, ma appena grandezza individuale; ma non posso
lodare che le nostre cose presenti, e parlando di studi, la nostra presente
letteratura, la massima parte de' nostri scrittori, ec. ec. si celebrino, si
esaltino tutto giorno quasi superiori a tutti i sommi stranieri, quando sono
inferiori agli ultimi: che ci si propongano per modelli; e che alla fine quasi
ci s'inculchi di seguire quella strada in cui ci troviamo. Se noi dobbiamo
risvegliarci una volta, e riprendere lo spirito di nazione, il primo nostro moto
dev'essere, {non} la superbia nè la stima delle nostre
cose presenti, ma la vergogna. E questa ci deve spronare a cangiare strada del
tutto, e rinnovellare ogni cosa. Senza ciò non faremo
866 mai nulla. Commemorare le nostre glorie passate, è stimolo alla virtù, ma
mentire e fingere le presenti è conforto all'ignavia, e argomento di rimanersi
contenti in questa vilissima condizione. Oltre che questo serve ancora ad
alimentare e confermare e mantenere quella miseria di giudizio, o piuttosto
quella incapacità d'ogni retto giudizio, e mancanza d'ogni arte critica, di cui
lagnavasi l'Alfieri (nella sua vita)
rispetto all'italia, e che oggidì è così evidente per la
continua esperienza sì delle grandi scempiaggini lodate, sì dei pregi (se
qualcuno per miracolo ne occorre) o sconosciuti, o trascurati, o negati, o
biasimati. (24. Marzo 1821.).
[975,3] La scrittura dev'essere scrittura e non algebra;
976 deve rappresentar le parole coi segni convenuti, e
l'esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, {ovvero i
pensieri e gli affetti dell'animo,} è ufficio delle parole così
rappresentate. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti,
{di punti ammirativi doppi e tripli,} che so io?
Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le
idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le
cose colle parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i
cinesi la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee. {+Che altro è questo se non ritornare l'arte
{dello scrivere} all'infanzia?} Imparate
imparate l'arte dello stile, quell'arte che possedevano così bene i nostri
antichi, quell'arte che oggi è nella massima parte perduta, quell'arte che è
necessario possedere in tutta la sua profondità, in tutta la sua varietà, in
tutta la sua perfezione, chi vuole scrivere. E così obbligherete il lettore alla
sospensione, all'attenzione, alla meditazione, alla posatezza nel leggere, agli
affetti che occorreranno, ve l'obbligherete, dico, con le parole, e non coi
segnetti, nè collo spendere due pagine in quella scrittura che si potrebbe
contenere in una sola pagina, togliendo le lineette, e le divisioni ec. Che
maraviglia risulta da questa sorta d'imitazioni? Non consiste nella maraviglia
uno de' principalissimi pregi dell'imitazione, una
977
delle somme cause del diletto ch'ella produce? Or dunque non è meglio che lo
scrittore volendo scrivere in questa maniera, si metta a fare il pittore? Non ha
sbagliato mestiere? non produrreb' egli molto meglio quegli effetti che vuol
produrre scrivendo così? Non c'è maraviglia, dove non c'è difficoltà. E che
difficoltà nell'imitare in questo modo? Che difficoltà nell'esprimere il
calpestio dei cavalli col trap trap trap, e il suono
de' campanelli col tin tin tin, come fanno i
romantici? (Bürger nell'Eleonora, B. Ital. tomo 8. p. 365.) Questa è
l'imitazione delle balie, e de' saltimbanchi, ed è tutt'una con quella che si fa
nella detta maniera di scrivere, e coi detti segni, sconosciutissimi, e con
ragione a tutti gli antichi e sommi. (22. Aprile. Giorno di Pasqua
1821.).
[977,1] Quanto più qualsivoglia imitazione trapassa i limiti
dello strumento che l'è destinato, e che la caratterizza e qualifica, tanto più esce della sua natura e proprietà,
e tanto più si scema la maraviglia, come se nella scultura che imita col marmo
s'introducessero gli occhi di vetro, o le parrucche invece delle chiome
scolpite. E così appunto si deve dire in ordine alla scrittura, la quale imita
colle parole, e non deve uscire del suo strumento. Massime se questi nuovi
strumenti son troppo facili e ovvi,
978 cosa contraria
alla dignità e alla maraviglia dell'imitazione, e che confonde la imitazione del
poeta o dell'artefice colla misera imitazione delle balie, de' mimi, de'
ciarlatani, delle scimie, e con quella imitazione che si fa tutto giorno o con
parole, o con gesti, o con lavori {triviali} di mano,
senza che alcuno si avvisi di maravigliarsene, o di crederla opera del genio, e
divina. (23. Aprile. 1821.).
[986,2] Dal confronto delle poesie di Ossian, vere naturali e indigene
dell'inghilterra, colle poesie orientali, si può
dedurre {(ironico)} quanto sia naturale
all'inghilterra la sua presente poesia {(come quella di Lord
Byron)}
derivata in gran parte
dall'oriente,
*
come dice il riputatissimo giornale
dell'Edinburgh Review in proposito del Lalla Roca di Tommaso Moore
(Londra 1817.) intitolato Romanzo orientale
{(Spettatore di Milano. 1.
Giugno 1818. Parte Straniera. Quaderno 101. p. 233. e puoi
vederlo.)}
[1226,1] Con ciò non vengo mica a dire ch'ella debba, anzi
{pur} possa adoperare, e molto meno profondere
siffatte voci nella bella letteratura e massime nella poesia. Non v'è bontà dove
non è convenienza. Alle scienze son buone e convengono le voci precise, alla
bella letteratura le proprie. Ho già distinto in altro luogo pp. 109-11
p. 808
pp. 951-52 le parole dai termini, e mostrata la differenza che è
dalla proprietà delle voci alla nudità e precisione. {+È proprio ufficio de' poeti e degli scrittori ameni il
coprire quanto si possa le nudità delle cose, come è ufficio degli
scienziati e de' filosofi il rivelarla. Quindi le parole precise convengono
a questi, e sconvengono per lo più a quelli; a dirittura l'uno a l'altro.
Allo scienziato le parole più convenienti sono le più precise, ed esprimenti
un'idea più nuda. Al poeta e al letterato per lo contrario le parole più
vaghe, ed esprimenti idee più incerte, o un maggior numero d'idee ec. Queste
almeno gli denno esser le più care, e quelle altre che sono l'estremo
opposto, le più odiose. V. p. 1234.
capoverso 1. e p. 1312.
capoverso 2.} Ho detto p. 110 e ripeto che
i termini in letteratura e massime in poesia faranno sempre pessimo e
bruttissimo effetto. Qui peccano {assai} gli stranieri,
e non dobbiamo imitarli. Ho detto che la lingua francese (e intendo quella della
letteratura e della poesia) si corrompe per la profusione de' termini, ossia
delle voci di nudo e secco significato, perch'ella si compone oramai tutta
quanta di termini, abbandonando e dimenticando le parole: che noi non dobbiamo
mai nè
1227 dimenticare nè perdere {nè dismettere,} perchè perderemmo la letteratura e la poesia,
riducendo tutti i generi di scrivere al genere matematico. Le dette voci ch'io
raccomando alla lingua italiana, sono ottime e necessarie, non sono ignobili, ma
non sono eleganti. La bella letteratura {+alla quale è debito quello che si chiama eleganza,} non le deve
adoperare, se non come voci aliene, e come si adoprano talvolta le voci
forestiere, notando ch'elle son tali, e come gli ottimi latini scrivevano alcune
voci in greco, così per incidenza. I diversi stili domandano diverse parole, e
come quello ch'è nobile per la prosa, è ignobile bene spesso per la poesia, così
quello ch'è nobile ed ottimo per un genere di prosa, è ignobilissimo per un
altro. I latini ai quali in prosa non era punto ignobile il dire p. e. tribunus militum o plebis, o
centurio, o triumvir ec.
non l'avrebbero mai detto in poesia, perchè queste parole d'un significato
troppo nudo e preciso, non convengono al verso, benchè gli convengano le parole
proprie, e benchè l'idea rappresentata sia non solo non ignobile, ma anche
nobilissima. I termini della filosofia scolastica, riconosciuti dalla nostra
lingua per purissimi, sarebbero stati barbari nell'antica {nostra} poesia, come nella moderna, ed anche nella prosa elegante,
s'ella gli avesse adoperati come parole sue proprie.
1228 E se Dante le profuse nel suo poema,
e così pur fecero altri poeti, e parecchi scrittori di prosa letteraria in quei
tempi, ciò si condona alla mezza barbarie, o vogliamo dire alla civiltà bambina
di quella letteratura e di que' secoli, ch'erano però purissimi quanto alla
lingua. Ma altro è la purità, altro l'eleganza di una voce, e la sua
convenienza, bellezza, e nobiltà, rispettiva alle diverse materie, o anche solo
ai diversi stili: giacchè anche volendo trattar materie filosofiche in uno stile
elegante, e in una bella prosa, ci converrebbe fuggir tali termini, perchè
allora la natura dello stile domanda più l'eleganza e bellezza che la
precisione, e questa va posposta. {+(Del
resto in tal caso, la filosofia è l'uno de' principali pregi della
letteratura e poesia, sì antica che moderna, atteso però quello che ho detto
p. 1313. la quale
vedi.)} Io dico che l'italia dee riconoscere i
detti termini ec. per puri, cioè propri della sua lingua, come delle altre, ma
non già per eleganti. La bella letteratura, e massime la poesia, non hanno che
fare colla filosofia sottile, severa ed accurata; avendo per oggetto in bello,
ch'è quanto dire il falso, perchè il vero (così volendo il tristo fato
dell'uomo) non fu mai bello. Ora oggetto della filosofia qualunque, come di
tutte le scienze, è il vero: e perciò dove regna la filosofia, quivi non è vera
poesia. La qual cosa
1229 molti famosi stranieri o non
la vedono, o adoprano (o si conducono) in modo come non la vedessero o non
volessero vederla. E forse anche così porta la loro natura fatta piuttosto alle
scienze che alle arti ec. Ma la poesia quanto è più filosofica, tanto meno è
poesia. (26. Giugno 1821.). {{V. p. 1231.}}
[1237,1]
1237 Nè solamente col progresso dello spirito umano si
sono distinte e denominate le diverse parti componenti un'idea che gli antichi
linguaggi denominavano con una voce complessiva di tutte esse parti, o idee
contenute; ma anche si sono distinte e denominate con diverse voci non poche
idee che per essere in qualche modo somiglianti, o analoghe ad altre idee, non
si sapevano per l'addietro distinguer da queste, e si denotavano con una stessa
voce, benchè fossero essenzialmente diverse e d'altra specie o genere. V. p. e.
quello che ho detto p. 1199-200.
circa il bello, e quello ch'essendo piacevole alla vista, non è però bello, nè
appartiene alla sfera della bellezza, benchè ne' linguaggi comuni, si chiami
bello, e l'intelletto volgare non lo distingua dal vero bello.
[1245,2] 3. Il moltissimo che la nostra lingua scritta,
(giacchè della ricchezza e varietà di questa intendiamo parlare, e questa
intendiamo paragonare colle straniere) ha preso dalla lingua parlata e popolare.
Or come ciò, se io dico, che la principale, anzi necessaria fonte della
ricchezza e perfezione di una lingua, sono gli scrittori, e questi, letterati?
Ecco il come.
[1303,1] Diletto ordinarissimo ci produce un ritratto
ancorchè somigliantissimo, se non conosciamo la persona; straordinario se la
conosciamo. Applicate questa osservazione alla scelta degli oggetti d'imitazione
pel poeta e l'artefice, condannando i romantici {e il più de'
poeti stranieri} che scelgono {di preferenza}
oggetti forestieri ed ignoti per esercitare la forza della loro imitazione.
(9. Luglio 1821.).
[1383,1]
1383 Malgrado quanto ho detto pp. 1228-29
p. 1231
p. 1313
pp. 1359-61
dell'insociabilità dell'odierna filosofia colla poesia, gli spiriti veramente
straordinari e sommi i quali si ridono dei precetti, e delle osservazioni, e
quasi dell'impossibile[impossibili], e non
consultano che loro stessi, potranno vincere qualunque ostacolo, ed essere sommi
filosofi moderni poetando perfettamente. Ma questa cosa, come vicina
all'impossibile, non sarà che rarissima e singolare. (24. Luglio
1821.).
[1412,2] Per queste, e non per altre ragioni, la semplicità
forma parte essenziale, e carattere del buon gusto, e sebbene gli uomini se ne
possono allontanare, certo però vi tornano, cioè tornano alla natura, la quale
nelle cose essenziali è immutabile. Perciò le poesie o scritture greche saranno
sempre belle, non riguardo al bello in se stesso, ma riguardo alla semplicità e
naturalezza loro. ec. E quei tempi e quei paesi {e quegli
uomini} che non le hanno apprezzate, o le hanno disprezzate, si
chiamano e furono di cattivo gusto,
1413 non perchè non
conoscessero ec. le leggi eterne e necessarie del bello (come si dice), le quali
non esistono, ma perchè, a forza di assuefazioni ec. corrotte, cioè non
naturali, e quindi non proprie, non convenienti all'uomo, si erano ridotti a non
conoscere o misconoscere, e non sentir la natura, che è veramente o può dirsi
eterna. E però ripugnavano al gusto che solo può durare, ed essere universale
negli uomini, perchè solo ha il suo fondamento nella realtà delle cose quali sono; e il loro gusto, non
potendo nè piacere a tutti, nè per lungo tempo, era falso in quanto a questo,
non in quanto a se. Così dico delle pitture, statue, architetture greche. Così
della letteratura italiana, la quale intanto è universalmente preferita,
malgrado le diversità de' gusti ec. in quanto, non il bello, ma la natura è
universale, e la letteratura italiana è la più conforme alla natura. E perciò, e
non riguardo al bello indipendente, si considerano e sono modelli di buon gusto
le letterature ec. antiche, siccome più
1414 prossime,
anche materialmente alla natura, e quindi più semplici. ec. {+Quell'inaffettato, quel dipingere al vivo le cose o i
sentimenti, {le passioni ec.} e far grandissimo
effetto quasi non volendo, è
bellezza eterna, perch'è naturale, ed è il solo vero modo d'imitar la
natura, giacchè si può male imitar la natura, anche imitandola
vivissimamente, e l'imitazione la più esatta può essere anzi è per lo più la
meno naturale, e quindi meno imitazione. V. il mio Discorso sui romantici dove si parla di
Ovidio. ec.}
[1424,3]
Alla p. 1420.
marg. Del resto la durevolezza del gusto che si trova in questa
semplicità p. e. di Omero ec.
l'universalità di questo gusto (almeno fra le nazioni di un medesimo genere
ec.), il risorgere ch'egli fa negli uomini, ancorchè spento talora dalle
circostanze; il perpetuarsi; il crescere in luogo di scemare, siccome ho detto;
tutto ciò non è
1425 proprio nè possibile se non a
quella vera semplicità, o a quelle qualità d'ogni genere (sia in letteratura o
altrove) che sono realmente conformi alla natura immutabile, {e universale;} almeno alla natura qual ella è in quelle tali nazioni.
Da questo dunque e non da altro può derivare ciò che dice Voltaire: pourquoi des scènes entières du Pastor
Fido sont-elles sçues par coeur
aujourd'hui à Stocolm et à
Pétersbourg? et pourquoi aucune piece de
Shakespeare n'a-t-elle pû
passer la mer? C'est que le bon est recherché de toutes les
nations.
*
Un falso pregio, cioè non naturale, in
fatto di bellezza, non può {dunque} nè lungamente nè
comunemente essere stimato, e la mia teoria che distrugge il bello assoluto,
lascia salda questa massima, e quella che il giudizio {conforme} delle nazioni e de' secoli circa il bello d'ogni genere,
non erra mai; e lascia interi e inviolati i diritti che i grandi scrittori,
poeti, artisti, hanno alla immortalità, ed alla universalità della fama.
(31. Luglio 1821.).
[1548,1]
Alla p. 1449.
Vero è per altro che nè l'immaginazione de' vecchi sarà mai così feconda nè
forte ec. come quella de' giovani, nè quella de' moderni, come quella degli
antichi, nè la comandata come la spontanea. E quindi la poesia de' moderni
cederà sempre all'antica quanto all'immaginazione. E si può ben comandare a
questa, e renderla a viva forza anche più feconda e più gagliarda dell'antica,
ma non si riuscirà mai in questo modo a dare a' suoi parti quella bellezza,
quella grazia, quella vita che
1549 non ponno avere se
non le sue produzioni spontanee. Saranno anche più energici, e non per tanto
meno vivi, e men belli, anzi tanto meno
quanto più energici, derivando quest'energia dalla forzatura, e dalla tortura a
cui si mette la fantasia, per cavarne cose che facciano grand'effetto, e spirino
originalità ec. Tali sono ordinariamente i parti delle fantasie settentrionali,
parti la cui straordinaria forza non è vitale, ma come quella che si acquista
coll'acqua vite, e benchè più forti assai delle invenzioni greche, sono ben
lungi dall'aver la vita, e la sana complessione di queste.
[1671,1] Le teorie delle quali i romantici han fatto tanto
romore a' nostri giorni, avrebbero dovuto restringersi a provare che non c'è
bello assoluto, nè quindi buon gusto stabile, e norma universale di esso per
tutti i tempi e popoli; ch'esso varia secondo gli uni e gli altri, e che però il
buon gusto, e quindi la poesia, le arti, l'eloquenza ec. de' tempi nostri, non
denno esser quelle stesse degli antichi, nè quelle della
Germania, le stesse che le francesi; che le regole
assolutamente parlando non esistono. Ma essi son andati più avanti, hanno
ricusato o male interpretato
1672 il giudizio e il
modello della stessa natura parziale, sola norma del bello; il fanatismo e la
smania di essere originali (qualità che bisogna bene avere ma non cercare) gli
ha precipitati in mille stravaganze; hanno errato anche bene spesso in
filosofia, ne' principj, e nella speculativa non solo delle arti ec. ma anche
della natura generale delle cose, dalla quale dipendono tutte le teorie di
qualsivoglia genere. - Il primo poema regolare venuto in luce {in europa} dopo il risorgimento,
dice il Sismondi, è la Lusiade (pubblicata un anno
avanti la Gerusalemme). Questo è detto abusivamente: per regolare,
non si può intendere se non simile a' poemi d'Omero e di Virgilio. Regolare
non è assolutamente nessun poema. Tanto è regolare il Furioso, quanto
il Goffredo. L'uno
potrà dirsi esclusivamente epico, l'altro romanzesco. Ma in quanto poemi tutti
due sono {ugualmente} regolari; e lo sono e lo
sarebbero parimente altri poemi di forme affatto diverse, purchè si contenessero
ne' confini della natura. I generi ponno essere infiniti, e ciascun genere,
1673 da che è genere, è regolare, fosse anche composto
di un solo individuo. Un individuo non
può essere irregolare se non rispetto al suo genere o specie. Quando
egli forma genere, non si dà irregolarità per lui. Anche dentro uno stesso
genere (come l'epico) si danno mille specie, ed anche mille differenze di forme
individuali. Qual divario dall'iliade all'odissea,
dall'una e l'altra all'Eneide. Pur tutti questi
si chiamano poemi epici, e potrebbero anche non chiamarsi. Anzi si potrebbe dire
che se l'iliade è poema epico, l'Eneide non lo è, o viceversa. Tutto è quistione di
nomi, e le regole non dipendono se non dal modo in cui la cosa è: non esistono
prima della cosa, ma nascono con lei, o da lei. (11. Sett.
1821.)
[1691,2] Voi altri riformatori dello spirito umano, e
dell'opera della natura, voi altri predicatori della ragione, provatevi un poco
a
1692 fare un romanzo, un poema ec. il cui
protagonista si finga perfettissimo e straordinario in tutte le parti morali, e
dipendenti dall'uomo, e imperfetto {o men che perfetto}
nelle parti fisiche, dove l'uomo non ha per se verun merito. Di che si parla in
questo secolo sì spirituale massime in letteratura che oramai par che sdegni
tutto ciò che sa di corporeo, di che si parla, dico, ne' poemi, ne' romanzi,
nelle opere tutte d'immaginazione e sentimento, fuorchè di bellezza del corpo?
Questa è la prima condizione in un personaggio che si vuol fare interessante.
{+La perfettibilità
dell'uomo, come altrove ha[ho] detto
p. 830, non ha che fare col corpo. E
contuttociò la perfezione del corpo, che non dipende dagli uomini nè è
opera della ragione, si è la principal condizione che si ricerca in un
eroe di poema ec. (o si dee supporre, perchè ogni menoma imperfezione
corporale suppostagli guasterebbe ogni effetto) e la più efficace,
supponendolo ancora perfetto nello spirito.} Questa
circostanza non si può tacere; quando anche si taccia, la supplirà il lettore;
ma fare espressamente un protagonista brutto, è lo stesso che rinunziare a
qualsivoglia effetto. (V. ciò che dico in tal proposito dove parlo della
compassione pp. 220-21). Mad.
di Staël non era bella: in un'anima come la sua, questa circostanza
avrà prodotto mille pensieri e sentimenti sublimi, nuovissimi a scriverli,
profondissimi, sentimentalissimi: (così di Virgilio pretende Chateaubriand) ella amava
sopra tutto l'originalità, e poco teneva il buon
1693
gusto (v. Allemagne tome 1. ch. dernier.): ella, come tutti i
grandi, dipingeva ne' suoi romanzi il suo cuore, i suoi casi, e però si serve di
donne per li principali effetti; nondimeno si guarda bene di far brutti o men
che belli i suoi eroi o le sue eroine. Tutto lo spregiudizio, tutto l'ardire,
tutta l'originalità di un autore in qualsivoglia tempo non può giunger fin qua.
Che cosa è la bellezza? lo stesso in fondo, che la nobiltà e la ricchezza: dono
del caso? È egli punto meno pregevole un uomo sensibile e grande, perchè non è
bello? {+Quale inferiorità di vero merito
si trova nel più brutto degli uomini verso il più bello?} Eppure non
solamente lo scrittore o il poeta si deve guardare dal fingerlo brutto, ma deve
anche guardarsi da entrare in comparazioni sulla {sua}
bellezza. Ogni effetto svanirebbe se parlando o di se stesso (come fa il Petrarca) o del suo eroe, l'autore
dicesse ch'egli era sfortunato nel tale amore perchè le sue forme, o anche il
suo tratto e maniere esteriori (cosa al tutto corporea) non piacevano all'amata,
o perch'egli era men bello di un suo rivale ec. ec. Che cosa è dunque il mondo
fuorchè
1694 NATURA? Ho detto [pp. 601-603]
p. 1026
p. 1262
p. 1657 che l'intelletto umano è materiale in tutte le sue operazioni
e concezioni. La teoria stessa dell'intelletto si deve applicare al cuore e alla
fantasia. La virtù, il sentimento, i più grandi pregi morali, le qualità
dell'uomo le più pure, le più sublimi, infinite, le più immensamente lontane in
apparenza dalla materia, non si amano, non fanno effetto veruno se non come
materia, e in quanto materiali. Divideteli dalla bellezza, o dalle maniere
esteriori, non si sente più nulla in essi. Il cuore può bene immaginarsi di
amare lo spirito, o di sentir qualche cosa d'immateriale: ma assolutamente
s'inganna.
[1777,2] Quello che ci desta una folla di rimembranze dove il
pensiero si confonda, è sempre piacevole. Ciò fanno le immagini de' poeti, le
parole dette poetiche ec. fra le quali cose, è notabile che le immagini della
vita domestica nella poesia, ne' romanzi, {+pitture ec. ec.} ec. riescono sempre
piacevolissime, gratissime amenissime elegantissime e danno qualche bellezza, e
ci riconciliano talvolta alle più sciocche composizioni, ed agli scrittori i più
incapaci di ben presentarle. Così quelle della vita rustica
1778 ec. il cui grand'effetto deriva in gran parte dalla folla delle
rimembranze o delle idee che producono, perocch'elle son cose comuni, a tutti
note, ed appartenenti.
[1798,4] Tanto è vero che l'effetto delle immagini campestri
dipende in massima parte
1799 dalla copia delle
rimembranze, che se tu descrivi p. e. un campo o raccolta ec. di legumi, non
farai punto un effetto nè così vivo, nè così grande, nè piacevole, come
descrivendo un campo di spighe, la messe, la vendemmia, ec. Perocchè quelle cose
sono poco, {o certo meno} note, osservate, e familiari
a coloro che leggono poesie ec.
[1823,1] L'uomo tende sempre a' suoi simili (così ogni
animale), e non può interessarsi che per essi, per la stessa ragione per cui
tende a se stesso, ed ama se stesso più che qualunque de' suoi simili. Non vi
vuole che un intero snaturamento prodotto dalla filosofia, per far che l'uomo
inclini agli animali, alle piante ec. e perchè i poeti (massime stranieri) de'
nostri giorni pretendano d'interessarci per una bestia, un fiore, un sasso, un
ente ideale, un'allegoria. È ben curioso che la filosofia, rendendoci
indifferenti verso noi medesimi e i nostri simili, che la natura ci ha posto a
cuore, voglia interessarci per quello a cui l'irresistibile natura ci ha fatti
indifferenti. Ma questo è un effetto conseguentissimo del sistema generale
d'indifferenza derivante dalla ragione, il quale non mette diversità fra' simili
e dissimili; e noi non ci figuriamo di poter provare interesse per questi, se
non perchè l'abbiamo
1824 perduto o illanguidito per
noi e per gli uomini, e siamo in somma indifferenti a tutto. Così gli altri
esseri vengono a partecipare non del nostro interesse ma della nostra
indifferenza. Lo stesso accade {riguardo a'} nostri
simili, nella sostituzione dell'amore universale all'amor di patria. ec.
(1. Ott. 1821.). {{V. p. 1830. e
1846.}}
[1827,2] A quello che altrove ho detto pp. 1744-46
dell'effetto che fa nell'uomo la vista del cielo, si può aggiungere e paragonare
quello del mare, delle egloghe piscatorie, e d'ogni sorta d'immagine presa dalla
navigazione ec. Le idee relative al mare sono vaste, e piacevoli per questo
motivo, ma non durevolmente, perchè mancano di due qualità, la varietà, e
l'esser proprie e vicine alla nostra vita quotidiana, agli oggetti che ci
circondano, alle nostre assuefazioni rimembranze ec. (dico di chi non è marinaio
ec. di professione) ed anche alle nostri[nostre]
cognizioni pratiche; giacchè la
cognizione pratica,
1828 almeno in grosso, l'uso,
l'esperienza, una tal quale familiarità con ciò che il poeta ha per le mani, è
necessaria all'effetto delle immagini e sentimenti poetici ec.; ed è per questo
che piace soprattutto nella poesia ciò che spetta al cuore umano (che è la cosa
della quale abbiamo più cognizione pratica), siccome nella pittura, scultura ec.
l'imitazione dell'uomo, delle sue passioni ec. (3. Ott. 1821.).
[1847,1] Come l'uomo non s'interessa che per l'uomo
(perch'egli s'interessa più per se che per gli altri uomini); com'è vuota
d'effetto quella pittura che non rappresenta niente di animato, e più quella che
rappresenta pietre ec. che quella che rappresenta piante ec.; come il principale
effetto della pittura è prodotto dall'imitazione dell'uomo più che degli
animali, e molto più che degli altri oggetti; come la poesia non diletta nè
molto nè durevolmente se verte 1. sopra cose inorganizzate, 2. sopra cose
organizzate ma non vive, 3. sopra enti vivi ma non uomini, 4. sopra uomini ma
non sopra ciò che meglio spetta all'uomo ed a ciascun lettore, cioè le passioni,
i sentimenti, insomma l'animo umano; {+(notate queste gradazioni che sono applicabili ad ogni genere di cose e
idee piacevoli, ed alla mia teoria del
piacere)} così
1848 la poesia,
{i drammi} i romanzi, le storie, le pitture ec. ec.
non possono durevolmente nè molto dilettare se versano sopra uomini di costumi,
opinioni, indole ec. ec. e quasi natura affatto diversa dalla nostra, come i
personaggi favoriti delle care poesie ec. del Nord, sia per differenza
nazionale, sia per eccessiva differenza e stranezza di carattere, come i
protagonisti di Lord Byron, ed anche per
eccessivo eroismo, onde Aristotele non
voleva che il protagonista della tragedia fosse troppo eroe. {+(Quindi è che se forse da principio
interessano per la novità, a poco andare annoiano le storie ec. de' popoli
lontani, de' viaggi ec. e interessano sempre più proporzionatamente quelle
de' più vicini, e fra gli antichi de' latini Greci, ed Ebrei, a causa che
questi sono in relazione con tutto il mondo colto per la rimembranza ec.
della nostra gioventù, studi, religione letteratura ec. Anche questo però
secondo le circostanze degli individui.)} Da per tutto l'uomo cerca il
suo simile, perchè non cerca e non ha mai altro scopo che se stesso; e il
sistema del bello, come tutto il sistema della vita, si aggira sopra il perno,
ed è posto in movimento dalla gran molla dell'egoismo, e quindi della
similitudine e relazione a se stesso, cioè a colui che deve godere del bello di
qualunque genere. (5. Ott. 1821.).
[1991,1] Colui che imita la maniera di parlare, di gestire,
ec. ec. usata da una persona ignota a colei a cui egli l'imita e la descrive,
quando anche l'imitazione sia vivissima, ingegnosissima ec. non produce quasi
nessun {effetto} nè piacere; laddove un'imitazione
assai men viva della stessa cosa, fatta a chi ne conosca bene il soggetto,
riuscirà piacevolissima. Questo serva di regola ai poeti, ai pittori, {ai comici} ec. ec. che esauriscono
1992 la loro vena imitativa (sia pur felicissima) nell'imitar cose
ignote o poco note o niente familiari a' lettori agli spettatori, o al più de'
medesimi. (26. Ott. 1821.).
[2041,1] La rapidità e la concisione dello stile, piace
perchè presenta all'anima una folla d'idee simultanee, o così rapidamente
succedentisi, che paiono simultanee, e fanno ondeggiar l'anima in una tale
abbondanza di pensieri, o d'immagini e sensazioni spirituali, ch'ella o non è
capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare
in ozio, e priva di sensazioni.
2042 La forza dello
stile poetico, che in gran parte è tutt'uno colla rapidità, non è piacevole per
altro che per questi effetti, e non consiste in altro. L'eccitamento d'idee
simultanee, può derivare e da ciascuna parola isolata, o propria o metaforica, e
dalla loro collocazione, e dal giro della frase, e dalla soppressione stessa di
altre parole o frasi ec. Perchè è debole lo stile di Ovidio, e però non molto piacevole, quantunque egli sia
un fedelissimo pittore degli oggetti, ed un ostinatissimo e acutissimo
cacciatore d'immagini? Perchè queste immagini risultano in lui da una copia di
parole e di versi, che non destano l'immagine senza lungo circuito, e così poco
o nulla v'ha di simultaneo, giacchè anzi lo spirito è condotto a veder gli
oggetti appoco appoco per le loro parti. Perchè lo stile di Dante è il più forte che mai si possa concepire, e per
questa parte il più bello e dilettevole possibile? Perchè ogni
2043 parola presso lui è un'immagine ec. ec. V. il mio discorso sui romantici. Qua
si possono riferire la debolezza essenziale, e la ingenita sazietà della poesia
descrittiva, (assurda in stessa) e quell'antico precetto che il poeta (o lo
scrittore) non si fermi troppo in una descrizione. Qua la bellezza dello stile
di Orazio (rapidissimo, e pieno
d'immagini per ciascuna parola, o costruzione, o inversione, o traslazione di
significato ec.), {V. p. 2049.} e quanto al pensiero, quella dello
stile di Tacito. ec.
(3. Nov. 1821.). {{V. p. 2239.}}
[2429,2] Che società, che amicizia, che commercio potresti tu
avere con un cieco e sordo, o egli con te?
2430 Al
quale nè coi gesti nè colle parole potresti communicare alcuno de' tuoi
sentimenti, nè egli a te i suoi? e per conseguenza qual comunione di spirito,
cioè di vita e di sentimento potresti aver seco lui? qual sentimento di te
penseresti d'aver destato, o di poter mai destare nell'animo suo? E nondimeno tu
sai pur ch'egli vive, ed oltracciò di vita umana e d'un genere medesimo colla
tua; ed egli potrebbe forse in qualche modo darti ad intendere i suoi bisogni, e
beneficato esteriormente da te, o in altro modo influito, potrebbe aver qualche
senso della tua esistenza, e formarsi di te qualche idea; anzi è certo che ti
considererebbe come suo simile, non ch'egli n'avesse alcuna prova certa, ma
appunto per la scarsezza delle sue idee; come fanno i fanciulli, che sempre
inclinano a creder tutto animato, e simile in qualche modo a loro, non
conoscendo, nè sapendo neppure insufficientemente concepire altra forma d'esistenza che la propria, non ostante
ch'essi pur vedano la differenza della figura, e delle qualità esteriori.
[2475,2] Chi negherà che l'arte del comporre non sia oggi e
infinitamente meglio e più chiaramente e distintamente considerata, svolta,
esposta, conosciuta, dichiarata {in tutti i} suoi
principii, eziandio più intimi, e infinitamente più divulgata fra gli uomini, e
più nelle mani degli studiosi, e aiutata oltracciò di molto maggior quantità di
esempi e modelli, che non era presso gli antichi? e massime presso quegli
antichi e in quei secoli ne' quali meglio e più perfettamente e immortalmente si
scrisse? Eppure
2476 dov'è oggi in qualsivoglia nazione
o lingua, non dico un Cicerone
(quell'eterno e supremo modello d'ogni possibile perfezione in ogni genere di
prosa), non dico un Tito Livio, ma uno
scrittore che nella lingua e nel gener suo abbia tanto valore quanto n'ha
qualunque non degli ottimi, ma pur de' buoni scrittori greci o latini? E dov'è
poi un numero di scrittori, non dico ottimi, ma buoni, uguale a quello che
n'hanno i greci e i latini? Trovatemelo, se potete, ponendo insieme {tutti} i migliori scrittori di tutte le nazioni
letterate, dal risorgimento delle lettere sino a oggidì. E dico buoni
precisamente in quel che spetta all'arte del comporre, e del saper dire {una cosa,} e
trattare un argomento con tutta la perfezione di quest'arte. Dico buoni
quanto alla lingua loro, qualunqu'ella sia, e perfetti in essa e padroni, come
fu Cicerone della latina, o come lo
furono gli altri scrittori latini e greci, men grandi di Cicerone in questo e nel rimanente, ma pur buonissimi e
classici.
2477 Dico buoni in questo senso, giacchè non
entro nell'arte del pensare, ec. E quel che dico de' prosatori, dico anche de'
poeti, colle stesse restrizioni, e quanto al modo di trattare e significare le
cose immaginate: chè l'invenzione e l'immaginazione {in se
stesse e {{assolutamente}} considerate,}
appartengono a un altro discorso.
[2599,1] L'uniformità è certa cagione di noia. L'uniformità è
noia, e la noia uniformità. D'uniformità vi sono moltissime specie. V'è anche
l'uniformità prodotta dalla continua varietà, e questa pure è noia, come ho
detto altrove p. 51, e provatolo con esempi. V'è la continuità di
tale o tal piacere, la qual continuità è uniformità, e perciò noia ancor essa,
benchè il suo soggetto sia il piacere. Quegli sciocchi poeti, i quali vedendo
che le descrizioni nella poesia sono piacevoli hanno ridotto la poesia a {continue} descrizioni, hanno tolto il piacere, e
sostituitagli la noia (come i bravi poeti stranieri moderni, detti descrittivi): ed io ho veduto persone
di niuna letteratura, leggere avidamente l'Eneide
2600 (ridotta nella loro lingua) la qual par che non
possa esser gustata da chi non è intendente, e gettar via dopo i primi libri
le
Metamorfosi, che {pur} paiono
scritte per chi si vuol divertire con poca spesa. Vedi quello che dice Omero in persona di Menelao: Di tutto è
sazietà, della cetra, del sonno
*
ec. La continuità
de' piaceri, (benchè fra loro diversissimi) o di cose poco differenti dai
piaceri, anch'essa è uniformità, e però noia, e però nemica del piacere. E
siccome la felicità consiste nel piacere, quindi la continuità de' piaceri
(qualunque si sieno) è nemica della felicità per natura sua, essendo nemica e
distruttiva del piacere. La Natura ha proccurato in tutti i modi la felicità
degli animali. Quindi ell'ha dovuto allontanare e vietare agli animali la
continuità dei piaceri. (Di più abbiamo veduto {parecchie
volte}
pp.
172-77
pp. 2433-34 come la
Natura ha combattuto la noia in tutti i modi possibili, ed avutala in
quell'orrore che gli antichi le attribuivano rispetto al vuoto.) Ecco come i
mali vengono ad esser necessarii alla stessa felicità, e pigliano vera e reale
essenza
2601 di beni nell'ordine generale della natura:
massimamente che le cose indifferenti, cioè non beni e non mali, sono cagioni di
noia per se, come ho provato altrove pp. 1554-55, e di più non interrompono
il piacere, e quindi non distruggono l'uniformità, così vivamente e pienamente
come fanno, e soli possono fare, i mali. Laonde le convulsioni degli elementi e
altre tali cose che cagionano l'affanno e il male del timore all'uomo naturale o
civile, e parimente agli animali ec. le infermità, e cent'altri mali inevitabili
ai viventi, anche nello stato
primitivo, (i quali mali benchè accidentali uno per uno, forse il genere e
l'università loro non è accidentale) si riconoscono per conducenti, e in certo
modo necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti e
collocati e ricevuti nell'ordine naturale, il qual mira in tutti i modi alla
predetta felicità. E ciò non solo perch'essi mali danno risalto ai beni, e
perchè più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma
perchè senza essi mali, i beni
2602 non sarebbero
neppur beni, {a poco andare,} venendo a noia, e non
essendo gustati, nè sentiti come beni e piaceri, e non potendo la sensazione del
piacere, in quanto realmente piacevole, durar lungo tempo ec. (7. Agosto
1822.).
[2636,1] Non c'è regola nè idea nè teoria di gusto universale
{ed eterno.} Qual potrebb'ella essere, se non la
natura? (e qual cosa è, o vero, essendo, si può immaginare e intendere e
concepire da noi, fuori della natura?) ma qual natura, se non l'umana? Poichè le
cose che cadono sotto la categoria del buon gusto o del cattivo gusto, non sono
considerate se non per rispetto all'uomo. Or non è ella cosa manifestissima, che
la natura dell'uomo si diversifica moltissimo secondo i climi, {secoli,}
costumi, assuefazioni, governi, opinioni, circostanze fisiche, morali,
politiche, ec. e queste, individuali, nazionali ec. ec.? Resta dunque per tutta
idea e teoria di gusto
2637 universale {ed eterno,} un idea ed una teoria, che comprenda
solamente, e si fondi, e si formi di quei principii che, relativamente al gusto,
si trovano esser comuni a tutti gli uomini, e tenere alla primitiva e immutabile
natura umana. Ma questi principii, dico io che sono pochissimi, ed
applicabilissimi, conformabilissimi, e fecondi di numerosissime e diversissime
conseguenze (siccome lo sono tutti i principii naturali, e veramente elementari,
perchè la natura è semplicissima, pochi principii ha posto, e questi,
infinitamente e diversissimamente {e anche contrariamente} modificabili): {
Contrariamente. Non si trovano
forse mille contrarietà fra le indoli, opinioni, costumi, di diversi tempi,
nazioni, climi, individui, popoli civili fra loro, e rispetto ai non civili,
e questi fra se medesimi, ec.? Pur tutti hanno i medesimi principii
elementari costituenti la natura umana.} dal che segue che questa idea
e questa teoria d'un gusto che sia veramente universale {ed
eterno,} si riduce a pochissime regole, ed è infinitamente meno
circoscritta e distinta di quel che comunemente si crede; e lascia luogo a
infiniti
2638 gusti diversissimi ed anche contrarii fra
loro (che noi riproviamo, e perchè ripugnano al gusto nostro o individuale o
nazionale, {e questo forse momentaneo,} li crediamo, al
nostro solito, contrarii all'universale ed eterno): anzi non solo lascia loro
luogo, ma li produce, non meno che quello ch'a noi pare il solo vero buon gusto
ec. (13. Ott. 1822.).
[2645,2] La storia greca, romana ed ebrea contengono le
reminiscenze delle idee acquistate da ciascuno nella sua fanciullezza. Ciascun
nome, ciascun fatto delle dette storie, e massime i principali e più noti ci
richiamano idee quasi primitive per noi, e sono in certo modo legati alla storia
della vita, e della fanciullezza
2646
massimente[massimamente], delle cognizioni, de'
pensieri di ciascuno di noi. Quindi l'interesse che ispirano le dette storie, e
loro parti, e tutto ciò che loro appartiene; interesse unico nel suo genere,
come fu osservato da Chateaubriand
(Génie ec.); interesse che non può esserci mai ispirato da
verun'altra storia, sia anche più bella, varia, grande, e per se più importante
delle sopraddette; sia anche più importante per noi, come le storie nazionali.
Le suddette tre sono le più interessanti perchè sono le più note; perchè sono le più domestiche, familiari, pratiche, e quasi
strette parenti di ciascun uomo civile e colto, ancorchè di patria diversissimo
da queste tre nazioni. E perciò elle sono le più, anzi le sole, feconde di
argomenti {storici} veramente propri d'epopea, di
tragedia, ec.
2647 e all'interesse dei detti argomenti,
massime nella poesia, non si può supplire in verun conto, nè con veruna
industria, cavando argomenti {o dall'immaginazione, o}
dalle altre storie, neppur dalle patrie. Aggiungasi alle tre dette storie,
quella della guerra troiana, la quale interessa sommamente per le dette ragioni,
anzi più delle altre tre, perchè i poemi d'Omero e di Virgilio, l'hanno
resa più nota e familiare a ciascuno, che verun'altra, e perch'ella a cagione
dei detti poemi, delle favole ec. è più legata alle ricordanze della nostra
fanciullezza, che non sono la storia greca e romana, e neanche l'ebrea. Tutto
ciò è relativo, e l'interesse delle dette storie non deriva particolarmente
dalle loro proprie e intrinseche qualità, ma dalla circostanza estrinseca
dell'essere le medesime familiari
2648 a ciascuno fin
dalla sua fanciullezza; tolta la qual circostanza, che ben si potrebbe togliere,
dipendendo dalla educazione ec., questo interesse o si confonderebbe e
agguaglierebbe con quello delle altre storie, e argomenti storici, o sarebbe
anche superato. (Roma. 25. Nov. 1822.).
[2663,1]
In ristretto
*
(in somma), la favella e la Scrittura sono
indirizzate a' coetanei, ed a' futuri, non a' defunti.
*
Pallavic. loc. sup. cit. pag.
181. fine. (5. Gen. 1823.).
[2738,1] Il qual ristagno è micidiale alla felicità per le
ragioni sopraddette. Ora esso è l'effetto proprio del moderno modo di vivere, e
il carattere che lo distingue dall'antico, e quello che osservato da Chateaubriand, volendo fare un romanzo
di carattere essenzialmente moderno, e ignoto e impossibile da farsi o da
concepirsi agli
2739 antichi, gl'ispirò il
René, che si aggira tutto in descrivere e determinare questo
ristagno, e gli effetti suoi. Da ciò solo si conchiuda se la vita antica o la
moderna è più conducente alla felicità, ovvero qual delle due sia meno
conducente all'infelicità. E poichè lo Chateaubriand considera questo ristagno come effetto preciso e
proprio del Cristianesimo, vegga egli qual conseguenza se ne debba tirare
intorno a questa religione, per ciò che spetta al temporale. In verità si trova
ad ogni passo che le sue {+più fine,
profonde, {nuove}
{e vere}} osservazioni e i suoi argomenti
intorno al Cristianesimo, e agli effetti di lui, ed alla moderna civiltà, ed al
carattere e spirito dell'uomo Cristiano, o moderno e civile, provano
dirittamente il contrario di quello ch'egli si propone. {+E può
dirsi che ogni volta ch'egli reca in mezzo osservazioni nuove, travaglia
per la sentenza contraria alla sua, accresce gli argomenti che la
fortificano, e somministra {nuove} armi ai suoi
propri avversari, credendosi di combatterli.}
(1. Giugno. Domenica. 1823.). {{V. p.
2752.}}
[2759,2] Chi vuol manifestamente vedere la differenza de'
tempi d'Omero da quelli di Virgilio, quanto ai costumi, e alla
civilizzazione, e alle opinioni che
2760 s'avevano
intorno alla virtù e all'eroismo, {+siccome anche quanto ai rapporti scambievoli delle nazioni, ai diritti e al
modo della guerra, alle relazioni del nimico col nimico;} e chi vuol
notare la totale diversità che passa tra il carattere e l'idea della virtù
eroica che si formarono questi due poeti, e che l'uno espresse in Achille e l'altro in Enea, consideri quel luogo dell'Eneide (X. 521-36.) dov'Enea fattosi sopra Magone che gittandosi in terra e abbracciandogli le
ginocchia, lo supplica miserabilmente di lasciarlo in vita e di farlo cattivo,
risponde, che morto Pallante, non ha
più luogo co' Rutuli alcuna misericordia nè alcun commercio di guerra, e spietatamente pigliandolo per la
celata, gl'immerge la spada dietro al collo per insino all'elsa. Questa scena e
questo pensiero è tolto di peso da Omero, il quale introduce Menelao sul punto di lasciarsi commuovere da simili prieghi, ripreso
da Agamennone, che senza alcuna pietà
uccide il troiano già vinto e supplichevole.
[2804,1] Si sa che negli antichi drammi aveva gran parte il
coro. Del qual uso molto si è detto a favore e contro. {Vedi
il Viaggio d'Anacarsi
cap. 70.} Il dramma moderno l'ha sbandito, e bene
stava di sbandirlo a tutto ciò ch'è moderno. Io considero quest'uso come parte
di quel vago, di quell'indefinito ch'è la principal cagione dello charme dell'antica poesia e bella letteratura.
L'individuo è sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile. Il bello
e il grande ha bisogno dell'indefinito, e questo {indefinito} non si poteva introdurre sulla scena, se non
introducendovi la moltitudine. Tutto quello che vien dalla moltitudine è
rispettabile, bench'ella sia composta d'individui tutti disprezzabili. Il
pubblico,
2805 il popolo, l'antichità, gli antenati, la
posterità: nomi grandi e belli, perchè rappresentano un'idea indefinita.
Analizziamo questo pubblico, questa posterità. Uomini la più parte da nulla,
tutti pieni di difetti. Le massime di giustizia, di virtù, di eroismo, di
compassione, d'amor patrio sonavano negli antichi drammi sulle bocche del coro,
cioè di una moltitudine indefinita, e spesso innominata, giacchè il poeta non
dichiarava in alcun modo di quali persone s'intendesse composto il suo coro.
Esse erano espresse in versi lirici, questi si cantavano, ed erano accompagnati
dalla musica degl'istrumenti. Tutte queste circostanze, che noi possiamo
condannare quanto ci piace come contrarie alla verisimiglianza, come assurde,
ec. quale altra impressione potevano produrre, se non un'impressione vaga e
indeterminata, e quindi tutta {grande,} tutta bella,
tutta poetica? Quelle massime non erano poste in bocca di un individuo, che le
recitasse in tuono ordinario e naturale.
2806 Per
grande e perfetto che il poeta avesse finto questo individuo, la idea medesima
d'individuo è troppo determinata e ristretta, per produrre una sensazione o
concezione indeterminata ed immensa. Queste qualità contrastano con quelle, e
quelle avrebbero direttamente impedita questa concezione, non che potessero
produrla. Gli uditori avrebbero conosciuto il nome, le azioni, le qualità, le
avventure di quell'individuo. Egli sarebbe stato sempre quel tal Teseo, quel tal Edipo, re di Tebe, uccisore
del padre, marito della madre, e cose simili. La nazione intera, la stessa
posterità compariva sulla scena. Ella non parlava come ciascuno de' mortali che
rappresentavano l'azione: ella s'esprimeva in versi lirici e pieni di poesia. Il
suono della sua voce non era quello degl'individui umani: egli era una musica
un'armonia. Negl'intervalli della rappresentazione questo attore ignoto,
innominato, questa moltitudine di mortali, prendeva a far delle profonde o
sublimi riflessioni
2807 sugli avvenimenti ch'erano
passati o dovevano passare sotto gli occhi dello spettatore, piangeva le miserie
dell'umanità, sospirava, malediceva il vizio, eseguiva la vendetta
dell'innocenza e della virtù, la sola vendetta che sia loro concessa in questo
mondo, cioè l'esecrare che fa il pubblico e la posterità gli oppressori delle
medesime; esaltava l'eroismo, rendeva merito di lodi ai benefattori degli
uomini, al sangue dato per la patria. (V. Oraz.
art. poet. v. 193-201.) Questo era
quasi lo stesso che legare sulla scena il mondo reale col mondo ideale e morale,
come essi sono legati nella vita: e legarli drammaticamente, cioè recando questo
legame sotto i sensi dello spettatore, secondo l'uffizio e il costume del poeta
drammatico, e quanto è possibile al dramma di rappresentare quello che è. Questo era personificare le immaginazioni del poeta,
e i sentimenti degli uditori e della nazione a cui lo spettacolo si
rappresentava. Gli avvenimenti erano
2808 rappresentati
dagl'individui; i sentimenti, le riflessioni, le passioni, gli effetti ch'essi
producevano o dovevano produrre nelle persone poste fuori di essi avvenimenti
erano rappresentati dalla moltitudine, da una specie di essere ideale. Questo
s'incaricava di raccogliere ed esprimere l'utilità che si cava dall'esempio di
quelli avvenimenti. E per certo modo gli uditori venivano ad udire gli stessi
sentimenti che la rappresentazione ispirava loro, rappresentati altresì sulla
scena, e si vedevano quasi trasportati essi medesimi sul palco a fare la loro
parte; o imitati {{dal coro,}} non meno che si fossero
gli eroi imitati e rappresentati dagli attori individui. Anche quando il coro
prendeva parte diretta all'azione, questo fare agir nel dramma la moltitudine,
era più poetico, e doveva produrre maggiore e più vivo effetto, che {il} divider tutta l'azione fra pochi individui, come noi
facciamo.
[2856,1] Astraendo da tutto questo, dico che in una lingua la
quale abbia pienamente questa facoltà, le traduzioni di quel genere che i
tedeschi vantano, meritano poca lode. Esse dimostrano che la lingua tedesca,
2857 come una cera o una pasta informe e tenera, è
disposta a ricevere tutte le figure e tutte le impronte che se le vogliono dare.
Applicatele le forme di una lingua straniera qualunque, e di un autore
qualunque. La lingua tedesca le riceve, e la traduzione è fatta. Quest'opera non
è gran lode al traduttore, perchè non ha nulla di maraviglioso; perchè nè la
preparazione della pasta, nè la fattura della stampa {ch'egli
vi applica,} appartiene a lui, il quale per conseguenza non è che un
operaio servile e meccanico; perchè dov'è troppa facilità quivi non è luogo
all'arte, nè il pregio dell'imitazione consiste nell'uguaglianza, ma nella
simiglianza, nè tanto è maggiore quanto l'imitante più s'accosta all'imitato, ma
quanto più vi s'accosta secondo la qualità della materia in cui s'imita, quanto
questa materia è più degna; e quel ch'è più, quanto v'ha più di creazione
nell'imitazione, cioè quanto più v'ha di creato dall'artefice nella somiglianza
che il nuovo oggetto ha coll'imitato, {ossia} quanto
questa somiglianza vien più dall'artefice che dalla materia, ed è più nell'
2858 arte che in essa materia, e più si deve al genio
che alle circostanze esteriori. Neanche una tal opera può molto giovare alla
lingua, nè servire ad arricchirla, o a variarla, o a formarla e determinarla, sì
perch'ella dee perdere queste impronte e queste forme colla stessa facilità con
cui le riceve e per la ragione stessa per cui così facilmente le riceve; sì
perchè queste nella loro moltiplicità nocciono l'una all'altra, si scancellano e
distruggono scambievolmente, e impediscono l'una all'altra l'immedesimarsi
durabilmente e connaturarsi colla favella; sì perchè questa moltiplicità
immoderata è incompatibile con quella tal quale unità di carattere che dee pur
avere una favella ancorchè immensa, massime ch'elle sono diversissime l'une
dall'altre, o ripugnano scambievolmente; sì perchè gran parte di queste forme o
impronte essendo alienissime o affatto contrarie al carattere nazionale de'
tedeschi, e a quello della loro letteratura, non possono se non nuocere alla
lingua, e guastarla, o impedire o ritardare ch'ella prenda e fortemente
2859 abbracci e ritenga quella sola forma e carattere
che le può convenire, cioè quella che sia conforme al carattere della nazione e
della nazionale letteratura, senza la qual forma perfettamente determinata, e da
lei perfettamente ricevuta per costantemente conservarla, essa lingua non sarà
mai compiuta e perfetta.
[2944,1] Gridano che la poesia debba esserci contemporanea,
cioè adoperare il linguaggio e le idee e dipingere i costumi, e fors'anche gli
accidenti de' nostri tempi. Onde condannano l'uso delle antiche finzioni,
opinioni, costumi, avvenimenti. {Puoi vedere la
p. 3152.}
Ma io dico che tutt'altro potrà esser contemporaneo a questo secolo fuorchè la
poesia. Come può il poeta adoperare il linguaggio e seguir le idee e mostrare i
costumi d'una generazione d'uomini per cui la gloria è un fantasma, la libertà
la patria l'amor patrio non esistono, l'amor vero è una
2945 fanciullaggine, e insomma le illusioni son tutte svanite, le
passioni, non solo grandi e nobili e belle, ma tutte le passioni estinte? Come
può, dico, ciò fare, ed esser poeta? Un poeta, una poesia, senza illusioni senza
passioni, sono termini che reggano in logica? Un poeta in quanto poeta può egli
essere egoista e metafisico? e il nostro secolo non è tale caratteristicamente?
come dunque può il poeta essere caratteristicamente contemporaneo in quanto
poeta?
[3095,2] Riprendono {nell'iliade} la poca unità, l'interesse principale
che i lettori prendono per Ettore, il
doppio Eroe (Ettore ed Achille), e
conchiudono che {se Omero} nelle parti è superiore agli altri poeti, nel tutto
però preso insieme, nella condotta del poema, nella regolarità è inferiore agli
altri epici, particolarmente a Virgilio.
Certo se potessero esser vere regole {di poesia} quelle
che si oppongono al buono e grande effetto della medesima e alla natura
dell'uomo, io non disconverrei da queste sentenze. {In proposito delle cose contenute nel séguito di questo
pensiero, vedi la pag. 470. capoverso
2.}
[3214,1] Ho detto in principio che la melodia nella musica
non è determinata se non dall'assuefazione o da leggi arbitrarie. Delle melodie
determinate dall'assuefazione, e che per ciò sono melodie, perchè quelle tali
successioni di tuoni convengono con quelle che gli orecchi sono assuefatti a
udire, ho discorso fin qui. Le melodie determinate da leggi arbitrarie, sono
quelle che il popolo e i non intendenti non gustano, se non se nel modo
specificato di sopra, senza nè conoscere nè sentire ch'elle sieno melodie, cioè
che quei tuoni così succedendosi e intrecciandosi e alternandosi, armonizzino,
cioè convengano, tra loro; quelle che pel popolo e per li non intendenti, non
sono infatti melodie, ma solo per gl'intendenti; quelle che gl'intendenti soli
gustano in virtù del giudizio, quali sono infiniti altri diletti umani (V. Montesquieu, Essai sur le goût. De la
sensibilité. p. 392.), massime nelle arti; quelle che non
3215 sono melodie se non perchè ed in quanto
corrispondono alle regole circa la successiva combinazione de' tuoni, consegnate
in una scienza o arte, non dettata dalla natura ma dalla matematica, universale
e universalmente riconosciuta in europa, come lo sono
tutte le altre arti e scienze {in questa parte del
mondo} legata insieme dal commercio e da una medesima civiltà ch'ella
stessa si è fabbricata e comunicata di nazione a nazione, ma non riconosciuta
fuori d'europa nè dalle nazioni non civili, nè da quelle
che hanno un'altra civiltà da esse fabbricata o d'altronde venuta; qual è sopra
tutte la nazion Chinese, la quale ed ha una scienza musicale, e in essa non
conviene {punto} con noi. Ho detto che la nostra
scienza o arte musicale fu dettata dalla matematica. Doveva dire costruita. Essa
scienza non nacque dalla natura, nè in essa ha il suo fondamento, come le più
dell'altre; ma ebbe origine ed ha il suo fondamento in quello che alla natura
somiglia e supplisce e quasi equivale, in quello ch'è giustamente chiamato
seconda natura, ma che altrettanto a torto quanto
3216
facilmente e spesso è {confuso e} scambiato, come nel
caso nostro, colla natura medesima, voglio dire nell'assuefazione. Le antiche
assuefazioni de' greci {+(per non
rimontar più addietro, che nulla rileva al proposito)} furono
l'origine e il fondamento della scienza musicale da' greci determinata,
fabbricata, e a noi ne' libri e nell'uso tramandata, dalla qual greca scienza,
viene per comun consenso e confessione la nostra europea, che non è se non se
una continuazione, accrescimento e perfezione di quella, siccome tante altre e
scienze ed arti (anzi quasi tutte le nostre) che la moderna
europa ricevè dall'antica
grecia e perfezionò, e a molte cangiò faccia appoco
appoco del tutto. La greca musica popolare, le ragioni della quale non altrove
erano che nell'assuefazione (siccome quelle di qualsivoglia musica popolare), fu
l'origine, il fondamento, e per così dir l'anima e l'ossatura della musica greca
scientifica, e quindi altresì della nostra, che di là viene. Ma siccome accade a
tutte le arti ch'elle col crescere, col perfezionarsi, col maggiormente
determinarsi, si dilungano appoco appoco da ciò che fu loro origine, fondamento,
{subbietto primitivo} e ragione, o fosse la natura
3217 o l'assuefazione o altro, e talvolta giungono
fino a perderlo affatto di vista, ed esser fondamento e ragione a se stesse, il
che è intervenuto in buona parte alla poetica, intervenne ancora all'arte
musica. {#1. Maggiormente sconvenevole però
si è questo nella musica che nella poesia. Perocchè la scienza musicale, in
ordine alla musica è di più basso e ben più lontano rango, che non è la
poetica in ordine alla poesia. Il contrappunto è al musico quel che al poeta
è la grammatica. La musica non ha un'arte che risponda a quel ch'è la
poetica alla poesia, la rettorica all'oratoria. Ben potrebbe averla, ma
niuno ancora ha pensato a ridurre a principii e regole le cagioni degli
effetti morali della musica e del diletto che {da}
lei deriva, e i mezzi per produrli ec.} Quindi è che {spessissimo} sia giudicato buono {ed
ottimo} dagl'intendenti, e {perciò} piaccia
loro sommamente, e che sia melodia per essi, quello che dal popolo e da' non
intendenti è giudicato o mediocre o cattivo, che poco o niun effetto produce in
essi, che poco o nulla gli diletta, che per essi non è assolutamente melodia:
Sebbene ei lodano sovente ed ammirano cotali composizioni di tuoni, o in vista
delle qualità indipendenti dall'armonizzare della loro combinazione successiva,
che di sopra ho descritte, o mossi dalla fama del compositore, o dalla voce
degl'intendenti, o dal favore, o dal diletto altre volte ricevuto nelle
composizioni del medesimo, o dalla coscienza della propria ignoranza, o dalla
maraviglia delle difficoltà e stranezze che in tali composizioni ravvisano, o
dalla stessa novità, benchè per {essi} nulla
dilettevole {musicalmente,} o in fine da cento altre
cause estrinseche {e accidentali,} o diverse e
indipendenti dal diletto che nasce dal senso della melodia, cioè della
convenienza scambievole de' tuoni nel succedersi
3218
l'uno all'altro. E per lo contrario interviene spessissimo che quelle
successioni de' tuoni {le quali} per il popolo sono
squisitissime, carissime, bellissime, spiccatissime e dilettosissime melodie,
non ardisco dire non piacciano agli orecchi degl'intendenti, ma con tutto ciò
dispiacciano al loro giudizio, e ne sieno riprovate, tanto che per essi talora
non sieno neppur melodie quelle che per tutti gli orecchi e per li loro altresì,
sono melodie distintissime, evidentissime, notabilissime e giocondissime. Il che
si può vedere in fatto nel giudizio degl'intendenti circa il comporre di Rossini, e generalmente circa il modo
della moderna composizione, la quale da tutti è sentita esser piena di melodia
{+molto più che le antiche e
classiche,} e da chiunque sa è giudicata non reggere in grammatica ed
essere scorrettissima e irregolare. Tutto ciò non per altro accade se non perchè
gl'intendenti giudicano, e giudicando sentono (cioè col fattizio, ma reale
sensorio dell'intelletto e della memoria) secondo i principii e le norme della
loro scienza; e i non intendenti sentono e sentendo giudicano secondo le loro
assuefazioni relative al proposito. Le quali assuefazioni segue e si propone
3219 o loro si accosta il moderno modo di comporre,
assai più che l'antico, {ignorando o} trascurando più o
manco i canoni dell'arte, di che gli antichi furono {peritissimi e} religiosissimi osservatori.
[3220,1] Certo è che la principale, anzi la vera arte
degl'inventori di musica, e il vero, proprio musicale, e grande effetto delle
loro invenzioni, allora solo si manifesta {ed ha luogo}
quando le loro melodie son tali che il popolo e generalmente tutti gli uditori
ne sieno colpiti e maravigliati come di
3221 melodia
nuova, e nel tempo medesimo, per essere in verità assuefatti a quelle tali
succcessioni di tuoni, sentano al primo tratto ch'ella è melodia. Il qual
effetto, proprio, anzi solo proprio della vera vera musica, e solo grande, solo
vivo, solo universale, non altrimenti si ottiene che coll'adornare, abbellire,
giudiziosamente e fino al debito segno variare, nobilitare per dir così,
nuovamente fra loro congiungere e disporre, presentare sotto un nuovo aspetto le
melodie assolutamente e formalmente popolari, e tolte dal volgo, e le varie e
sparse forme di successioni di note, che gli orecchi generalmente conoscono, e
vi sono assuefatti. Non altrimenti che il poeta, l'arte del quale non consiste
già principalmente nell'inventar cose affatto ignote e strane e a tutti
inaudite, o nello sceglier le cose meno divulgate, anzi ciò facendo egli più
tosto pecca e perde e toglie all'effetto della poesia, di quel che gli aggiunga;
ma l'arte sua è di scegliere tra le cose note le più belle, nuovamente e
armoniosamente, cioè fra loro convenientemente, disporre
3222 le cose divulgate e adattate alla capacità dei più, nuovamente
vestirle, adornarle, abbellirle, coll'armonia del verso, colle metafore, con
ogni altro splendore dello stile; dar lume e nobiltà alle cose oscure ed
ignobili; novità alle comuni; cambiar aspetto, quasi per magico incanto, a che
che sia che gli venga alle mani; pigliare v. g. i personaggi dalla natura, e
farli naturalmente parlare, e nondimeno in modo che il lettore riconoscendo in
quel linguaggio il linguaggio ch'egli è solito di sentire dalle simili persone
nelle simili circostanze, lo trovi pur nel medesimo tempo, nuovo e più bello,
{+senz'alcuna comparazione,
dell'ordinario, per} gli adornamenti poetici, e il nuovo stile, e
insomma la nuova forma e il nuovo corpo di ch'egli è vestito. Tale è l'officio
del poeta, e tale nè più nè meno del Musico. Ma siccome la poesia bene spesso,
lasciata la natura, si rivolse per amore di novità e per isfoggio di fantasia e
di facoltà creatrice, a sue proprie e stravaganti e inaudite invenzioni, e mirò
più alle regole e a' principii che l'erano stati assegnati, di quello che al suo
fondamento ed anima ch'
3223 è la natura; anzi lasciata
affatto questa, che aveva ad essere l'unico suo modello, non altro modello
riconobbe e adoperò che le sue proprie regole, e su d'esso modello gittò mille
assurde e mostruose o misere e grette opere; laonde abbandonato l'officio suo
ch'è il sopraddetto, sommamente stravolse e perdè, o per una o per altra parte,
di quell'effetto che a lei propriamente ed essenzialmente si convenia di
produrre e di proccurare; così l'arte musica nata per abbellire, innovare
decentemente e variare e per tal modo moltiplicare; ordinare, regolare,
simmetrizzare o proporzionare, adornare, nobilitare, perfezionare insomma le
melodie popolari e generalmente note e a tutti gli orecchi domestiche; com'ella
ebbe assai regole e principii, e d'altronde s'invaghì soverchiamente della
novità, e dell'ambiziosa creazione e invenzione, non mirò più che a se stessa, e
lasciando di pigliare in mano le melodie popolari per su di esse esercitarsi, e
farne sua materia, come doveva per proprio istituto; si rivolse alle sue regole,
e su questo modello, senz'altro, gittò le sue composizioni
3224 nuove veramente e strane: con che ella venne a perdere
quell'effetto che a lei essenzialmente appartiene, ch'ella doveva proporsi per
suo proprio fine, e ch'ella da principio otteneva, quando cioè lo cercava, o
quando coi debiti e appropriati mezzi lo proccurava.
[3232,2] Del resto poi le assuefazioni che di sopra ho
chiamato αὐτόματοι del popolo, {+(voglio
dire dell'universale)} nascono ed hanno origine da varie cagioni, e
fra l'altre dalla natura, indipendentemente però da veruna naturale
3233 convenienza scambievole di quali si sieno tuoni,
ma solo in tanto in quanto p. e. certe passioni naturalmente e universalmente
amano certi tali tuoni e certi tali passaggi da un tal tuono a un tal altro. La
qual cosa che nulla ha che fare coll'assoluta convenienza di tal tuono a tal
tuono, (perocchè qui la ragione della convenienza de' tuoni non istà nella
natura loro, nè nei loro naturali rapporti, ma è relativa alla natura dell'uomo
che indipendentemente dalla convenienza, ama in quel tal caso quel tuono e quel
passaggio) fu l'origine delle melodie, le quali furono da principio, siccome
sempre avrebbero dovuto e dovrebbero essere, imitative; bensì tali che
abbellivano ed ornavano e variavano la natura, colla scelta, colla disposizione,
coll'atta mescolanza e congiungimento, e di più colla delicatezza, grazia,
mobilità ec. degli organi o naturali (coltivati ed esercitati), o artifiziali
inventati e perfezionati. Nè più nè manco di quello che le poesie debbano,
imitandola ornare, abbellire, variare e mostrar sotto nuovo abito la natura.
Veggasi a questo proposito la citata nota
ultima al Capo
3234 27. del Viag. d'Anac. e quello che {altrove ho detto}
pp.
79-80
pp. 155-59
pp.
1665-66
pp.
1871. sgg. sopra l'imitativo della musica, e {sopra} quella convenienza musicale che {ha}
nella imitazione {sola} la sua ragione ed origine.
[3388,1] Molti presenti italiani che ripongono tutto il
pregio della poesia, anzi tutta la poesia nello stile, e disprezzano affatto,
anzi neppur concepiscono, la novità de' pensieri, delle immagini, de'
sentimenti; e non avendo nè pensieri, nè immagini, nè sentimenti, tuttavia per
riguardo del loro stile si credono poeti, e poeti perfetti e classici; questi
tali sarebbero forse ben sorpresi se loro si dicesse, non solamente che chi non
è buono alle immagini, ai sentimenti, ai pensieri non è poeta, il che lo
negherebbero schiettamente o implicitamente; {Puoi vedere le pagg. 2979-80. e 3717-20.} ma
che chiunque non sa immaginare, pensare, sentire, inventare, non può nè
possedere un buono stile poetico, nè tenerne l'arte, nè eseguirlo, nè giudicarlo
nelle opere proprie nè nelle altrui; che l'arte {e la facoltà
e l'uso} dell'immaginazione e dell'invenzione è tanto indispensabile
allo stile
3389 poetico, quanto e forse ancor più
ch'{al ritrovamento,} alla scelta, {e} alla disposizione della materia, alle sentenze e a
tutte l'altre parti della poesia ec. (Vedi a tal proposito la pp. 2978- 80.) Onde non possa mai
esser poeta per lo stile chi non è poeta per tutto il resto, nè possa aver mai
uno stile veramente poetico, chi non ha facoltà, o avendo facoltà non ha
abitudine, di sentimento di pensiero di fantasia d'invenzione, insomma
d'originalità nello scrivere. (9. Sett. 1823.).
[3461,1]
3461 I poeti latini (e proporzionatamente gli altri
scrittori secondo che lor conveniva) usarono la mitologia greca, non per lo aver
preso da' greci la loro letteratura e poesia, ma perchè, o da' greci o
d'altronde ch'e' ricevessero la loro religione, essa mitologia alla religion
latina apparteneva niente meno che alla greca, e nel
Lazio non meno che in grecia
era cosa popolare e creduta dal popolo. Laonde se questa o quella favola
adoperata, accennata ec. dagli scrittori o poeti latini, fu tolta da' greci, o
ch'ella fosse stata primieramente e di netto inventata da qualche greco poeta, o
che in grecia e non nel Lazio ella
fosse sparsa {ec.,} non perciò segue che la mitologia
dagli scrittori latini usata, non fosse, com'ella fu, altrettanto latina che
greca. Perocchè il fabbricare, per dir così, sul fondamento delle opinioni
popolari, fu sempre lecito ai poeti, anzi fu loro sempre prescritto. Laonde se i
poeti latini fabbricarono su tali opinioni popolari nazionali, o dell'altrui
fabbriche sì servirono, o rami stranieri innestarono sul tronco domestico, niuno
di ciò li dee riprendere. Nè perciò
3462 essi vollero
introdurre un nuovo genere di opinioni popolari nella nazione e farne materia di
lor poesia; nè supposero falsamente un genere {un
sistema} di opinioni popolari che nella nazione non esisteva, ma su di
quel ch'esisteva in effetto, innestarono, fabbricarono, lavorarono. Similmente i
greci, da qualunque luogo pigliassero la loro mitologia, certo è che di là
presero eziandio la {loro} religion popolare, e che
{tra' greci} il sistema greco religioso e
mitologico, quanto alla sostanza, alla natura, alla principal parte ed al
generale, non fu prima de' poeti che del popolo. E se i letterati greci si
giovarono, come si dice, delle letterature o dottrine ec. egizie, indiane o
d'altre genti, non adottarono perciò nelle loro finzioni ch'avessero ad esser
popolari, e nazionali ec. le mitologie d'esse nazioni. L'aver noi dunque
ereditato la letteratura greca e latina, l'esser la nostra letteratura modellata
su di quella, anzi pure una continuazione, per così dire, di quella, non vale
perch'ella possa ragionevolmente usare la mitologia greca nè latina al modo che
quegli antichi l'adoperavano. Giacchè non abbiamo già noi colla
3463 letteratura ereditato eziandio la religione greca
e latina, nè i latini, come ho detto, usarono la mitologia greca perciò ch'essi
avevano adottato la greca letteratura; nè se la letteratura ebbero i greci dalla
Fenicia o donde si voglia, perciò fu che i greci
poeti e scrittori si valsero della mitologia di quella tal gente; ma fu per le
ragioni dette di sopra, e che nel nostro caso non hanno alcun luogo. Tutt'altre
sono le nostre opinioni popolari nazionali e moderne da quelle de' greci e de'
latini. E gli scrittori italiani o moderni che usano le favole antiche alla
maniera degli antichi, eccedono tutte le qualità della giusta imitazione.
L'imitare non è copiare, nè ragionevolmente s'imita se non quando l'imitazione è
adattata e conformata alle circostanze del luogo, del tempo, delle persone ec.
in cui e fra cui si trova l'imitatore, e per li quali imita, e a' quali è
destinata e indirizzata l'imitazione. Questa può essere imitazione nobile, degna
di un uomo, e di un alto spirito e ingegno,
3464 degna
di una letteratura, degna di esser presentata a una nazione. E una letteratura
fondata comunque su tale imitazione può esser nazionale e contemporanea e
meritare il nome di letteratura. Altrimenti l'imitazione è da scimmie, e una
letteratura fondata su di essa è indegna di questo nome, sì per la troppa viltà,
essendo letteratura da scimmie, sì perchè una letteratura che tra' suoi è
forestiera, e a' suoi tempi antica, non può esser letteratura per se, ma al più
solo una parte d'altra letteratura o una copia da potersi guardare, se fosse
però perfetta (ch'è sempre l'opposto) collo stesso interesse con cui si guarda
una copia d'un quadro antico ec. e niente più. Veramente pare che i nostri poeti
usando le antiche favole (come già i più antichi italiani e forestieri scrivendo
in latino) affettino di non essere italiani ma forestieri, non moderni ma
antichi, e se ne pregino, e che questo sia il debito della nostra poesia e
letteratura, non esser nè moderna nè nostra ma antica ed altrui. Affettazione e
finzione barbara,
3465 ripugnante alla ragione, e colla
qual macchia una poesia non è vera poesia, una letteratura non è vera
letteratura. Come non è nè letteratura nè lingua nostra quella letteratura e
quella lingua che oggidì usano i nostri pedanti affettando e simulando di esser
antichi italiani, e dissimulando al possibile di essere italiani moderni, di
aver qualche idea che gl'italiani antichi non avessero perchè non poterono,
(così forse fece Cic. verso Catone antico ec. o Virgilio verso Ennio ec.?) ec. ec. Onde segue che noi oggi non abbiamo letteratura
nè lingua, perchè questa non essendo moderna, benchè italiana, non è nostra, ma
d'altri italiani, e perchè non si dà nè si diede mai {nè può
darsi} letteratura che a' suoi tempi non sia moderna; e dandosi, non è
letteratura.
[3477,4]
Alla p. 3156.
Si potrebbe aggiungere il nostro Monti, nel quale tutto è immaginazione, e nulla parte ha il sentimento,
come n'ha grandissima nel più delle poesie di Lord Byron (se però quel di Lord
Byron è ben significato
3478 col nome di
sentimento). Certo è che il Monti
benchè d'immaginazione senz'alcun confronto inferiore a quella di Lord Byron, e benchè non abbia di poetico
che l'immaginazione (sì nelle cose sì nello stile), si lascia leggere non senza
piacere, nè senza effetto poetico, e l'immaginoso in lui comparisce molto più
spontaneo e men comandato che in Lord
Byron. Ed è forse al contrario, perchè Lord Byron è veramente un uomo di caldissima fantasia
naturale, e Monti, qualch'egli sia per
se stesso, nelle sue composizioni non è che un buono e valente traduttore di
Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio ed altri poeti
antichi, e imitatore, anzi spesso copista, di Dante, Ariosto e degli altri
nostri classici. Sicchè Lord Byron tira
le immagini dal suo fondo, e Monti
dall'altrui. E se nell'uno ha dell'impoetico lo sforzo che suo poetare
apparisce, nell'altro è veramente impoetico l'imitare e il copiare che però
nella sua stessa poesia intrinsecamente non si lascia scorgere. Ond'è che le
poesie di Lord Byron sieno meno
poetiche, considerate in se stesse, che quelle di Monti. Mentre però questi è infinitamente meno poeta
di quello.
3479 E si conchiude che le poesie dell'uno
sieno impoetiche, e che l'altro non sia poeta. E l'effetto poetico delle poesie
di Monti spetta più agli antichi che a
lui, ed è piuttosto come di poesia e d'immaginazione antica, che di moderna. Nel
sentimento poi la vena del Monti è al
tutto secca, e provandocisi, il che egli fa ben di rado, non ci riesce punto,
come nel Bardo. (20. Sett.
1823.).
[3479,1] Il poeta dee mostrar di avere un fine più serio che
quello di destar delle immagini e di far delle descrizioni. E quando pur questo
sia il suo intento principale, ei deve cercarlo in modo come s'e' non se ne
curasse, e far vista di non cercarlo, ma di mirare a cose più gravi; ma
descrivere fra tanto, e introdurre nel suo poema le immagini, come cose a lui
poco importanti che gli {scorrano} naturalmente dalla
peña[penna]; e, per dir così, descrivere e
introdurre immagini, con gravità, con serietà, senz'alcuna dimostrazione di
compiacenza e di studio apposito, {+e di
pensarci e badarci, nè di voler che il lettore ci si fermi.} Così
fanno Omero e Virgilio e
3480
Dante, i quali pienissimi di vivissime
immagini e descrizioni, non mostrano pur d'accorgersene, ma fanno vista di avere
un fine molto più serio che stia loro unicamente a cuore, ed al qual solo festinent continuamente, cioè il racconto dell'azioni
e l'evento o successo di esse. Al
contrario fa Ovidio, il quale non
dissimula, non che nasconda; ma dimostra e, per dir così, {confessa} quello che è; cioè a dir ch'ei non ha maggiore intento nè
più grave, anzi a null'altro mira, che descrivere, ed eccitare e seminare
immagini e pitturine, e figurare, e rappresentare continuamente. (20.
Sett. 1823.).
[3482,1] Ne' tragici greci (così negli altri poeti o
scrittori antichi) non s'incontrano quelle minutezze, quella particolare e
distinta descrizione e sviluppo delle passioni e de' caratteri che è propria de'
drammi (e così degli altri poemi e componimenti) moderni, non solo perchè gli
antichi erano molto inferiori a' moderni nella cognizione del cuore umano, il
che a tutti è noto, ma perchè gli antichi nè valevano gran fatto nel dettaglio,
nè lo curavano, anzi lo disprezzavano e fuggivano, e tanto era impropria degli
antichi l'esattezza e la minutezza quanto ella è propria e caratteristica de'
moderni. Ciò nel modo e per le ragioni da me spiegate altrove pp. 1482-83.
[3490,1] Non si dà nella orazione, qualunque ella sia, tratto
veramente sublime, in cui il lavoro non ceda di grandissima lunga alla materia,
cioè dove l'altezza e il pregio del pensiero, dell'immagine, e simili, non vinca
d'assaissimo la nobiltà, l'eleganza, e il pregio dell'espressione e dello stile.
Una sola virtù dell'espressione può e deve, in un luogo {+ch'abbia ad esser} sublime, andar di pari
coll'altezza del concetto, e questa si è la semplicità, o vogliamo dir la
naturalezza e l'apparenza della sprezzatura. (21. Sett. 1823.).
[3548,2] Il fine del poeta epico (e simili, e in quanto gli
altri gli son simili), non dev'esser già di narrare, ma di descrivere, di
commuovere, di destare
3549 immagini e affetti, di
elevar l'animo, di riscaldarlo, di correggere i costumi, d'infiammare alla
virtù, alla gloria, all'amor della patria, di lodare, di riprendere, di accender
l'emulazione, di esaltare i pregi della propria nazione, de' propri avi, degli
eroi domestici ec. Tutti questi o parte di questi hanno da essere i veri e
proprii fini del poeta epico, non il narrare; ma il poeta epico dee però fare in
modo che apparisca il suo vero e proprio, o certo principal fine, non esser
altro che il narrare. Appena merita il nome di poesia un poema il quale in
verità non faccia altro che raccontare, cioè non produca altro effetto che di
{stuzzicare e} pascere la semplice curiosità del
lettore, ossia coll'intreccio bene intrigato e avviluppato, ossia con qualunque
mezzo. Queste sono piuttosto novelle che poesie, per quanto l'azione raccontata
potesse esser nobile {sublime} interessante ec. (Di
questa specie sono l'Orlando innamorato, il Ricciardetto e
simili). E possono ben essere di questa natura anche i poemi tessuti o sparsi
d'invenzioni capricciose e di favole ec. come i veri poemi. Anche favoleggiando
3550 sempre o quasi sempre, un poema può non far
veramente altro che raccontare. Questi tali non sono poemi perchè il poeta ha
veramente e principalmente per fine quel ch'ei non dee senon far vista di avere,
cioè il narrare. Ma per lo contrario i poemi pieni di lunghe descrizioni, di
dissertazioni e declamazioni morali, politiche ec., di sentenze, di elogi, di
biasimi, di esortazioni, di dissuasioni ec. in persona del poeta {ec.} e di simili cose, non sono poemi epici ec. perchè
il poeta mostra veramente di avere per principali fini, quei ch'e' non deve se
non avere senza mostrarlo. (29 Sett. 1823.). {{v. p.
3552.}}
[3946,2] La lingua greca appartiene veramente e propriamente
alla nostra famiglia di lingue (latina, italiana, francese, spagnuola, e
portoghese), non solo perch'ella non può appartenere ad alcun'altra, e farebbe
famiglia da se o solo colla greca moderna; non solamente neppure per esser
sorella o, come gli altri dicono, madre della latina (nel primo de' quali casi
ella dovrebbe esser messa almeno colla latina, e nel secondo è chiaro ch'ella va
posta nella nostra famiglia), ma specialmente e principalmente perchè la sua
letteratura è veramente madre della latina, la qual è madre delle nostre, e
quindi la letteratura greca è veramente l'origine delle nostre, le quali in
grandissima parte non sarebbero onninamente quelle che sono e quali sono (se non
se per un incontro affatto fortuito) s'elle non fossero venute di là. E come la
letteratura è quella che dà forma e determina la maniera di essere delle lingue,
e lingua formata e letteratura sono quasi la stessa cosa, o certo
3947 cose non separabili, e di qualità compagne e
corrispondenti; e come per conseguenza la letteratura greca (oltre le tante voci
e modi particolari) fu quella che diede veramente e principalmente forma alla
lingua latina, e ne determinò la maniera di essere, il carattere e lo spirito,
di modo che la lingua e letteratura latina, quando anche fossero nate, formate e
cresciute senza la greca, non sarebbero certamente state quelle che furono, ma
altre veramente, e in grandissima parte diverse per natura e per indole e forma,
e per qualità generali e particolari, e sì nel tutto, sì nelle parti maggiori o
minori, da quelle che furono; stante, dico, tutto questo, la letteratura greca
(oltre lo studio immediato fattone da' formatori delle nostre lingue, come da
quelli della latina) viene a esser veramente la madre e l'origine prima delle
nostre lingue, come la latina n'è la madre immediata; le quali lingue (anche la
francese che insieme colla sua letteratura è la più allontanata dalla sua
origine, e dalla forma latina, e dall'indole della latina, e quindi eziandio
della greca) non sarebbero assolutamente tali quali sono, ma altre e in
grandissima parte diverse sì nello spirito, sì in cento e mille cose
particolari, se non traessero primitivamente origine in grandissima parte dal
greco per mezzo del latino. E veramente la lingua greca mediante la sua
letteratura è prima (quanto si stende la nostra memoria dell'antichità) e vera
ed efficacissima causa dell'esser sì la lingua e letteratura latina, sì le
nostre lingue e letterature, anche la francese, tali quali elle sono,
3948 e non altre; chè per natura elle ben potrebbero
essere diversissime in molte e molte cose, anche essenziali ed appartenenti allo
spirito ed all'indole ec. e alquanto diverse più o meno in altre molte cose più
o meno essenziali o non essenziali. E forse non mancano esempi di altre
letterature e lingue antiche o moderne, anche meridionali ec., che non essendo
venute dal greco, sono diversissime, anche per indole ec. e nel generale ec. non
meno o poco meno che ne' particolari, dalla latina e dalle nostrali. E ne può
esser prova il vedere quanto la francese si è allontanata, anche di spirito,
dalla latina e dalla greca alle quali era pur conformissima nel 500 ec. (vedi la
p. 3937.), senz'aver mutato
clima ec. Certo i tempi nostri son diversissimi da quelli de' greci {e de' latini,} quando anche il clima sia conforme,
diversissime sono state e sono le nostre nazioni, {#1. loro governi, opinioni, costumi, avvenimenti e
condizioni qualunque,} sì tra loro, {#2. sì ciascuna di esse da se medesima in diversi
tempi,} sì dalla greca, e dalla latina eziandio. Nondimeno le loro
lingue e letterature sono state conformi, massime fino agli ultimi secoli, e tra
loro, e tra' vari lor tempi, e colla greca e latina ec. Sicchè tal conformità
non si deve attribuire nè solamente nè principalmente al clima, nè ad altre
circostanze naturali o accidentali, ma all'accidente di esser derivate
effettivamente dal greco e latino, chè ben potevano non derivar da nessuno, o
derivare d'altronde ec. ec.
[3952,1]
3952 Dal detto altrove pp. 109-11
pp. 1234-36
pp. 1701-706 circa le
idee concomitanti annesse alla significazione o anche al suono stesso e ad altre
qualità delle parole, le quali idee hanno tanta parte nell'effetto, massimamente
poetico ovvero oratorio ec., delle scritture, ne risulta che necessariamente
l'effetto d'una stessa poesia, orazione, verso, frase, espressione, parte
qualunque, maggiore o minore, di scrittura, è, massime quanto al poetico,
infinitamente vario, secondo gli uditori o lettori, e secondo le occasioni e
circostanze anche passeggere e mutabili in cui ciascuno di questi si trova.
Perocchè quelle idee concomitanti, indipendentemente ancora affatto dalla parola
o frase per se, sono differentissime per mille rispetti, secondo le dette
differenze appartenenti alle persone. Siccome anche gli effetti poetici {ec.} di mille altre cose, anzi forse di tutte le cose,
variano infinitamente secondo la varietà e delle persone e delle circostanze
loro, abituali o passeggere o qualunque. Per es. una medesima scena della natura
diversissime sorte d'impressioni può produrre e produce negli spettatori secondo
le dette differenze; come dire se quel luogo è natio, e quella scena collegata
colle reminiscenze dell'infanzia ec. ec. se lo spettatore si trova in istato di
tale o tal passione, ec. ec. E molte volte non produce impressione alcuna in un
tale, al tempo stesso che in un altro la fa grandissima. Così discorrasi delle
parole e dello stile che n'è composto e ne risulta, e sue qualità e differenze
ec. e questa similitudine è molto a proposito.
[3976,1] Non è propria de' tempi nostri altra poesia che la
malinconica, nè altro tuono di poesia che questo, sopra qualunque subbietto ella
possa essere. Se v'ha oggi qualche vero poeta, se questo sente mai veramente
qualche ispirazione di poesia, e va poetando seco stesso, o prende a scrivere
sopra qualunque soggetto, da qualunque causa nasca detta ispirazione, essa è
certamente malinconica, e il tuono che il poeta piglia naturalmente o seco
stesso o con gli altri nel seguir questa inspirazione (e senza inspirazione non
v'è poesia degna di questo nome) è il malinconico. Qualunque sia l'abito, la
natura, le circostanze ec. del poeta, pur ch'ei sia di nazione civile, così gli
accade, e come a lui così a un altro che non avrà di comune con lui se non
questo solo. ec. Fra gli antichi avveniva tutto il contrario. Il tuono naturale
che rendeva la loro cetra era quello della gioia o della forza {+della solennità} ec. La poesia loro
era tutta vestita a festa, anche, in certo modo, quando il subbietto l'obbligava
ad esser trista. Che vuol dir ciò? O che gli antichi avevano meno sventure reali
di noi, (e questo non è forse vero), o che meno le sentivano e meno le
conoscevano, il che viene a esser lo stesso, e a dare il medesimo risultato,
cioè che gli antichi erano dunque meno infelici de' moderni. E tra gli antichi
metto anche, proporzionatamente, l'Ariosto ec. (12. Dec. 1823.).
[4216,1] Rettorica. Citiamo qui un esempio di acutezza e di
filosofia de' rettorici. Demetrio (rettorico de' più
stimati) περὶ ἑρμηνείας, della
elocuzione, sezione 67. parlando delle figure
della {dizione} (σχήματα τῆς λέξεως {+opposte a σχήματα τῆς διανοίας
sententiarum o sententiae: λέξεως verborum.}), le quali non sono altro
che costrutti e frasi fuor di regola, di ragione, d'uso ec. sgrammaticature
*
, direbbe
l'Alfieri. Bisogna servirsi di tali figure non in troppa
abbondanza, chè ella è cosa poco elegante, e dà una certa
disuguaglianza al discorso, e fa il discorso disuguale. {Non bisogna tuttavolta usar le
figure a man piena: cosa goffa e che ec.} Gli antichi, i
quali usano però gran quantità di figure, riescono nel dir loro più
familiari e correnti che non fanno i moderni quando sono senza
figure. {La cagione è che} quelli le
adoperano con arte.
*
χρῆσϑαι μέν τοι τoῖς σχήμασι μὴ πυκνoῖς: ἀπειρόκαλον
γὰρ καὶ παρεμϕαῖνóν
4217 τινa τοῦ λóγου
ἀνωμαλίαν. Oἱ γοῦν ἀρχαῖοι, πολλὰ σχήματα ὲν τoῖς λóγοις τιϑέντες,
συνηϑέστεροι τῶν ἀσχηματίστων εἰσί, διὰ τὸ ἐντέχνως
τιϑέναι)
*
. L'osservazione è verissima in tutte le lingue; la
causa, proprio il contrario di quel che dice Demetrio. Gli antichi usavano le figure
naturalmente, senz'arte, e per non saper bene le regole generali della
grammatica: i moderni le pescano negli antichi, le usano a posta, sono
irregolari per arte. Perciò paiono, come sono, artifiziati, affettati, stentati,
diversi dal dir corrente. Caro Demetrio, non ogni buon {effetto o}
successo è da attribuirsi all'arte. Concedete qualche coserella alla natura,
{ed anche all'ignoranza,} benchè voi siate un
maestro di arte rettorica.
{{V. p.
4222.}}
[4234,5] La poesia, quanto a' generi, non ha in sostanza che
tre vere e grandi divisioni: lirico, epico e drammatico. Il lirico, primogenito
di tutti; proprio di ogni nazione anche selvaggia; più nobile e più poetico d'ogni altro; vera {e pura} poesia in tutta la sua estensione; proprio
d'ogni uomo anche incolto, che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto, e
colle parole misurate in qualunque modo, e coll'armonia; espressione libera e
schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell'uomo. L'epico nacque dopo
questo e da questo; non è in certo modo che un'amplificazione del lirico, o
vogliam dire il genere lirico che tra gli altri suoi mezzi e subbietti ha
assunta
4235 principalmente e scelta la narrazione,
poeticamente modificata. Il poema epico si cantava anch'esso sulla lira o con
musica, per le vie, al popolo, come i primi poemi lirici. Esso non è che un inno
in onor degli {eroi o delle nazioni o eserciti;}
solamente un inno prolungato. Però anch'esso è proprio d'ogni nazione anche
incolta e selvaggia, massime se guerriera. E veggonsi i canti di selvaggi in
gran parte, e quelli ancora de' bardi, partecipar tanto dell'epico e del lirico,
che non si saprebbe a qual de' due generi attribuirli. Ma essi son veramente
dell'uno e dell'altro insieme; sono inni lunghi e circostanziati, di materia
guerriera per lo più; sono poemi epici indicanti il primordio, la prima natività
dell'epica dalla lirica, individui del genere epico nascente, e separantesi, ma
non separato ancora dal lirico. Il drammatico è ultimo dei tre generi, di tempo
e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà,
non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più
che per la essenza sua. La natura insegna, è vero, a contraffar la voce, le
parole, i gesti, gli atti di qualche persona; e fa che tale imitazione, ben
fatta, rechi piacere: ma essa non insegna a farla in dialogo, molto meno con
regola e con misura, anzi n'esclude la misura affatto, n'esclude affatto
l'armonia; giacchè il pregio {e il diletto} di tali
imitazioni consiste tutto nella precisa rappresentazion della cosa imitata, di
modo ch'ella sia posta sotto i sensi, e paia vederla o udirla. Il che anzi è
amico della irregolarità e disarmonia, perchè appunto è amico della verità, che
non è armonica. Oltre che la natura propone per lo più a tali imitazioni i
soggetti più disusati, fuor di regola, le bizzarrie, i ridicoli, le stravaganze,
i difetti. E tali imitazioni {naturali} poi, non sono
mai d'un avvenimento, ma d'un'azione semplicissima, voglio dir d'un atto, senza
parti, senza cagioni, mezzo, conseguenze; considerato in se solo, e per suo solo
rispetto. Dalle quali cose è manifesto che la imitazion suggerita dalla natura,
è per essenza, del tutto differente dalla drammatica. Il dramma non è proprio
delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e
dell'ozio, un trovato
4236 di persone oziose, che
vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell'ozio, inventato, come
tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall'ingegno dell'uomo, non
ispirato dalla natura, ma diretto a procacciar sollazzo a se e agli altri, e
onor sociale o utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma
non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima
figlia, e l'epica, che è sua vera nepote. - Gli altri che si chiamano generi di
poesia, si possono tutti ridurre a questi tre capi, o non sono generi distinti
per poesia, ma per metro o cosa tale estrinseca. L'elegiaco è nome di metro.
Ogni suo soggetto usitato appartiene di sua natura alla lirica; come i subbietti
lugubri, che furono spessissimo trattati dai greci {lirici,} massime antichi, in versi lirici, nei componimenti al tutto
lirici, detti θρῆνοι, {+quali furon
quelli di Simonide, assai
celebrato in tal maniera di componimenti, e quelli di Pindaro: forse anche μονῳδίαι, come quelle che di
Saffo ricorda
Suida.} Il satirico è in parte lirico, se
passionato, come l'archilocheo; in parte comico. Il didascalico, per quel che ha di vera
poesia, è lirico o epico; dove è semplicemente precettivo, non ha di poesia che
il linguaggio, {il modo} e i gesti per dir così. {ec.}
(Recanati. 15. Dic. 1826.).
[4238,4] Differenza tra le antiche e le più recenti, le prime
e le ultime, mitologie. Gl'inventori delle prime mitologie (individui o popoli)
non cercavano l'oscuro per
4239 tutto, eziandio nel
chiaro; anzi cercavano il chiaro nell'oscuro; volevano spiegare e non
mistificare e scoprire; tendevano a dichiarar colle cose sensibili quelle che
non cadono sotto i sensi, a render ragione a lor modo e meglio che potevano, di
quelle cose che l'uomo non può comprendere, o che essi non comprendevano ancora.
Gl'inventori delle ultime mitologie, i platonici, e massime gli uomini dei primi
secoli della nostra era, decisamente cercavano l'oscuro nel chiaro, volevano
spiegare le cose sensibili e intelligibili, colle non intelligibili e non
sensibili; si compiacevano delle tenebre; rendevano ragione delle cose chiare e
manifeste, con dei misteri e dei secreti. Le prime mitologie non avevano
misteri, anzi erano trovate per ispiegare, e far chiari a tutti, i misteri della
natura; le ultime sono state trovate per farci creder mistero e superiore alla
intelligenza nostra anche quello che noi tocchiamo con mano, quello dove,
altrimenti, non avremmo sospettato nessuno arcano. Quindi il diverso carattere
delle due sorti di mitologie, corrispondente al diverso carattere sì dei tempi
in cui nacquero, sì dello spirito e del fine o tendenza con cui furono create.
Le une gaie, le altre tetre ec. (Recanati 29. Dic.
1826.).
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Francesi. (1827) (2)
Originalità. (1827) (3)
26. Non imita la natura chi non la imita con naturalezza; osservazione applicata al romanticismo. (varia_filosofia) (1)
27. Parallelo del modo di descrivere usato da e da' poeti descrittivi moderni con quello di . (varia_filosofia) (1)
69. Detto di , che tutte le facoltà ridotte ad arte steriliscono, applicato alla poesia. Originalità degli antichi, servilità inevitabile de' moderni poeti. (varia_filosofia) (1)
Immaginazioni degli antichi e de' fanciulli. (1827) (1)
113. Immaginazione de' fanciulli paragonata alla poesia degli antichi. (varia_filosofia) (1)
165. Pensiero di che viene a condannare l'abuso che fanno i romantici del terribile, e dello straordinario che non è in verun'armonia colle abitudini e colla natura di quasi niun lettore. (varia_filosofia) (1)
Consolazioni degli antichi. (1827) (1)
Dolore. (1827) (1)
Dolore antico. (1827) (1)
186. Condannasi con un passo della l'ignobilità del poetare romantico e l'eccessiva verità e minutezza della loro imitazione. (varia_filosofia) (1)
Prosodia greca. (1827) (1)
Noia. (1827) (2)
Storia ebraica, troiana, greca e romana. (1827) (3)
Affettazione. (1827) (1)
Scienza e Ignoranza. (1827) (1)
Tirannia. (1827) (1)
Mitologia greca. (1827) (3)
Codice di . (1827) (1)
Compassione. (1827) (2)
Motti, facezie varie, ec. ec. (1827) (1)
(a) Pensieri isolati satirici. (danno) (1)
Manuale di filosofia pratica. (pnr) (3)
Perfettibilità o Perfezione umana. (1827) (1)
nè finger brutti i protagonisti. (1827) (1)
25. Il più difficile dell'arte è il nasconder l'arte e il conseguir la naturalezza; osservazione applicata al discorso del romanticismo. (varia_filosofia) (1)
Musica. (1827) (1)
Stoltezza dell’uso moderno della mitologia. (danno) (1)
Commedia greca. (1827) (1)
Semplicità. (1827) (1)
Sublimità nella scrittura. (1827) (1)
Intreccio ne' drammi, poemi ec. (1827) (1)
Carattere, lingua ec. ec. (1827) (1)
Spagnuoli. (1827) (1)
Interesse in poesia ec. (1827) (2)
Loro lingua, letteratura ec. (1827) (1)
Arte dello stile in che consista. (1827) (1)
Sua difficoltà. (1827) (1)
, e il suo libretto (1827) (1)
Eleganza nelle scritture. (1827) (1)
Familiarità nella scrittura. (1827) (1)
Commedia. (1827) (1)
Lirica. (1827) (1)
Gloria. Fama. (1827) (1)
Poeta non si dee lasciar creder brutto. (1827) (1)
Non può esserci contemporanea. (1827) (1)
Uso del coro nei drammi lodato. (danno) (1)
Sensibilità. Sentimento. (1827) (1)
Spirito. Spiritualità dell'anima, ec. (1827) (1)
Uomo sensibile ec. e non bello. (1827) (1)
Amore verso gli animali. (1827) (1)
Amore dei propri simili. (1827) (3)
Amore universale. (1827) (2)
Egoismo. (1827) (1)
Varietà. (1827) (2)
alla vivacità, alla vita. (1827) (1)
Rapidità dello stile. (1827) (1)
Poesia. (1827) (2)
. . (1827) (1)
Consolazione. (1827) (1)
Inconvenienti accidentali nella natura. (1827) (1)
Indifferenza. (1827) (1)
Mali. Utilità e ragione dei mali in natura. (1827) (1)
Educazione. Insegnamento. (1827) (1)
Cristianesimo, ha peggiorato i costumi. (1827) (2)
Doveri morali. (1827) (1)
Coro ne' drammi. (1827) (1)
24. Sopra gli articoli di circa il romanticismo. (varia_filosofia) (1)