Letteratura italiana d'oggidì.
Italian literature of the present day.
724,3 799-800 838,1 863,1 865,1 1024,3 1057-9 1093,1 1513,1 1518,1 1543,1 1997,1 2166,1 2363,2 2395,2 2508,1 2517,1 2529,1 2611,2 2648,1 2663,1 3192,1 3388,1 3418-9 3465 3471-2 3749,2 3829,1 3855,1 4066,1[724,3] I poeti, oratori, storici, scrittori in somma di bella
letteratura, oggidì in italia, non manifestano mai, si
può dire, la menoma forza d'animo (vires animi, e non
intendo dire la magnanimità), ancorchè il soggetto, o l'occasione {ec.} contenga
725 grandissima
forza, sia per stesso fortissimo, abbia gran vita, grande sprone. Ma tutte le
opere letterarie italiane d'oggidì sono inanimate, esangui, senza moto, senza
calore, senza vita (se non altrui). Il più che si possa trovar di vita in
qualcuno, come in qualche poeta, è un poco d'immaginazione. Tale è il pregio del
Monti, e dopo il Monti, ma in assai minor grado,
dell'Arici. Ma oltre che questo
pregio è rarissimo nei nostri odierni o poeti o scrittori, oltre che in questi
rarissimi è anche scarso (perchè il più de' loro pregi appartengono allo stile),
osservo inoltre che non è veramente spontaneo nè di vena, e soggiungo che non
solamente non è, ma non può essere, se non in qualche singolarissima indole.
[794,1] Per aver {poco} bisogno
795 di voci straniere, è necessario che una nazione, non
solo abbia coltivatori di ogni sorta di cognizioni {e nel
tempo stesso diligenti, studiosi e coltivatori della lingua,} ed in se
stessa una vita piena di varietà, di azione, di movimento ec. ec. ma ancora
ch'ella sia l'inventrice o di tutte o di quasi tutte le cognizioni, e di tutti
gli oggetti della vita che cadono nella lingua, e non solo pura inventrice, ma
anche perfezionatrice, perchè dove le discipline, e le cose s'inventano, si
formano, si perfezionano, quivi se ne creano i vocaboli, e questi con quelle
discipline e con quegli oggetti, passano agli stranieri. Così appunto è avvenuto
alla Grecia, e però appunto la sua lingua si fe' così
ricca, e potè mantenersi così pura, a differenza della latina. Perchè la greca
abbisognava di poco dagli stranieri, da' quali poche notizie e nessuna
disciplina (si può dire) ricevea (eccetto negli antichissimi tempi, cioè intanto
che la lingua diveniva tale): la latina viceversa.
All'italia da principio veniva ad accader quasi lo
stesso, essendo ella inventrice di tutte quasi le discipline che si conobbero in
quei tempi,
796 abbondandone nel suo seno i coltivatori,
e questi diligenti, studiosi e padroni della lingua; ed avendo anche molta vita
e varietà e riputazione al di fuori, e spirito patriotico, sebben disunito, pure
e forse anche più valevole, a fornirla di molti oggetti di lingua. Ma essendosi
fermata nel momento che le discipline e sono cresciute di numero, e tutte
portate a un perfezionamento rapidissimo, e vastissimo; non essendo intervenuta
per nessuna parte ai travagli immensi di questi ultimi secoli, tanto nel
perfezionamento delle cognizioni, quanto nel resto; di più avendo nello stesso
tempo per diverse cagioni, trascurata affatto la sua lingua, in maniera che
anche quegli italiani scrittori che hanno cooperato alquanto (e ben poco, e
pochi) col resto dell'europa, al progresso ultimo delle
cognizioni, non hanno niente accresciuta la lingua del suo, avendo scritto non
italiano, ma barbaro, {+ed avendo adottate
di pianta le rispettive nomenclature o linguaggi che aveano trovati presso
gli stranieri nello stesso genere, o in generi simili al loro (se per
avventura essi ne fossero stati gl'inventori):} è doloroso, ma
necessario il dire, che s'ella d'ora innanzi non vuol esser la sola parte
d'europa meramente ascoltatrice, o ignorare affatto
le nuove universalissime cognizioni, s'ella vuol parlare a' contemporanei, e di
cose adattate al tempo, come tutti i buoni scrittori han fatto, e come bisogna
pur fare in ogni modo; le conviene ricevere
797 nella
cittadinanza della lingua (bisogna pur dirlo) non poche, anzi buona quantità di
parole affatto straniere. Si consoli però che tutte le nazioni, quando più
quando meno hanno avuto il medesimo bisogno, quale in un tempo, quale in
un'[un] altro; l'ha avuto anche la sua
antica lingua, cioè la latina; l'abbiamo avuto noi stessi nei principii della
nostra lingua (e se ora ci bisogna ritornare a quella necessità che si prova nei
principii, nostra colpa): e non creda di diventar barbara, se saprà far quello
ch'io dico con retto e maturo e accurato {e posato}
giudizio. Anzi si dia fretta {a introdurre e scegliere queste
medesime voci straniere} se non vuole che la lingua imbarbarisca del
tutto, e senza rimedio. Perchè l'unica via di arrestare i progressi {della corruttela} è questa. Proclamare lo studio
profondo e vasto della lingua, e nel tempo stesso la libertà che ciascuno {scrittore} impadronitosi bene della lingua e
conosciutone a fondo l'indole e le risorse, usi il suo giudizio nell'introdurre,
e impiegare e spendere la novità necessaria, anche straniera. Finchè uno
scrittore qualunque (che non sia da bisavoli)
798 sarà
privo di questa libertà, sarà stimato impuro se vorrà usare la necessaria novità
si vedrà costretto a scegliere fra quella che si chiama e se le presenta e
prescrive come purità di lingua, e {tra} la facoltà di
trattare il suo soggetto e di esprimere i suoi pensieri (originali e propri, o
no, ma solamente moderni): disperando di una purità nella quale sia non
solamente difficile, (come sempre sarà ed in ogni caso) ma del tutto impossibile
di esprimere i suoi pensieri, la trascurerà affatto, e diverrà (malgrado ancora
la buona intenzione) colpevole per la forza del bisogno, ricorrendo a quella
barbarie la quale sola gli fornirà il modo di farsi intendere e di scrivere.
Ovvero al più seguirà quella miserabile separazione fra gli scrittori vuotissimi
e nulli ma puri, e fra gli scrittori di cose ma barbari; quando nessun de' due
può mai sperare l'immortalità, ma molto meno i primi, senza riunire le due
qualità e i due pregi che consistono nelle parole e nelle cose. Disordini però
tutti già tanto inoltrati in Italia, e bisognosi di sì
lunga opera, e di tanto ingegno e
799 giudizio, e di
tanta difficoltà a ripararli, che io con dolore predico che non se ne verrà
certo a capo in questa generazione, e chi sa quando. (Giacchè per rimetter
davvero in piedi la lingua italiana, bisognerebbe prima in somma rimettere in
piedi l'italia, e gl'italiani, e rifare le teste {e gl'ingegni} loro, come lo stesso bisognerebbe per la
letteratura, e per tutti gli altri pregi e parti di una buona e brava e valorosa
nazione; che con questi ingegni, con queste razze di giudizi e di critica,
faremo altro che ristaurare la lingua.) Perchè se si presume di averlo
conseguito collo sbandire e interdire e precludere affatto la novità delle cose
e del pensiero, lasciando stare che in fatti non si è conseguito un fico, perchè
eccetto pochissimissimi i più puri {e vuoti} scrivono
barbarissimamente, dico, non ostante l'amore ch'io porto a questa purità, e lo
stimarla necessarissima, che il rimedio è peggio del male. Vero è che da gran
tempo gli scrittori italiani puri ed impuri si sono egualmente dispensati dal
pensare, e anche dal
800 dire, talmente che se alcuno
de' nostri scritti ci fosse pericolo che potesse passare di là da' monti o dal
mare, gli stranieri si maraviglierebbero sodamente come, in questo secolo, in
una nazione posta nel mezzo d'europa si possa scrivere in
modo, che l'aver letto, si può dire, qualunque de' libri italiani che ora
vengono in luce, sia lo stesso nè più nè meno che non aver letto nulla. Del
resto il punto sta che la novità ch'io dico (e parlo in particolare della
straniera) si sappia convenevolmente introdurre. Perchè tutte le lingue antiche
e moderne sono composte di elementi stranieri, e pur tutte hanno avuto il tempo
della loro purità e naturalezza; e potrà riaverlo anche l'italiana, non ostante
{l'aggiunta de'} molti nuovi e necessari elementi
stranieri, purchè si sappia fare, e non si trascuri, anzi si coltivi
profondamente, e sempre più il proprio terreno. (16. Marzo
1821.).
[838,1] Quanto più l'indole, la struttura, l'andamento di una
lingua, è conforme alle regole naturali, semplice, diritto ec. tanto più quella
lingua è adattata alla universalità. E per lo contrario tanto meno, quanto più
ella e[è] figurata, composta, contorta, quanto
più v'ha nella sua forma di arbitrario, di particolare e proprio suo, o de' suoi
scrittori ec. non della natura comune delle cose. Le prime qualità spettano per
eccellenza alla lingua francese, quantunque la lingua italiana le possieda molto
più della latina, anzi senza confronto; tuttavia in esse (e felicemente) cede
alla francese, come tutte le lingue moderne {Europee,}
quantunque nessuna di queste ceda in esse qualità alla latina, anzi la vinca di
gran lunga, e neppure alla greca.
[863,1] Come la proprietà delle parole è ben altro che la
secchezza e nudità di ciascuna, così anche la semplicità e naturalezza e
facilità della struttura di una lingua e di un discorso, è ben altro che
l'aridità e geometrica esattezza di esso. Così distinguete il carattere
dell'ottima e antica scrittura greca da quello della moderna e riformata
francese. Così quello dell'ottima e antica e propria lingua e scrittura
italiana, sì da quello della
864 francese, sì da quello
dell'odierna italiana. La quale quando anche non fosse barbara per le parole,
modi ec. è barbara pel geometrico, sterile, secco, esatto dell'andamento e del
carattere. Barbara per questo, tanto assolutamente, quanto relativamente
all'essere del tutto straniera e francese, e diversa dall'indole della nostra
lingua; ben altra cosa che lo straniero de' vocaboli o frasi, le quali ancorchè
straniere non sono essenzialmente inammissibili, nè cagione assoluta di
barbarie; bensì l'indole straniera in qualunque lingua è sostanzialmente
barbara, e la vera cagione della barbarie di una lingua, che non può non esser
barbara, quando si allontana, non dalle frasi o parole, ma dal carattere e
dall'indole sua. E tanto più barbaro è l'odierno italiano scritto, quanto il
sapore italiano di certi vocaboli e modi per lo più ricercati ed antichi, e la
cui italianità risalta e dà negli occhi; contrasta colla innazionalità ed anche
coll'assoluta differenza del carattere totale della scrittura. (24. Marzo
1821.).
[865,1]
865 Lodo che si distornino gl'italiani dal cieco amore
{e imitazione} delle cose straniere, e molto più
che si richiamano[richiamino] e s'invitino a
servirsi e a considerare le proprie; lodo che si proccuri ridestare in loro
quello spirito nazionale, senza cui non v'è stata mai grandezza a questo mondo,
non solo grandezza nazionale, ma appena grandezza individuale; ma non posso
lodare che le nostre cose presenti, e parlando di studi, la nostra presente
letteratura, la massima parte de' nostri scrittori, ec. ec. si celebrino, si
esaltino tutto giorno quasi superiori a tutti i sommi stranieri, quando sono
inferiori agli ultimi: che ci si propongano per modelli; e che alla fine quasi
ci s'inculchi di seguire quella strada in cui ci troviamo. Se noi dobbiamo
risvegliarci una volta, e riprendere lo spirito di nazione, il primo nostro moto
dev'essere, {non} la superbia nè la stima delle nostre
cose presenti, ma la vergogna. E questa ci deve spronare a cangiare strada del
tutto, e rinnovellare ogni cosa. Senza ciò non faremo
866 mai nulla. Commemorare le nostre glorie passate, è stimolo alla virtù, ma
mentire e fingere le presenti è conforto all'ignavia, e argomento di rimanersi
contenti in questa vilissima condizione. Oltre che questo serve ancora ad
alimentare e confermare e mantenere quella miseria di giudizio, o piuttosto
quella incapacità d'ogni retto giudizio, e mancanza d'ogni arte critica, di cui
lagnavasi l'Alfieri (nella sua vita)
rispetto all'italia, e che oggidì è così evidente per la
continua esperienza sì delle grandi scempiaggini lodate, sì dei pregi (se
qualcuno per miracolo ne occorre) o sconosciuti, o trascurati, o negati, o
biasimati. (24. Marzo 1821.).
[1024,3]
Alla p. 1021.
Così che la presente corruzione della lingua italiana e parlata e scritta,
aggiunge un nuovo e fortissimo ostacolo alla sua universalità. Giacchè gli
stranieri non conoscono, {si può dire,} altra
letteratura nè lingua italiana scritta, se non l'antica, non passando
1025 e non meritando di passare le
alpi i nostri libri moderni, e non avendo noi propriamente
letteratura (non dico scienze) moderna, e neppur lingua moderna stabilita,
formata, {riconosciuta} e propria. D'altra parte non
conoscono nè possono conoscere altra lingua italiana parlata, se non quella che
oggi si parla, tanto diversa dall'antica e parlata e scritta, e dalla buona e
vera {e propria} favella italiana. Lo stesso appresso a
poco si può dire dello spagnuolo. (9. Maggio 1821.).
[1093,1] La letteratura di una nazione, la quale ne forma la
lingua, e le dà la sua impronta, e le comunica il suo genio, corrompendosi,
corrompe conseguentemente anche la lingua, che le va sempre a fianco e a
seconda. E la corruzione della letteratura non è mai scompagnata dalla
corruzione della lingua, influendo vicendevolmente anche questa sulla corruzione
di quella, come senza fallo, anche lo spirito della lingua contribuisce a
determinare e formare lo spirito della letteratura. Così è accaduto alla lingua
latina, così all'italiana nel 400, nel 600, e negli ultimi tempi, così pure nel
600, e negli ultimi tempi alla spagnuola: tutte corrotte al corrompersi della
rispettiva letteratura. Eppure la lingua greca, con esempio forse unico,
corrotta, anzi, dirò, imputridita la letteratura, si mantenne incorrotta
1094 più secoli, e molto altro spazio poco alterata,
come si può vedere in Libanio, in Imerio, in S. Gregorio Nazianzeno, e altri tali sofisti più antichi o più moderni di
questi, che sono corrottissimi nel gusto, e non corrotti {o
leggermente corrotti} nella lingua. Tanta era per una parte la
libertà, la pieghevolezza, e dirò così la capacità della lingua greca formata, che poteva anche essere applicata a pessimi
stili, senza allontanarsi dall'indole della sua formazione, e senza perdere le
sue forme proprie, e il suo naturale; ed essere adoperata da una letteratura
guasta senza guastarsi essa stessa, adattandosi tanto al buono come al cattivo,
e ricevendo nella immensa capacità delle sue forme, e nella sua {varietà,} copia e ricchezza, sì l'uno come l'altro.
Simile in ciò all'italiana, dove si può scrivere purissimamente cose di pessimo
gusto, ed usare un pessimo stile, in ottima o non corrotta lingua, come ho detto
altrove pp. 243-45
p.
321
pp.
686. sgg.
pp.
766-67. Dal che nasce la difficoltà di scriver bene in italiano, a
differenza del francese, che avendo una sola
lingua, ha anche un solo
stile, e chiunque scrive in francese, non può non iscrivere in istile appresso a poco, buono. E
però non dobbiamo farci maraviglia di quello che dicono, che tutti i francesi
più o meno scrivono bene.
[1513,1] I costumi delle nazioni cambiano bene spesso
d'indole, massime coll'influenza del commercio, de' gusti, delle usanze ec.
straniere. E siccome l'indole della favella è sempre il fedelissimo ritratto
dell'indole della nazione,
1514 e questa è determinata
principalmente dal costume, ch'è la seconda natura, e la forma della natura;
perciò mutata l'indole de' costumi, inevitabilmente si muta, non solo le parole
e modi particolari che servono ad esprimerli individualmente, ma l'indole, il
carattere, il genio della favella. Pur troppo è certissimo che l'indole de'
costumi italiani essendo affatto cambiata, massime dalla rivoluzione in poi, ed
essendo al tutto francese, è perduta quasi effettivamente la stessa indole della
lingua italiana. Si ha un bel dire. Una conversazione del gusto,
dell'atteggiamento, della maniera, della raffinatezza, {della
leggerezza, dell'eleganza} francese, non si può assolutamente fare in
lingua italiana. Dico italiana di carattere; e piuttosto la si potrebbe tenere
con parole purissime italiane, che conservando il carattere essenziale di questa
favella. Così dico dell'indole dello scrivere che oggi piace universalmente. È
troppo vero che non si può maneggiare in lingua italiana, e meno quanto
all'indole che quanto alle parole. È {{troppo}} vero che
l'influenza generale del
1515 costume francese in
europa, deve ed ha realmente mutata l'indole di tutte
le lingue colte, e le ha tutte francesizzate, ancor più nel carattere, che nelle
voci. E in tutta europa si travaglia a richiamar le
lingue e letterature alla loro proprietà nazionale. Ma invano. Nelle parole ch'è
il meno importante si potrà forse riuscire: ma nell'indole, ch'è il tutto, è
impossibile, se ciascheduna nazione non ripiglia il suo proprio costume e
carattere; e se noi italiani massimamente (che siamo più soggetti all'influenza,
e a pigliar l'impronta straniera, perchè non siamo nazione, e non possiamo più
dar forma altrui) non torniamo italiani. Il che dovremmo pur fare: e coloro che
ci gridano, parlate italiano, ci gridano in
somma siate italiani, che se tali non saremo,
parleremo sempre forestiero e barbaro. Ma non essendo nazione, e perdendo il
carattere nazionale, quali svantaggi derivino alla società tutta intera, l'ho
spiegato diffusamente altre volte pp. 865-66.
[1518,1] Da queste osservazioni si deduce che dopo che i
costumi greci furono radicati in Roma; dopo che i romani
andavano ad imparar le maniere del bel vivere in grecia,
come si va ora a Parigi; dopo che la moda, la bizzarria,
l'ozio derivato dalla monarchia, l'influenza della letteratura greca ec. ebbe
grecizzati i costumi e la conversazione di Roma; dopo che
le case de' nobili eran piene di filosofi, di medici, di precettori, di
domestici e uffiziali greci d'ogni sorta;
1519 dopo che
la letteratura Romana fu definitivamente modellata sulla greca, come la russa,
la svedese, la inglese del secolo d'Anna sulla francese; dopo tutto ciò la lingua romana
doveva necessariamente (quando anche non si sapesse di fatto) imbarbarire a
forza di grecismo, sì quanto ai particolari, sì quanto all'indole. E bisogna
attentamente osservare che il grecismo di que' tempi, non era già quello d'Erodoto o di Senofonte, e perciò la lingua e stile romano non fu
mai semplice nè inartifiziato; ma quello di Luciano, di Polibio ec.
cioè contorto, lavorato, elegante artifiziosamente, e similissimo all'andamento
del latino. (v. p.
1494-6. ) Il quale andamento molto si sbaglierebbe chi lo credesse
passato dal latino nel greco. Fu tutto l'opposto, e derivò dall'influenza del
greco di allora, il quale nè allora nè mai fu soggetto all'influenza del latino.
E se {+la lingua} e lo stile latino
classico fu sommamente più artifiziato per indole, che il greco classico, ciò si
deve attribuire all'indole della grecità contemporanea al classico latino.
(18. Agos. 1821.)
[1543,1] Tutti più o meno (massimamente le persone che hanno
coltivato il loro intelletto, e sviluppatene le qualità, e quelle che sono
ammaestrate da molta esperienza ec.) concepiscono in vita loro delle idee, delle
riflessioni, delle immagini ec. o nuove, o sotto un nuovo aspetto, o tali
insomma che bene {e convenientement}e espresse nella
scrittura, potrebbero esser utili o piacevoli, e separar quello scrittore, se
non altro, dal numero de' copisti. Ma perchè gl'ingegni (massime in
italia) non hanno l'abito di fissar fra se stessi,
circoscrivere, e chiarificare le loro idee, perciò queste restano per lo più
nella loro mente in uno stato incapace di esser consegnate e adoperate nella
scrittura; e i più, quando si mettono a scrivere, non trovando niente del loro
che faccia al caso, si contentano di copiare, o compilare, o travestire
l'altrui; e neppur si ricordano, nè credono, nè
1544
s'immaginano, nè pensano in verun modo a quelle idee proprie che pur hanno, e di
cui potrebbero far sì buon uso. Mancano pure dell'abito di saper
convenientemente esprimere idee nuove, o in nuova maniera, cioè di applicare per
la prima volta la parola e l'espressione conveniente ad un'idea, di fabbricarle
una veste adattata alla scrittura; e perciò, quando anche le concepiscano
chiaramente, le lasciano da banda, non sapendo darle giorno, e disperando, anzi
neppur desiderando di potere, e si rivolgono alle idee altrui che hanno già le
loro vesti belle e fatte. Che se essi talvolta si lasciano portare a volere
esprimere le dette idee proprie, per la mancanza di abilità acquistata
coll'esercizio, lo fanno miserabilmente. Questo esercizio è tanto necessario,
che io per l'una parte loderò moltissimo, per l'altra piglierò sempre buonissima
speranza di un fanciullo o di un giovane, il quale ponendosi a scrivere e
comporre, vada sempre dietro alle idee proprie, e voglia a ogni costo
esprimerle, siano pur frivole com'è naturale nei principii della riflessione, e
malamente espresse, com'è naturale ne' principii dello scrivere e dell'applicare
1545 i segni ai pensieri. A me pare ch'io fossi uno
di questi. (22 Agos. 1821.).
[1997,1] E per questa parte non è pedantesco il rigettare in
lingua italiana l'autorità degli scrittori moderni, o farne poco caso, perchè
l'italia non ha letteratura propria moderna, {nè filosofia
moderna.}
{+(Laddove nelle scienze dov'ella è
moderna come le altre nazioni è veramente pedantesco il rigettare l'autorità
moderna anche in punto di lingua.)} Se l'avesse, come le altre
nazioni, tanto varrebbe l'autorità moderna quanto l'antica. Ma gli scrittori
italiani moderni, o non
1998 hanno curato punto la
lingua, nè hanno servito ad una letteratura nazionale, ma forestiera, e quindi
non sono propriamente italiani come scrittori; o curando la lingua, non hanno
servito ad una letteratura moderna, ma antica, non hanno scritto a'
contemporanei, non hanno fatto che imitare gli antichi, e quindi come scrittori
non sono propriamente moderni; {+o
badando o non badando alla lingua non hanno detto nulla o pochissimo di
pensato, di proprio, di notabile, di nuovo, e quindi come scrittori non sono
nè moderni nè antichi.} Buono scrittore italiano moderno non si trova,
o quei pochi non sono bastati e non bastano a formare una letteratura italiana
moderna, che ne determini la lingua, o {piuttosto} a
continuare senza interruzione la letteratura italiana cominciata nel 300. e
sempre diversamente modificata secondo i tempi, finch'ella è durata. (26.
Ott. 1821.).
[2166,1] Può far meraviglia molto ragionevole che Marcaurelio scrivesse i suoi libri τῶν εἰς
2167 ἑαυτόν, delle considerazioni di se
stesso
come lo chiama il Menagio, piuttosto in greco che in latino,
essendo romano, non allevato in grecia (nè credo che mai
ci fosse), ed avendo posto molto e felice studio nelle lettere e nella lingua
nativa, come apparisce sì da altre notizie che danno di lui gli Storici, sì
massimamente da ciò ch'egli scrive a Frontone e Frontone a
lui. Non poteva aver egli di mira, cred'io, la maggior diffusione del
suo lavoro, scrivendolo in una lingua più divulgata. Ma io credo certissimo che
egli non fosse indotto a preferir la lingua greca alla latina se non per la
maggiore libertà di quella. Della quale libertà egli aveva bisogno in un'opera
profondamente ed intimamente filosofica, e attenente alla scienza della vita e
del cuore umano, ed alle sottili speculazioni psicologiche. Non dubito ch'egli
non disperasse di potere riuscire
2168 a trattare un
tale argomento in latino, a parlare a se stesso, e di se stesso, cioè del cuor
suo ec. (non delle sue cose pubbliche come fa Cic.) in latino. Questa lingua aveva già avuto un Cic. e un Seneca, e un Tacito, eppure ancor non bastava a una certa filosofia veramente
intima. La lingua greca aveva avuto scrittori filosofici profondi, ma senza ciò,
la sua pieghevolissima e liberissima indole, si prestava a qualsivoglia genere
di argomento, grado di filosofia, {ec.} ancorchè nuovo.
La lingua latina per lo contrario: ed oltracciò quello era un tempo, dove, come
accade dopo una decisa corruzione e licenza, che richiamandosi gl'istituti umani
alla buona strada, essi cadono nell'eccesso contrario; la lingua latina e il
gusto di quel tempo (come oggi in italia) peccava di
servilità, timidità (in
vitium ducit culpę fuga
*
), come si può vedere nelle opere
di Frontone, e come dicevano i maestri
di devozione,
2169 che le anime recentemente
convertite, sogliono patire di scrupoli, e sarebbe anzi mal segno se non ne
patissero. Questo durò poco, perchè la lingua e letteratura colle cose latine
tornò a precipitare indietro ben presto. Ma in quel tempo lo stile di Seneca, e altri tali stili filosofici si
condannavano altamente dai letteratori latini, come oggi dagli italiani quello
di Cesarotti ec. e ciò serviva
d'impaccio e di spauracchio a chi volesse scrivere filosoficamente in latino,
come oggi volendo scriver buon italiano, nessuno s'impaccia più di pensare. Marcaurelio pertanto dovè sentire questo
pericolo, disperare di poter essere profondo filosofo nella lingua nativa voluta
dal suo tempo, e senza violare il gusto corrente, e dar nel naso ai critici, i
quali già lo riprendevano di cattiva {e negligente}
lingua, e di licenza dopo ch'egli s'era dato alla filosofia, e dallo studio
delle parole a quello delle cose,
2170 come apertamente
lo riprende Frontone
de
Orationibus. Trovossi adunque obbligato per esprimere
i suoi più intimi sentimenti, a sceglier la lingua greca, a creder più facile di
esprimere le cose sue più proprie, in una lingua forestiera ed altrui, che nella
propria e nativa. (Il qual bisogno pur troppo si farebbe molte volte sentire
agl'italiani rispetto al francese, se gl'italiani pensassero, ed avessero cose
proprie da dire.)
[2363,2] Quei pochissimi {poeti}
italiani che in questo o nel passato secolo hanno avuto qualche barlume di genio
e natura poetica, qualche poco di forza nell'animo
2364
o nel sentimento, qualche poco di passione, sono stati tutti malinconici nelle
loro poesie. (Alfieri, Foscolo ec.) Il Parini tende
anch'esso nella malinconia, specialmente nelle odi, ma anche nel Giorno, per ischerzoso che
paia. Il Parini però non aveva
bastante forza di passione e sentimento, per esser vero poeta. E generalmente
non è che la pura debolezza del sentimento, la scarsezza della forza poetica
dell'animo, che {può} permettere ai nostri poeti
italiani d'oggidì (ed anche degli altri secoli, e anche d'ogni altra nazione), a
quei medesimi che più si distinguono, e che per certi meriti di stile, o di
stiracchiata immaginazione, son tenuti poeti, l'essere allegri in poesia, ed
anche inclinarli e sforzarli a preferir l'allegro al malinconico. Ciò che dico
della poesia dico proporzionatamente delle altre parti della bella letteratura.
Dovunque non regna il malinconico nella letteratura moderna, la sola debolezza
n'è causa. (27. Gen. 1822.).
[2395,2] Nelle scritture de' moderni puristi italiani (p. e.
del Botta) per lo più si vede
chiaramente un moderno che scrive all'antica, e quindi non ha la grazia dello
scrivere antico, non avendone lo spontaneo. Una delle due, o s'ha da parere un
2396 antico che scriva all'antica, vale a dire che
questo scrivere paia naturale dello scrittore, e venuto da se; o s'ha da essere
un moderno che scriva alla moderna: e volendo parere un moderno, non si dee
volere scrivere altrimenti, se si vuol fuggire il contrasto ridicolo e
l'affettazione; e molto meno volendo scriver cose moderne, e pensieri di
andamento moderno (cioè insomma propri dello scrittore, che mentre vive non sarà
mai antico): le quali cose e i quali pensieri, da che mondo è mondo, in
qualsivoglia nazione non si sono scritti nè potuti scrivere in altra lingua che
moderna (perchè questa sola è loro connaturale, e perciò sola dà il modo di bene
e pienamente esprimerli), e non altrimenti che alla moderna. (19. Marzo dì
di S. Giuseppe. 1822.)
{Quando mai, se si potesse, dovressimo,
quanto allo stile, parere antichi che pensassero alla moderna. Laddove nei
nostri accade tutto il contrario.}
[2508,1] Quanto poi all'eleganza, quelle voci e modi, non
essendo più pellegrini, non sono più eleganti. Anzi non c'è cosa più volgare e ordinaria di quelle voci e
modi forestieri. Come accade appunto in
italia oggidì, che non si può nè parlare nè scrivere in un italiano più volgare e
corrente, che parlando e scrivendo in un italiano alla francese.
2509 Il che è ben naturale e conseguente, secondo le
cagioni che ho assegnate, le quali introducono questo secondo barbarismo in una lingua. Perocchè esse
l'introducono ed influiscono {direttamente,} non negli
scritti de' grandi letterati e degli uomini di vero e raffinato buon gusto (come
ho detto di quel primo barbarismo) ma
nella favella quotidiana, e da questa passa il barbarismo nei libri degli
scrittorelli che non istudiano, non sanno, non conoscono, e neanche cercano, nè
si vogliono affaticare ad indagare altra lingua da quella che son soliti di
parlare, e sentire a parlar giornalmente, e non si saprebbero esprimere in altro
modo, nè possiedono altre voci e forme di dire. Di più seguono ed approvano
(secondo il poco e stolto loro giudizio) l'uso corrente, la moda ec. ed
accattano l'applauso e la lode del volgo, e si compiacciono di quella misera
novità, e vogliono passar per autori alla moda: così che oltre all'ignoranza, li
porta al
2510 barbarismo anche la volontà, ed il
cattivo loro giudizio; e l'esempio gli strascina ec. Di più formandosi a
scrivere sui soli o quasi soli libri stranieri divulgati nella loro nazione, non
conoscono altre voci, frasi, e maniere di stile, che quelle di que' libri, o non
si vogliono impazzire a scambiarle coll'equivalenti nazionali, che non hanno
punto alla mano. E così imbrattano sempre più la lingua e letteratura nazionale
di cose forestiere, anche oltre all'uso della favella ordinaria de' loro
compatrioti.
[2517,1] Per le quali considerazioni e confronti, sebbene la
lingua italiana di questo secolo sia bruttissima e pessima per ragioni {{e qualità}} indipendenti dalla purità e dal barbarismo,
cioè perchè povera, monotona, impotente, fredda, inefficace, smorta,
inespressiva, impoetica, inarmonica ec. ec. nondimeno ardisco dire che se gli
scrittori barbari della moderna
italia, arriveranno ai posteri, quando la lingua
italiana sarà già in qualunque modo mutata dalla presente, e se
2518 la prevenzione (che influisce moltissimo sopra il
senso dell'eleganza e del bello in ogni cosa) e il giudizio del secol nostro non
avrà troppa forza ne' futuri, come non l'ha in noi il giudizio de'
cinquecentisti, questa nostra barbara lingua, si stimerà elegante, e piacerà,
perchè divenuta già pellegrina, e forse il Cesarotti ec. passerà per modello d'eleganza di lingua.
[2529,1]
Alla p. 2521.
La conchiusione e la somma del discorso si è che in qualunque tempo e in
qualunque letteratura è piaciuta una lingua diversa dalla presente {nazionale} parlata, per bonissima, utilissima e
bellissima che questa fosse: e non s'è mai giudicata elegante la scrittura
composta delle voci e de' modi ordinari in quel tempo e correnti
2530
effettivamente nella nazione, per
purissimi che questi fossero. E questa (bench'altre ancora ve n'abbia) è l'una
delle principali cagioni per cui non piace, e si disapprova e si biasima e
riesce inelegante nelle scritture la presente lingua della nostra nazione, e si
richiama la nostra lingua antica. Con ragione, benchè non sia molto ragionevole
il richiamarla come pura, chè nè essa
era pura, nè la purità è un pregio necessario ed appartenente all'essenza dello
scriver bene, e molte volte non è possibile, e in fine è piuttosto un nome che
una cosa, non potendosi mai definir questa purità, nè trovar precisamente quel
che sia la purità di una tal lingua individua, anzi non esistendo essa mai,
perchè tutte le lingue sono composte di voci, modi ec. presi più o meno ab
antico da molte e varie altre lingue. E non potendosi neppur circoscrivere la
così detta
2531 purità dentro i termini dell'uso
nazionale, perchè se ciò fosse, tutte le nazioni in tutti i tempi parlerebbero
puramente, e tutti gli scrittori seguendo la lingua del tempo loro,
scriverebbero puramente, massime conformandosi alla parlata, e non esisterebbe
il contrario della purità, cioè l'impurità, perchè nessuna lingua in nessun
tempo sarebbe mai impura, benchè tutta composta da capo a piedi di barbarismi.
Sicchè resta che per lingua pura s'intenda come suo preciso sinonimo la lingua antica di una nazione, cioè
quella lingua composta per la più parte di voci e modi venuti di fuori, che
dagli antichi fu parlata e scritta. E in particolare quella che fu contemporanea
della miglior letteratura e coltura nazionale, e in somma quella che fu il
risultato, non già dell'abbozzo (ch'ebbe la lingua italiana da' 300isti) ma del
perfezionamento dato alla lingua
2532 nazionale, e
massime alla scritta, dagli scrittori e letterati nazionali nel tempo in cui
maggiormente e precisamente fiorì la letteratura e coltura nazionale {{, che fu per noi il 500.}}
[2611,2] Non basta che lo scrittore sia padrone del proprio
stile. Bisogna che il suo stile sia padrone delle cose: e in ciò consiste la
perfezion dell'arte, e la somma qualità dell'artefice. Alcuni de' pochissimi che
meritano nell'italia moderna il nome di scrittori (anzi
tutti questi pochissimi), danno a vedere di essere padroni dello stile: vale a
dir che il loro stile è fermo, uguale, non traballante, non sempre sull'orlo di
precipizi, {+non incerto, non legato e
retreci, come quello di tutti gli altri nostri
moderni, francesisti o no, ma libero e sciolto e facile, e che si sa
spandere e distendere e dispiegare e scorrere,} sicuro di non dir
quello che lo scrittore non vuole intendere, sicuro di non dir nulla in quel
modo che lo scrittore non lo vuol dire, sicuro di non dare in un altro stile, di
non cadere in una qualità che lo scrittore voglia evitare; procede a piè saldo
senza inciampare nè dubitare di se stesso, {non va a
trabalzoni, ora in cielo ora in terra, or qua or là,} ec. Tutte queste
qualità nel loro stile si trovano, e si dimostrano, cioè si fanno sentire al
lettore. Questi tali son padroni del loro stile. Ma il loro stile non è padrone
delle cose, vale
2612 a dir che lo scrittore non è
padrone di dir nel suo stile tutto ciò che vuole, o che gli bisogna dire, {o di dirlo pienamente e perfettamente:} e anche questo
si fa sentire al lettore. Perciocchè spessissimo occorrendo loro molte cose che
farebbero all'argomento, al tempo, {ec.} che sarebbero
utili o necessarie in proposito, e ch'essi desidererebbero dire, e concepiscono
perfettamente, e forse anche originalmente, e che darebbero luogo a pensieri
notabili e belli; essi scrittori, ben conoscendo questo, tuttavia le fuggono, o
le toccano di fianco, e di traverso, e se ne spacciano pel generale, o ne dicono
sola una parte, sapendo ben che tralasciano l'altra, e che sarebbe bene il
dirla, o in somma non confidano o disperano di poterle dire o dirle pienamente
nel loro stile. La qual cosa non è mai accaduta ai veri grandi scrittori, ed è
mortifera alla letteratura. E per ispecificare; i detti scrittori sono e si
mostrano sicuri di non dare nel francese (cioè in quel cattivo italiano che è
proprio del nostro tempo, e quindi naturale anche a loro, anzi solo naturale),
ma non sono nè si mostrano sicuri di
2613 poter dire
nel buono italiano tutto quello che loro occorra; {come lo
erano i nostri antichi.} Anzi lasciano ottimamente sentire, che molte
cose quasi necessarie, e delle quali si compiacerebbero se le {avessero potuto e saputo} dire nel buono italiano, e la
cui mancanza si sente, e che molte volte sono anche notissime a tutti in questo
secolo, essi le tralasciano avvertitamente, e le dissimulano, almeno da qualche
necessaria parte, e se ne mostrano o ignoranti, o poco istruiti, o di non averle
concepite, quando pur l'hanno fatto anche più degli altri, e che in somma non
ardiscono dirle per timore di offendere il buono italiano e il proprio stile. Il
qual timore e la quale impotenza assicurerebbe alla letteratura {e filosofia} italiana di non dar mai più un passo
avanti, e di non dir mai più cosa nuova, come pur troppo si verifica nel fatto.
(27. Agosto. 1822.).
[2648,1]
La
formation d'une langue est l'oeuvre des grands écrivains;
l'Italie en compte trop peu: plus de la
moitié de l'esprit et du coeur humain n'a pas encore passé sous la plume
des Italiens, et par conséquent dans leur langue.
*
Lettres sur l'Italie par
Dupaty en 1785. {let. 41.} Tome 1. à Gênes
1810. p. 185. Non solo dello spirito e del cuore umano, ma neppur la
metà delle cognizioni che sopra queste materie s'avevano al tempo di Dupaty, e molto meno di quelle che
s'hanno presentemente. (30. Nov. 1822.
Roma.).
[2663,1]
In ristretto
*
(in somma), la favella e la Scrittura sono
indirizzate a' coetanei, ed a' futuri, non a' defunti.
*
Pallavic. loc. sup. cit. pag.
181. fine. (5. Gen. 1823.).
[3192,1] Per li nostri pedanti il prender noi dal francese o
dallo spagnuolo voci o frasi utili o necessarie, non è giustificato dall'esempio
de' latini classici che altrettanto
faceano dal greco, come Cicerone
massimamente e Lucrezio, nè
dall'autorità di questi due e di Orazio nella Poetica, che espressamente difendono e lodano il farlo.
Perocchè i nostri pedanti coll'universale dei dotti e degl'indotti tengono la
lingua greca per madre della latina. Ma hanno a sapere ch'ella non fu madre
della latina, ma sorella, nè più nè meno che la francese e la spagnuola sieno
sorelle dell'italiana. Ben è vero che la greca letteratura e
3193 filosofia fu, non sorella, ma propria madre della {+letteratura e filosofia} latina.
Altrettanto però deve accadere alla filosofia italiana, e a quelle parti
dell'italiana letteratura che dalla filosofia debbono dipendere o da essa
attingere, per rispetto {alla} letteratura e filosofia
francese. La quale dev'esser madre della nostra, perocchè noi non l'abbiamo del
proprio, stante la singolare inerzia d'italia nel secolo
in che le {altre} nazioni
d'europa sono state e sono più attive che in
alcun'altra. E voler creare di nuovo e di pianta la filosofia, e quella parte di
letteratura che affatto ci manca (ch'è la letteratura propriamente moderna);
oltre che dove sono gl'ingegni da questa creazione? ma quando anche vi fossero,
volerla creare dopo ch'ella è creata, e ritrovare dopo trovata ch'ell'è da più
che un secolo, e dopo cresciuta e matura, e dopo diffusa e abbracciata e
trattata continuamente da tutto il resto d'europa del
pari; sarebbe cosa, non sola[solo] inutile, ma
stolta e dannosa, mettersi a bella posta lunghissimo tratto addietro degli
3194 altri in una medesima carriera, volersi collocare
sul luogo delle mosse quando gli altri sono già corsi tanto spazio verso la
meta, ricominciare quello che gli altri stanno perfezionando; e sarebbe anche
impossibile, perchè nè i nazionali nè i forestieri c'intenderebbono se volessimo
trattare in modo affatto nuovo le cose a tutti già note e familiari, e noi non
ci cureremmo di noi stessi, e lasceremmo l'opera, vedendo nelle nostre mani
bambina e schizzata, quella che nelle altrui è universalmente matura e colorita;
e questo vano rinnovamento piuttosto ritarderebbe e impaccerebbe di quel che
accelerasse e favorisse gli avanzamenti della filosofia, e letteratura moderna e
filosofica. Erano ben altri ingegni tra' latini al tempo che s'introdussero e
crebbero gli studi nel Lazio; ben altri ingegni, dico,
che oggi in italia non sono. Nè però essi vollero
rinnovare nè la filosofia nè la letteratura (la quale essendo allora poco
filosofica, si potea pur variare passando a nuova nazione), ma trovando l'una e
l'altra in alto stato, e grandissimamente avanzate e mature appresso i
3195 greci, da questi le tolsero, e gli altrui
ritrovamenti abbracciarono e coltivarono; e ricevuti e coltivati che gli ebbero,
allora, secondo l'ingegno di ciascheduno e l'indole della nazione, de' costumi,
del governo, del clima, della lingua, delle opinioni romane, modificarono ed
ampliarono le cose da' greci trovate, e diedero loro abito e viso e attitudini
domestiche e nuove. Se vuol dunque l'italia avere una
filosofia ed una letteratura moderna e filosofica, le quali finora non ebbe mai,
le conviene di fuori pigliarle, non crearle da se; e di fuori pigliandole, le
verranno principalmente dalla Francia (ond'elle si sono
sparse anche nelle altre nazioni, a lei molto meno vicine e di luogo e di clima
{e di carattere} e di genio e di lingua ec. che
l'italiana), e vestite di modi, forme, frasi e parole francesi (da tutta
l'europa universalmente accettate, e da buon tempo
usate): dalla Francia, dico, le verrà la filosofia e la
moderna letteratura, come altrove ho ragionato pp. 1029-30, e
volendole ricevere, nol potrà altrimenti che ricevendo {altresì} assai parole e frasi {di là,} ad
esse intimamente e indivisibilmente spettanti e fatte proprie;
3196 siccome appunto convenne fare ai latini {delle voci e frasi greche} ricevendo la greca
letteratura e filosofia; e il fecero senza esitare. E noi colla stessa
giustificazione, ed anche col vantaggio della stessa facilità il faremo, essendo
la lingua lingua francese sorella dell'italiana siccome della latina il fu la
greca, e producendo la filosofia e la filosofica letteratura francese una
letteratura moderna ed una filosofia italiana, siccome già la greca nel
Lazio. E tanto più saremo fortunati degli altri
stranieri che dal francese attinsero voci e modi per la filosofia e letteratura,
quanto che noi nel francese avremo una lingua sorella, e non, com'essi, aliena e
di diversissima origine. (18. Agos. 1823.). {Noi sappiamo bene qual {e che
cosa} sia questa lingua latina madre dell'italiana, e possiamo
definitamente additarla, e mostrarla tutta intera. Ma dir che la teutonica o
la slava o simili è madre della tedesca o della russa ec., è quasi un dire
in aria, benchè sia vera, nè quelli possono definitamente additarci quale
individualmente sia questa lor lingua madre, nè, se non confusamente e per
laceri avanzi, mostrarcela.}
[3388,1] Molti presenti italiani che ripongono tutto il
pregio della poesia, anzi tutta la poesia nello stile, e disprezzano affatto,
anzi neppur concepiscono, la novità de' pensieri, delle immagini, de'
sentimenti; e non avendo nè pensieri, nè immagini, nè sentimenti, tuttavia per
riguardo del loro stile si credono poeti, e poeti perfetti e classici; questi
tali sarebbero forse ben sorpresi se loro si dicesse, non solamente che chi non
è buono alle immagini, ai sentimenti, ai pensieri non è poeta, il che lo
negherebbero schiettamente o implicitamente; {Puoi vedere le pagg. 2979-80. e 3717-20.} ma
che chiunque non sa immaginare, pensare, sentire, inventare, non può nè
possedere un buono stile poetico, nè tenerne l'arte, nè eseguirlo, nè giudicarlo
nelle opere proprie nè nelle altrui; che l'arte {e la facoltà
e l'uso} dell'immaginazione e dell'invenzione è tanto indispensabile
allo stile
3389 poetico, quanto e forse ancor più
ch'{al ritrovamento,} alla scelta, {e} alla disposizione della materia, alle sentenze e a
tutte l'altre parti della poesia ec. (Vedi a tal proposito la pp. 2978- 80.) Onde non possa mai
esser poeta per lo stile chi non è poeta per tutto il resto, nè possa aver mai
uno stile veramente poetico, chi non ha facoltà, o avendo facoltà non ha
abitudine, di sentimento di pensiero di fantasia d'invenzione, insomma
d'originalità nello scrivere. (9. Sett. 1823.).
[3416,1] In somma la lingua italiana non aveva ancora
bastante antichità, per potere avere
abbastanza di quella eleganza di cui qui s'intende parlare, e un linguaggio ben
propriamente poetico, e ben disgiunto dal prosaico. Le parole dello Speroni provano questa verità, e questa
le mie teorie a cui la presente osservazione si riferisce. Il cui risultato è
che dovunque non è sufficiente antichità di lingua colta, quivi non può ancora
essere la detta eleganza di stile e di lingua, nè linguaggio poetico distinto e
proprio ec. (11. Sett. 1823.). Ho già detto altrove pp. 701-702
3417 che non prima del passato secolo e del presente si
è formato pienamente e perfezionato il linguaggio (e quindi anche lo stile)
poetico italiano (dico il linguaggio e lo stile poetico, non già la poesia); s'è
accostato al Virgiliano, vero, perfetto e sovrano modello dello stile
propriamente e totalmente e distintissimamente poetico; ha perduto ogni aria di
familiare; e si è con ben certi limiti, e ben certo, nè scarso, intervallo,
distinto dal prosaico. O vogliamo dir che il linguaggio prosaico si è diviso
esso medesimo dal poetico. Il che propriamente non sarebbe vero; ma e' s'è
diviso dall'antico; e così sempre accade che il linguaggio prosaico, insieme
coll'ordinario uso della lingua parlata, al quale ei non può fare a meno di
somigliarsi, si vada di mano in mano cambiando e allontanando dall'antichità. I
poeti (fuorchè in Francia) {#1. V. p.
3428.} serbano l'antico più che possono, perch'ei serve loro
all'eleganza, {dignità} ec. anzi hanno bisogno
dell'antichità della lingua. E così, contro quello
3418
che dee parere a prima giunta, i più licenziosi scrittori, che sono i poeti, son
quelli che più lungamente e fedelmente conservano la purità e l'antichità della
lingua, e che più la tengon ferma, mirando sempre e continuando il linguaggio
de' primi istitutori della poesia ec. Dalla quale antichità la prosa, obbligata
ad accostarsi all'uso corrente, sempre più s'allontana. Ond'è che il linguaggio
prosaico si scosti per vero dire esso stesso dal poetico (piuttosto che questo
da quello) ma non in quanto poetico, solo in quanto seguace dell'antico, e fermo
(quanto più si può) all'antico, da cui il prosaico s'allontana. Del resto il
linguaggio {e lo stile} delle poesie di Parini, Alfieri, Monti, Foscolo è {molto} più propriamente e più perfettamente poetico e
distinto dal prosaico, che non è quello di verun altro de' nostri poeti, inclusi
nominatamente i più classici e sommi antichi. Di modo che per quelli e per gli
altri che li somigliano, e per l'uso de' poeti di questo e dell'ultimo secolo,
l'italia ha oggidì una lingua poetica {a parte, e} distinta affatto dalla prosaica, una doppia
lingua, l'una prosaica l'altra
3419 poetica, non
altrimenti che l'avesse la grecia, e più che i latini. Ed
è stato anche osservato (da Perticari sulla fine del Tratt. degli Scritt. del Trecento)
che nella universale corruzione della lingua e stile delle nostre prose e del
nostro familiar discorso accaduta nell'ultima metà del passato secolo, e ancora
continuante, la lingua de' poeti si mantenne quasi pura e incorrotta, non solo
ne' migliori o in chi pur seguì un buono stile, ma ne' pessimi eziandio, e negli
stili falsi, tumidi, frondosissimi, ridondanti, strani o imbecilli degli
arcadici, de' frugoniani, bettinelliani ec. Così pure era accaduto ne' barbari poeti del
secento. La cagione di ciò è facile a raccorre da queste mie osservazioni, le
quali sono ben confermati[confermate] da questi
fatti. Laddove egli è pur certo che riguardo alla prosa, lo stile non si
corrompe mai che non si corrompa altresì la lingua, nè viceversa, nè v'ha {prosatore} alcuno di stile corrotto e lingua incorrotta;
del che puoi vedere le pagg.
3397-9. (12. Sett. 1823.)
[3461,1]
3461 I poeti latini (e proporzionatamente gli altri
scrittori secondo che lor conveniva) usarono la mitologia greca, non per lo aver
preso da' greci la loro letteratura e poesia, ma perchè, o da' greci o
d'altronde ch'e' ricevessero la loro religione, essa mitologia alla religion
latina apparteneva niente meno che alla greca, e nel
Lazio non meno che in grecia
era cosa popolare e creduta dal popolo. Laonde se questa o quella favola
adoperata, accennata ec. dagli scrittori o poeti latini, fu tolta da' greci, o
ch'ella fosse stata primieramente e di netto inventata da qualche greco poeta, o
che in grecia e non nel Lazio ella
fosse sparsa {ec.,} non perciò segue che la mitologia
dagli scrittori latini usata, non fosse, com'ella fu, altrettanto latina che
greca. Perocchè il fabbricare, per dir così, sul fondamento delle opinioni
popolari, fu sempre lecito ai poeti, anzi fu loro sempre prescritto. Laonde se i
poeti latini fabbricarono su tali opinioni popolari nazionali, o dell'altrui
fabbriche sì servirono, o rami stranieri innestarono sul tronco domestico, niuno
di ciò li dee riprendere. Nè perciò
3462 essi vollero
introdurre un nuovo genere di opinioni popolari nella nazione e farne materia di
lor poesia; nè supposero falsamente un genere {un
sistema} di opinioni popolari che nella nazione non esisteva, ma su di
quel ch'esisteva in effetto, innestarono, fabbricarono, lavorarono. Similmente i
greci, da qualunque luogo pigliassero la loro mitologia, certo è che di là
presero eziandio la {loro} religion popolare, e che
{tra' greci} il sistema greco religioso e
mitologico, quanto alla sostanza, alla natura, alla principal parte ed al
generale, non fu prima de' poeti che del popolo. E se i letterati greci si
giovarono, come si dice, delle letterature o dottrine ec. egizie, indiane o
d'altre genti, non adottarono perciò nelle loro finzioni ch'avessero ad esser
popolari, e nazionali ec. le mitologie d'esse nazioni. L'aver noi dunque
ereditato la letteratura greca e latina, l'esser la nostra letteratura modellata
su di quella, anzi pure una continuazione, per così dire, di quella, non vale
perch'ella possa ragionevolmente usare la mitologia greca nè latina al modo che
quegli antichi l'adoperavano. Giacchè non abbiamo già noi colla
3463 letteratura ereditato eziandio la religione greca
e latina, nè i latini, come ho detto, usarono la mitologia greca perciò ch'essi
avevano adottato la greca letteratura; nè se la letteratura ebbero i greci dalla
Fenicia o donde si voglia, perciò fu che i greci
poeti e scrittori si valsero della mitologia di quella tal gente; ma fu per le
ragioni dette di sopra, e che nel nostro caso non hanno alcun luogo. Tutt'altre
sono le nostre opinioni popolari nazionali e moderne da quelle de' greci e de'
latini. E gli scrittori italiani o moderni che usano le favole antiche alla
maniera degli antichi, eccedono tutte le qualità della giusta imitazione.
L'imitare non è copiare, nè ragionevolmente s'imita se non quando l'imitazione è
adattata e conformata alle circostanze del luogo, del tempo, delle persone ec.
in cui e fra cui si trova l'imitatore, e per li quali imita, e a' quali è
destinata e indirizzata l'imitazione. Questa può essere imitazione nobile, degna
di un uomo, e di un alto spirito e ingegno,
3464 degna
di una letteratura, degna di esser presentata a una nazione. E una letteratura
fondata comunque su tale imitazione può esser nazionale e contemporanea e
meritare il nome di letteratura. Altrimenti l'imitazione è da scimmie, e una
letteratura fondata su di essa è indegna di questo nome, sì per la troppa viltà,
essendo letteratura da scimmie, sì perchè una letteratura che tra' suoi è
forestiera, e a' suoi tempi antica, non può esser letteratura per se, ma al più
solo una parte d'altra letteratura o una copia da potersi guardare, se fosse
però perfetta (ch'è sempre l'opposto) collo stesso interesse con cui si guarda
una copia d'un quadro antico ec. e niente più. Veramente pare che i nostri poeti
usando le antiche favole (come già i più antichi italiani e forestieri scrivendo
in latino) affettino di non essere italiani ma forestieri, non moderni ma
antichi, e se ne pregino, e che questo sia il debito della nostra poesia e
letteratura, non esser nè moderna nè nostra ma antica ed altrui. Affettazione e
finzione barbara,
3465 ripugnante alla ragione, e colla
qual macchia una poesia non è vera poesia, una letteratura non è vera
letteratura. Come non è nè letteratura nè lingua nostra quella letteratura e
quella lingua che oggidì usano i nostri pedanti affettando e simulando di esser
antichi italiani, e dissimulando al possibile di essere italiani moderni, di
aver qualche idea che gl'italiani antichi non avessero perchè non poterono,
(così forse fece Cic. verso Catone antico ec. o Virgilio verso Ennio ec.?) ec. ec. Onde segue che noi oggi non abbiamo letteratura
nè lingua, perchè questa non essendo moderna, benchè italiana, non è nostra, ma
d'altri italiani, e perchè non si dà nè si diede mai {nè può
darsi} letteratura che a' suoi tempi non sia moderna; e dandosi, non è
letteratura.
[3471,2]
Alla p. 2916.
Questa uniformità di stile in europa viene ancora da
questo che tutte le moderne letterature son venute in principio dalla
francia (anche quel che v'ha nella letteratura {{e nello stile}} italiano e spagnuolo di moderno); laonde
e gli stili nelle diverse lingue {d'europa} sono conformi {tra loro} di genere, perchè tutti derivati da una stessa
fonte; e poca varietà
3472 hanno ciascun d'essi stili
verso se medesimo, perchè tutti derivati originariamente da uno stile che non ne
ha veruna, e molti modificantisi tuttavia su di questo.
[3749,2] La lingua latina illustre fu, non solo tra le
antiche, ma forse fra tutte, la più separata e diversa, e la meno influita e
dominata dalla volgare. Parlo della lingua latina illustre prosaica (ch'è poco
dissimile dalla poetica) {+rispetto
all'altre pur prosaiche} perchè p. e. la lingua poetica greca fu certo
(almen dopo Omero ec.) anche più divisa
ec. dalla greca volgare. Ma ciò come poetica, non come illustre, e qualunque
linguaggio {appo qualunque nazione} è veramente poetico
e proprio della poesia, di necessità e per natura sua è distintissimo dal
volgare; chè tanto è quasi a dir linguaggio proprio poetico, quanto linguaggio
diverso assai dal volgare. {+S'egli ha ad
esser {assai} diverso dal prosaico illustre, molto
più dal volgare.} Fra le lingue illustri moderne, la più separata e
meno dominata dall'uso, è, cred'io, l'italiana, massime oggi, perchè
l'italia ha men società d'ogni altra colta nazione, e
perchè la letteratura fra noi è molto più esclusivamente che altrove, propria
de' letterati, e perchè l'italia non ha lingua illustre
moderna ec. Per tutte queste ragioni la
3750 lingua
italiana illustre è forse di tutte le moderne quella che meglio e più
generalmente osserva e conserva la proprietà delle voci e modi. Ciò presso i
buoni scrittori, cioè quelli che ben posseggono e trattano la lingua illustre, i
quali {{oggi}} son men che pochissimi, e quelli che
scrivono la lingua illustre, i quali oggi sono in minor numero di quelli che non
la scrivano, o il fanno più di rado che non iscrivono la volgare. Perocchè oggi
la lingua più comunemente scritta e intesa in italia
nelle scritture, non è l'illustre ma la barbara e corrotta volgare; e però ella
non conserva punto la proprietà delle parole ec. ma sommamente se n'allontana,
come fa la volgare. E p. e. quel fisico e morale, fisicamente e moralmente
{ec.} nel senso francese, è oggi del volgare italiano,
e dello scritto non illustre, non men ch'e' sia dell'illustre e del volgare
francese ec. Ma presso i nostri buoni scrittori di qualunque secolo (non che gli
ottimi), si vedrà forse più che in niun'altra lingua illustre moderna,
3751 osservata e conservata la proprietà delle parole e
dei modi ec. Cioè l'uso loro esser totalmente e sempre, o quasi totalmente e
quasi sempre, o più e più spesso che nell'altre lingue illustri, e in {assai} maggior numero di parole e modi ec., conforme al
significato ch'essi ebbero da principio nella lingua e ne' primitivi scrittori
italiani, ed anche alla loro {nota} etimologia, ed al
senso ed uso ch'essi ebbero nella lingua onde alla nostra derivarono, cioè
massimamente nella latina, madre della nostra. Certo la proprietà latina
nell'uso e significato delle parole e dei modi, {+(siccome la forma, lo spirito ec. della latinità, della
dicitura latina, il modo dell'orazione in genere, del compor le parole,
dell'esporre e ordinar le sentenze, dello stile ec. ec. E quanto a queste
cose, anche in ordine alla lingua greca l'italiano illustre è la lingua più
simile ch'esista ec. ec.)} è molto meglio e in assai maggior parte
conservata nell'italiano veramente illustre, per insino al dì d'oggi, che in
alcun[alcun'] altra lingua; e forse più
nell'italiano illustre degli ultimi nostri buoni scrittori, che nel linguaggio
de' più antichi e migliori scrittori francesi, spagnuoli ec. (21. Ott.
1823.).
[3829,1] Lo stato della letteratura spagnuola oggidì (e dal
principio del 600 in poi), è lo stesso affatto che quello dell'italiana, eccetto
alcuni vantaggi di questa, ed alcune diversità di circostanze, che non mutano la
sostanza del caso. Come noi (al paro di tutti gli altri stranieri) non dubitiamo
che la spagna non abbia nè lingua nè letteratura moderna
propria, e dal 600. in poi non l'abbia mai avuta, così non dobbiamo dubitare che
non sia altrettanto in italia, e ciò dal 600. in poi,
come gli stranieri, e forse tra questi anche gli spagnuoli (che del fatto loro
non converranno), punto non ne dubitano. Quello che noi vediamo chiaro in altrui
e nel lontano, ci serva di specchio e di esempio per ben vedere, per accorgerci,
per conoscere e concepire il fatto nostro, e quello ch'essendoci proprio e
troppo vicino, non suol vedersi nè conoscersi mai bene, sì per l'inganno
dell'amor proprio, sì perchè la stessa vicinanza nuoce alla vista, e l'abitudine
di continuamente vedere impedisce o difficulta l'osservare, il notare,
l'attendere, il por mente, l'avvedersi. L'opinione che abbiamo di quelli
stranieri c'istruisca
3830 di quella che dobbiamo avere
di noi, e le ragioni di quella si applichino al caso nostro, chè ben vi sono
applicabili ec.
[3855,1] Tra le cagioni del mancar noi (e così gli spagnuoli)
di lingua e letteratura moderna propria, si dee porre, e per prima di tutte, la
nullità politica e militare in cui è caduta l'italia non
men che la Spagna dal 600 in poi, epoca appunto da cui
incomincia la decadenza ed estinzione delle lingue e letterature proprie in
italia e in ispagna. Questa
nullità si può considerare e come una delle cagioni del detto effetto, e come la
cagione assoluta di esso. Come una delle cagioni, perocchè se noi manchiamo oggi
affatto di voci moderne proprie italiane e spagnuole, politiche e militari, ciò
viene perchè gl'italiani e spagnuoli non hanno più, dal 600 in poi, nè affari
politici propri, nè milizia propria. Fino dall'estinzione
dell'imperio romano, l'italia
è stata serva, perchè divisa; ma sino a tutto il 500 la milizia italiana propria
ha esistito, e le corti e repubbliche italiane hanno operato da se, benchè
piccole e deboli. Il governo era in mano d'italiani, le dinastie erano italiane
in assai maggior numero che poi non furono
3856 ed or
non sono. Influiti e dominati da' governi e dagli eserciti stranieri, i governi
e gli eserciti italiani, chè tali essi erano ancora, agivano tuttavia essi
medesimi, ed avevano affari. Essi erano che si davano agli stranieri, quando a
questo, quando a quello, che li chiamavano, che gli scacciavano, o contribuivano
a ciò fare, che si alleavano cogli stranieri, o contro di loro, con altri
stranieri, o con altri italiani, contro altri italiani, o a favore. L'amicizia
de' governi italiani, ancorchè piccolissimi, delle stesse singolari città, era
considerata e ricercata dagli stranieri, e la nemicizia temuta; e in qualunque
modo i governi e le città italiane erano allora nemiche o amiche di questa o
quella straniera potenza. Gl'italiani agivano per se presso o nelle corti
straniere, e gli stranieri presso gl'italiani. {+V. p.
3887.} Quindi è che noi avevamo allora a dovizia voci politiche
e militari; più a dovizia ancora delle altre nazioni, perchè la politica e il
militare, ridotti ad arte e scienza tra noi, non lo erano presso gli altri.
Negli storici, negli scrittori tecnici di politica o di milizia, o d'altre
materie appartenenti, e generalmente negli scrittori italiani avanti il
seicento, non troverete mai difficoltà veruna di esprimersi in checchessia che
spetti agli affari pubblici, economia pubblica, diplomatica, negoziazioni,
politica, e a qualsivoglia parte dell'arte militare; mai povertà; {e} mai li vedrete ricorrere a voci straniere, o che
possano pur sospettarsi tali: al contrario li vedrete franchissimi
3857 nell'espressione di tali materie, anzi ricchissimi
e abbondantissimi, esattissimi, provvisti di termini per ciascuna cosa e parte
di essa, ed anche di più termini per ciascuna, voci tutte italianissime e tanto
italiane quanto or sono francesi quelle di cui i francesi e noi ed anche altri
in tali materie si servono; e queste voci e questi termini ben si vede che non
erano inventati da quegli scrittori, nè debbonsi al loro ingegno, ma all'uso
della favella italiana d'allora, e che erano fra noi (come anche fuori non
poche[pochi]) comunissimi, notissimi, e di
significato ben certo e determinato. La più parte di questi, dal 600. in poi,
perduti nell'uso del favellare, {lo furono e lo sono}
conseguentemente nelle scritture, di modo che le stesse cose ancora, che noi a
que' tempi con parole italianissime, e con più parole eziandio, chiarissimamente
e notissimamente esprimevamo, or non le sappiamo esprimere che con voci
straniere affatto, o se queste ci mancano, e son troppo straniere per potersi
introdurre, o non furono ancora introdotte, non possiamo esprimer quelle cose in
verun modo. Moltissime di quelle voci, usandole, sarebbero intese fra noi anche
oggidì nel lor proprio e perfetto senso, come allora, e non farebbero oscurità.
Ma moltissime, sostituite alle straniere che or s'usano, riuscirebbero oscure,
parte per la nuova assuefazione fatta a queste altre voci,
perchè[parte] perchè il loro senso non
sarebbe più inteso così determinatamente come
3858
allora. E il simile dico di molte voci con cui potremmo esprimer cose per cui
non abbiamo nemmen voci straniere, o che a questi pur manchino, o che tra noi
non sieno state ancora introdotte. Moltissime voci militari, civili e politiche
sì del nostro 300, sì dello stesso 500, benchè significative di cose or
notissime e comunissime, son tali che noi ora, leggendole negli antichi, o non
le intendiamo, o non senza studio, o non avvertiamo, almen senza molta acutezza
e attenzione, {o imperfettamente} la loro
corrispondenza con quelle che oggi ne' medesimi casi comunemente usiamo. Altresì
ci accade {non di rado} tale incertezza nelle voci
significative di cose, or non più comuni, e spesso in queste ci accade più che
nell'altre. Ecco come, mancati gli affari politici e la milizia in
italia, la nostra nazione non ha nè può avere, nè
ebbe dal 600 in poi, lingua moderna propria per significar le cose politiche e
militari, non ch'ella mai non l'abbia avuta, anzi l'ebbe, ma l'ha perduta, o non
l'ha se non antica. E nello stesso modo proporzionatamente e ragguagliatamente
discorrasi della Spagna.
[4066,1]
4066 La maniera familiare che come più volte ho detto
pp. 1808-10
pp. 2639-40
pp. 2836-41
pp. 3009. sgg.
pp. 3014-17
p. 3415, fu necessariamente scelta da' nostri classici antichi, o
necessariamente v'incorsero senz'avvedersene ed anche fuggendola, può ora in
parte o in tutto sfuggire massimamente alle persone di naso poco acuto, e a
quelle non molto esercitate e profonde nella cognizione, nel sentimento e nel
gusto dell'antica e buona lingua e stile italiano, che è quanto dire a quasi
tutti i presenti italiani. Ciò viene, fra l'altre cose, perchè quello che allora
fu familiare nella lingua, or non lo è più, anzi è antico ed elegante, ovvero è
arcaismo. Non per tanto è men vero quel che io altrove ho detto. Anzi è tanto
vero, che anche dopo che la lingua aveva acquistato la materia e i mezzi e la
capacità della eleganza e del parlar distinto da quello del volgo e dall'usuale,
si è pur seguitato sì nel 500 e 600 sì nel presente secolo da molti cultori e
amatori dello scriver classico, a usare una maniera familiare, sovente non
avvedendosene o non intendendo bene la proprietà e qualità della maniera che
sceglievano e usavano, e sovente anche {intendendo,}
credendo di usare una maniera elegante. E ciò si è fatto in due modi. O
adoperando le stesse forme antiche, le quali oggi non sono più familiari, anzi
eleganti, onde n'è risultata opinione di eleganza a tali stili ed opere
modellate sull'antico, ma veramente esse hanno del familiare, perchè il totale
dello stile antico da essi imitato, necessariamente ne aveva anche
indipendentemente dalle forme, bensì per cagion loro e per conformarsi e
corrispondere ad esse {forme} che allora erano
necessariamente familiari. Ovvero adoperando le forme familiari moderne a
esempio e imitazione degli antichi, e della familiarità che nelle forme e nello
stile loro si scorgeva, benchè non bene intendendola, e sovente confondendo sì
la familiarità imitata sì quella
4067 che adoperavano
ad imitarla, colla eleganza, dignità e nobiltà e col dir separato dall'usuale,
perciò appunto che la familiarità in genere non era {e non
è} più usuale, e l'uso della medesima è proprio degli antichi. Il
terzo modo, che sarebbe quello di usar l'antico e il moderno e tutte le risorse
della lingua, in vista e con intenzione di fare uno stile e una maniera nè
familiare nè antica, ma elegante in generale, nobile, maestosa, distinta affatto
dal dir comune, e proprio di una lingua che è già atta allo stile perfetto,
quale è appunto quello di Cicerone nella
prosa e di Virgilio nella poesia (stile
usato quando la lingua latina era appunto in {quelle
circostanze e} quello stato di capacità in cui è ora la lingua
nostra); questo terzo modo non è stato non che usato, ma concepito nè inteso da
quasi niuno, comechè egli è forse il solo conveniente, il solo perfetto, e
convenevole a una lingua {e letteratura già} perfetta.
(8. Aprile. 1824.).
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