Novità nelle lingue.
Novelty in languages.
Vedi Libertà nelle lingue. See Freedom in languages. 735,1 784,1 785,1 1046,2 1056,1 1070,1 1213,1 1237,1 1238,2 1292,1 1304,1 1316,1 1332,1 1422,2 1424,1 1490,1 1499,1 1768,1 2227,1 2335,2 2386,3 2390,2 2397,2 2400,2 2443,1 2500,2 2611,2 2632 2648,1 2663,1 2664,2 2715,2 2721,1-4 2722,1 2723,1 2756 3192,1 3235,2 3389,1 3764,1 3829,1 3855,1 3863,2[735,1] La lingua greca da' suoi principii fino alla fine, non
lasciò mai di arricchirsi, e acquistar sempre, massimamente nuovi vocaboli. Non
è quasi scrittor greco {di qualsivoglia secolo,} che
venga nuovamente in luce, il quale non possa servire ad impinguare il
vocabolario greco di qualche novità.
736 Non è secolo
della buona lingua greca (la quale si stende molto innanzi, cioè almeno a Costantino, giacchè credo che S. Basilio e S. Crisostomo si citino nel Glossario sebbene anche nel Vocabolario) ne' cui scrittori la
lingua non si trovi arricchita di nuove voci e anche modi, che non si osservano
ne' più antichi. E questi incrementi erano tutti della propria sostanza e del
proprio fondo, giacchè la lingua greca fu oltremodo schiva d'ogni cosa
forestiera, ma trovava nelle sue radici e nella immensa facilità e copia de'
suoi composti, la facoltà di dir tutto quello che bisognava, e di conformare la
novità delle parole alla novità delle cose, senza ricorrere ad aiuti stranieri.
Insomma il tesoro e la natura, e non solamente ricchezza, ma fertilità naturale
e propria della lingua greca, era tale da bastare da per se sola, a tutte le
novità che occorresse di esprimere, come un paese così fertile che fosse
sufficiente ad alimentare
737 qualunque numero di nuovi
abitatori o di forestieri. E questo si può vedere manifestamente anche per
quello che interviene oggidì. Giacchè in tanta diversità di tempi e di costumi e
di opinioni, in tanta novità di conoscenze e di ritrovati, e fino d'intere
scienze e dottrine, qualunque novità massimamente scientifica occorra di
significare e denominare, si ha ricorso alla lingua greca. Nessuna lingua viva,
ancorchè pure le lingue vive sieno contemporanee alle nostre cognizioni e
scoperte, si stima in grado di bastare a questo effetto, e s'invoca una lingua
morta e antichissima per servire alla significazione ed enunziazione di quelle
cose a cui le lingue viventi e fiorenti non arrivano. La rivoluzione francese,
richiedendosi alla novità delle cose, la novità delle parole, ha popolato il
vocabolario francese ed anche europeo, di nuove voci greche. La fisica, la
Chimica, la storia naturale, le matematiche,
738 l'arte
militare, la nautica, {la medicina, la metafisica} la
politica ogni sorta di scienze o discipline, ancorchè rinnovellate e
diversissime da quelle che si usavano o conoscevano dagli antichi greci,
ancorchè nuove di pianta, hanno trovato in quella lingua il capitale sufficiente
ai bisogni delle loro nomenclature. Ogni scienza o disciplina nuova, comincia
subito dal trarre il suo nome dal greco. E questa lingua ancorchè da tanti
secoli spenta, resta sempre inesauribile, e provvede a tutto, e si può dire che
prima mancherà all'uomo la facoltà di sapere di conoscere e di scoprire, prima
saranno esaurite tutte le fonti dello scibile, di quello che manchi alla lingua
greca la facoltà di esprimerlo, e sia inaridita la fonte delle sue denominazioni
e parole. Il qual uso, ancorchè io lo biasimi e condanni per le ragioni che ho
dette altrove p. 48
p.
50, non è però che non renda evidente e palpabile l'onnipotenza
immortale di quella lingua.
[784,1]
784 Da torvo parola
italianissima e di Crusca, il
Caro nell'Eneide (l. 2. dove parla del simulacro di Pallade) fece torvamente, parola che
non si trova nel Vocabolario. Ci può esser voce più chiara, più
naturale, e ad un tempo più italiana di questa? Ma perchè non
ista[istà] scritta nella
Crusca, e perchè a quegli Accademici non piacque di porre la
{famosissima}
Eneide del Caro fra i testi, avendoci messo tanti libracci, però quella voce non
si potrà usare? Questo lo dico per un esempio, ὡς ἐν τύπῳ. Del resto questo è un
derivato senza ardire nessuno, e sebbene anche di questa specie se ne danno
infiniti, e così anche giovano moltissimo alla lingua, sì per la moltitudine, sì
anche individualmente; nondimeno sono forse di maggior utile i derivati, o usi
nuovi di parole o modi già correnti, fatti con un certo ardire. Ma ho portato
questo esempio per dimostrare come si possano far nuovi derivati dalle nostre
proprie radici, che sebbene nuovi, abbiano lo stessissimo aspetto delle parole
vecchie e usitate, {sì per la chiarezza che per la
naturalezza, per la forma, suono ec.} e quindi sieno tanto italiane
quanto la stessa italia. Del qual genere se ne danno,
come ho detto, infiniti a ogni passo. (15. Marzo
785 1821).
[785,1] Tutto quello che ho detto della derivazione di nuove
parole o modi ec. dalle proprie radici, o dei nuovi usi delle parole o modi già
correnti, lo voglio estendere anche alle nuove radici, non già straniere, non
già prese dalle lingue madri, ma italiane, e non già d'invenzione dello
scrittore, ma venute in uso nel linguaggio della nazione, o anche nelle
scritture anche più rozze ed impure, purchè quelle tali radici abbiano le
condizioni dette di sopra in ordine ai nuovi derivati ec. E queste nuove radici
possono esser nuove in due sensi, o nuove nella scrittura, ma antiche nell'uso
quotidiano; o nuove ancora in questo. {V. p. 800.
fine.} Qui non voglio entrare nelle antichissime
quistioni, qual popolo d'italia, qual classe ec. abbia
diritto di somministrar nuovi incrementi alla lingua degli scrittori. Osserverò
solamente 1. quel luogo di Senofonte
circa la lingua attica che ho citato p.
741. in marg. notando che la grecia si trovava
appunto nella circostanza dell'italia per la varietà dei
dialetti, e che quello che prevalse
786 fu quello che
tutti gli abbracciò (come dice quivi Senofonte) cioè l'attico, come quello che fra noi si chiama
propriamente italiano. Giacchè c'è gran differenza tra quell'attico usitato da'
buoni scrittori greci, divulgato per tutto, quello di cui parla Senofonte ec. ec. e l'attico proprio.
Nello stesso modo fra il toscano proprio, e il toscano sinonimo d'italiano.
{V. p. 961. capoverso 1.} 2. Che
senza entrare in discussioni è ben facile il distinguere (almeno agli uomini
giudiziosi, perchè già senza buon giudizio non si scriverà mai bene per nessun
verso) se una parola usitata in questa o quella parte
d'italia, non però ammessa ancora o nelle scritture o
nel vocabolario, ec. abbia le dette condizioni, cioè sia chiara, facile,
inaffettata, di sapore di suono di forma italiana. (Giacchè di origine italiana,
è sempre ch'ella è usata in italia da molti, purchè non
sia manifestamente straniera, e questo di recente venuta; mentre infinite sono
le antiche parole straniere domiciliate, e fatte cittadine della nostra
lingua.). In questo caso qualunque sia la parte d'italia
che la usa, una voce, una frase qualsivoglia sarà sempre
787 italiana, e salva quanto alla purità, restando che per usarla
nelle scritture si considerino le altre qualità necessarie {oltre la purità} ad una voce o frase per essere ammessa nelle
scritture, e in questo o quel genere di scrittura, in questa o quella occasione
ec. 3. Che tutte le lingue crescono in questo modo, cioè coll'accogliere, e
porre nel loro tesoro le nuove voci create dall'uso della nazione; e che come
quest'uso è sempre fecondo, così le porte della scrittura e della cittadinanza,
sono sempre aperte, per diritto naturale, a' suoi novelli parti, in tutte le
lingue, fuorchè nella nostra, secondo i pedanti. E questa è una delle massime, e
più naturali e legittime e ragionevoli fonti, della novità, e degl'incrementi
necessari della favella. Perchè cogl'incrementi delle cognizioni, e col
successivo variar degli usi, opinioni, idee, circostanze intrinseche o
estrinseche ec. ec. crescono le parole {e il tesoro della
lingua} nell'uso quotidiano, e da quest'uso debbono passare nella
scrittura, se questa ha da parlare ai contemporanei, e da contemporanea, e delle
cose del tempo ec. Così cresce ogni momento di parole proprissime e
francesissime
788 la lingua francese, mediante quel
fervore e quella continua vita di società e di conversazione, che non lascia
esser cosa bisognosa di nome, senza nominarla; massime se appartiene all'uso del
viver civile, o alle comuni cognizioni della parte colta della nazione: e per
l'altra parte mediante quella debita e necessaria libertà, che non fa loro
riguardare come illecita una parola in ogni altro riguardo buona, e francese, ed
utile, e necessaria, per questo solo che non è registrata nel
Vocabolario, o non anche adoperata sia nelle scritture in
genere, sia nelle riputate e classiche. 4. Ripeterò quello che ho detto della
necessità di ammettere la giudiziosa novità a fine appunto di impedire che la
lingua non diventi barbara. Perchè la novità delle cose necessitando la novità
delle parole, quegli che non avrà parole proprie e riconosciute dalla sua
lingua, per esprimerle; forzato dall'imperioso bisogno ricorrerà alle straniere,
e appoco appoco si romperà ogni riguardo, e trascurata la purità della lingua,
si cadrà del tutto nella barbarie.
789 Il che si può
vedere, oltre l'esempio nostro, per quello della lingua latina, perchè questa
parimente, dopo Cicerone, mancata, o per
trascuraggine e ignoranza, come ho detto altrove pp. 750-51, e per
non trovarsi nè così perfetti possessori, e assoluti padroni della lingua, nè
così industriosi, oculati, giudiziosi, solerti, artifiziosi coltivatori del di
lei fondo, e negoziatori della sua merce e capitali, come Cicerone; o per timidità, scoraggimento, falsa e
dannosa opinione che la ricchezza della lingua fosse già perfetta, o ch'ella in
quanto a se non fosse più da crescere nè da muovere, nè da toccare; o per
superstizione di pedanti che sbandissero le nuove voci tratte dall'uso, o dalle
radici della lingua, come mancanti di autorità competente di scrittori (il che
veramente accadeva, come si vede in Gellio); o anche per falsa
opinione che le radici o l'uso, o insomma il capitale proprio della lingua non
avessero effettivamente più nulla da dare, che facesse al caso, o convenisse
alle scritture ec. ec: mancata dico per tutte queste ragioni alla lingua latina
la debita libertà, e la
790 giudiziosa novità, ebbe
ricorso, per bisogno, allo straniero, e degenerò in barbaro grecismo. E come,
per fuggir questo male, è necessario dar giusta e ragionata (non precipitata, e
illegittima, e ingiudicata e anarchica) cittadinanza anche alle parole
straniere, se sono necessarie, molto più bisogna e ricercare con ogni diligenza,
e trovate accogliere con buon viso, e ricevere nel tesoro della buona e
scrivibile e legittima favella, sì i derivati delle buone e già riconosciute
radici, sì le radici che non essendo ancora riconosciute, vanno così vagando per
l'uso della nazione, senza studio nè osservazione, di chi le fermi, le cerchi,
le chiami, le inviti, e le introduca a far parte delle voci o modi riconosciuti,
e a partecipare degli onori dovuti ai cittadini della buona lingua. 5. In ultimo
osserverò che non si hanno da avere per forestiere quelle voci o frasi, che
benchè tali di origine hanno acquistato già stabile e comune domicilio nell'uso
quotidiano, e molto più se nelle scritture di vaglia. Queste voci o frasi sono
791 come naturalizzate, e debbono partecipare ai
diritti e alle considerazioni delle sopraddette. Altrimenti siamo da capo,
perchè una grandissima parte delle nuove voci e frasi di cui s'accresce l'uso
quotidiano, vengono dallo straniero. E tutte le lingue ancorchè ottime, ancorchè
conservate nella loro purità, ancorchè ricchissime, si accrescono col commercio
degli stranieri, e per conseguenza con una moderata partecipazione delle loro
lingue. Le cognizioni, le cose di qualunque genere che ci vengono dall'estero, e
accrescono il numero degli oggetti che cadono nel discorso, o scritto o no, e
quindi i bisogni della denominazione e della favella, portano naturalmente con
se, i nomi che hanno presso quella nazione da cui vengono, e da cui le
riceviamo. Come elle son nuove, così nella lingua nostra, non si trova bene
spesso come esprimerle appositamente e adequatamente in nessun modo. L'inventar
di pianta nuove radici nella nostra lingua, è impossibile all'individuo, e
difficilissimamente e rarissimamente accade nella nazione, come si può
facilmente osservare:
792 e questo in tutte le lingue,
perchè ogni nuova parola deve aver qualche immediata e precisa ragione per
venire in uso, e per esser tale e non altra, e per esser subito e generalmente e
facilmente intesa {e applicata a quel tale oggetto, e
ricevuta in quella tal significazione;} il che non può avvenire
mediante il capriccio di un'invenzione arbitraria. Di più, c'è forse lingua che
ne' suoi principii e di mano in mano non sia stata composta di voci straniere e
d'altre lingue? Quante ne ha la lingua nostra prese dal francese, dallo
Spagnuolo, dalle lingue settentrionali, e tuttavia riconosciute, e
necessariamente, e legittimamente divenute da gran tempo italiane? Come in fatti
si formerebbe una lingua senza ciò? colla sola invenzione a capriccio, o
mediante un trattato, un accordo fatto espressamente, e individuo per individuo,
da tutta la nazione? Perchè dunque quello ch'era lecito anzi necessario ne'
principii e dopo, non sarà lecito ora nel caso della stessa necessità
relativamente a questa o quella parola? Così fa tuttogiorno la lingua francese,
così
793 hanno fatto e fanno necessariamente e per
natura tutte le lingue antiche e moderne. E sebbene la lingua greca fosse così
schiva d'ogni foresteria, anche per carattere nazionale, come si è veduto
dall'aver essa mantenuta la sua purità forse più lungo tempo di tutte le altre,
e anche in mezzo alla corruzione totale della {sua}
letteratura, ec. e alla schiavitù straniera della nazione, al commercio ai
viaggi antichi e moderni, alla dimora di tanti suoi nazionali in
Roma ec. ec. (come Plutarco) nondimeno la lingua attica, riconosciuta più universalmente
di qualunque altra dagli scrittori per lingua propriamente greca, e fra le
greche elegantissima, bellissima e purissima, attesta Senofonte
nel luogo citato da me p. 741. ch'era un misto non solo
di ogni sorta di voci greche, ma anche prese da ogni sorta di barbari, mediante
il commercio marittimo degli Ateniesi, e la cognizione ed uso di oggetti
stranieri, che questo commercio proccurava loro, come dice pure Senofonte. Che se la necessità,
naturale come ho
794 detto, e comune a tutte le lingue,
porta a ricevere per buone anche le voci straniere, entrate recentemente
nell'uso quotidiano, o non ancora entratevi nemmeno (purchè siano
intelligibili), tanto più quelle che colla molta dimora fra noi, si sono
familiarizzate e domesticate co' nostri orecchi, ed hanno quasi perduto l'abito,
e il portamento, e la sembianza, e il costume straniero, o certo l'opinione di
straniere. Anzi queste pure vanno cercate sollecitamente, ed accolte, e
preferite, per sostituirle, quanto sia possibile alle intieramente estranee.
Giacchè ripeto che con ogni cura bisogna arricchir la lingua del bisognevole, e
farlo con buon giudizio, ed esplorate le circostanze e la necessità ec. ec.
acciocchè non sia fatto senza giudizio, e senza previo esame, ma alla ventura e
illegittimamente; perocchè quella lingua che
non si accresce, mentre i soggetti della lingua moltiplicano, cade
inevitabilmente, e a corto andare nella barbarie.
[1046,2] Principalissime cagioni dell'essersi la lingua greca
per sì lungo tempo mantenuta incorrotta (v. Giordani nel fine della Lettera sul Dionigi) furono indubitatamente la sua
ricchezza, e la sua libertà d'indole e di fatto. La qual libertà produce in
buona parte la ricchezza; la qual libertà è la più
1047
certa, anzi necessaria, anzi unica salvaguardia della purità di qualunque
lingua. La quale se non è libera primitivamente e per indole, stante
l'inevitabile mutazione e novità delle cose, deve infallibilmente declinare
dalla sua indole primitiva, e per conseguenza alterarsi, perdere la sua
naturalezza e corrompersi: laddove ella conserva l'indole sua primitiva, se fra
le proprietà di questa è compresa la libertà. E quindi si veda quanto bene
provveggano alla conservazione della purità del nostro idioma, coloro che
vogliono togliergli la libertà, che per buona fortuna, non solo è nella sua
indole, ma ne costituisce una delle principali parti, e uno de' caratteri
distintivi. E ciò è naturale ad una lingua che ricevè buona parte di formazione
nel trecento, tempo liberissimo, perchè antichissimo, e quindi naturale, e
l'antichità e la natura non furono mai soggette alle regole minuziose e
scrupolose della ragione, e molto meno della matematica. Dico antichissimo,
rispetto alle lingue moderne, nessuna delle quali data da sì lontano tempo il
principio vero di una formazione molto inoltrata, e di una notabilissima
coltura, ed applicazione alla scrittura: nè può {di gran
lunga} mostrare in un secolo così remoto sì grande universalità e
numero di scrittori e di parlatori ec. che le servano anche oggi di modello. E
questa antichità
1048 di formazione e di coltura,
antichità unica fra le lingue moderne, è forse la cagione per cui l'indole
primitiva della lingua italiana formata, è più libera forse di quella d'ogni
altra lingua moderna colta (siccome pure dell'esser più naturale, più
immaginosa, più varia, più lontana dal geometrico ec.).
[1056,1]
1056
Alla p. 1038.
La lingua latina prima del detto tempo, ebbe anzi alcuni scrittori veramente
insigni, e come {scrittori di letteratura,} e come
scrittori di lingua; alcuni eziandio che nel loro genere furono così perfetti
che la letteratura romana non ebbe poi nessun altro da vincerli. Lasciando gli
Oratori nominati da Cic. e
principalmente i Gracchi (o C. Gracco), lasciando tanti altri {scrittori} perduti, come alcuni comici elegantissimi,
basterà nominar Plauto e Terenzio
{che ancora ammiriamo,} l'uno non mai superato in
seguito da nessun latino nella forza comica, l'altro parimente non mai
agguagliato nella più pura e perfetta e nativa eleganza. E certo (se non erro)
la Comedia latina dopo Cic.
{e al suo stesso tempo,} andò piuttosto indietro, di
quello che oltrepassasse il grado di perfezione a cui era stata portata da' suoi
antenati. E pure chi mette la perfezione della lingua latina, o la sua
formazione ec. piuttosto nel secolo di Terenzio, che in quello di Cic. e di Virgilio? E Lucrezio un secolo dopo Terenzio, si lagnava, com'è noto, della
povertà della lingua latina.
[1070,1] Quello che ho detto intorno alla novità delle parole
cavate dalla propria lingua, si deve anche applicare alla novità de' sensi e
significati d'una parola già usitata, alla novità delle metafore ec. V. Scelta di
opuscoli interessanti. Milano. Vol. 4. p.
54. 58 - 61. I quali nuovi e diversi significati d'una stessa parola,
non denno però esser tanti che dimostrino povertà, {e
producano} confusione, ed ambiguità, come nell'Ebraico. (20.
Maggio 1821.).
[1213,1] Da qualche tempo tutte le lingue colte di
europa hanno un buon numero di voci comuni, massime
in politica e in filosofia, ed intendo anche quella filosofia che entra
tuttogiorno nella conversazone, fino nella conversazione o nel discorso meno
colto, meno studiato, meno artifiziato. Non parlo poi delle voci pertinenti alle
scienze, dove quasi tutta l'europa conviene. Ma una
grandissima parte di quelle parole che esprimono cose più sottili, e dirò così,
più spirituali di quelle che potevano arrivare ad esprimere le lingue antiche e
le nostre medesime ne' passati secoli; ovvero esprimono le stesse cose espresse
in dette lingue, ma più sottilmente e finamente, secondo il progresso e la
raffinatezza delle cognizioni e della metafisica e della scienza dell'uomo in
questi ultimi tempi; {+e in somma tutte o
quasi tutte quelle parole ch'esprimono precisamente un'idea al
tempo stesso sottile, e chiara o almeno perfetta ed intera;}
grandissima parte, dico, di queste voci, sono le stesse in tutte le lingue colte
d'europa, eccetto piccole modificazioni particolari,
per lo più nella desinenza. Così che vengono a formare una specie di piccola
lingua, o un vocabolario, strettamente universale. E dico strettamente
universale, cioè non come è universale la lingua francese, ch'è lingua
secondaria
1214 di tutto il mondo civile. Ma questo
vocabolario ch'io dico, è parte della lingua primaria e propria di tutte le
nazioni, e serve all'uso quotidiano di tutte le lingue, e degli scrittori e
parlatori di tutta l'europa colta. Ora la massima parte
di questo vocabolario {universale} manca affatto alla
lingua italiana accettata e riconosciuta per classica e pura; e quello ch'è puro
in tutta l'europa, è impuro in
italia. Questo è voler veramente e consigliatamente
{metter} l'italia fuori di
questo mondo e fuori di questo secolo. Tutto il mondo civile facendo oggi quasi
una sola nazione, è naturale che le voci più importanti, ed esprimenti le cose
che appartengono all'intima natura universale, sieno comuni, ed uniformi da per
tutto, come è comune ed uniforme una lingua che tutta
l'europa adopera oggi più universalmente e
frequentemente che mai in altro tempo, appunto per la detta ragione, cioè la
lingua francese. E siccome le scienze sono state sempre uguali dappertutto (a
differenza della letteratura), perciò la repubblica scientifica diffusa per
tutta l'europa ha sempre avuto una nomenclatura
universale ed uniforme nelle lingue le più difformi, ed intesa da per tutto
egualmente. Così sono oggi uguali (per necessità e per natura del tempo) le
cognizioni metafisiche, filosofiche, politiche ec. la cui massa e il cui sistema
semplicizzato e uniformato, è comune oggi
1215 più o
meno a tutto il mondo civile; naturale conseguenza dell'andamento del secolo.
Quindi è ben congruente, e conforme alla natura delle cose, che almeno la
massima parte del vocabolario che serve a trattarle ed esprimerle, sia uniforme
generalmente, tendendo oggi tutto il mondo a uniformarsi. E le lingue sono
sempre il termometro de' costumi, delle opinioni ec. delle nazioni e de' tempi,
e seguono per natura l'andamento di questi.
[1237,1]
1237 Nè solamente col progresso dello spirito umano si
sono distinte e denominate le diverse parti componenti un'idea che gli antichi
linguaggi denominavano con una voce complessiva di tutte esse parti, o idee
contenute; ma anche si sono distinte e denominate con diverse voci non poche
idee che per essere in qualche modo somiglianti, o analoghe ad altre idee, non
si sapevano per l'addietro distinguer da queste, e si denotavano con una stessa
voce, benchè fossero essenzialmente diverse e d'altra specie o genere. V. p. e.
quello che ho detto p. 1199-200.
circa il bello, e quello ch'essendo piacevole alla vista, non è però bello, nè
appartiene alla sfera della bellezza, benchè ne' linguaggi comuni, si chiami
bello, e l'intelletto volgare non lo distingua dal vero bello.
[1238,2] Già non accade avvertire che tali parole universali
in europa, non riuscirebbero nè nuove, nè per verun conto
più difficili, oscure, incerte ai lettori italiani, di quello riescono agli
stranieri, non ostante che in italia non sieno
riconosciute per proprie della lingua, cioè per voci pure, nè ammesse ne'
Vocabolari. E di questo è cagione 1. l'uso giornaliero
1239 del parlare italiano, il quale vorrei che non avesse altro di
forestiero e di barbaro, che l'uso di siffatte parole. 2. l'uso di molti
scrittori italiani moderni, i quali parimente vorrei che non meritassero altro
rimprovero fuorchè di avere adoperato tali voci. 3. l'intelligenza e l'uso del
francese, familiare agl'italiani come agli altri, dal qual francese son
derivate, o nel quale son ricevute e comuni, e per via e mezzo del quale ci sono
ordinariamente pervenute o tutte o quasi tutte simili parole. Circostanza
notabile e favorevolissima all'introduzione di tali voci in nostra lingua,
mentre quasi tutte le moderne cognizioni, colle voci loro appartenenti, ci
vengono pel canale di una lingua sorella, e già ridotte in forma facilmente
adattabile al nostro idioma, massime dopo averci familiarizzato l'orecchio
mediante l'uso fattone da essa lingua 1o. sì comune in
italia
{e per tutto,} 2o. sì affine alla nostra (29.
Giugno, dì di S.
Pietro. 1821.).
[1292,1]
Alla p. 1242.
Non è dunque da maravigliarsi che la lingua italiana fra le moderne sia tenuta
la più ricca. (Monti.) Ho già mostrato come la vera fonte
della ricchezza delle lingue antiche, consistesse nella gran facoltà dei
derivati e de' composti, e come questa sia la principal fonte della ricchezza di
qualsivoglia lingua, e quella che ne manca o ne scarseggia, non possa esser mai
ricca. La lingua italiana la quale cede alla greca e latina nella facoltà de'
composti (colpa più nostra che sua), abbiamo veduto
1293 e si potrebbe dimostrare con mille considerazioni, che nella facoltà dei
derivati, e nell'uso che finora ha saputo fare di tal facoltà, piuttosto vince
dette lingue, di quello che ne sia vinta. Sarà dunque vero che la lingua
italiana sia la più ricca delle moderne, e questa superiorità sua, che una volta
fu effettiva (e per le dette ragioni), non passerà come parecchie altre, se noi
non la spoglieremo di quelle facoltà che la producono, e sole la possono {principalmente} produrre; e che per l'altra parte sono
proprie della sua indole. Cioè se non la spoglieremo della facoltà di crear
nuovi composti e derivati, disfacendo quello che fecero i nostri antichi.
Giacchè l'impedire alla lingua {+(e ciò
per legge costante) che non segua ad} che non esercitare le facoltà
generative datele da quelli che la formarono, {è lo stesso
che spogliarnela, e quindi} si chiama disfare e non conservare l'opera
dei nostri maggiori.
[1304,1] A quello che ho detto del linguaggio popolare, pochi
pensieri addietro, soggiungi. Il linguaggio popolare è {ricca
e} gran sorgente di bellissime voci e modi, non veramente alla lingua scritta, ma
propriamente allo scrittore. Vale a dire, bisogna che questo nell'attingerci,
nobiliti quelle voci e modi, le formi, le componga in maniera che non
dissuonino, nè dissomiglino dalle altre che l'arte ha introdotto nello scrivere,
ed ha polite, e insomma non disconvengano alla natura dello scrivere artifizioso
ed elegante. Non già le deve trasferir di peso dalla bocca del popolo alla
scrittura, se già non fossero interamente adattate per se medesime, o se la
scrittura non è di un genere triviale o scherzoso o molto familiare ec. Così che
io
1305 dico che il linguaggio popolare è una gran
fonte di novità ec. allo scrittore, nello stesso modo in cui lo sono le lingue
madri ec. le quali somministrano gran materia, ma tocca allo scrittore il
formarla, il lavorarla, e l'adattarla al bisogno, non già {solamente} trasportarla di netto, o adoperarla come la trova.
(10. Luglio 1821.).
[1316,1] La nostra lingua ha, si può dire, esempi di tutti
gli stili, e del modo nel quale può essere applicata a tutti i generi di
scrittura: fuorchè al genere filosofico moderno e preciso. Perchè vogliamo noi
ch'ella manchi e debba mancare di questo, contro la sua natura, ch'è di essere
adattata anche a questo, perchè è adatta a tutti gli stili? Ma nel vero,
quantunque l'esito sia certo, non s'è fatta mai la prova di applicare la buona
lingua italiana al detto genere, eccetto ad alcuni generi scientifici
1317 negli scritti del Galilei del Redi, e pochi
altri; ed alla politica, negli scritti del Machiavelli, e di qualche altro antico, riusciti perfettamente quanto
alla lingua, ed in ordine alla materia, quanto comportavano i tempi e le
cognizioni d'allora. Ma a {quel} genere filosofico che
possiamo generalmente chiamare metafisico, e che abbraccia la morale,
l'ideologia, la psicologia (scienza de' sentimenti, {delle
passioni} e del cuore umano) {+la logica, la politica più sottile,} ec. non è stata mai applicata la
buona lingua italiana. Ora questo genere è la parte principalissima e quasi il
tutto degli studi e della vita d'oggidì. (13. Luglio 1821.).
[1332,1] Altra gran fonte della ricchezza e varietà
1333 della lingua italiana, si è quella sua immensa
facoltà di dare ad una stessa parola, diverse forme, {costruzioni, modi ec.,} e variarne al bisogno il significato,
mediante detta variazione di forme, o di uso, {o di
collocazione ec.} che alle volte cambiano affatto il senso della voce,
alle volte gli danno una piccola inflessione che serve a dinotare una piccola
differenza della cosa primitivamente significata. Non considero qui l'immensa
facoltà delle metafore, proprissima, anzi essenziale della lingua italiana (di
cui non la potremmo spogliare senz'affatto travisarla), e naturale a spiriti
così vivaci {ed immaginosi} come i nostri nazionali.
Parlo solamente del potere usare p. e. uno stesso verbo in senso attivo,
passivo, neutro, neutro passivo; con tale o tal caso, e questo coll'articolo o
senza; {+con uno o più nomi alla volta, e
anche con diversi casi in uno stesso luogo;} con uno o più infiniti di
altri verbi, governati da questa o da quella preposizione, da questo o da quel
segnacaso, o liberi da ogni preposizione o segnacaso; co' gerundi; {con questo o quell'avverbio, o particella (che, se, quanto
ec.);} e così discorrendo. Questa facoltà non solamente giova alla
varietà ed alla eleganza che nasce dalla novità ec. e dall'inusitato, e in somma
alla bellezza del discorso,
1334 ma anche sommamente
all'utilità, moltiplicando infinitamente il capitale, e le forze della lingua,
servendo a distinguere le piccole differenze delle cose, e a circoscrivere la
significazione, e modificarla; potendo l'italiano esprimere facilissimamente
{e chiaramente,} mille cose nuove con parole
vecchie nuovamente modificate, ma modificate secondo il preciso gusto della
lingua ec. Questa facoltà l'hanno e l'ebbero qual più qual meno tutte le lingue
colte, essendo necessaria, ma la nostra lingua in ciò pure, non cede forse {e senza forse} nè alla greca nè alla latina, e vince
tutte le moderne. E l'è tanto propria una decisa singolarità e preminenza in
questa facoltà, che forma uno de' principali ed essenziali caratteri della
lingua italiana formata e applicata alla letteratura. Come dunque vogliamo
spogliarla di questo suo carattere proprissimo, e dell'utilità che ne risulta?
Come vorremo negare agli scrittori italiani la facoltà di continuare a
servirsene? Se essa fu data alla lingua da' suoi fondatori e formatori ec. E se
del tal uso della tal parola non si troverà esempio nel
Vocabolario, dovrà condannarsi, quantunque si abbiano mille
esempi perfettamente simili e della stessa natura in altre parole, e quantunque
il detto uso sia perfettamente d'accordo colla detta facoltà della lingua, e
colla sua indole? Perchè una lingua viva dovrà perdere le sue facoltà, che sole
in lei
1335 sono proprietà vive e feconde, e conservare
solamente il materiale delle parole e modi già usati e registrati, che sono
proprietà sterili, e rispetto alle dette facoltà, proprietà morte? Che matta
pedanteria si è questa di giudicare di una parola o di un modo, non
coll'orecchio nè coll'indole della lingua, ma col Vocabolario? vale a dire non
coll'orecchio proprio, ma cogli altrui. Anzi colla pura norma del caso. Giacchè
gli è mero caso che gll antichi abbiano usato o no tale o tal voce in tale o tal
modo ec. e che avendola pure usata, sia stata o no registrata e avvertita da'
Vocabolaristi. Ma non è caso ch'essi abbiano data o non data alla lingua la
facoltà di usarla ec. e che quella voce, {forma ec.}
convenga o non convenga colle proprietà della lingua {da
loro} formata, e col suo costume. {ec.} E
questo non si può giudicare col Vocabolario, ma coll'orecchio formato dalla
lunga ed assidua lettura e studio non del Vocabolario ma de' Classici, e pieno e
pratico, e fedele interprete e testimonio dell'indole della lingua, sola
solissima norma per giudicare di una voce {o modo} dal
lato della purità e del poterlo usare ec. E questa fu l'unica guida di tutti
quanti i Classici scrittori
1336 sì di tutte le lingue,
come della nostra prima del Vocabolario, dal quale che effetto
sia risultato in ordine alla stessa purità dello scrivere, e quanto egli abbia
giovato alla conservazione della purità della favella, a cui pare che dovesse
principalmente giovare, v. la pref. del Monti al 2. vol. della Proposta.
[1422,2] Figuriamoci la parola commercio in quel senso preciso, e al tempo stesso vastissimo, nel
quale tutto il mondo l'adopra oggidì, nel quale tanto se ne scrive, nel quale
tutti i filosofi considerano e trattano questo soggetto. La
Crusca non porta esempio di questa parola in questo senso,
{e veramente ella in tal senso non è classica.} Noi
abbiamo la voce {{classica,}}
mercatura che secondo l'etimologia ec. vale a presso a
poco lo stesso. Or dunque sarebb'egli ben detto, le forze,
gli effetti, la scienza della mercatura, in vece del commercio? Produrremmo noi quell'idea precisa ec. che produce
questa seconda voce? l'idea di quella cosa che (si può dire) nel
1423 passato secolo, si è ridotta a scienza, e fa tanta
parte delle considerazioni del filosofo, e ha tanta influenza sullo stato delle
nazioni, e del genere umano? Signor no: e s'io dirò, Principalissima sorgente di civiltà si è la mercatura, in
cambio di dire il commercio, non solamente non sarò
bene inteso nè dagli stranieri nè dagl'italiani, ma sarò deriso dagli uni e
dagli altri, e massime da questi. E se le {sue}
Lezioni di
commercio il nostro Genovesi le avesse intitolate Lezioni
di mercatura, avremmo noi medesimi potuto ben rilevare dal titolo il
soggetto dell'opera? {Così dico del Saggio sopra il
Commercio dell'Algarotti.} Ecco quanto importi l'attenersi
precisamente alle parole ricevute, e dalla convenzione precisamente applicate,
massime in fatto di scienze ec. quando anche s'abbiano parole più eleganti, più
classiche, e che in altri casi si possano benissimo adoperare in luogo delle più
comuni, come accade di mercatura, che si può bene
adoperare in molti casi, come si adopera traffico ec.
ma non dove il soggetto domanda quella precisione di significato ch'è propria
della voce Europea, commercio. (31.
1424 Luglio. 1821.). {{V. p.
1427.}}
[1424,1]
Ogni scienza, e ogni arte ha li suoi termini, e
vocaboli,
*
dice il Davanzati nella Notizia de' Cambj,
(Bassano 1782. p. 92.) il quale però chiama
Mercatura quello che noi Commercio. Molto più saranno importanti e da rispettarsi quei vocaboli
che servono di nome alla scienza o all'arte, come qui. (31. Luglio
1821.).
[1490,1] Il rimedio dunque agl'inconvenienti del tempo che
nuoce alle lingue, e necessita la novità delle parole, non meno coll'abolirne
assai, che col sopprimerne le differenze de' significati, e restringere il
numero di essi, è l'adottar nuove parole che esprimano quelle cose o patti o
differenze di cose, ch'erano espresse da voci divenute sinonime e conformi di
valore ad altre primitivamente diverse. E se, come ho detto pp.
1486-87 di 30.m. parole latine passate nell'italiano,
1491 non restano che 10.m. significati, a voler che la
lingua italiana adegui veramente la ricchezza della madre, in ordine a questa
medesima parte di essa, bisogna ch'ella trovi altre 20 mila parole che abbiano i
detti significati perduti. Ed allora ella vincendo la latina nella copia de'
sinonimi, e nella varietà, nell'eleganza ec. che risulta da essi, l'agguaglierà
pure nella vera ricchezza e varietà, e la sinonimia non pregiudicherà alla
proprietà ec. del discorso.
[1499,1] Del resto gli scrittori antichissimi e primitivi,
non meno italiani e greci, che latini e francesi, sono sempre sommamente propri,
e scarseggiano di sinonimia. Ciò accade, perch'essi, ancorchè senza studio, pur
possedevano assai bene e pienamente la lingua, ancorchè vastissima, ch'essi
stessi creavano o formavano, tanto in ordine al generale e all'indole, tanto in
ordine ai particolari, e alle parole e modi, e alla determinazione dei loro
significati ec. e v. la pag.
1482.-84. la quale, stante questa riflessione, non contraddice alla
pag. 1494.-96.
(13-14. Agosto. 1821.).
[1768,1] Ho lodato l'italia appetto
alla Francia
pp.
343-45
pp. 1243-44 perchè non ha rinunziato alla sua lingua antica, ed ha
voluto ch'ella fosse composta di cinque secoli, in vece di un solo. Ma la
biasimerei sommamente se per conservare l'antica intendesse di rinunziare alla
moderna, mentre se l'antica è utile, questa è necessaria; e molto più se in
luogo di compor la sua lingua di 5 secoli, la componesse come i francesi di un
solo, ma non di quello che parla (il che alla fine è comportabile), bensì di
quello che
1769 parlò quattro secoli fa: ovvero anche
se la volesse comporre de' soli secoli passati, escludendo questo, il quale
finalmente è l'unico che per essenza delle cose non si possa escludere. Certo è
lodevole che non si sradichi la pianta, conservando i germogli, e
trapiantandoli, ma perchè s'ha da conservare il solo tronco spogliandolo de'
germogli, delle foglie, de' rami; anzi la sola radice tagliando il tronco, e
guardando bene che non torni a crescere, e che le radici se ne stieno senza
produr nulla? E sarebbe ben ridicolo che conservando sulla nostra favella
l'autorità agli antichi che più non parlano, la si volesse levare a noi che
parliamo: e sarebbe questa la prima volta che le cose de' vivi fossero proprietà
intera de' morti. {+Sarebbe veramente
assurdo che mentre una parola {o frase} superflua
nuovamente trovata in uno scrittore antico, si può sempre
incontrastabilmente usare quanto alla purità, una parola o frase utile o
necessaria, e che del resto abbia tutti i numeri, nuovamente introdotta da
un moderno, non si possa usare senza impurità.} Anzi quanto più la
nostra lingua è diligente nel non voler perdere (cosa ottima), tanto più per
necessaria conseguenza, dev'essere industriosa nel guadagnare, per non
somigliarsi al pazzo avaro che {+per amor
del danaio} non mette a frutto il danajo, ma
1770 si contenta di non perderlo, e guardarlo senza pericoli.
(22. Sett. 1821.).
[2227,1] Coloro che tengono la lingua italiana come morta,
vietandogli l'uso attuale, e continuato, e inalienabile delle sue facoltà fanno
cosa più assurda de' nostri libertini, e più dannosa. Gli uni e gli altri
tengono la vera lingua italiana per morta; ma questi con buona conseguenza ne
deducono che dobbiamo servirci di un'altra viva, cioè di quella barbara che ci
pongono avanti, e che adoprano; quelli (cosa stolta)
2228 vogliono che noi vivi scriviamo e parliamo, e trattiamo le cose vive in una
lingua morta. (5. Dic. 1821.).
[2335,2] Da ciò che altrove ho detto p. 774 sul Buonarroti che scrisse apposta per dar
vocaboli alla Crusca, sul Salvini che non fu niente parco di nuovissimi vocaboli, o tirati da
lingue forestiere, o antiche, o da radici italiane, in tutte le sue scritture, e
che scrisse contemporaneamente alla compilazione del vocabolario, anzi finchè
visse non permise d'esser citato ec. apparisce che i nostri pedanti vogliono
espressamente che in quell'atto medesimo che si pubblica il vocabolario
2336 di una lingua, restino per virtù di essa
pubblicazione, rivocate in perpetuo tutte le facoltà che tutti gli scrittori
fino a quel punto avevano avute intorno alla favella, e chiuse in quel momento
per sempre le fonti della lingua, fino allora sempre e incontrastatamente
aperte. (8. Gen. 1822.)
[2386,3] La lingua italiana ha un'infinità di parole ma soprattutto di modi che
nessuno ha peranche adoperati. - Ella si riproduce illimitatamente nelle sue
parti. Ella è come coperta tutta di germogli, e per sua propria natura, pronta
sempre a produrre nuove maniere di dire. - Tutti i classici o buoni scrittori
crearono continuamente nove frasi. Il vocabolario ne contiene la menoma parte: e
per verità il frasario di un solo
2387 di essi, massime
de' più antichi ec. formerebbe da se un vocabolario. Laonde un vocabolario che
comprenda tutti i modi di dire, ottimi e purissimi, adoperati da' classici
italiani, e dagli stessi soli testi di lingua, sarebbe impossibile. Quanto più
uno che comprendesse tutti gli altri egualmente buoni che sono stati usati, o
che si possono usare in infinito! Usarli dico e crearli nuovamente, e nondimeno
con sapore e natura tutta antica: anzi non la moderna, ma la sola antica lingua
italiana possiede ed è capace di questa fecondità. - Deducete da ciò l'ignoranza
di chi condanna quanto non trova nel Vocabolario. E concludete
che la novità de' modi è così propria della lingua italiana, e così perennemente
ed essenzialmente, ch'ella non può conservare la sua forma antica, senza conservare in atto la facoltà di nuove fogge. (5. Feb.
1822.).
[2390,2] Della convenienza di conservare agli scrittori la
facoltà di fabbricar nuove parole e modi sopra le forme già proprie della
lingua, cioè sopra le varie facoltà per le quali essa n'ha prodotto degli altri
di quel tal genere, v. un
bello ed espressivo luogo del Caro, Apologia,
Parma 1558. p. 52. dopo aver parlato delle voci
Suo merto et tuo
valore
*
nel Predella, prima di entrare nelle opposizioni numerate. (18.
Feb. 1822.)
[2397,2] Il Vocab. della
Crusca non ha interi due terzi delle voci, {o significati e vari usi loro,} e nè pure un decimo dei
modi di quegli stessi autori e libri che registra nell'indice. E questi non sono
appena una terza o quarta parte di quegli autori e libri italiani de' buoni
secoli che secondo ogni ragione vanno considerati e sono autentici nella lingua,
anche nella pura lingua antica. Aggiungeteci ora i libri moderni bene scritti, e
le voci e modi che usati o non usati ancora da buoni scrittori, sono
necessarissimi a chi vuole scriver
2398 (com'è dovere)
delle cose presenti, e a' presenti o futuri, massime le spettanti alle scienze
immateriali o materiali, e che tutti mancano al Vocabolario; si
può far ragione che questo non contenga più d'una quarantesima parte della
lingua italiana in genere (a dir molto); e non più d'una trentesima dell'antica
in particolare, ossia di quella che s'ha per classica. Del che non si può far
carico ai compilatori, se non quanto alle mancanze relative agli autori de'
quali professano d'aver fatto spoglio e formatone il vocabolario. Perchè del
resto nessuna lingua viva ha, nè può avere un vocabolario che la contenga tutta,
massime quanto ai modi, che son sempre (finch'ella vive) all'arbitrio dello
scrittore. E ciò tanto più nell'italiana (per indole sua). La quale molto meno
può esser compresa in un vocabolario, quanto {ch'}ella
è più vasta di tutte le viventi: mentre veggiamo che nè pur la greca ch'è morta,
s'è potuta mai comprendere in un Vocabolario nè men quanto alle voci, che ogni
nuovo scrittore, ne porta delle nuove.
2399
{+Molto meno quanto ai modi ne' quali
ell'è infinita e a disposizione degli scrittori, come appunto la nostra, e
ciascuno scrittor greco ne forma de' nuovi a suo piacere, e in gran
numero.} Or non è cosa ridicolissima che mentre nessun'altra nazione
stima che la sua lingua sia determinata e prescritta dal suo vocabolario, non
ostante che questo sia molto meglio fatto, molto più esteso (relativamente) del
nostro, e che la lingua loro possa più facilmente o meglio esser compresa in un
vocabolario; noi la cui lingua è impossibile (sopra qualunque altra) che vi si
possa comprendere, che di più, abbiamo un vocabolario inesattissimo nelle cose
stesse che porta, molto più inferiore alla ricchezza della nostra lingua di
quello che le convenga o se le debba perdonare di essere, fatto sopra un piano
sopra cui nessun altro è fatto, cioè sopra il piano dell'antico, mentre noi
siamo moderni, e della pura autorità quando la lingua è viva; noi dico vogliamo
che un vocabolario così ridondante d'imperfezioni, e poco proprio della lingua
nostra {(e d'ogni lingua viva),} abbia su di questa una
virtù, {un'autorità} e un dominio, che i più perfetti
vocabolari delle altre nazioni (anche nazioni unite come la francese e
l'inglese) nè si arrogano, nè sognano, nè pensano che
2400 sia menomamente proprio dell'essenza loro, nè compatibile colla
natura delle lingue vive, e che nessuno s'immagina mai di riconoscere in essi.
(29. Marzo. Venerdì dell'Addolorata. 1822.).
[2400,2] Rinunziare o sbandire una nuova parola o una sua
nuova significazione (per forestiera o barbara ch'ella sia), quando la nostra
lingua non abbia l'equivalente, o non l'abbia così precisa, e ricevuta in quel
proprio e determinato senso; non è altro e non può esser meno che rinunziare o
sbandire, e trattar da barbara o illecita una nuova idea, e un nuovo concetto
dello spirito umano. (18. Aprile, Giovedì in Albis, 1822.).
[2443,1] Di ciò che ho notato altrove p. 741. sgg.
pp.
805. sgg.
pp.
1076-77 che l'uso di fabbricar nuovi composti, e di supplir così al
bisogno di esprimer nuove idee, o nuove parti d'idee (ch'è tutt'uno, secondo le osservazioni della moderna
ideologia), essendo stato così comune alle lingue antiche, e alle stesse moderne
ne' loro principii, s'è poi quasi dimenticato, per utilissimo che sia; se ne
possono dar, fra l'altre, le seguenti ragioni.
[2500,2] Per qual cagione il barbarismo reca inevitabilmente
agli scritti tanta trivialità di sapore, e ripugna sì dirittamente all'eleganza?
Intendo per barbarismo l'uso di parole o modi stranieri, che non sieno affatto
alieni e discordi dall'indole della propria lingua, e degli orecchi nazionali, e
delle abitudini ec. Perocchè
2501 se noi usassimo p. e.
delle costruzioni tedesche, o delle parole con terminazioni arabiche o indiane,
o delle congiugazioni ebraiche o cose simili, non ci sarebbe bisogno di cercare
perchè questi barbarismi ripugnassero all'eleganza, quando sarebbero in
contraddizione e sconvenienza col resto della favella, e cogli abiti nazionali.
Ma intendo di quei barbarismi quali sono p. e. nell'italiano i gallicismi (cioè
parole o modi francesi italianizzati, e non già trasportati p. e. colle stesse
forme e terminazioni e pronunziazioni francesi, chè questo pure sarebbe fuor del
caso e della quistione). E domando perchè il barbarismo così definito e inteso,
distrugga affatto l'eleganza delle scritture.
[2611,2] Non basta che lo scrittore sia padrone del proprio
stile. Bisogna che il suo stile sia padrone delle cose: e in ciò consiste la
perfezion dell'arte, e la somma qualità dell'artefice. Alcuni de' pochissimi che
meritano nell'italia moderna il nome di scrittori (anzi
tutti questi pochissimi), danno a vedere di essere padroni dello stile: vale a
dir che il loro stile è fermo, uguale, non traballante, non sempre sull'orlo di
precipizi, {+non incerto, non legato e
retreci, come quello di tutti gli altri nostri
moderni, francesisti o no, ma libero e sciolto e facile, e che si sa
spandere e distendere e dispiegare e scorrere,} sicuro di non dir
quello che lo scrittore non vuole intendere, sicuro di non dir nulla in quel
modo che lo scrittore non lo vuol dire, sicuro di non dare in un altro stile, di
non cadere in una qualità che lo scrittore voglia evitare; procede a piè saldo
senza inciampare nè dubitare di se stesso, {non va a
trabalzoni, ora in cielo ora in terra, or qua or là,} ec. Tutte queste
qualità nel loro stile si trovano, e si dimostrano, cioè si fanno sentire al
lettore. Questi tali son padroni del loro stile. Ma il loro stile non è padrone
delle cose, vale
2612 a dir che lo scrittore non è
padrone di dir nel suo stile tutto ciò che vuole, o che gli bisogna dire, {o di dirlo pienamente e perfettamente:} e anche questo
si fa sentire al lettore. Perciocchè spessissimo occorrendo loro molte cose che
farebbero all'argomento, al tempo, {ec.} che sarebbero
utili o necessarie in proposito, e ch'essi desidererebbero dire, e concepiscono
perfettamente, e forse anche originalmente, e che darebbero luogo a pensieri
notabili e belli; essi scrittori, ben conoscendo questo, tuttavia le fuggono, o
le toccano di fianco, e di traverso, e se ne spacciano pel generale, o ne dicono
sola una parte, sapendo ben che tralasciano l'altra, e che sarebbe bene il
dirla, o in somma non confidano o disperano di poterle dire o dirle pienamente
nel loro stile. La qual cosa non è mai accaduta ai veri grandi scrittori, ed è
mortifera alla letteratura. E per ispecificare; i detti scrittori sono e si
mostrano sicuri di non dare nel francese (cioè in quel cattivo italiano che è
proprio del nostro tempo, e quindi naturale anche a loro, anzi solo naturale),
ma non sono nè si mostrano sicuri di
2613 poter dire
nel buono italiano tutto quello che loro occorra; {come lo
erano i nostri antichi.} Anzi lasciano ottimamente sentire, che molte
cose quasi necessarie, e delle quali si compiacerebbero se le {avessero potuto e saputo} dire nel buono italiano, e la
cui mancanza si sente, e che molte volte sono anche notissime a tutti in questo
secolo, essi le tralasciano avvertitamente, e le dissimulano, almeno da qualche
necessaria parte, e se ne mostrano o ignoranti, o poco istruiti, o di non averle
concepite, quando pur l'hanno fatto anche più degli altri, e che in somma non
ardiscono dirle per timore di offendere il buono italiano e il proprio stile. Il
qual timore e la quale impotenza assicurerebbe alla letteratura {e filosofia} italiana di non dar mai più un passo
avanti, e di non dir mai più cosa nuova, come pur troppo si verifica nel fatto.
(27. Agosto. 1822.).
[2631,1] Tutto ciò si dee specialmente intendere
2632 delle radici, nelle quali gli antichi greci sono
ristrettissimi, ciascuno quanto a se, e notabilmente diversi gli uni dagli
altri, nella totalità del vocabolario delle medesime. Laddove i moderni ne sono
incomparabilmente più ricchi (come Luciano, Longino, ed anche
più i più sofistici e di peggior gusto, e i più pedanti; rispetto p. e. ad Isocrate
Senofonte ec.), ed hanno in esse
radici molto più di comune fra loro. Ma quanto ai composti o derivati fatti da
quelle radici che sono familiari a ciascuno di loro, niuno scrittor greco è
povero, nè scarso, nè troppo uniforme. Ma quando mai, sarebbero più poveri {in questa parte} i più moderni, che i più antichi. Certo
sono più timidi e servili, ed attaccati all'esempio de' precedenti, e parchi e
ritenuti e guardinghi e cauti nella novità. La qual novità quanto alle voci, non
può consistere in greco se non se in nuovi composti o derivati. (5. Ott.
1822.).
[2648,1]
La
formation d'une langue est l'oeuvre des grands écrivains;
l'Italie en compte trop peu: plus de la
moitié de l'esprit et du coeur humain n'a pas encore passé sous la plume
des Italiens, et par conséquent dans leur langue.
*
Lettres sur l'Italie par
Dupaty en 1785. {let. 41.} Tome 1. à Gênes
1810. p. 185. Non solo dello spirito e del cuore umano, ma neppur la
metà delle cognizioni che sopra queste materie s'avevano al tempo di Dupaty, e molto meno di quelle che
s'hanno presentemente. (30. Nov. 1822.
Roma.).
[2663,1]
In ristretto
*
(in somma), la favella e la Scrittura sono
indirizzate a' coetanei, ed a' futuri, non a' defunti.
*
Pallavic. loc. sup. cit. pag.
181. fine. (5. Gen. 1823.).
[2664,2]
Transferenda tota dictio
est ad illa quae nescio cur, quum Graeci κόμματα et κῶλα nominent, nos
non recte incisa et membra dicamus. Neque enim esse possunt rebus ignotis nota
nomina; sed, quum verba aut suavitatis aut inopiae causa transferre
soleamus, in omnibus hoc fit artibus, ut, quum id appellandum sit quod,
propter rerum ignorationem ipsarum, nullum habuerit ante nomen,
necessitas cogat aut novum facere verbum, aut a simili mutuari.
*
Cic.
Orator, n. 209. (11. Gen.
1823.).
[2715,2] Di quelli che nel 500. volevano restringere la
lingua italiana della poesia a quella del Petrarca, e della prosa a quella del solo Boccaccio, vedi
Perticari
Degli Scritt. del 300. l. 2. c. 12. p.
178. colle similitudini che ivi pone de' greci e de' latini, e Apologia di Dante c. 41. p.
407-{10.}
(23. Maggio 1823.).
[2722,1]
2722
Delle lingue vive
non accade quello che delle lingue le quali più non si parlano. Queste,
a guisa di pianta che più
non vegeta, non possono ricevere accrescimento; e tutto quello, che a
lor riguardo si può fare da noi, si è di serbarle diligentemente nello
stato in cui sono; perciocchè in esse ogni alterazione tende a
corrompimento. Al contrario le lingue che sono
vive, vegetano tuttora, e possono crescere di più in più: e in esse
le piccole mutazioni, che si vanno facendo di tempo in tempo, non
sono segnali certi di corrompimento; anzi sono talora di sanità e
vigoria. E però coloro, i quali non vorrebbon che i nostri
scritti avessero altro sapore che di Trecento, nocciono alla lingua,
perchè si sforzano di ridurla alla condizione di quelle che sono morte,
e, in quanto a loro sta, ne diseccano i verdi rami,
sicch'ella non possa, contro all'avviso d'Orazio, più vestirsi di
nuove foglie. Quest'autore vivea pure nel secol d'
2723 oro della lingua latina, e nel tempo in
cui essa era nel suo più florido stato: e tuttavia perch'ella era ancor
viva, egli pensava ch'essa potesse arricchirsi vie maggiormente e
ricevere nuove forme di favellare.
*
Nota dell'Abate Colombo alle Lezioni sulle Doti di una
colta favella
con una non più stampata sullo
stile da usarsi oggidì ed altre operette del medesimo
autore
*
(cioè dell'Abate Colombo). Parma
per Giuseppe Paganino
1820. (edizione 2da delle tre prime Lezioni e delle altre operette,
fuorchè d'una). Lezione IV. Dello Stile che dee
usare oggidì un pulito Scrittore. pag. 96.
(antepenultima delle Lezioni). nota a.
(25. Maggio. Domenica della SS. Trinità. 1823.).
[2723,1] I pedanti che oggi ci contrastano la facoltà di
arricchir la lingua, pigliano per pretesto ch'essa è già perfetta. Ma lo stesso
contrasto facevano nei cinquecento quand'essa si stava perfezionando,
2724 anzi nel momento ch'ella cominciavasi a
perfezionare, come fece il Bembo, il
quale volea che questo cominciamento fosse il toglierle la facoltà di crescer
mai più, e 'l ristringerla al solo Petrarca e al solo Boccaccio.
Lo stesso contrasto fecero al tempo di Cicerone e d'Orazio, cioè nel
secolo d'oro della lingua latina, nel quale ella si perfezionava, e fino al
quale non fu certamente perfetta. Ma la pedanteria nasce presto, e gli uomini
impotenti presto, anzi subito credono {e vogliono} che
sia perfetto e che non si possa nè si debba oltrepassare nè accrescere quel
tanto, più o manco, di buono ch'è stato fatto, per dispensarsi
dall'oltrepassarlo ed accrescerlo, e perch'essi non si sentono capaci di farlo.
(25. Maggio 1823.). {{E come pochissimo ci
vuole a superare l'abilità degli uomini da nulla, così pochissimo artifizio,
e pochissima bontà basta a fare ch'essi la credano insuperabile, qual è
veramente per loro, ancorchè piccolissima. Oltre che
2725 al loro scarso e torto giudizio spesso e in buona fede il
mediocre pare ottimo, e l'ottimo mediocre, e il cattivo buono, e al
contrario. (27. Maggio. 1823.).}}
[2755,1]
Alla p. 2717.
Dico che la lingua francese è più ricca dell'italiana quanto alle parole non
sinonime. Intendo de' nomi e de' verbi. Nelle altre parti dell'orazione la
ricchezza nostra è incomparabile non solo colla lingua francese, ma pur colla
latina, e forse con ogni lingua viva. Questa ricchezza è utile, e reca alla
nostra lingua un'immensa ed inesauribile fecondità di frasi
2756 e di forme, e allo scrittore italiano la facoltà di poterne
sempre foggiar delle nuove, non solo conformi all'indole e proprietà della
lingua, ma che non paiano neppur nuove (forse neanche allo stesso scrittore),
perchè nascono come da se, dal fondo della lingua, chi ben lo conosce, e lo sa
coltivare e scaturiscono dalla natura di essa. Da ciò deriva una incredibile
varietà. Ma la sostanziale e necessaria ricchezza di una lingua non può
consistere nelle particelle ec.: bensì ne potrebbe nascere, se queste si
applicassero alla composizione delle parole, come fa la lingua greca, la quale è
ricchissima di nomi e di verbi (che sono la sostanza e la principal ricchezza di
una favella) non per altra cagione principalmente, se non per la estrema
abbondanza di preposizioni e particelle d'ogni sorta, e per l'uso larghissimo
ch'ella ne fa nella composizione d'ogni maniera di vocaboli. (5. Giugno.
ottava del Corpus Domini. 1823.).
[3192,1] Per li nostri pedanti il prender noi dal francese o
dallo spagnuolo voci o frasi utili o necessarie, non è giustificato dall'esempio
de' latini classici che altrettanto
faceano dal greco, come Cicerone
massimamente e Lucrezio, nè
dall'autorità di questi due e di Orazio nella Poetica, che espressamente difendono e lodano il farlo.
Perocchè i nostri pedanti coll'universale dei dotti e degl'indotti tengono la
lingua greca per madre della latina. Ma hanno a sapere ch'ella non fu madre
della latina, ma sorella, nè più nè meno che la francese e la spagnuola sieno
sorelle dell'italiana. Ben è vero che la greca letteratura e
3193 filosofia fu, non sorella, ma propria madre della {+letteratura e filosofia} latina.
Altrettanto però deve accadere alla filosofia italiana, e a quelle parti
dell'italiana letteratura che dalla filosofia debbono dipendere o da essa
attingere, per rispetto {alla} letteratura e filosofia
francese. La quale dev'esser madre della nostra, perocchè noi non l'abbiamo del
proprio, stante la singolare inerzia d'italia nel secolo
in che le {altre} nazioni
d'europa sono state e sono più attive che in
alcun'altra. E voler creare di nuovo e di pianta la filosofia, e quella parte di
letteratura che affatto ci manca (ch'è la letteratura propriamente moderna);
oltre che dove sono gl'ingegni da questa creazione? ma quando anche vi fossero,
volerla creare dopo ch'ella è creata, e ritrovare dopo trovata ch'ell'è da più
che un secolo, e dopo cresciuta e matura, e dopo diffusa e abbracciata e
trattata continuamente da tutto il resto d'europa del
pari; sarebbe cosa, non sola[solo] inutile, ma
stolta e dannosa, mettersi a bella posta lunghissimo tratto addietro degli
3194 altri in una medesima carriera, volersi collocare
sul luogo delle mosse quando gli altri sono già corsi tanto spazio verso la
meta, ricominciare quello che gli altri stanno perfezionando; e sarebbe anche
impossibile, perchè nè i nazionali nè i forestieri c'intenderebbono se volessimo
trattare in modo affatto nuovo le cose a tutti già note e familiari, e noi non
ci cureremmo di noi stessi, e lasceremmo l'opera, vedendo nelle nostre mani
bambina e schizzata, quella che nelle altrui è universalmente matura e colorita;
e questo vano rinnovamento piuttosto ritarderebbe e impaccerebbe di quel che
accelerasse e favorisse gli avanzamenti della filosofia, e letteratura moderna e
filosofica. Erano ben altri ingegni tra' latini al tempo che s'introdussero e
crebbero gli studi nel Lazio; ben altri ingegni, dico,
che oggi in italia non sono. Nè però essi vollero
rinnovare nè la filosofia nè la letteratura (la quale essendo allora poco
filosofica, si potea pur variare passando a nuova nazione), ma trovando l'una e
l'altra in alto stato, e grandissimamente avanzate e mature appresso i
3195 greci, da questi le tolsero, e gli altrui
ritrovamenti abbracciarono e coltivarono; e ricevuti e coltivati che gli ebbero,
allora, secondo l'ingegno di ciascheduno e l'indole della nazione, de' costumi,
del governo, del clima, della lingua, delle opinioni romane, modificarono ed
ampliarono le cose da' greci trovate, e diedero loro abito e viso e attitudini
domestiche e nuove. Se vuol dunque l'italia avere una
filosofia ed una letteratura moderna e filosofica, le quali finora non ebbe mai,
le conviene di fuori pigliarle, non crearle da se; e di fuori pigliandole, le
verranno principalmente dalla Francia (ond'elle si sono
sparse anche nelle altre nazioni, a lei molto meno vicine e di luogo e di clima
{e di carattere} e di genio e di lingua ec. che
l'italiana), e vestite di modi, forme, frasi e parole francesi (da tutta
l'europa universalmente accettate, e da buon tempo
usate): dalla Francia, dico, le verrà la filosofia e la
moderna letteratura, come altrove ho ragionato pp. 1029-30, e
volendole ricevere, nol potrà altrimenti che ricevendo {altresì} assai parole e frasi {di là,} ad
esse intimamente e indivisibilmente spettanti e fatte proprie;
3196 siccome appunto convenne fare ai latini {delle voci e frasi greche} ricevendo la greca
letteratura e filosofia; e il fecero senza esitare. E noi colla stessa
giustificazione, ed anche col vantaggio della stessa facilità il faremo, essendo
la lingua lingua francese sorella dell'italiana siccome della latina il fu la
greca, e producendo la filosofia e la filosofica letteratura francese una
letteratura moderna ed una filosofia italiana, siccome già la greca nel
Lazio. E tanto più saremo fortunati degli altri
stranieri che dal francese attinsero voci e modi per la filosofia e letteratura,
quanto che noi nel francese avremo una lingua sorella, e non, com'essi, aliena e
di diversissima origine. (18. Agos. 1823.). {Noi sappiamo bene qual {e che
cosa} sia questa lingua latina madre dell'italiana, e possiamo
definitamente additarla, e mostrarla tutta intera. Ma dir che la teutonica o
la slava o simili è madre della tedesca o della russa ec., è quasi un dire
in aria, benchè sia vera, nè quelli possono definitamente additarci quale
individualmente sia questa lor lingua madre, nè, se non confusamente e per
laceri avanzi, mostrarcela.}
[3235,2]
Platone nel Sofista
verso il fine, edizione dell'Astio, opp. di Plat.
Lips. 1819. sgg. t. 2. p. 362. v. 3. sgg. A. penult.
pagina del Dialogo. {+Πόϑεν οὖν ὄνομα ἑκατέρῳ τις ἂν λήψεται πρέπον; ἢ
δῆλον δὴ χαλεπὸν ὄν, διότι τῆς} τῶν γενῶν κατ᾽ εἴδη διαιρέσεως
παλαιά τις, ὡς ἔοικεν, αἰτία
*
(ἴσ. ἀηδία. Ast.) τοῖς
ἔμπροσϑεν καὶ ἀξύννους παρῆν, ὥστε μηδ᾽ ἐπιχειρεῖν μηδένα διαιρεῖσϑαι∙
καϑὸ δὴ τῶν ὀνομάτων ἀνάγκη μὴ σϕόδρα εὐπορεῖν
*
;
3236
Unde iam nomen utrique eorum
quisquam arripiet conveniens? an dubium non est quin difficile sit,
propterea quod ad generum in species distributionem vetustam
quandam, ut videtur, et inconsideratam superiores habebant
offensionem atque fastidium, ita ut ne conaretur quidem ullus
dividere; quocirca etiam nomina non satis nobis possunt in promptu
esse?
*
Astius. Vuol
dir Platone e si lagna, che gli antichi
greci (e così tutti gli antichi d'ogni nazione) ebbero poche idee elementari,
onde la loro lingua (e così tutte le lingue fino a una perfetta maturità e
coltura, e fino che la nazione non filosofa) mancava di termini esatti, e
sufficienti ai bisogni del dialettico {massimamente} e
del metafisico. Ond'è che Platone il
quale volle sottilmente filosofare, ed esercitare l'esatto raziocinio, e
considerare profondamente la natura delle cose, fu arditissimo nel formare de'
termini di questa fatta, ed abbonda sommamente di voci nuove e sue proprie,
esatte e logiche ovvero ontologiche, {#1.
Vedi la pref. di Timeo al suo Lessico Platonico
appo il Fabric.
B. G. edit. vet. 9. 419.} che da niuno altro
si trovano adoperate, o che da' suoi scritti furono tolte. E notisi che Platone faceva questa lagnanza della sua
3237 lingua, la più ricca, la più feconda, la più
facile a produrre, la più libera, la più avvezza e meno intollerante di novità,
ed oltre a questo, nel più florido, perfetto ed aureo secolo d'essa lingua, e
quasi ancora nel più libero e creatore. Nondimeno a Platone parve scarsa a' bisogni dell'esatto filosofare
la stessa lingua greca nel suo miglior tempo, e trattando materie sottili egli
ebbe bisogno di parere ardito agli stessi greci in quel secolo, e di fare scusa
e addur la ragione del suo coniar nuove voci. Nè certo {si
dirà che}
Platone le coniasse o per trascuratezza
{e poco amore} della purità ed eleganza della
lingua, di ch'egli è fra gli Attici il precipuo modello, nè per ignoranza d'essa
lingua, e povertà di voci derivante da questa ignoranza. (22. Agos.
1823.).
[3389,1] La lingua spagnuola, secondo me, può essere agli
scrittori italiani una sorgente di buona e bella ed utile novità ond'essi
arricchiscano la nostra lingua, massimamente di locuzioni e di modi.
[3764,1]
3764 Necessità di nuove o forestiere voci, volendo
trattar nuove o forestiere discipline. Impossibilità e danno del mutare i
termini ricevuti in una disciplina che da' forestieri sia stata trovata, o
principalmente coltivata, o trasmessaci ec. di sostituire cioè altri termini a
quelli con che i forestieri che ce la tramettono, sono usi di trattare quella
disciplina, quando bene fosse facile alla nostra lingua il trovar termini suoi,
novi o vecchi, da sostituir loro, anzi quando ella già ne avesse degli altri
(sian termini sian vocaboli) con quel medesimo significato ec. V. Speroni
Dial. della Retorica, ne' suoi
Diall.
Venez. 1596. p. 139. a dieci pagg. dal principio, e
23. dal fine. (23. Ott. 1823.).
[3829,1] Lo stato della letteratura spagnuola oggidì (e dal
principio del 600 in poi), è lo stesso affatto che quello dell'italiana, eccetto
alcuni vantaggi di questa, ed alcune diversità di circostanze, che non mutano la
sostanza del caso. Come noi (al paro di tutti gli altri stranieri) non dubitiamo
che la spagna non abbia nè lingua nè letteratura moderna
propria, e dal 600. in poi non l'abbia mai avuta, così non dobbiamo dubitare che
non sia altrettanto in italia, e ciò dal 600. in poi,
come gli stranieri, e forse tra questi anche gli spagnuoli (che del fatto loro
non converranno), punto non ne dubitano. Quello che noi vediamo chiaro in altrui
e nel lontano, ci serva di specchio e di esempio per ben vedere, per accorgerci,
per conoscere e concepire il fatto nostro, e quello ch'essendoci proprio e
troppo vicino, non suol vedersi nè conoscersi mai bene, sì per l'inganno
dell'amor proprio, sì perchè la stessa vicinanza nuoce alla vista, e l'abitudine
di continuamente vedere impedisce o difficulta l'osservare, il notare,
l'attendere, il por mente, l'avvedersi. L'opinione che abbiamo di quelli
stranieri c'istruisca
3830 di quella che dobbiamo avere
di noi, e le ragioni di quella si applichino al caso nostro, chè ben vi sono
applicabili ec.
[3855,1] Tra le cagioni del mancar noi (e così gli spagnuoli)
di lingua e letteratura moderna propria, si dee porre, e per prima di tutte, la
nullità politica e militare in cui è caduta l'italia non
men che la Spagna dal 600 in poi, epoca appunto da cui
incomincia la decadenza ed estinzione delle lingue e letterature proprie in
italia e in ispagna. Questa
nullità si può considerare e come una delle cagioni del detto effetto, e come la
cagione assoluta di esso. Come una delle cagioni, perocchè se noi manchiamo oggi
affatto di voci moderne proprie italiane e spagnuole, politiche e militari, ciò
viene perchè gl'italiani e spagnuoli non hanno più, dal 600 in poi, nè affari
politici propri, nè milizia propria. Fino dall'estinzione
dell'imperio romano, l'italia
è stata serva, perchè divisa; ma sino a tutto il 500 la milizia italiana propria
ha esistito, e le corti e repubbliche italiane hanno operato da se, benchè
piccole e deboli. Il governo era in mano d'italiani, le dinastie erano italiane
in assai maggior numero che poi non furono
3856 ed or
non sono. Influiti e dominati da' governi e dagli eserciti stranieri, i governi
e gli eserciti italiani, chè tali essi erano ancora, agivano tuttavia essi
medesimi, ed avevano affari. Essi erano che si davano agli stranieri, quando a
questo, quando a quello, che li chiamavano, che gli scacciavano, o contribuivano
a ciò fare, che si alleavano cogli stranieri, o contro di loro, con altri
stranieri, o con altri italiani, contro altri italiani, o a favore. L'amicizia
de' governi italiani, ancorchè piccolissimi, delle stesse singolari città, era
considerata e ricercata dagli stranieri, e la nemicizia temuta; e in qualunque
modo i governi e le città italiane erano allora nemiche o amiche di questa o
quella straniera potenza. Gl'italiani agivano per se presso o nelle corti
straniere, e gli stranieri presso gl'italiani. {+V. p.
3887.} Quindi è che noi avevamo allora a dovizia voci politiche
e militari; più a dovizia ancora delle altre nazioni, perchè la politica e il
militare, ridotti ad arte e scienza tra noi, non lo erano presso gli altri.
Negli storici, negli scrittori tecnici di politica o di milizia, o d'altre
materie appartenenti, e generalmente negli scrittori italiani avanti il
seicento, non troverete mai difficoltà veruna di esprimersi in checchessia che
spetti agli affari pubblici, economia pubblica, diplomatica, negoziazioni,
politica, e a qualsivoglia parte dell'arte militare; mai povertà; {e} mai li vedrete ricorrere a voci straniere, o che
possano pur sospettarsi tali: al contrario li vedrete franchissimi
3857 nell'espressione di tali materie, anzi ricchissimi
e abbondantissimi, esattissimi, provvisti di termini per ciascuna cosa e parte
di essa, ed anche di più termini per ciascuna, voci tutte italianissime e tanto
italiane quanto or sono francesi quelle di cui i francesi e noi ed anche altri
in tali materie si servono; e queste voci e questi termini ben si vede che non
erano inventati da quegli scrittori, nè debbonsi al loro ingegno, ma all'uso
della favella italiana d'allora, e che erano fra noi (come anche fuori non
poche[pochi]) comunissimi, notissimi, e di
significato ben certo e determinato. La più parte di questi, dal 600. in poi,
perduti nell'uso del favellare, {lo furono e lo sono}
conseguentemente nelle scritture, di modo che le stesse cose ancora, che noi a
que' tempi con parole italianissime, e con più parole eziandio, chiarissimamente
e notissimamente esprimevamo, or non le sappiamo esprimere che con voci
straniere affatto, o se queste ci mancano, e son troppo straniere per potersi
introdurre, o non furono ancora introdotte, non possiamo esprimer quelle cose in
verun modo. Moltissime di quelle voci, usandole, sarebbero intese fra noi anche
oggidì nel lor proprio e perfetto senso, come allora, e non farebbero oscurità.
Ma moltissime, sostituite alle straniere che or s'usano, riuscirebbero oscure,
parte per la nuova assuefazione fatta a queste altre voci,
perchè[parte] perchè il loro senso non
sarebbe più inteso così determinatamente come
3858
allora. E il simile dico di molte voci con cui potremmo esprimer cose per cui
non abbiamo nemmen voci straniere, o che a questi pur manchino, o che tra noi
non sieno state ancora introdotte. Moltissime voci militari, civili e politiche
sì del nostro 300, sì dello stesso 500, benchè significative di cose or
notissime e comunissime, son tali che noi ora, leggendole negli antichi, o non
le intendiamo, o non senza studio, o non avvertiamo, almen senza molta acutezza
e attenzione, {o imperfettamente} la loro
corrispondenza con quelle che oggi ne' medesimi casi comunemente usiamo. Altresì
ci accade {non di rado} tale incertezza nelle voci
significative di cose, or non più comuni, e spesso in queste ci accade più che
nell'altre. Ecco come, mancati gli affari politici e la milizia in
italia, la nostra nazione non ha nè può avere, nè
ebbe dal 600 in poi, lingua moderna propria per significar le cose politiche e
militari, non ch'ella mai non l'abbia avuta, anzi l'ebbe, ma l'ha perduta, o non
l'ha se non antica. E nello stesso modo proporzionatamente e ragguagliatamente
discorrasi della Spagna.
[3863,2] Accade nelle lingue come nella vita e ne' costumi; e
nel parlare come nell'operare, e trattare con gli uomini (e questa non è
similitudine, ma conseguenza.) Nei tempi e nelle nazioni dove la singolarità
dell'operare, de' costumi ec. non è tollerata, è ridicola ec. lo è similmente
anche quella del favellare. E a proporzione che la diversità dall'ordinario,
maggiore o minore, si tollera o piace, {ovvero} non
piace, non si tollera, è ridicola ec. più o meno; maggiore o minore o niuna
diversità piace, dispiace, si tollera o non si tollera nel favellare. Lasceremo
ora il comparare a questo proposito le lingue antiche colle moderne, e il
considerare come corrispondentemente
3864 alla diversa
natura dello stato e costume delle nazioni antiche e moderne, e dello spirito e
società umana antica e moderna, tutte le lingue antiche sieno o fossero più
ardite delle moderne, e sia proprio delle lingue antiche l'ardire, e quindi esse
sieno molto più delle moderne, per lor natura, atte alla poesia; perocchè tra
gli antichi, dove e quando più, dove e quando meno, ηὐδοκίμει la singolarità
dell'opere, delle maniere, de' costumi, de' caratteri, degl'istituti delle
persone, e quindi eziandio quella del lor favellare e scrivere. La nazion
francese, che di tutte l'altre sì antiche sì moderne, è quella che meno approva,
ammette e comporta, anzi che più riprende ed odia e rigetta e vieta, non pur la
singolarità, ma la nonconformità dell'operare e del conversare nella vita
civile, de' caratteri delle persone ec.; la nazion francese, dico, lasciando le
altre cose a ciò appartenenti, della sua lingua e del suo stile; manca affatto
di lingua poetica, e non può per sua natura averne, perocchè ella deve
naturalmente inimicare e odiare, ed odia infatti, come la singolarità delle
azioni ec. così la singolarità del favellare e scrivere. Ora il parlar poetico è
per sua natura diverso dal parlare ordinario. Dunque esso ripugna per sua natura
alla natura della società e della nazione francese. E di fatti la lingua
francese è incapace, non solo di quel peregrino che nasce dall'uso di voci,
modi, significati tratti da altre lingue,
3865 o dalla
sua medesima antichità, anche pochissimo remota, ma eziandio di quel peregrino e
quindi di quella eleganza che nasce dall'uso non ordinario delle voci e frasi
sue moderne e comuni, cioè di metafore non trite, di figure, sia di sentenza,
sia massimamente di dizione, di ardiri di ogni sorta, anche di quelli che non
pur nelle lingue antiche, ma in altre moderne, come p. e. nell'italiana,
sarebbero rispettivamente de' più leggeri, de' più comuni, e talvolta neppure
ardiri. Questa incapacità si attribuisce alla lingua; ella in verità è della
lingua, ma è acora della nazione, e non per altro è in quella, se non perch'ella
è in questa. Al contrario la nazion tedesca, che da una parte per la sua
divisione e costituzion politica, dall'altra pel carattere naturale de' suoi
individui, pe' lor costumi, usi ec. {+per
lo stato presente della lor civiltà, che siccome assai recente, non è in
generale così avanzata come in altri luoghi,} e finalmente per la
rigidità del clima che le rende naturalmente propria la vita casalinga, e
l'abitudine di questa, è forse di tutte le moderne nazioni civili la meno atta e
abituata alla società personale ed effettiva; sopportando perciò facilmente ed
anche approvando e celebrando, non pur la difformità, ma la singolarità delle
azioni, costumi, caratteri, modi ec. delle persone (la qual
singolata[singolarità] appo loro non ha
pochi nè leggeri esempi di fatto, anche in città e corpi interi, come in quello
de' fratelli moravi, e in altri molti istituti ec. ec. tedeschi, che per verità
non hanno
3866 punto del moderno, e parrebbero
impossibili a' tempi nostri, ed impropri affatto di essi), sopporta ancora, ed
ammette e loda ec. una grandissima singolarità d'ogni genere nel parlare e nello
scrivere, ed ha la lingua, non pur nel verso, ma nella prosa, più ardita {per sua natura} di tutte le moderne colte, e pari {in questo} eziandio alla più ardita delle antiche. La
qual lingua tedesca per conseguenza è poetichissima e {capace
e} ricca d'ogni varietà ec. (11. Nov. 1823.).
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