8-14. Marzo 1821.
[735,1] La lingua greca da' suoi principii fino alla fine, non
lasciò mai di arricchirsi, e acquistar sempre, massimamente nuovi vocaboli. Non
è quasi scrittor greco {di qualsivoglia secolo,} che
venga nuovamente in luce, il quale non possa servire ad impinguare il
vocabolario greco di qualche novità.
736 Non è secolo
della buona lingua greca (la quale si stende molto innanzi, cioè almeno a Costantino, giacchè credo che S. Basilio e S. Crisostomo si citino nel Glossario sebbene anche nel Vocabolario) ne' cui
scrittori la lingua non si trovi arricchita di nuove voci e anche modi, che non
si osservano ne' più antichi. E questi incrementi erano tutti della propria
sostanza e del proprio fondo, giacchè la lingua greca fu oltremodo schiva d'ogni
cosa forestiera, ma trovava nelle sue radici e nella immensa facilità e copia
de' suoi composti, la facoltà di dir tutto quello che bisognava, e di conformare
la novità delle parole alla novità delle cose, senza ricorrere ad aiuti
stranieri. Insomma il tesoro e la natura, e non solamente ricchezza, ma
fertilità naturale e propria della lingua greca, era tale da bastare da per se
sola, a tutte le novità che occorresse di esprimere, come un paese così fertile
che fosse sufficiente ad alimentare
737 qualunque numero
di nuovi abitatori o di forestieri. E questo si può vedere manifestamente anche
per quello che interviene oggidì. Giacchè in tanta diversità di tempi e di
costumi e di opinioni, in tanta novità di conoscenze e di ritrovati, e fino
d'intere scienze e dottrine, qualunque novità massimamente scientifica occorra
di significare e denominare, si ha ricorso alla lingua greca. Nessuna lingua
viva, ancorchè pure le lingue vive sieno contemporanee alle nostre cognizioni e
scoperte, si stima in grado di bastare a questo effetto, e s'invoca una lingua
morta e antichissima per servire alla significazione ed enunziazione di quelle
cose a cui le lingue viventi e fiorenti non arrivano. La rivoluzione francese,
richiedendosi alla novità delle cose, la novità delle parole, ha popolato il
vocabolario francese ed anche europeo, di nuove voci greche. La fisica, la
Chimica, la storia naturale, le matematiche,
738 l'arte
militare, la nautica, {la medicina, la metafisica} la
politica ogni sorta di scienze o discipline, ancorchè rinnovellate e
diversissime da quelle che si usavano o conoscevano dagli antichi greci,
ancorchè nuove di pianta, hanno trovato in quella lingua il capitale sufficiente
ai bisogni delle loro nomenclature. Ogni scienza o disciplina nuova, comincia
subito dal trarre il suo nome dal greco. E questa lingua ancorchè da tanti
secoli spenta, resta sempre inesauribile, e provvede a tutto, e si può dire che
prima mancherà all'uomo la facoltà di sapere di conoscere e di scoprire, prima
saranno esaurite tutte le fonti dello scibile, di quello che manchi alla lingua
greca la facoltà di esprimerlo, e sia inaridita la fonte delle sue denominazioni
e parole. Il qual uso, ancorchè io lo biasimi e condanni per le ragioni che ho
dette altrove [p. 48]
[p.
50], non è però che non renda evidente e palpabile l'onnipotenza
immortale di quella lingua.
[739,1]
739 Così la lingua greca che non avea nè Accademie nè
Vocabolari, senza perder mai la facoltà di arricchirsi, e di far fruttare il suo
terreno ubertosissimo, costantemente però e tenacemente nemica delle merci
straniere (o per carattere nazionale, o per la stessa ricchezza sua che bastava
a tutto) si mantenne sempre come fertile e prolifica e viva e vegeta e copiosa,
così pura e sincera, fino ai tempi che Costantino trasportando quasi l'italia nella grecia, e
l'occidente in oriente, con quella
infinita e subitanea novità di costumi, di abitatori, di corte, ec. introducendo
e stabilendo, ed erigendo per così dire la lingua latina nel bel mezzo delle
provincie greche e della lingua greca, forzò quell'idioma per sì lungo spazio
indomito e vittorioso di tutte[tutti] gli
assalti{forestieri, e illeso fra tutti} i pericoli
di barbarie che aveva incontrati, a ricevere voci straniere, e mescolarle colle
proprie (non per bisogno, ma per uso e
740 commercio
quotidiano, e presenza di gente straniera, e questa numerosa, e padrona) e
finalmente imbarbarire suo malgrado e a viva forza. {V. p. 981,
capoverso 1.} La qual mescolanza {e quasi fusione} di usi costumi opinioni linguaggi
occidentali e orientali, sebbene il mondo inclinava già fortemente alla
barbarie, anzi vi aveva già messo il piede, tuttavia credo che contribuisse
ancor ella ad imbarbarire scambievolmente, le une colle altre nazioni,
inducendole e forzandole a guastare, o dismettere i loro primitivi istituti e
costumi, assai più di quello che avessero fatto per l'addietro, il quale
allonta{na}mento e declinazione dal primitivo, è
l'ordinaria e certa sorgente di barbarie e di corruzione fra gli uomini.
[740,1] Della lingua latina non si può dire la stessa cosa che
ho detto della greca. E tuttavia mi par di vedere che la primitiva proprietà,
natura, essenza ed organizzazione della lingua latina, fosse ottimamente
ordinata e disposta a produrre lo stesso effetto. Ma questo
741 non seguì per le ragioni che son per dire. Non andrò ora cercando
se le radici latine (dico primitive e pure latine) sieno così copiose come le
greche. Il commercio e la diffusione dei greci, il molto maggior tempo ch'essi
durarono e con essi i loro studi, e la loro lingua, li pose in grado di
accrescer le loro cognizioni, e quindi le loro radici, molto più che i latini,
popolo ristretto in brevi limiti finattanto che col resto del mondo non
conquistò anche la grecia: ma allora i
progressi delle sue cognizioni, del suo dominio, del suo commercio, non
giovarono a quello delle sue radici; certamente questo non corrispose a
quell'altro, per la ragione che dirò poi. {+V. in questo proposito Senofonte. Ἀθηναί. πολιτεία κεϕ. β΄.§. η΄.}
[741,1] Lasciando le radici, osserverò che la stessa immensa
facoltà dei composti che si ammira, e rende più che altra cosa inesauribile la
lingua greca, l'aveva ancora ne' suoi principii la lingua latina, e l'ebbe per
lungo tempo, cioè per lo meno sino a Cic. il quale principalmente
742 fissò,
ordinò, stabilì, compose, formò e determinò la lingua latina. Ponete mente a
ciascuna delle {antiche e
primitive} radici latine, e vedrete in quante maniere, con
quanto[quante] piccole giunte e variazioni,
sieno ridotte a significare diversissime cose per mezzo di composti, {sopraccomposti, ossia decomposti,} e derivati, o di
metafore, nello stesso modo appunto che la lingua greca per gli stessi mezzi si
rende atta a dir tutto e chiaramente e propriamente e puramente e
facilissimamente. Osservate p. e. il verbo duco
{o facio} e consideratelo in tutti i suoi derivati o
composti, {e
sopraccomposti}, e in tutti i loro e suoi significati {ed usi} o propri o metaforici, ma però sempre così
usitati, che benchè metaforici, son come propri. {Con ogni esame mi sono accertato che il verbo duco
{e il verbo facio} per la copia de'
composti, sopraccomposti, con preposizione e senza, derivati e loro
composti, significati ed usi propri e traslati, tanto di questi che suoi, è
adattattissimo a servire di esempio. {{(Ludifico, carnifex,
sacrificium, {labefacto} ed altri
infiniti sono i composti del verbo facere senza preposizione nè
particelle ec. ma con altri nomi, alla greca.)}} E con
queste considerazioni vedrete quanto la primitiva natura della lingua latina
fosse disposta, a somiglianza della greca, alla onnipotenza di esprimer
tutto facilmente, e tutto del suo ed a sue spese; alla pieghevolezza,
trattabilità, duttilità ec. Come questa facoltà di servirsi così bene delle
sue radici, di estendersi, dilatarsi guadagnare {conquistare} con sì
743 poca fatica,
metter così bene e a sì gran frutto il suo proprio capitale, coltivare con
sì gran profitto il proprio terreno; questa facoltà dico, che nella lingua
greca durò sino alla fine, come venisse così presto a mancare nella lingua
latina, alla quale abbiamo veduto ch'era non meno naturale e caratteristica
che alla greca, a cui poi si attribuì {e si attribuisce} come
esclusivamente sua, verrò esponendolo e assegnandone le ragioni che mi
parranno verisimili.}
[743,1] La lingua greca nel tempo in cui ella pigliava forma,
consistenza, ordine, e stabilità (giacchè prima o dopo questo tempo la cosa non
avrebbe avuto lo stesso effetto) non ebbe uno scrittore nel quale per la copia,
varietà, importanza, pregio e fama singolarissima degli scritti, si riputasse
che la lingua tutta fosse contenuta. L'ebbe la lingua latina, l'ebbe appunto nel
tempo che ho detto, e l'ebbe in Cicerone. Questi per tutte le dette condizioni, per l'eminenza del suo
ingegno, e lo splendore
744 delle sue gesta, del suo
grado, della sua vita, e di tutta la sua fama, per aver non solo introdotta ma
formata {e perfezionata} non solo la lingua, ma la
letteratura, l'eloquenza, la filosofia latina, trasportando il tutto dalla grecia, per
essere in somma senza contrasto il primo il sommo letterato e scrittore latino
in quasi tutti i generi, soprastava tanto agli altri, che la lingua latina
scritta, si riputò tutta chiusa nelle sue opere, queste tennero luogo di
Accademia e di Vocabolario, l'autorità e l'esempio suo presso i successori, non
si limitò ad insegnare, e servir di norma e di modello, ma, come accade, a
circoscrivere; la lingua si riputò giunta al suo termine; gl'incrementi di essa
si stimarono già finiti; si credè giunto il colmo del suo accrescimento; si temè
la novità; si ebbe dubbio e scrupolo di guastare e far degenerare in luogo di
arricchire; le fonti della ricchezza della lingua si stimarono chiuse. ec. E
così Cic. fra gl'infiniti benefizi fatti
alla sua
745 lingua, gli fece anche indirettamente per
la troppa superiorità e misura della sua fama e merito, troppo soverchiante e
primeggiãte[primeggiante], {questo danno} di
arrestarla, come arrivata già alla perfezione, e come in pericolo di degenerare
se fosse passata oltre: e quindi togliergli l'ardire, la forza generativa, e
produttrice, la fertilità, e inaridirla. Nello stesso modo che avvenne alla
eloquenza e letteratura latina, per lo stesso motivo, e per la stessa persona
(v. Velleio nel fine del 1.mo libro). Che siccome per {la letteratura} si stimò quasi giunta l'ora del riposo,
tanto egli l'aveva perfezionata {+(v. p. 801. fine.} (cosa che
non accadde mai nella grecia, giacchè a
nessuno scrittore in particolare competeva questa qualità, e la perfezione di un
secolo il quale s'intreccia e addentella col seguente, non ispaventa tanto
quanto quella di un solo, che in se stesso racchiude e definisce e circoscrive
la perfezione) così appunto intervenne anche alla lingua, la quale similmente,
746 come già matura e perfetta, cessò di crescere
è[e] isterilì. Questa può essere una
ragione. Quest'altra mi sembra la principale.
[746,1] Da qualunque origine derivasse la lingua e la
letteratura e filosofia e sapienza greca, certo è che la grecia, se non fu
l'inventrice delle sue lettere, scienze, ed arti, le ricevè informi, ed
instabili, e imperfette, e indeterminate, e così ricevute, le formò, stabilì,
perfezionò, determinò essa medesima, e nel suo proprio seno, e di sua propria
mano ed ingegno, così che vennero la sua letteratura ed il suo sapere ad essere
sue proprie, ed opera si può dir sua: quindi non ebbe bisogno di ricorrere ad
altre lingue per esprimere le sue cognizioni (se non se, come tutte le lingue,
nei primordi, e nelle primissime derivazioni delle sue radici, giacchè nessuna
lingua è nata coll'uomo, ma derivata l'una dall'altra più o meno anticamente,
finchè si arriva ad una lingua assolutamente madre e primitiva, che nessuno
conosce): non ebbe dico bisogno di queste, ma formando le sue cognizioni, formò
insieme la lingua; e
747 quindi pose sempre a frutto, e
coltivò il suo proprio fondo, e trasse da se stessa tutto il tesoro della
favella. Ma ai latini non accadde lo stesso. La loro letteratura, le loro arti,
le loro scienze vennero dalla grecia, e tutto in un
tratto, e belle e formate. Essi le ricevettero già ordinate, composte,
determinate, provvedute intieramente del loro linguaggio, trattate da scrittori
famosissimi: in somma i latini non ebbero e non fecero altra opera che
traspiantare di netto le scienze, arti, lettere greche nel loro terreno. Quindi
era ben naturale che quelle discipline ch'essi non avevano formate, portassero
seco anche un linguaggio non latino, perchè dovunque le discipline si formano, e
ricevono ordine e corpo stabile e determinato, quivi se ne forma il linguaggio,
e questo passa naturalmente alle altre nazioni insieme con esse discipline. Non
avendole dunque i latini nè create nè formate, ma ricevute quasi per manus belle e fatte, neanche ne crearono nè
formarono,
748 ma riceverono parimente il linguaggio.
Lucrezio volendo trattar materie
filosofiche s'era lagnato della novità delle cose e della povertà della lingua,
come potremmo far noi oggidì, volendo trattare la moderna filosofia. Cicerone, da grande e avveduto uomo, il quale benchè
gelosissimo della purità della favella, conosceva che alla novità delle cose era
necessaria la novità delle parole, e che
queste non sarebbero 1. intese e chiare, 2. inaffettate e naturali, se non
fossero appresso a poco quelle medesime che erano in comune e confermato uso
in quelle tali discipline; fu ardito, e trattando materie {si può dir} greche popolò il latino di parole greche,
certo di essere inteso, e di non riuscire affettato, perchè la lingua greca era
divulgatissima e familiare fra' suoi, come appunto oggi la francese, e quelle
parole notissime, e usitatissime anzi proprie di quelle discipline, come oggi le
francesi nelle {moderne} materie filosofiche e simili.
E di più erano necessarie. Così dunque la lingua latina si pose in grado di
discorrer delle
749 cose, e di essere scritta, ma vi si
pose per mezzi alieni e non propri. Bisogna anche osservare che non questa o
quella disciplina, ma si può dir tutte le discipline, e cognizioni umane, tutto
quello che scrivendo si può trattare, anzi anche conversando urbanamente, cioè
tutta la coltura tutti i soggetti regolati e ordinati, erano venuti dalla grecia in
Roma, immediatamente e interamente. Quindi successe quel che doveva, che
la lingua latina, affogata ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose
nuove, disperata di poterla subito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla
novità delle parole tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno,
abbracciò la suppellettile straniera di linguaggio, che trovava già pronta, e da
tutti intesa ed usata: e così la facoltà generativa della lingua latina, rimase
o estinta o indebolita, e si trasformò nella facoltà adottiva. Cicerone ne aveva usato
750 da suo pari con discrezione e finissimo giudizio e gusto, non
lasciando in nessun modo di coltivare il fondo della sua lingua, di accrescerla,
e di cavarne quanto era era possibile in quella strettezza, in quella tanta
copia di nuove cose, accompagnate da parole straniere già divulgate ed usitate.
Ma dopo Cicerone si passarono i limiti:
parte perch'essendo (com'è oggi relativamente al francese) molto più facile il
tirar dalla lingua greca già ben provveduta di tutto, e a tutti nota, le parole
e modi occorrenti, di quello che dalla latina che non le dava senza studio, e
profonda cognizione di tutte le sue risorse; quelli che non erano così periti
della loro lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi di una tal lingua,
come della nostra oggidì: e pochi o nessuno la possedè così a fondo come Cicerone) senza troppo curare di
accertarsi s'ella avesse o non avesse come esprimere convenientemente e
pianamente il bisognevole,
751 davan sacco alla lingua
greca che l'aveva tutto alla mano. Parte perchè non la sola necessità, o la
difficoltà dell'uso del latino in quei casi, o finalmente l'ignoranza della
propria lingua, ma anche il vezzo spingeva i romani (come oggi ec.) ad usare le
parole {e modi} greci in iscambio delle parole e modi
latini, e mescolarli insieme, come che quelli dessero grazia e spirito alla
favella gentile, e in somma ci entrò di mezzo oltre la letteratura e la
filosofia, anche la moda. Orazio già
avea dato poco buon esempio. Uomo in ogni cosa libertino e damerino e
cortigiano, in somma tutto l'opposto del carattere Romano, {e
nelle opere tanto seguace della sapienza fra' cortigiani, quanto Federigo II tra i
re.} Non è maraviglia se la lingua romana gli parve inferiore
alla sua propria eleganza e galanteria. Sono noti e famosi quei versi della
poetica, dov'egli difende e ragiona su questo suo costume. Egli però come uomo
di basso ma sottile ingegno, se nocque coll'esempio, non pregiudicò grandemente
colla pratica; {+anzi io non voglio
contendere s'egli, quanto a se, giovasse piuttosto o pregiudicasse alla sua
lingua, perchè i suoi ardimenti paiono a tutti, e li credo anch'io, se non
altro, in massima parte, felicissimi;} ma poco
752 tempo dopo la sua morte, cioè al tempo di Seneca ec. per ambedue le dette ragioni la cosa era ita
tant'oltre che la lingua latina {impoveriva dall'un canto e dall'altro} imbarbariva
effettivamente per grecismo come oggi l'italiana per francesismo. Ed è curioso
come tristo l'osservare che {siccome} la lingua latina
rendè poi con usura il contraccambio di questo danno e di questa barbarie {alla greca,} quando
già mezzo barbara le si riversò tutta, per così dire, nel seno, sotto Costantino e successori, così oggidì la
lingua francese rende con eccessiva usura alla nostra quella corruttela che ne
ricevè al tempo dei Medici [(Caterina, Maria)] in Francia ec.
La lingua latina fu (per poco spazio) restituita, se non all'antica indole,
certo a uno splendore somigliante all'antico (insieme colla letteratura
parimente corrotta) da parecchi scrittori del secolo tra Nerva e Marcaurelio, fra' quali Tacito ec. del che non è ora luogo a parlare. Solamente
noterò per incidenza, e perchè fa a questo discorso delle lingue, un parallelo
curiosissimo che si può fare tra Frontone e i presenti ristoratori della lingua italiana.
753 Il qual Frontone, come apparisce {ora} dalle
reliquie de' suoi scritti ultimamente scoperte, merita un posto distinto, fra i
ristauratori e zelatori della purità come della letteratura così della lingua
latina. Nel qual pregio egli forse e senza forse, cred'io, è l'ultimo di tempo,
che si conosca, o abbia almeno qualche distinta rinomanza. Ma egli (colpa della
nostra natura) volendo riformare il troppo libertinaggio, e {castigare} la viziosa novità della lingua, cadde, come appunto gran
parte de' nostri, nell'eccesso contrario. Giacchè una riforma di questa natura,
deve consistere nel mondar la lingua dalle brutture, distoglierla dal cattivo
cammino, e rimetterla sul buono. Non già ricondurla a' suoi principii, e molto
meno voler che di quivi non si muova. Perchè la lingua e naturalmente e
ragionevolmente cammina sempre {finch'è viva,} e come è
assurdissimo il voler ch'ella stia ferma, contra la natura delle cose, così è
pregiudizievole e porta discapito il volerla riporre più indietro che non
bisogna, e obbligarla a rifare quel cammino
754 che avea
già fatto {dirittamente e} debitamente. Laddove bisogna
riporla nè più nè meno in quel luogo che conviene al tempo e alle circostanze,
osservando solamente che questo luogo sia proprio suo e conveniente alla sua
natura. Ma Frontone in luogo di
purificare la lingua, la volle antiquare, richiamando in uso parole e modi, per
necessaria vicenda delle cose umane, dimenticati, ignorati e stantii, e fino
come pare, l'antica ortografia, volendo {quasi}
immedesimare, in dispetto della natura {e del vero,} il suo tempo
coll'antico. Come che quei secoli che son passati, e quelle mutazioni che sono
accadute e nella lingua, e in tutto quello che la modifica, dipendesse dalla
volontà dell'uomo {il fare} che non fossero passati e
non fossero accadute, e il cancellare tutto l'intervallo {di tempo ed altro} che sta fra
il presente e l'antico. Nè osservò che siccome la lingua cammina sempre,
perch'ella segue le cose le quali sono istabilissime e variabilissime, così ogni
secolo anche il più buono e casto ha la sua lingua modificata in una maniera
propria, la quale allora solo è cattiva,
755 quando è
contraria all'indole della lingua, scema o distrugge 1. la sua potenza e
facoltà, 2. la sua bellezza e bontà naturale e propria, altera perde guasta la
sua proprietà, la sua natura, il suo carattere, la sua essenziale struttura e
forma ec. Fuori di questo, com'è altrettanto vano, che dannoso e micidiale
l'assunto d'impedire ch'ella si arricchisca, così è impossibile e dannoso
l'impedire che si modifichi secondo i tempi e gli uomini e le cose, dalle quali
la lingua dipende e per le quali è fatta, non per qualche ente immaginario, come
la virtù o la giustizia ch'è immutabile o si suppone. E perchè Cic. non iscrisse come il vecchio Catone ec. non perciò resta ch'egli non
sia, come in ordine a tutto il rimanente, così pure alla lingua, il sommo
scrittor latino: nè {che}
Virgilio non sia il primo poeta latino,
e {limpidissimo specchio di latinità} (riconosciuto
dallo stesso Frontone negli Exempla elocutionum), perciò che la sua lingua è ben
diversa
756 da quella di Ennio di Livio
Andronico, ec. e anche di Lucrezio. Bisogna però ch'io renda giustizia a Frontone, perchè se egli cadde in quel difetto che ho
notato, vi cadde con molto più discrezione giudizio e discernimento sì nelle
massime o nella ragione, che nella pratica, di quello che facciano molti degli
odierni italiani, avendo anche molto riguardo a fuggir l'affettazione, per la
quale massimamente e per la oscurità si rende assurdo e barbaro l'uso di molte
parole antiquate; e possedendo la sua lingua veramente, e quindi, sebben
peccasse nella troppa imitazione degli antichi, non però cercando, come fanno i
nostri, di dar colore di antichità a' suoi scritti, col solo materiale e
parziale uso delle parole e modi vecchi, senza osservare se la scrittura sapesse
poi veramente di antico, e se quelle parole e modi vi cadessero acconciamente e
naturalmente, o forzatamente, e dissonando dal corpo della composizione. {Frontone non sognò neppure la
massima di vietare la conveniente e giudiziosa novità e formazione delle
parole o modi, anzi egli stesso ne dà esempio di tratto in tratto.} Il
che
757 fanno i nostri per impotenza, ignoranza,
povertà, e niun possesso di lingua; credendo di esser buoni scrittori italiani
quando hanno imparato e usato a sproposito e come capita, un certo numero di
parole e modi antichi, non curandosi poi, o non sapendo vedere se corrispondano
al resto e all'insieme del colorito e dell'andamento, e testura del discorso,
ovvero sieno come un ritaglio di porpora cucito sopra un panno vile, o certo
d'altro colore ed opera. Ma conviene ch'io dica quello ch'è vero, che non mi è
riuscito mai di trovare negli antichi scrittori latini o greci, per difettosi
che sieno, tanta goffaggine, {e incapacità,} e
piccolezza di giudizio, e debolezza e scarsezza di mezzi, {e decisa insufficienza alle imprese, agli
assunti ec.} quanto negli odierni italiani: e Frontone del resto non fu niente povero
d'ingegno. {+Il suo peccato si può ridurre all'aver considerato come modelli di buona
lingua, piuttosto Ennio che Virgilio e che lo stesso Lucrezio (che tanto l'arricchì nella
parte filosofica) piuttosto Catone
che Tullio; all'aver creduto che in
quelli e non in questi fosse la perfezione della lingua latina, all'avere
attinto più da quelli che da questi, e consideratili come fonti più ricchi o
più sicuri ec.; o certo aver loro attribuita senza veruna ragione (conforme
però all'ordinario rispetto per l'antico) maggiore autorità in fatto di
lingua. ec. ec.} Questo sia detto in trascorso e per digressione.
[757,1] Tornando al proposito, cioè all'arricchire
758 la lingua del prodotto delle sue proprie sostanze, e
dalla greca e latina, passando alle vive, questa è sempre stata e {sarà} sempre facoltà
inseparabile dalla vita delle lingue, e da non finire se non colla loro morte.
Tutte le lingue vive la conservano, eccetto quelli che vorrebbero che la
italiana la deponesse. La francese, la quale a differenza dell'italiana, si è
spogliata {della
facoltà} di usare quelle delle sue parole e modi antichi e
primitivi, che {le}
potessero tornare in acconcio (come ho detto altrove [p. 344]
[pp. 688-90]); parimente a differenza di ciò che si esigerebbe dalla
italiana, ha conservato sempre ed usato la facoltà di mettere a frutto e
moltiplico il suo {presente} tesoro. E la stessa lingua latina, la quale per
le ragioni che ho detto [pp. 750-52], perdè in parte questa
facoltà dopo Cicerone, non la perdè, se
non in quanto a quella felicissima ed immensa facoltà di composti {e sopraccomposti} o
con preposizione o particella, ovvero di più parole insieme; facoltà che la
metteva quasi
759 (cioè in proporzione della quantità
delle radici e de' semplici) al paro della greca; facoltà che si può vedere e
nelle primitive parole latine composte nei detti modi, o con avverbi (come propemodum e mille altre), in somma come le greche, e
che sono durate nell'uso della latinità sino alla fine, ma non però imitate nè
accresciute; e in quelle che poi caddero dall'uso, e si possono veder ne' più
antichi latini (come in Plauto
lectisterniator, legirupus, lucrifugae e mille altre,
e prendo le primissime che ho incontrate subito), e servono a far conoscere la
primitiva costituzione, forma, usanza, e potenza di quella lingua: facoltà in
fine, ch'è la massima e più ricca sorgente della copia delle parole, e della
onnipotenza di tutto esprimere, ancorchè nuovissimo; il che si ammira nel greco,
e si potè una volta notare anche nel latino. [p. 48]
pp. 740. sgg.
[pp.
2078-79]
[pp.
2876-79]
{+I primi
scrittori latini, il loro linguaggio sacro o governativo ec. antico (come
lectisternium antica festa romana) abbondano
siffattamente di parole composte alla greca di due o più voci, che non si
può forse leggere un passo di detti autori ec. senza trovarne, ma la più
parte andate in disuso. Spesso eran proprie di quel solo che le inventava.
Talvolta anche di eccessiva lunghezza, come clamydeclupetrabracchium parola di antico poeta riferita da Varrone (De L. L. lib. 4.)
(p. 3. della mia edizione del 400.} Quest'uso ottimo e
felicissimo, e questa facoltà, fu o trascurata, o comunque
760 lasciata trasandare, abbandonare, dismettere, dimenticare alla
lingua latina, che era per forza d'essa facoltà così bene istradata alla
onnipotenza, ne' suoi principii. Ma la facoltà di arricchire la propria lingua
col prodotto delle sue proprie radici in ogni altro genere, coi derivati ec. non
fu mai abbandonata finch'ella visse, e non poteva esserlo, stante ch'ella
vivesse. Non solamente i cattivi o mediocri, ma anche i buoni ed ottimi
scrittori dopo Cicerone, se ne
prevalsero tutti, e tutti scrivendo aumentarono il tesoro della lingua, e questa
non lasciò mai di far buoni e dovuti progressi, finchè fu adoperata da buoni e
degni scrittori.
[760,1] Così deve tenersi per fermissimo, ch'è indispensabile
di fare a tutte le lingue finch'elle vivono. La facoltà de' composti pur troppo
non è propria delle nostre lingue. Colpa non già di esse lingue, ma
principalmente dell'uso che non li sopporta, non riconosce nelle nostre lingue
meridionali
761 (delle settentrionali non so) questa
facoltà, delle orecchie o non mai assuefatteci, o dissuefattene da lungo tempo.
Perchè del resto 1. le nostre preposizioni, massimamente {nella lingua} italiana, sarebbero per la più parte, appresso a poco
non meno atte alla composizione di quello che fossero le greche e latine, e
{noi} non manchiamo di particelle attissime allo
stesso uso, anzi molte ritrovate espressamente per esso (come ri, o re, {tra o stra, arci,}
dis, o s, in negativo {o privativo,} e affermativo {mis, di, de
ec.}
{+E di queste
abbondiamo anzi più de' latini, e forse anche dei greci stessi, e credo
certo anche de' francesi e degli spagnuoli.)}
{V. il Monti, Proposta alla voce Nonuso, e se vuoi p. 2078.} 2.
anche ai composti di più parole la lingua massimamente italiana, sarebbe
dispostissima, come già si può vedere in alcuni ch'ella usa comunemente ({valentuomo,
passatempo, tuttavolta, tagliaborse,}
capomorto, capogatto,
{beccafico, falegname,
granciporro,} e molti e molti altri) {v. p. 1076. e Monti
Proposta ec. v.
guardamacchie.} ed anche la lingua francese (emportepièce, {gobemouche, fainéant coi
derivati} ec.). 3. non manchiamo neppure di avverbi atti a
servire alla composizione. 4. la nostra lingua benchè non si pieghi e non ami in
questo genere la novità, ha però non poco in questo genere, come i composti
colla preposizione {in,}
tra, fra, oltra,
762
sopra, su, sotto, contra, anzi ec. ec. e Dante fra gli altri antichi aveva introdotto subito nel quasi creare
la nostra lingua, la facoltà, il coraggio, ed anche l'ardire de' composti, de'
quali egli abbonda (come indiare, intuare, immiare, disguardare ec. ec.) massime con preposizioni avverbi, e particelle. E
così gli altri antichi nostri. Ma a noi pure è avvenuto, come ai latini, che
questa onnipotente facoltà, propria della primitiva natura della nostra lingua,
{+(sebbene allora pure in minor grado
che, non solo della greca, ma anche della latina)} s'è lasciata
malamente e sfortunatamente perdere quasi del tutto, ancorchè si conservino
{buona parte di} quelli che si sono trovati in uso,
e si adoprino come recentissimi, {attestando continuamente la
primiera facoltà e natura della nostra lingua;} ma de' veramente nuovi
e recenti non si gradiscono. E tutto questo appresso a poco è avvenuto anche
alla lingua francese. {V. p. 805.} Dei
composti dunque, gli scrittori di oggidì non hanno gran facoltà, ma non però
nessuna (tanto in italiano che in francese): anzi ce ne resta ancor tanta da
potere, senza
763 la menoma affettazione formare e
introdurre molti nuovi composti chiarissimi, facilissimi, naturalissimi,
mollissimi per l'una parte; e per l'altra utilissimi; specialmente con
preposizioni e particelle ec. Quanto poi ai derivati d'ogni specie (purchè sieno
secondo l'indole e le regole della lingua, e non riescano nè oscuri nè
affettati) e a qualunque parola nuova che si possa cavare dalle esistenti nella
nostra lingua, che stoltezza è questa di presumere che una parola di origine e
d'indole italianissima, di significazione chiarissima, di uso non affettata nè
strana ma naturalissima, {di suono finalmente non disgrata
all'orecchio,} non sia italiana ma barbara, e non si possa nè
pronunziare ne scrivere, per questo solo, che non è registrata nel Vocabolario? {+(E quello che dico delle parole dico anche delle
locuzioni e modi, e dei nuovi usi qualunque delle parole o frasi ec. già
correnti, purchè questi abbiano le dette condizioni.)} Quasi che la
lingua italiana sola, a differenza di tutte le altre esistenti, e di qualunque
ha mai esistito, si debba, mentre ancor vive nell'uso quotidiano della nazione,
considerar come morta {e morire vivendo, ed essere a un tempo
viva e morta.} Converrebbe che anche questa nazione vivesse come
morta, cioè che nella sua esistenza non
764 accadesse
mai novità, divario, mutazione veruna, nè di opinioni, nè di usi, nè di
cognizioni (come, e più di quello che si dice della China, la cui lingua in
tal caso potrà essere immobile): e di più che sia in tutto e per tutto conforme
alla vita e alle condizioni de' nostri antichi, {e di que'
secoli} dopo i quali non vogliono che sia più lecita la novità delle
parole.
[764,1] E infatti che differenza troveremo fra la lingua
italiana viva, e le morte, ammesso questo pazzo principio? Che libertà che
facoltà avremo noi nello scrivere la lingua nostra presente, più di quello che
nell'adoprare la greca e latina che sono antiche ed altrui? {+e le cui fonti sono disseccate e chiuse da gran tempo,
restando solo quel tanto ch'elle versarono mentre furono aperte, e quelle
lingue vissero.} Anzi io tengo per fermo che quegli scrittori italiani
i quali nel cinquecento maneggiarono la lingua latina in maniera da far quasi
dubbio se ella fosse loro artifiziale o naturale, furono assai meno
superstiziosi di quello che molti vorrebbero che fossimo noi trattando la lingua
nostra. E noi medesimi oggidì (parlo degli scienziati o letterati di tutta europa)
derivando, come facciamo spessissimo,
765 dal greco le
parole che ci occorrono per li nostri usi presenti, e per novità di cose
ignotissime ai parlatori di quella lingua, non formiamo voci parimente ignote
all'antica lingua greca? Ci facciamo scrupolo se non sono registrate nel
Lessico, o se non hanno per se l'autorità degli antichi scrittori? Non
innuoviamo noi in una lingua morta, stranierissima, e al tutto fuori d'ogni
nostro diritto? Il che, sebbene si facesse con {buon}
giudizio, e coi dovuti rispetti all'indole di quella lingua (al che per verità
pochi hanno l'occhio nella formazione di tali voci), a ogni modo vi si potrebbe
sofisticar sopra, e dire che la eredità che ci è pervenuta delle antiche lingue,
è come di beni infruttiferi, dai quali non si può nè ricavare nè pretendere
altro servigio che dell'usarli identicamente. Ma la nostra lingua {propria} è un'eredità, un capitale fruttifero, che
abbiamo ricevuto da' nostri maggiori, i quali come l'hanno fatto fruttare, così
ce l'
766 hanno trasmesso perchè facessimo altrettanto,
e non mica perchè lo seppellissimo come il talento del Vangelo, ne abbandonassimo affatto la coltivazione, credessimo di
custodirlo, e difenderlo, quando gli avessimo impedito ogni prodotto, la
vegetazione, il prolificare; lo considerassimo e ce ne servissimo come di un
capitale morto ec.
[766,1] Osservo anche questo. Noi ci vantiamo con ragione
della somma ricchezza, {copia,} varietà, potenza della
nostra lingua, della sua pieghevolezza, trattabilità, attitudine a rivestirsi di
tutte le forme, prender abito diversissimo secondo qualunque soggetto che in
essa si voglia trattare, adattarsi a tutti gli stili; insomma della quasi
moltiplicità di lingue contenute o possibili a contenersi nella nostra favella.
Ma da che cosa stimiamo noi che sieno derivate in lei queste qualità? Forse
dalla sua primitiva ed ingenita natura ed essenza? Così ordinariamente si dice,
ma c'inganniamo di gran lunga. Le dette qualità, le lingue non
767 le hanno mai per origine nè per natura. Tutte a presso a poco sono
disposte ad acquistarle, e possono non acquistarle mai, e restarsene poverissime
e debolissime, e impotentissime, e uniformi, cioè senza nè ricchezza, nè copia,
nè varietà. Tale sarebbe restata la lingua nostra, senza quello ch'io dirò.
Tutte lo sono nei loro principii, e non intendo mica nei loro primissimi
nascimenti, ma finattanto che non sono coltivate, e con molto studio ed impegno,
e da molti, e assiduamente, e per molto tempo. Quello che proccura alle lingue
le dette facoltà e buone qualità, è principalmente (lasciando l'estensione, il
commercio, la mobilità, l'energia, la vivacità, {gli
avvenimenti, le vicende, la civiltà, le cognizioni,} le circostanze
politiche, morali, fisiche delle nazioni che le parlano) è, dico, principalmente
e più stabilmente e durevolmente che qualunque altra cosa, la copia e la varietà
degli scrittori che l'adoprano e coltivano. {v. p.
1202.} Questa siccome, per ragione della maggior
durata, e di altre molte circostanze, fu maggiore nella grecia che nel Lazio,
perciò la lingua greca possedè le dette
768 qualità, in
maggior grado che la latina; ma non prima le possedè che fosse coltivata e
adoperata da buon numero di scrittori, e sempre (come accade universalmente) in
proporzione che il detto numero e la varietà o de' soggetti o degli stili o
degl'ingegni degli scrittori, fu maggiore, e s'accrebbe. La lingua latina
similmente non le possedè (sebben meno della greca, pure in alto grado) se non
quando ebbe copia {e varietà} di scrittori. Tutte le
lingue antiche e moderne che hanno mancato di questo mezzo, hanno anche mancato
di queste qualità. Per portare un esempio (oltre le lingue Europee meno colte)
la lingua Spagnuola nobilissima, e di genio al tutto classico, e
somigliantissima poi alla nostra particolarmente, sì per lo genio, come per
molti altri capi, {e sorella nostra non meno di ragione che
di fatto, e di nascita che di sembianza, costume, indole,} non è
inferiore alla nostra nelle dette qualità, se non perchè l'è inferiore
principalmente nella copia e varietà degli scrittori. Se la lingua francese, non
ostante la gran quantità degli scrittori, e degli
769
ottimi scrittori, si giudica ed è tuttavolta inferiore alla nostra ed alle
antiche per questo verso, ciò è avvenuto per le ragioni particolari che ho più
volte accennate. La riforma di essa lingua, la regolarità prescrittale, la
figura datale, avendo uniformato tutti gli stili, la poesia alla prosa; impedita
la varietà e moltiplicità della lingua, secondo i vari soggetti e i vari
ingegni; tolta la libertà, e la facoltà inventiva agli scrittori, in questo
particolare; tolto loro l'ardire, anzi rendutinegli affatto schivi e timidi ec.
ec. la Francia è venuta a mancare della varietà degli scrittori, non ostante
che n'abbia la copia, ed abbia la varietà de' soggetti, perchè tutti i soggetti
da tutti gl'ingegni si trattano, possiamo dire, in un solo modo. E ciò deriva
anche dalla natura e forza della eccessiva civiltà di quella nazione, e della
influenza della società: così stretta e legata, che tutti gl'individui francesi
fanno quasi un solo individuo. E laddove
770 nelle altre
nazioni, si cerca ed è pregio il distinguersi, in quello è pregio e necessità il
rassomigliarsi anzi l'uguagliarsi agli altri, e ciascuno a tutti e tutti a
ciascuno. Queste ragioni rendendogli timidi dell'opinione del ridicolo ec. e
scrupolosi osservatori delle norme prescritte e comuni nella vita, li rende
anche superstiziosi, timidi, schivi affatto di novità nella lingua. Ma tutto ciò
quanto {alle sole forme e} modi, perchè questi soli,
sono stati fra loro determinati, e prescritti i termini (assai ristretti) dentro
i quali convenga contenersi, e fuor de' quali sia interdetto ogni menomo passo.
{+E così quanto allo stile uniforme si
può dire in tutti, e in tutti i generi di scrittura, anche nelle traduzioni
ec. tirate per forza allo stile comune francese, ancorchè dallo stile il più
renitente e disperato; e quanto in somma all'unità del loro stile, e del
loro linguaggio che ho notata altrove [p.
321.]} Ma non quanto alle parole, nelle quali, restata libera in
francia
la facoltà inventiva, e il derivare novellamente dalle proprie fonti, sempre
aperte sinchè la lingua vive; la lingua francese cresce di parole ogni giorno e
crescerà. Che se le cavassero sempre dalle proprie fonti, o con quei rispetti
che si dovrebbe, non avrei luogo a riprenderli, come ho fatto altrove [p.
50]
[pp. 110-11]
[p. 344], e della corruzione e dell'aridità a cui {vanno} portando la loro lingua.
771 La quale
inoltre, da principio, era, come la nostra, attissima alla novità ed al
bell'ardire, anche nei modi, secondo che ho detto altrove [pp. 688-90]
[p. 758]. La lingua tedesca, rimasa per tanti secoli impotente ed
umile, ancorchè parlata da tanta e sì estesa moltitudine di popoli, non per
altro che per avere avuto nell'ultimo secolo e ne' pochi anni di questo, immensa
copia e varietà di scrittori, è sorta a si[sì]
alto grado di facoltà e di ricchezza e potenza.
[771,1] La lingua italiana dunque, scritta per sei secoli fino
al 18.vo inclusivamente, e scritta da una infinità di autori d'ogni soggetto,
d'ogni stile, d'ogni carattere, d'ogni ingegno, oltracciò abbondantissima,
quanto e più, certo prima di qualunque altra lingua {viva,} non solo di scrittori comunque, ma scrittori peritissimi nel
linguaggio, coltivatori assidui, ed espressamente dedicati allo studio della
lingua, maestri e modelli del bel parlare, studiosissimi delle lingue antiche
per derivarne nella nostra tutto il buono e l'adattato, liberi, coraggiosi, e
felicemente arditi nell'uso della lingua; questa lingua
772 dico, da piccoli anzi vili e rozzi e informi principii, come tutte
le altre, e da barbare origini; di più, cresciuta e fatta se non matura certo
adulta e vigorosissima fra le tenebre dell'ignoranza, della superstizione, degli
errori della barbarie; non per altro che per li detti motivi, {e prima e sola fra le viventi,} è venuta in tal fiore di
bellezza, di forza, di copia, di varietà, ec. che giunge quasi a pareggiare le
due grandi antiche (chi bene ed intimamente e in tutta la sua estensione la
conosce), non avendo rivale fra le moderne. Se dunque abbiamo veduto come le
doti delle lingue, e in ispecie la copia e la varietà, non derivano
principalmente se non dalla copia e varietà degli scrittori, e non da natura di
essa; ne segue che quando gli scrittori lasceranno per trascuraggine o
ignoranza, di arricchirla, e peggio se saranno impediti di farlo, la lingua non
arricchirà, non crescerà, non monterà più, e siccome le cose {umane,} non si fermano mai in un punto, ma vanno sempre innanzi o
retrocedono, così la lingua non avanzando più, retrocederà,
773 e dopo essere isterilita, impoverirà ancora, perderà quello che
avea guadagnato, e finalmente si ridurrà a tal grado di miseria e d'impotenza,
che non sarà più sufficiente all'uso e al bisogno, e allora sì che le converrà
domandare soccorso alle lingue straniere e imbarbarire del tutto, per quel
motivo appunto il quale si credeva doverla preservare dalla corruzione, e
mantenerla pura e sana. Forse che non vediamo già accadere {tutto} questo? Quante ricchezze delle già guadagnate, e per così
dire, incamerate, ha ella perduto quasi {e senza quasi}
del tutto! Ma di questo dirò poi.
[773,1] Vogliamo noi dunque ridurre la lingua italiana e nelle
parole e nei modi, a quella stessa paura, scrupolosità, superstizione,
schiavitù, grettezza, uniformità della lingua francese nei soli modi? Almeno i
francesi hanno una scusa nella natura della loro nazione, a cui la società è
vita, alimento, diletto, e spavento, {sanguisuga,}
tormento, morte.
774 A noi manca questa scusa, se {già} non vogliamo infrancesire interamente anche nei
costumi, usi, vita, gusti, idee, inclinazioni ec. e perdere fino alla sembianza,
aspetto forma d'italiani, come abbiamo più che incominciato.
[774,1] Diranno che la lingua, benchè per lo mezzo, e l'ardire
e libertà degli scrittori, è giunta però a quella perfezione, la quale non possa
oltrepassare senza guastarsi. Vi giunse, cred'io, nè più nè meno in quel punto
in cui finì di pubblicarsi l'ultimo Vocabolario della
Crusca, giacchè in questo o certo nei precedenti, sono riportate
moltissime parole coll'autorità di scrittori ancora viventi e scriventi. Anzi
il Buonarroti
scrisse la Fiera appostatamente
per somministrar parole al Vocabolario.
L'ultimo tomo dunque di questo, e quell'anno, quel mese, quel giorno in cui fu
pubblicato chiuse per sempre le fonti della lingua italiana, {state} aperte da cinque secoli. Ma lasciando le burle, do e non
concedo che la lingua italiana, sia stata già
775
portata dagli scrittori a quella somma perfezione a cui possa pervenire in
ordine a tutte le altre qualità, (errore manifestissimo, ma lasciamolo passare).
Nella ricchezza, copia, e varietà nego che veruna lingua del mondo, o attuale o
possibile, possa mai essere perfetta finchè non muore. E ciò nasce che le cose
ancora vivono sempre, e si modificano sempre novellamente, e si moltiplicano le
conosciute: ora una lingua non è mai perfettamente ricca, anzi perfettamente
fornita del necessario, finch'ella non può esprimere perfettamente, e
convenientemente tutte le cose, e tutte le possibili modificazioni delle cose di
questo mondo. Sicchè una lingua non avrà più mestieri di accrescimento, allora
solo quando o essa o il mondo sarà finito.
[775,1] Quali effetti produca poi, e quanto sia pericoloso il
volere arrestare una lingua, come già perfetta, e lo scoraggirsi di accrescerla,
per la persuasione
776 che ciò non sia più necessario,
nè lecito e giovevole, nè possibile, si può vedere in quello che ho detto della
lingua latina.
[776,1] E prima di partire da questo soggetto della ricchezza
e copia e bontà generale e potenza delle lingue proccurata principalmente dalla
copia e varietà {ed ingegno} degli scrittori, osserverò
che quella medesima superiorità di circostanza ch'ebbe la lingua greca sulla
latina, e che fu seguita dall'effetto di restarle realmente e sempre superiore
nella sostanza, l'abbiamo noi pure sopra tutte le altre lingue viventi, e colte.
Perchè siccome la {coltura della} lingua greca, e gli
scrittori suoi, incominciati assai per tempo, abbracciarono lunghissimo spazio,
e il loro numero fu grande in ciascun tempo; e siccome in proporzione di questo
spazio e di questo numero, la ricchezza e varietà e potenza della lingua greca,
crebbe in modo che non potè mai essere agguagliata dalla latina: così la lingua
italiana
777 scritta già come ho detto da sei secoli in
qua, e, si può dire, in ciascun secolo, abbondãtissima[abbondantissima] di diversissimi scrittori e cultori, ha
su tutte le altre lingue moderne e colte quello stesso vantaggio di circostanza
ch'ebbe la greca sulla latina. Vantaggio che per nessuno ingegno e nessuno
sforzo e studio di nessuna nazione ci potrà mai esser levato, se noi non
vorremo. Ma ecco che noi siamo fermati, e la lingua nostra non fa più progressi.
La lingua francese infaticabilmente si accresce di tutte le parole che le
occorrono. La lingua tedesca avanza e precipita come un torrente, e guadagna
tuttogiorno vastissimi spazi, in ogni genere di accrescimento. Noi da qualche
tempo arrestati, neghittosi, ed immobili, manchiamo del bisognevole per
esprimere e per trattare la massima parte delle cognizioni e delle discipline e
dottrine moderne, ed usi e opinioni ec. ec. oggi più rapide nel crescere e
propagarsi, e variare ec. di quello che mai
778 fossero,
e in proporzione che la nostra indolenza e infingardaggine presente, è opposta
alla energia ed attività passata. Così la lingua italiana perde {il vantaggio dello} spazio che avea guadagnato per
valore de' suoi antichi e primi padri, sopra le altre lingue, e queste correndo
più velocemente che mai, fra tanto che la nostra {siede
e} dorme, riguadagneranno tutto lo spazio perduto per la inerzia de'
loro antichi, arriveranno ben presto la nostra e la passeranno. E la nostra non
solo non sarà più nè superiore nè uguale alle altre colte moderne, ma tanto
inferiore, che divenuta impotente, e buona sola a parlare o scrivere ai
bisavoli; o non saprà esprimer niente del bisognevole, nè parlare e scrivere in
nessun modo ai contemporanei; o lo farà (come già lo fa per quel poco che parla
e scrive delle cose e cognizioni moderne, o per quello che ne dice non del suo,
ma copiando o seguendo gli stranieri) invocando l'altrui soccorso, servendosi
degl'istrumenti e mezzi altrui, e quasi trasformandosi
779 in un'altra, o vogliamo dire, facendosi provincia e suddita di un regno
straniero (come i piccoli e deboli confederati de' grandi e potenti) essa ch'era
capo di tutte le lingue viventi. Laddove siccome le altre lingue (come anche le
altre letterature, e repubbliche scientifiche) raddoppiano l'energia e la
veemenza e gagliardia del loro corso, così che in breve riguadagneranno lo
spazio perduto da' loro maggiori in confronto nostro, e, se noi non ci moviamo,
ci pareggeranno finalmente ben presto, e poi ci passeranno (che in quanto a
moltissimi rami del sapere è già accaduto): così conviene che ancor noi
pareggiamo i nostri ai loro sforzi, e così non perdendo {il} vantaggio acquistato, restiamo {perpetuamente} superiori a tutti, se non nel presente valore, certo
pel detto vantaggio acquistato dagli avi, e mantenuto da noi.
[779,1] Conchiuderò con una osservazione che benchè fatta, io
credo, da altri, tuttavia merita di essere ripetuta, perchè sia sempre più
780 considerata e sempre meglio svolta. Non solamente i
bisogni della lingua aumentano e si rinnuovano tuttogiorno, ma i mezzi della
lingua, senza la novità delle parole, tuttogiorno diminuiscono. Quante voci e
modi e frasi che una volta erano e usitatissime, e naturalissime, e chiarissime,
e comunissime, ed utilissime efficacissime espressivissime frequentissime nel
discorso, ora per essere antiquate, o non son chiare, o anche potendosi
intendere, anche essendo chiarissime, non si debbono nè possono usare perchè non
riescono e non cadono naturalmente, e manifestano e sentono quello che sopra
ogni cosa si deve occultare, lo studio e la fatica dello scrittore. Questo
accade in ogni lingua; tutte si vanno rinnovando, cioè dismettendo delle
vecchie, e adottando delle nuove voci e locuzioni. Se questa seconda parte viene
a mancare, la lingua non solamente col tempo non crescerà nè acquisterà, come
hanno sempre fatto {tutte le lingue colte o non colte,}
e come si è sempre inculcato a tutte le lingue
781
colte, ma per lo contrario perderà continuamente, e scemerà, e finalmente si
ridurrà così piccola e povera e debole, che o non saprà più parlare nè bastare
ai bisogni, o ricorrerà alle straniere; ed eccoti per un altro verso che quello
stesso preteso preservativo contro la barbarie, cioè la intolleranza della
giudiziosa novità, la condurrebbe alla barbarie a dirittura. E per parlare
particolarmente della lingua italiana non vediamo noi negli effetti 1. quanto le
lingue sieno soggette a perdere delle ricchezze loro: 2. come perdendo da una
parte e {non} guadagnando dall'altra, la lingua non più
per vezzo (che oramai il vezzo del francesismo è fuggito, anzi temutone da tutti
gli scrittori italiani il biasimo e il ridicolo) ma per decisa povertà e
necessità imbarbarisca? Prendiamoci il piacere di leggere a caso un foglio
qualunque del Vocabolario e notiamo tutte
quelle parole {e frasi ec.} che sono uscite fuor d'uso,
e che non si potrebbero usare, o non senza difficoltà. Io credo che nè meno due
terzi del vocabolario
782 sieno più adoperabili effettivamente nè servibili in
nessuna occasione, nè merce mai più realizzabile. Queste perdute, infinite altre
che sebbene dimenticate e fuor d'uso, sono però ricchezza viva e realissima
(come spesso necessarissima) perchè chiare a chiunque, e ricevute facilmente e
naturalmente dal discorso e dagli orecchi di chi si voglia, ma tuttavia sono
abbandonate e dismesse per ignoranza della lingua (la quale in chi maggiore in
chi minore, in quasi tutti si trova, perchè il pieno possesso dell'immenso
tesoro della lingua non appartiene oggi a nessuno neanche de' più stimati per
questo); finalmente la mancanza delle voci nuove adatte e necessarie alla novità
delle cose, costringono gli scrittori d'oggidì a ricorrere alla barbarie,
trovando la lingua loro del tutto insufficiente ai loro concetti, benchè sempre
poverissimi, triti, ordinari, triviali, ristrettissimi, scarsissimi; e benchè
spesso anzi per lo più vecchissimi e canuti.
[782,1] Conchiudo che la giudiziosa novità, (e massime tutta
quella che si può derivare dalle nostre stesse fonti) l'arruolare al nostro
esercito
783 nuove truppe, l'accrescere la nostra città
di nuove cittadinanze, in luogo che pregiudichi per natura sua, e quando si
faccia nei debiti modi, alla purità della lingua, è anzi l'unico mezzo
sufficiente di difesa, di far testa, di resistere alla irruzione della barbarie,
la quale sovrasta inevitabilmente a tutte le lingue che mentre il mondo, e le
cose, e gli uomini, e i suoi stessi parlatori camminano, e avanzano, o certo si
muovono; non vogliono {più,} o sono impedite di più
camminare nè progredire, nè muoversi in verun lato o modo: e vogliono, o son
forzate a volere (inutilmente) quella stabilità, che non ebbero mai nè avranno
gli uomini e le cose {umane,} al cui servigio elle son
destinate, e al cui seguito le costringe in ogni modo la natura. Conchiudo che
impedire alle lingue la giudiziosa e conveniente novità, non è preservarle, ma
tutt'uno col guidarle per mano, e condannarle, e strascinarle forzatamente alla
barbarie. (8-14. Marzo 1821.).