Libertà nelle lingue. Libertà nell'adoperare la propria lingua.
Freedom in languages. Freedom in using one's own language.
Vedi Novità nelle lingue. See Novelty in languages. 704,1 708 764,1 788,segg. 794 797-800 985,1 1046,2 1067,2 1093,1 1098,2 1292,1 1332,1 1862,1 1899,1 1953,2 2014,1 2057,1-2068,1 2103,1 2126,1 2130,1.2 2166,1 2173,3 2180,1 2397,2 2415,3 2578,1 2634-5 2845,1 3256,1[704,1]
704 L'uomo dev'esser libero e franco nel maneggiare la
sua lingua, non come i plebei si contengono liberalmente e disinvoltamente nelle
piazze, per non sapere stare decentemente e con garbo, ma come quegli ch'essendo
esperto ed avvezzo al commercio civile, si diporta francamente e scioltamente
nelle compagnie, per cagione di questa medesima esperienza e cognizione. Laonde
la libertà nella lingua dee venire dalla perfetta scienza e non dall'ignoranza.
La quale debita e conveniente libertà manca oggigiorno in quasi tutti gli
scrittori. Perchè quelli che vogliono seguire la purità e l'indole e le leggi
della lingua, non si portano liberamente, anzi da schiavi. Perchè non
possedendola {intieramente e} fortemente, e sempre
sospettosi di offendere, vanno così legati che pare che camminino fra le uova. E
quelli che si portano liberamente, hanno quella libertà de' plebei, che deriva
dall'ignoranza della lingua, dal non saperla maneggiare, e dal non curarsene. E
questi in comparazione
705 degli altri sopraddetti, si
lodano bene spesso come scrittori senza presunzione. Quasi che da un lato fosse
presunzione lo scriver bene (e quindi anche l'operar bene, e tutto quello che si
vuol fare convenientemente, fosse presunzione); dall'altro lato scrivesse bene
chi {ne} dimostra presunzione. Quando anzi il
dimostrarla, non solamente in ordine alla {buona}
lingua, ma a qualunque altra dote della scrittura, è il massimo vizio nel quale
scrivendo si possa incorrere. Perchè in somma è la stessa cosa che
l'affettazione; e l'affettazione è la peste d'ogni bellezza e d'ogni bontà,
perciò appunto che la prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di
tutti gli atti della vita umana, è la naturalezza. (28. Feb.
1821.).
[707,1] Perchè in fatti il secol d'oro di una lingua o di
qualunque altra disciplina, non è quello che la prepara, ma quello che l'adopra,
la compone de' materiali già pronti, e la forma; giacchè realmente quel secolo
che formò e determinò la lingua italiana fu più veramente il cinquecento che il
trecento, lasciando stare che i primi precetti della lingua nostra furono dati,
s'io non erro, in quel secolo, dal Bembo. Ma il cinquecento
708 formò e
determinò la lingua italiana in maniera ch'ella guadagnando nella coltura e
nell'ordine, non perdè nulla affatto nella naturalezza, nella copia, nella
varietà, nella forza, e neanche nella libertà, (quanta è compatibile colla
chiarezza e bellezza, e colla necessità di essere intesi, e quindi
convenientemente ordinati nel favellare): in somma e soprattutto, non mutò in
verun conto l'indole e natura sua primitiva, come la cambiò interamente la
francese, nella formazione e determinazione fattane dall'Accademia e dal secolo
di Luigi 14. (1. Marzo
1821.).
[764,1] E infatti che differenza troveremo fra la lingua
italiana viva, e le morte, ammesso questo pazzo principio? Che libertà che
facoltà avremo noi nello scrivere la lingua nostra presente, più di quello che
nell'adoprare la greca e latina che sono antiche ed altrui? {+e le cui fonti sono disseccate e chiuse da gran tempo,
restando solo quel tanto ch'elle versarono mentre furono aperte, e quelle
lingue vissero.} Anzi io tengo per fermo che quegli scrittori italiani
i quali nel cinquecento maneggiarono la lingua latina in maniera da far quasi
dubbio se ella fosse loro artifiziale o naturale, furono assai meno
superstiziosi di quello che molti vorrebbero che fossimo noi trattando la lingua
nostra. E noi medesimi oggidì (parlo degli scienziati o letterati di tutta
europa) derivando, come facciamo spessissimo,
765 dal greco le parole che ci occorrono per li nostri
usi presenti, e per novità di cose ignotissime ai parlatori di quella lingua,
non formiamo voci parimente ignote all'antica lingua greca? Ci facciamo scrupolo
se non sono registrate nel Lessico, o se non hanno per se l'autorità degli
antichi scrittori? Non innuoviamo noi in una lingua morta, stranierissima, e al
tutto fuori d'ogni nostro diritto? Il che, sebbene si facesse con {buon} giudizio, e coi dovuti rispetti all'indole di
quella lingua (al che per verità pochi hanno l'occhio nella formazione di tali
voci), a ogni modo vi si potrebbe sofisticar sopra, e dire che la eredità che ci
è pervenuta delle antiche lingue, è come di beni infruttiferi, dai quali non si
può nè ricavare nè pretendere altro servigio che dell'usarli identicamente. Ma
la nostra lingua {propria} è un'eredità, un capitale
fruttifero, che abbiamo ricevuto da' nostri maggiori, i quali come l'hanno fatto
fruttare, così ce l'
766 hanno trasmesso perchè
facessimo altrettanto, e non mica perchè lo seppellissimo come il talento del
Vangelo, ne abbandonassimo affatto la coltivazione, credessimo di custodirlo, e
difenderlo, quando gli avessimo impedito ogni prodotto, la vegetazione, il
prolificare; lo considerassimo e ce ne servissimo come di un capitale morto
ec.
[785,1] Tutto quello che ho detto della derivazione di nuove
parole o modi ec. dalle proprie radici, o dei nuovi usi delle parole o modi già
correnti, lo voglio estendere anche alle nuove radici, non già straniere, non
già prese dalle lingue madri, ma italiane, e non già d'invenzione dello
scrittore, ma venute in uso nel linguaggio della nazione, o anche nelle
scritture anche più rozze ed impure, purchè quelle tali radici abbiano le
condizioni dette di sopra in ordine ai nuovi derivati ec. E queste nuove radici
possono esser nuove in due sensi, o nuove nella scrittura, ma antiche nell'uso
quotidiano; o nuove ancora in questo. {V. p. 800.
fine.} Qui non voglio entrare nelle antichissime
quistioni, qual popolo d'italia, qual classe ec. abbia
diritto di somministrar nuovi incrementi alla lingua degli scrittori. Osserverò
solamente 1. quel luogo di Senofonte
circa la lingua attica che ho citato p.
741. in marg. notando che la grecia si trovava
appunto nella circostanza dell'italia per la varietà dei
dialetti, e che quello che prevalse
786 fu quello che
tutti gli abbracciò (come dice quivi Senofonte) cioè l'attico, come quello che fra noi si chiama
propriamente italiano. Giacchè c'è gran differenza tra quell'attico usitato da'
buoni scrittori greci, divulgato per tutto, quello di cui parla Senofonte ec. ec. e l'attico proprio.
Nello stesso modo fra il toscano proprio, e il toscano sinonimo d'italiano.
{V. p. 961. capoverso 1.} 2. Che
senza entrare in discussioni è ben facile il distinguere (almeno agli uomini
giudiziosi, perchè già senza buon giudizio non si scriverà mai bene per nessun
verso) se una parola usitata in questa o quella parte
d'italia, non però ammessa ancora o nelle scritture o
nel vocabolario, ec. abbia le dette condizioni, cioè sia chiara, facile,
inaffettata, di sapore di suono di forma italiana. (Giacchè di origine italiana,
è sempre ch'ella è usata in italia da molti, purchè non
sia manifestamente straniera, e questo di recente venuta; mentre infinite sono
le antiche parole straniere domiciliate, e fatte cittadine della nostra
lingua.). In questo caso qualunque sia la parte d'italia
che la usa, una voce, una frase qualsivoglia sarà sempre
787 italiana, e salva quanto alla purità, restando che per usarla
nelle scritture si considerino le altre qualità necessarie {oltre la purità} ad una voce o frase per essere ammessa nelle
scritture, e in questo o quel genere di scrittura, in questa o quella occasione
ec. 3. Che tutte le lingue crescono in questo modo, cioè coll'accogliere, e
porre nel loro tesoro le nuove voci create dall'uso della nazione; e che come
quest'uso è sempre fecondo, così le porte della scrittura e della cittadinanza,
sono sempre aperte, per diritto naturale, a' suoi novelli parti, in tutte le
lingue, fuorchè nella nostra, secondo i pedanti. E questa è una delle massime, e
più naturali e legittime e ragionevoli fonti, della novità, e degl'incrementi
necessari della favella. Perchè cogl'incrementi delle cognizioni, e col
successivo variar degli usi, opinioni, idee, circostanze intrinseche o
estrinseche ec. ec. crescono le parole {e il tesoro della
lingua} nell'uso quotidiano, e da quest'uso debbono passare nella
scrittura, se questa ha da parlare ai contemporanei, e da contemporanea, e delle
cose del tempo ec. Così cresce ogni momento di parole proprissime e
francesissime
788 la lingua francese, mediante quel
fervore e quella continua vita di società e di conversazione, che non lascia
esser cosa bisognosa di nome, senza nominarla; massime se appartiene all'uso del
viver civile, o alle comuni cognizioni della parte colta della nazione: e per
l'altra parte mediante quella debita e necessaria libertà, che non fa loro
riguardare come illecita una parola in ogni altro riguardo buona, e francese, ed
utile, e necessaria, per questo solo che non è registrata nel
Vocabolario, o non anche adoperata sia nelle scritture in
genere, sia nelle riputate e classiche. 4. Ripeterò quello che ho detto della
necessità di ammettere la giudiziosa novità a fine appunto di impedire che la
lingua non diventi barbara. Perchè la novità delle cose necessitando la novità
delle parole, quegli che non avrà parole proprie e riconosciute dalla sua
lingua, per esprimerle; forzato dall'imperioso bisogno ricorrerà alle straniere,
e appoco appoco si romperà ogni riguardo, e trascurata la purità della lingua,
si cadrà del tutto nella barbarie.
789 Il che si può
vedere, oltre l'esempio nostro, per quello della lingua latina, perchè questa
parimente, dopo Cicerone, mancata, o per
trascuraggine e ignoranza, come ho detto altrove pp. 750-51, e per
non trovarsi nè così perfetti possessori, e assoluti padroni della lingua, nè
così industriosi, oculati, giudiziosi, solerti, artifiziosi coltivatori del di
lei fondo, e negoziatori della sua merce e capitali, come Cicerone; o per timidità, scoraggimento, falsa e
dannosa opinione che la ricchezza della lingua fosse già perfetta, o ch'ella in
quanto a se non fosse più da crescere nè da muovere, nè da toccare; o per
superstizione di pedanti che sbandissero le nuove voci tratte dall'uso, o dalle
radici della lingua, come mancanti di autorità competente di scrittori (il che
veramente accadeva, come si vede in Gellio); o anche per falsa
opinione che le radici o l'uso, o insomma il capitale proprio della lingua non
avessero effettivamente più nulla da dare, che facesse al caso, o convenisse
alle scritture ec. ec: mancata dico per tutte queste ragioni alla lingua latina
la debita libertà, e la
790 giudiziosa novità, ebbe
ricorso, per bisogno, allo straniero, e degenerò in barbaro grecismo. E come,
per fuggir questo male, è necessario dar giusta e ragionata (non precipitata, e
illegittima, e ingiudicata e anarchica) cittadinanza anche alle parole
straniere, se sono necessarie, molto più bisogna e ricercare con ogni diligenza,
e trovate accogliere con buon viso, e ricevere nel tesoro della buona e
scrivibile e legittima favella, sì i derivati delle buone e già riconosciute
radici, sì le radici che non essendo ancora riconosciute, vanno così vagando per
l'uso della nazione, senza studio nè osservazione, di chi le fermi, le cerchi,
le chiami, le inviti, e le introduca a far parte delle voci o modi riconosciuti,
e a partecipare degli onori dovuti ai cittadini della buona lingua. 5. In ultimo
osserverò che non si hanno da avere per forestiere quelle voci o frasi, che
benchè tali di origine hanno acquistato già stabile e comune domicilio nell'uso
quotidiano, e molto più se nelle scritture di vaglia. Queste voci o frasi sono
791 come naturalizzate, e debbono partecipare ai
diritti e alle considerazioni delle sopraddette. Altrimenti siamo da capo,
perchè una grandissima parte delle nuove voci e frasi di cui s'accresce l'uso
quotidiano, vengono dallo straniero. E tutte le lingue ancorchè ottime, ancorchè
conservate nella loro purità, ancorchè ricchissime, si accrescono col commercio
degli stranieri, e per conseguenza con una moderata partecipazione delle loro
lingue. Le cognizioni, le cose di qualunque genere che ci vengono dall'estero, e
accrescono il numero degli oggetti che cadono nel discorso, o scritto o no, e
quindi i bisogni della denominazione e della favella, portano naturalmente con
se, i nomi che hanno presso quella nazione da cui vengono, e da cui le
riceviamo. Come elle son nuove, così nella lingua nostra, non si trova bene
spesso come esprimerle appositamente e adequatamente in nessun modo. L'inventar
di pianta nuove radici nella nostra lingua, è impossibile all'individuo, e
difficilissimamente e rarissimamente accade nella nazione, come si può
facilmente osservare:
792 e questo in tutte le lingue,
perchè ogni nuova parola deve aver qualche immediata e precisa ragione per
venire in uso, e per esser tale e non altra, e per esser subito e generalmente e
facilmente intesa {e applicata a quel tale oggetto, e
ricevuta in quella tal significazione;} il che non può avvenire
mediante il capriccio di un'invenzione arbitraria. Di più, c'è forse lingua che
ne' suoi principii e di mano in mano non sia stata composta di voci straniere e
d'altre lingue? Quante ne ha la lingua nostra prese dal francese, dallo
Spagnuolo, dalle lingue settentrionali, e tuttavia riconosciute, e
necessariamente, e legittimamente divenute da gran tempo italiane? Come in fatti
si formerebbe una lingua senza ciò? colla sola invenzione a capriccio, o
mediante un trattato, un accordo fatto espressamente, e individuo per individuo,
da tutta la nazione? Perchè dunque quello ch'era lecito anzi necessario ne'
principii e dopo, non sarà lecito ora nel caso della stessa necessità
relativamente a questa o quella parola? Così fa tuttogiorno la lingua francese,
così
793 hanno fatto e fanno necessariamente e per
natura tutte le lingue antiche e moderne. E sebbene la lingua greca fosse così
schiva d'ogni foresteria, anche per carattere nazionale, come si è veduto
dall'aver essa mantenuta la sua purità forse più lungo tempo di tutte le altre,
e anche in mezzo alla corruzione totale della {sua}
letteratura, ec. e alla schiavitù straniera della nazione, al commercio ai
viaggi antichi e moderni, alla dimora di tanti suoi nazionali in
Roma ec. ec. (come Plutarco) nondimeno la lingua attica, riconosciuta più universalmente
di qualunque altra dagli scrittori per lingua propriamente greca, e fra le
greche elegantissima, bellissima e purissima, attesta Senofonte
nel luogo citato da me p. 741. ch'era un misto non solo
di ogni sorta di voci greche, ma anche prese da ogni sorta di barbari, mediante
il commercio marittimo degli Ateniesi, e la cognizione ed uso di oggetti
stranieri, che questo commercio proccurava loro, come dice pure Senofonte. Che se la necessità,
naturale come ho
794 detto, e comune a tutte le lingue,
porta a ricevere per buone anche le voci straniere, entrate recentemente
nell'uso quotidiano, o non ancora entratevi nemmeno (purchè siano
intelligibili), tanto più quelle che colla molta dimora fra noi, si sono
familiarizzate e domesticate co' nostri orecchi, ed hanno quasi perduto l'abito,
e il portamento, e la sembianza, e il costume straniero, o certo l'opinione di
straniere. Anzi queste pure vanno cercate sollecitamente, ed accolte, e
preferite, per sostituirle, quanto sia possibile alle intieramente estranee.
Giacchè ripeto che con ogni cura bisogna arricchir la lingua del bisognevole, e
farlo con buon giudizio, ed esplorate le circostanze e la necessità ec. ec.
acciocchè non sia fatto senza giudizio, e senza previo esame, ma alla ventura e
illegittimamente; perocchè quella lingua che
non si accresce, mentre i soggetti della lingua moltiplicano, cade
inevitabilmente, e a corto andare nella barbarie.
[794,1] Per aver {poco} bisogno
795 di voci straniere, è necessario che una nazione, non
solo abbia coltivatori di ogni sorta di cognizioni {e nel
tempo stesso diligenti, studiosi e coltivatori della lingua,} ed in se
stessa una vita piena di varietà, di azione, di movimento ec. ec. ma ancora
ch'ella sia l'inventrice o di tutte o di quasi tutte le cognizioni, e di tutti
gli oggetti della vita che cadono nella lingua, e non solo pura inventrice, ma
anche perfezionatrice, perchè dove le discipline, e le cose s'inventano, si
formano, si perfezionano, quivi se ne creano i vocaboli, e questi con quelle
discipline e con quegli oggetti, passano agli stranieri. Così appunto è avvenuto
alla Grecia, e però appunto la sua lingua si fe' così
ricca, e potè mantenersi così pura, a differenza della latina. Perchè la greca
abbisognava di poco dagli stranieri, da' quali poche notizie e nessuna
disciplina (si può dire) ricevea (eccetto negli antichissimi tempi, cioè intanto
che la lingua diveniva tale): la latina viceversa.
All'italia da principio veniva ad accader quasi lo
stesso, essendo ella inventrice di tutte quasi le discipline che si conobbero in
quei tempi,
796 abbondandone nel suo seno i coltivatori,
e questi diligenti, studiosi e padroni della lingua; ed avendo anche molta vita
e varietà e riputazione al di fuori, e spirito patriotico, sebben disunito, pure
e forse anche più valevole, a fornirla di molti oggetti di lingua. Ma essendosi
fermata nel momento che le discipline e sono cresciute di numero, e tutte
portate a un perfezionamento rapidissimo, e vastissimo; non essendo intervenuta
per nessuna parte ai travagli immensi di questi ultimi secoli, tanto nel
perfezionamento delle cognizioni, quanto nel resto; di più avendo nello stesso
tempo per diverse cagioni, trascurata affatto la sua lingua, in maniera che
anche quegli italiani scrittori che hanno cooperato alquanto (e ben poco, e
pochi) col resto dell'europa, al progresso ultimo delle
cognizioni, non hanno niente accresciuta la lingua del suo, avendo scritto non
italiano, ma barbaro, {+ed avendo adottate
di pianta le rispettive nomenclature o linguaggi che aveano trovati presso
gli stranieri nello stesso genere, o in generi simili al loro (se per
avventura essi ne fossero stati gl'inventori):} è doloroso, ma
necessario il dire, che s'ella d'ora innanzi non vuol esser la sola parte
d'europa meramente ascoltatrice, o ignorare affatto
le nuove universalissime cognizioni, s'ella vuol parlare a' contemporanei, e di
cose adattate al tempo, come tutti i buoni scrittori han fatto, e come bisogna
pur fare in ogni modo; le conviene ricevere
797 nella
cittadinanza della lingua (bisogna pur dirlo) non poche, anzi buona quantità di
parole affatto straniere. Si consoli però che tutte le nazioni, quando più
quando meno hanno avuto il medesimo bisogno, quale in un tempo, quale in
un'[un] altro; l'ha avuto anche la sua
antica lingua, cioè la latina; l'abbiamo avuto noi stessi nei principii della
nostra lingua (e se ora ci bisogna ritornare a quella necessità che si prova nei
principii, nostra colpa): e non creda di diventar barbara, se saprà far quello
ch'io dico con retto e maturo e accurato {e posato}
giudizio. Anzi si dia fretta {a introdurre e scegliere queste
medesime voci straniere} se non vuole che la lingua imbarbarisca del
tutto, e senza rimedio. Perchè l'unica via di arrestare i progressi {della corruttela} è questa. Proclamare lo studio
profondo e vasto della lingua, e nel tempo stesso la libertà che ciascuno {scrittore} impadronitosi bene della lingua e
conosciutone a fondo l'indole e le risorse, usi il suo giudizio nell'introdurre,
e impiegare e spendere la novità necessaria, anche straniera. Finchè uno
scrittore qualunque (che non sia da bisavoli)
798 sarà
privo di questa libertà, sarà stimato impuro se vorrà usare la necessaria novità
si vedrà costretto a scegliere fra quella che si chiama e se le presenta e
prescrive come purità di lingua, e {tra} la facoltà di
trattare il suo soggetto e di esprimere i suoi pensieri (originali e propri, o
no, ma solamente moderni): disperando di una purità nella quale sia non
solamente difficile, (come sempre sarà ed in ogni caso) ma del tutto impossibile
di esprimere i suoi pensieri, la trascurerà affatto, e diverrà (malgrado ancora
la buona intenzione) colpevole per la forza del bisogno, ricorrendo a quella
barbarie la quale sola gli fornirà il modo di farsi intendere e di scrivere.
Ovvero al più seguirà quella miserabile separazione fra gli scrittori vuotissimi
e nulli ma puri, e fra gli scrittori di cose ma barbari; quando nessun de' due
può mai sperare l'immortalità, ma molto meno i primi, senza riunire le due
qualità e i due pregi che consistono nelle parole e nelle cose. Disordini però
tutti già tanto inoltrati in Italia, e bisognosi di sì
lunga opera, e di tanto ingegno e
799 giudizio, e di
tanta difficoltà a ripararli, che io con dolore predico che non se ne verrà
certo a capo in questa generazione, e chi sa quando. (Giacchè per rimetter
davvero in piedi la lingua italiana, bisognerebbe prima in somma rimettere in
piedi l'italia, e gl'italiani, e rifare le teste {e gl'ingegni} loro, come lo stesso bisognerebbe per la
letteratura, e per tutti gli altri pregi e parti di una buona e brava e valorosa
nazione; che con questi ingegni, con queste razze di giudizi e di critica,
faremo altro che ristaurare la lingua.) Perchè se si presume di averlo
conseguito collo sbandire e interdire e precludere affatto la novità delle cose
e del pensiero, lasciando stare che in fatti non si è conseguito un fico, perchè
eccetto pochissimissimi i più puri {e vuoti} scrivono
barbarissimamente, dico, non ostante l'amore ch'io porto a questa purità, e lo
stimarla necessarissima, che il rimedio è peggio del male. Vero è che da gran
tempo gli scrittori italiani puri ed impuri si sono egualmente dispensati dal
pensare, e anche dal
800 dire, talmente che se alcuno
de' nostri scritti ci fosse pericolo che potesse passare di là da' monti o dal
mare, gli stranieri si maraviglierebbero sodamente come, in questo secolo, in
una nazione posta nel mezzo d'europa si possa scrivere in
modo, che l'aver letto, si può dire, qualunque de' libri italiani che ora
vengono in luce, sia lo stesso nè più nè meno che non aver letto nulla. Del
resto il punto sta che la novità ch'io dico (e parlo in particolare della
straniera) si sappia convenevolmente introdurre. Perchè tutte le lingue antiche
e moderne sono composte di elementi stranieri, e pur tutte hanno avuto il tempo
della loro purità e naturalezza; e potrà riaverlo anche l'italiana, non ostante
{l'aggiunta de'} molti nuovi e necessari elementi
stranieri, purchè si sappia fare, e non si trascuri, anzi si coltivi
profondamente, e sempre più il proprio terreno. (16. Marzo
1821.).
[794,1] Per aver {poco} bisogno
795 di voci straniere, è necessario che una nazione, non
solo abbia coltivatori di ogni sorta di cognizioni {e nel
tempo stesso diligenti, studiosi e coltivatori della lingua,} ed in se
stessa una vita piena di varietà, di azione, di movimento ec. ec. ma ancora
ch'ella sia l'inventrice o di tutte o di quasi tutte le cognizioni, e di tutti
gli oggetti della vita che cadono nella lingua, e non solo pura inventrice, ma
anche perfezionatrice, perchè dove le discipline, e le cose s'inventano, si
formano, si perfezionano, quivi se ne creano i vocaboli, e questi con quelle
discipline e con quegli oggetti, passano agli stranieri. Così appunto è avvenuto
alla Grecia, e però appunto la sua lingua si fe' così
ricca, e potè mantenersi così pura, a differenza della latina. Perchè la greca
abbisognava di poco dagli stranieri, da' quali poche notizie e nessuna
disciplina (si può dire) ricevea (eccetto negli antichissimi tempi, cioè intanto
che la lingua diveniva tale): la latina viceversa.
All'italia da principio veniva ad accader quasi lo
stesso, essendo ella inventrice di tutte quasi le discipline che si conobbero in
quei tempi,
796 abbondandone nel suo seno i coltivatori,
e questi diligenti, studiosi e padroni della lingua; ed avendo anche molta vita
e varietà e riputazione al di fuori, e spirito patriotico, sebben disunito, pure
e forse anche più valevole, a fornirla di molti oggetti di lingua. Ma essendosi
fermata nel momento che le discipline e sono cresciute di numero, e tutte
portate a un perfezionamento rapidissimo, e vastissimo; non essendo intervenuta
per nessuna parte ai travagli immensi di questi ultimi secoli, tanto nel
perfezionamento delle cognizioni, quanto nel resto; di più avendo nello stesso
tempo per diverse cagioni, trascurata affatto la sua lingua, in maniera che
anche quegli italiani scrittori che hanno cooperato alquanto (e ben poco, e
pochi) col resto dell'europa, al progresso ultimo delle
cognizioni, non hanno niente accresciuta la lingua del suo, avendo scritto non
italiano, ma barbaro, {+ed avendo adottate
di pianta le rispettive nomenclature o linguaggi che aveano trovati presso
gli stranieri nello stesso genere, o in generi simili al loro (se per
avventura essi ne fossero stati gl'inventori):} è doloroso, ma
necessario il dire, che s'ella d'ora innanzi non vuol esser la sola parte
d'europa meramente ascoltatrice, o ignorare affatto
le nuove universalissime cognizioni, s'ella vuol parlare a' contemporanei, e di
cose adattate al tempo, come tutti i buoni scrittori han fatto, e come bisogna
pur fare in ogni modo; le conviene ricevere
797 nella
cittadinanza della lingua (bisogna pur dirlo) non poche, anzi buona quantità di
parole affatto straniere. Si consoli però che tutte le nazioni, quando più
quando meno hanno avuto il medesimo bisogno, quale in un tempo, quale in
un'[un] altro; l'ha avuto anche la sua
antica lingua, cioè la latina; l'abbiamo avuto noi stessi nei principii della
nostra lingua (e se ora ci bisogna ritornare a quella necessità che si prova nei
principii, nostra colpa): e non creda di diventar barbara, se saprà far quello
ch'io dico con retto e maturo e accurato {e posato}
giudizio. Anzi si dia fretta {a introdurre e scegliere queste
medesime voci straniere} se non vuole che la lingua imbarbarisca del
tutto, e senza rimedio. Perchè l'unica via di arrestare i progressi {della corruttela} è questa. Proclamare lo studio
profondo e vasto della lingua, e nel tempo stesso la libertà che ciascuno {scrittore} impadronitosi bene della lingua e
conosciutone a fondo l'indole e le risorse, usi il suo giudizio nell'introdurre,
e impiegare e spendere la novità necessaria, anche straniera. Finchè uno
scrittore qualunque (che non sia da bisavoli)
798 sarà
privo di questa libertà, sarà stimato impuro se vorrà usare la necessaria novità
si vedrà costretto a scegliere fra quella che si chiama e se le presenta e
prescrive come purità di lingua, e {tra} la facoltà di
trattare il suo soggetto e di esprimere i suoi pensieri (originali e propri, o
no, ma solamente moderni): disperando di una purità nella quale sia non
solamente difficile, (come sempre sarà ed in ogni caso) ma del tutto impossibile
di esprimere i suoi pensieri, la trascurerà affatto, e diverrà (malgrado ancora
la buona intenzione) colpevole per la forza del bisogno, ricorrendo a quella
barbarie la quale sola gli fornirà il modo di farsi intendere e di scrivere.
Ovvero al più seguirà quella miserabile separazione fra gli scrittori vuotissimi
e nulli ma puri, e fra gli scrittori di cose ma barbari; quando nessun de' due
può mai sperare l'immortalità, ma molto meno i primi, senza riunire le due
qualità e i due pregi che consistono nelle parole e nelle cose. Disordini però
tutti già tanto inoltrati in Italia, e bisognosi di sì
lunga opera, e di tanto ingegno e
799 giudizio, e di
tanta difficoltà a ripararli, che io con dolore predico che non se ne verrà
certo a capo in questa generazione, e chi sa quando. (Giacchè per rimetter
davvero in piedi la lingua italiana, bisognerebbe prima in somma rimettere in
piedi l'italia, e gl'italiani, e rifare le teste {e gl'ingegni} loro, come lo stesso bisognerebbe per la
letteratura, e per tutti gli altri pregi e parti di una buona e brava e valorosa
nazione; che con questi ingegni, con queste razze di giudizi e di critica,
faremo altro che ristaurare la lingua.) Perchè se si presume di averlo
conseguito collo sbandire e interdire e precludere affatto la novità delle cose
e del pensiero, lasciando stare che in fatti non si è conseguito un fico, perchè
eccetto pochissimissimi i più puri {e vuoti} scrivono
barbarissimamente, dico, non ostante l'amore ch'io porto a questa purità, e lo
stimarla necessarissima, che il rimedio è peggio del male. Vero è che da gran
tempo gli scrittori italiani puri ed impuri si sono egualmente dispensati dal
pensare, e anche dal
800 dire, talmente che se alcuno
de' nostri scritti ci fosse pericolo che potesse passare di là da' monti o dal
mare, gli stranieri si maraviglierebbero sodamente come, in questo secolo, in
una nazione posta nel mezzo d'europa si possa scrivere in
modo, che l'aver letto, si può dire, qualunque de' libri italiani che ora
vengono in luce, sia lo stesso nè più nè meno che non aver letto nulla. Del
resto il punto sta che la novità ch'io dico (e parlo in particolare della
straniera) si sappia convenevolmente introdurre. Perchè tutte le lingue antiche
e moderne sono composte di elementi stranieri, e pur tutte hanno avuto il tempo
della loro purità e naturalezza; e potrà riaverlo anche l'italiana, non ostante
{l'aggiunta de'} molti nuovi e necessari elementi
stranieri, purchè si sappia fare, e non si trascuri, anzi si coltivi
profondamente, e sempre più il proprio terreno. (16. Marzo
1821.).
[985,1] La soverchia ristrettezza e superstizione e tirannia
in ordine alla purità della lingua, ne produce dirittamente la barbarie e
licenza, come la eccessiva servitù produce la soverchia e smoderata libertà dei
popoli. I quali ora perciò non divengono liberi, perchè non
986 sono eccessivamente servi, e perchè la tirannia è perfetta, e
peggiore che mai fosse, essendo più moderata che fosse mai. (25. Aprile
1821.).
[1046,2] Principalissime cagioni dell'essersi la lingua greca
per sì lungo tempo mantenuta incorrotta (v. Giordani nel fine della Lettera sul Dionigi) furono indubitatamente la sua
ricchezza, e la sua libertà d'indole e di fatto. La qual libertà produce in
buona parte la ricchezza; la qual libertà è la più
1047
certa, anzi necessaria, anzi unica salvaguardia della purità di qualunque
lingua. La quale se non è libera primitivamente e per indole, stante
l'inevitabile mutazione e novità delle cose, deve infallibilmente declinare
dalla sua indole primitiva, e per conseguenza alterarsi, perdere la sua
naturalezza e corrompersi: laddove ella conserva l'indole sua primitiva, se fra
le proprietà di questa è compresa la libertà. E quindi si veda quanto bene
provveggano alla conservazione della purità del nostro idioma, coloro che
vogliono togliergli la libertà, che per buona fortuna, non solo è nella sua
indole, ma ne costituisce una delle principali parti, e uno de' caratteri
distintivi. E ciò è naturale ad una lingua che ricevè buona parte di formazione
nel trecento, tempo liberissimo, perchè antichissimo, e quindi naturale, e
l'antichità e la natura non furono mai soggette alle regole minuziose e
scrupolose della ragione, e molto meno della matematica. Dico antichissimo,
rispetto alle lingue moderne, nessuna delle quali data da sì lontano tempo il
principio vero di una formazione molto inoltrata, e di una notabilissima
coltura, ed applicazione alla scrittura: nè può {di gran
lunga} mostrare in un secolo così remoto sì grande universalità e
numero di scrittori e di parlatori ec. che le servano anche oggi di modello. E
questa antichità
1048 di formazione e di coltura,
antichità unica fra le lingue moderne, è forse la cagione per cui l'indole
primitiva della lingua italiana formata, è più libera forse di quella d'ogni
altra lingua moderna colta (siccome pure dell'esser più naturale, più
immaginosa, più varia, più lontana dal geometrico ec.).
[1067,2] Le cause per cui la lingua greca formata fu liberissima d'indole e di
fatto, a differenza della latina, sono
[1093,1] La letteratura di una nazione, la quale ne forma la
lingua, e le dà la sua impronta, e le comunica il suo genio, corrompendosi,
corrompe conseguentemente anche la lingua, che le va sempre a fianco e a
seconda. E la corruzione della letteratura non è mai scompagnata dalla
corruzione della lingua, influendo vicendevolmente anche questa sulla corruzione
di quella, come senza fallo, anche lo spirito della lingua contribuisce a
determinare e formare lo spirito della letteratura. Così è accaduto alla lingua
latina, così all'italiana nel 400, nel 600, e negli ultimi tempi, così pure nel
600, e negli ultimi tempi alla spagnuola: tutte corrotte al corrompersi della
rispettiva letteratura. Eppure la lingua greca, con esempio forse unico,
corrotta, anzi, dirò, imputridita la letteratura, si mantenne incorrotta
1094 più secoli, e molto altro spazio poco alterata,
come si può vedere in Libanio, in Imerio, in S. Gregorio Nazianzeno, e altri tali sofisti più antichi o più moderni di
questi, che sono corrottissimi nel gusto, e non corrotti {o
leggermente corrotti} nella lingua. Tanta era per una parte la
libertà, la pieghevolezza, e dirò così la capacità della lingua greca formata, che poteva anche essere applicata a pessimi
stili, senza allontanarsi dall'indole della sua formazione, e senza perdere le
sue forme proprie, e il suo naturale; ed essere adoperata da una letteratura
guasta senza guastarsi essa stessa, adattandosi tanto al buono come al cattivo,
e ricevendo nella immensa capacità delle sue forme, e nella sua {varietà,} copia e ricchezza, sì l'uno come l'altro.
Simile in ciò all'italiana, dove si può scrivere purissimamente cose di pessimo
gusto, ed usare un pessimo stile, in ottima o non corrotta lingua, come ho detto
altrove pp. 243-45
p.
321
pp.
686. sgg.
pp.
766-67. Dal che nasce la difficoltà di scriver bene in italiano, a
differenza del francese, che avendo una sola
lingua, ha anche un solo
stile, e chiunque scrive in francese, non può non iscrivere in istile appresso a poco, buono. E
però non dobbiamo farci maraviglia di quello che dicono, che tutti i francesi
più o meno scrivono bene.
[1098,2] La formazione intera e principale della lingua
latina, accade in un tempo similissimo (serbata la proporzione de' tempi) a
quello della francese, cioè nel secolo più civile ed artifiziato di
Roma, e (dentro i limiti della civiltà) più corrotto:
dico nel secolo tra Cic. e Ovidio. Ecco la cagione per cui la lingua
latina, come la francese, perdè nella formazione la sua libertà, ed ecco la
cagione di tutti gli effetti di questa mancanza, simili nelle dette due lingue
ec. (28. Maggio 1821.).
[1292,1]
Alla p. 1242.
Non è dunque da maravigliarsi che la lingua italiana fra le moderne sia tenuta
la più ricca. (Monti.) Ho già mostrato come la vera fonte
della ricchezza delle lingue antiche, consistesse nella gran facoltà dei
derivati e de' composti, e come questa sia la principal fonte della ricchezza di
qualsivoglia lingua, e quella che ne manca o ne scarseggia, non possa esser mai
ricca. La lingua italiana la quale cede alla greca e latina nella facoltà de'
composti (colpa più nostra che sua), abbiamo veduto
1293 e si potrebbe dimostrare con mille considerazioni, che nella facoltà dei
derivati, e nell'uso che finora ha saputo fare di tal facoltà, piuttosto vince
dette lingue, di quello che ne sia vinta. Sarà dunque vero che la lingua
italiana sia la più ricca delle moderne, e questa superiorità sua, che una volta
fu effettiva (e per le dette ragioni), non passerà come parecchie altre, se noi
non la spoglieremo di quelle facoltà che la producono, e sole la possono {principalmente} produrre; e che per l'altra parte sono
proprie della sua indole. Cioè se non la spoglieremo della facoltà di crear
nuovi composti e derivati, disfacendo quello che fecero i nostri antichi.
Giacchè l'impedire alla lingua {+(e ciò
per legge costante) che non segua ad} che non esercitare le facoltà
generative datele da quelli che la formarono, {è lo stesso
che spogliarnela, e quindi} si chiama disfare e non conservare l'opera
dei nostri maggiori.
[1332,1] Altra gran fonte della ricchezza e varietà
1333 della lingua italiana, si è quella sua immensa
facoltà di dare ad una stessa parola, diverse forme, {costruzioni, modi ec.,} e variarne al bisogno il significato,
mediante detta variazione di forme, o di uso, {o di
collocazione ec.} che alle volte cambiano affatto il senso della voce,
alle volte gli danno una piccola inflessione che serve a dinotare una piccola
differenza della cosa primitivamente significata. Non considero qui l'immensa
facoltà delle metafore, proprissima, anzi essenziale della lingua italiana (di
cui non la potremmo spogliare senz'affatto travisarla), e naturale a spiriti
così vivaci {ed immaginosi} come i nostri nazionali.
Parlo solamente del potere usare p. e. uno stesso verbo in senso attivo,
passivo, neutro, neutro passivo; con tale o tal caso, e questo coll'articolo o
senza; {+con uno o più nomi alla volta, e
anche con diversi casi in uno stesso luogo;} con uno o più infiniti di
altri verbi, governati da questa o da quella preposizione, da questo o da quel
segnacaso, o liberi da ogni preposizione o segnacaso; co' gerundi; {con questo o quell'avverbio, o particella (che, se, quanto
ec.);} e così discorrendo. Questa facoltà non solamente giova alla
varietà ed alla eleganza che nasce dalla novità ec. e dall'inusitato, e in somma
alla bellezza del discorso,
1334 ma anche sommamente
all'utilità, moltiplicando infinitamente il capitale, e le forze della lingua,
servendo a distinguere le piccole differenze delle cose, e a circoscrivere la
significazione, e modificarla; potendo l'italiano esprimere facilissimamente
{e chiaramente,} mille cose nuove con parole
vecchie nuovamente modificate, ma modificate secondo il preciso gusto della
lingua ec. Questa facoltà l'hanno e l'ebbero qual più qual meno tutte le lingue
colte, essendo necessaria, ma la nostra lingua in ciò pure, non cede forse {e senza forse} nè alla greca nè alla latina, e vince
tutte le moderne. E l'è tanto propria una decisa singolarità e preminenza in
questa facoltà, che forma uno de' principali ed essenziali caratteri della
lingua italiana formata e applicata alla letteratura. Come dunque vogliamo
spogliarla di questo suo carattere proprissimo, e dell'utilità che ne risulta?
Come vorremo negare agli scrittori italiani la facoltà di continuare a
servirsene? Se essa fu data alla lingua da' suoi fondatori e formatori ec. E se
del tal uso della tal parola non si troverà esempio nel
Vocabolario, dovrà condannarsi, quantunque si abbiano mille
esempi perfettamente simili e della stessa natura in altre parole, e quantunque
il detto uso sia perfettamente d'accordo colla detta facoltà della lingua, e
colla sua indole? Perchè una lingua viva dovrà perdere le sue facoltà, che sole
in lei
1335 sono proprietà vive e feconde, e conservare
solamente il materiale delle parole e modi già usati e registrati, che sono
proprietà sterili, e rispetto alle dette facoltà, proprietà morte? Che matta
pedanteria si è questa di giudicare di una parola o di un modo, non
coll'orecchio nè coll'indole della lingua, ma col Vocabolario? vale a dire non
coll'orecchio proprio, ma cogli altrui. Anzi colla pura norma del caso. Giacchè
gli è mero caso che gll antichi abbiano usato o no tale o tal voce in tale o tal
modo ec. e che avendola pure usata, sia stata o no registrata e avvertita da'
Vocabolaristi. Ma non è caso ch'essi abbiano data o non data alla lingua la
facoltà di usarla ec. e che quella voce, {forma ec.}
convenga o non convenga colle proprietà della lingua {da
loro} formata, e col suo costume. {ec.} E
questo non si può giudicare col Vocabolario, ma coll'orecchio formato dalla
lunga ed assidua lettura e studio non del Vocabolario ma de' Classici, e pieno e
pratico, e fedele interprete e testimonio dell'indole della lingua, sola
solissima norma per giudicare di una voce {o modo} dal
lato della purità e del poterlo usare ec. E questa fu l'unica guida di tutti
quanti i Classici scrittori
1336 sì di tutte le lingue,
come della nostra prima del Vocabolario, dal quale che effetto
sia risultato in ordine alla stessa purità dello scrivere, e quanto egli abbia
giovato alla conservazione della purità della favella, a cui pare che dovesse
principalmente giovare, v. la pref. del Monti al 2. vol. della Proposta.
[1862,1] Ho detto pp. 1350. sgg.
p. 1609 che i greci furono i più filosofi e profondi tra gli antichi,
perchè la loro lingua si presentava mirabilmente (sì come si presta ancora forse
meglio di ogni altra) alla filosofia ed alla precisione, come ad ogni altra cosa
e qualità. Bisogna osservare che questo pregio non l'ebbe ella dalla filosofia,
così che questo si debba attribuire alla filosofia de' greci, piuttosto che
questa al detto pregio. Poichè la lingua greca fu formata, e resa onnipotente
assai prima che i greci avessero filosofia, e prima ancora che si fosse
intrapresa l'analisi delle lingue, e creata la gramatica, nelle quali cose i
greci furono poi sottilissimi specialmente intorno alla lingua loro. Ma la
lingua greca era tal quale noi la vediamo, e l'ammiriamo, assai prima della
gramatica, inventata, si può dire, dagli stessi greci, ne' tempi in cui la loro
lingua o aveva già perduto, o stava per perdere (forse anche in forza delle
regole ritrovate o osservate) il suo nativo
1863 colore
ec. Anzi la lingua greca, dopo che fu analizzata, e ridotta a regole, dopo le
circoscrizioni, le dispute, gli scrupoli de' gramatici, divenne forse meno atta
alla filosofia, come ad ogni altra cosa, perchè meno libera, e meno capace
(secondo il parere e il desiderio de' pedanti) di novità. Altrettanto nè più nè
meno si può dire della lingua italiana. La libertà è la prima condizione di una
lingua sì filosofica, che qualunque. I francesi l'hanno quanto alle parole. Ma
ridotta ad arte, ogni lingua perde la sua libertà e fecondità. Allora ella varia
quanto alle forme che riceve, secondo che alla sua formazione presiede la
ragione o la natura ec. Primitivamente l'indole di tutte le lingue è appresso a
poco la stessa, almeno dentro una stessa categoria di climi e caratteri
nazionali. (7. Ott. 1821.).
[1899,1] Ben è verissimo che quanto la lingua italiana è
incorruttibile nella teoria, tanto nelle presenti circostanze è più d'ogni altra
corruttibile nella pratica. I riformatori del moderno stile corrotto, in luogo
di conservarle la libertà essenziale alla sua indole, gliela tolgono, ed oltre
ch'essi stessi con ciò solo la corrompono, assicurano poi la sua corruzione
riguardo agli altri, mentre la libertà è il principale e indispensabile
preservativo di questo male. Gli altri non istudiano la lingua, non la
conoscono, si prevalgono della sola sua libertà, senza considerare come vada
applicata ed usata, non sanno le forze della lingua, ed in vece di queste,
adoprano delle forze straniere ec. L'indole antica della
1900 lingua italiana pare a prima vista incompatibile con quella delle
cose moderne. Senza cercare dunque nè scoprire come queste indoli si possano
accordare (il che non può conoscere chi non conosce la lingua), si sacrifica
quella a questa, o questa a quella, o si uniscono mostruosamente con danno di
tutt'e due. Laddove la lingua italiana deve e può conservare la sua indole
antica adattandosi alle cose moderne, esser bella trattando il vero; parere
anche antica qual è, senza però mancare a nessuno de' moderni usi, e adattarvisi
senza alcuno sforzo.
[1953,2]
Alla p. 1950.
marg. Quest'adattabilità della lingua tedesca, questa flessibilità
riconosciuta per nociva, non proviene insomma se non dal non essere quella
lingua abbastanza
1954 per anche formata e regolata. La
libertà, il più bello ed util pregio di una lingua deriva nella lingua tedesca,
e proporzionatamente ancora nell'inglese, dall'imperfezione: laddove
nell'italiana, unica fra le moderne, deriva o sta colla perfezione: unica lingua
moderna ch'essendo perfetta, ed avendo un deciso e completissimo carattere
proprio, e questo per ogni parte formato, sia liberissimo[liberissima.] La libertà del tedesco è nociva o di poco buon
frutto, come quella che si gode nell'anarchia, o quella che tutti i popoli
godono prima che la società abbia presa fra loro una forma pienamente regolare e
stabile. La libertà dell'italiano è come quella, assai più rara e difficile, che
si gode e deriva dalle savie, complete, mature istituzioni. Essa è stabilita
nella sua indole, la costituisce, e n'è vicendevolmente contenuta: laddove la
libertà del tedesco non fa che escludere da quella lingua un'indole propria, o
renderla incerta e indeterminata; e intanto sussiste
1955 in quanto non sussiste in quella lingua un carattere originale perfettamente
formato, definito, e maturato. Originalità e libertà stanno insieme
nell'italiano, e sarebbero incompatibili nel tedesco. E nell'italiano e ne' savi
reggimenti, la perfetta legislazione e la libertà non solo si compatiscono, ma
scambievolmente si favoriscono. Nel tedesco la libertà sarebbe incompatibile
colla legge, e non sussiste che in virtù della non esistenza o imperfezion della
legge.
[2014,1] La mancanza di libertà alla lingua latina, venne
certo o dall'esser ella stata perfettamente applicata ne' suoi buoni tempi a
pochi generi di scrittura, ad altri imperfettamente e poco e da pochi, ad altri
punto;
2015 o dall'esser ella, come lingua formata, la
più moderna delle antiche, ed essere stata la sua formazione contemporanea ai
maggiori incrementi dell'arte che si vedessero tra gli antichi ec. ec.; o
dall'aver ella avuto in Cicerone uno
scrittore e un formatore troppo vasto
per se, troppo poco per lei, troppo eminente sopra gli altri, alla cui lingua
chi si restrinse, perdette la libertà della lingua, chi ricusollo, perdette la
purità, ed avendo riconquistata la libertà colla violenza, degenerolla in
anarchia. Perocchè la libertà e ne' popoli e nelle lingue è buona quando ella è
goduta pacificamente e senza contrasto relativo ad essa, e come legittimamente e
per diritto, ma quando ella è conquistata colla violenza, è piuttosto mancanza
di leggi, che libertà. Essendo proprio delle
cose umane dapoi che son giunte
2016
ad una estremità, saltare alla contraria,
poi risaltare alla prima, e non sapersi mai più fermare nel mezzo, dove la
natura sola nel primitivo loro andamento le aveva condotte, e sola potrebbe
ricondurle. Un simile pericolo corse la lingua italiana nel 500. quando
alcuni volevano restringerla, non al 300. come oggi i pedanti, ma alla sola
lingua e stile di Dante, Petr. e Bocc. per la eminenza di questi scrittori, anzi la prosa alla sola
lingua e stile del Boccaccio, la lirica
a quello del solo Petrarca ec. contro i
quali combatte il Caro nell'Apologia.
[2103,1] Le stesse circostanze sociali e politiche e
cronologiche che renderono la lingua latina tanto più determinata, e meno libera
della greca, e tanto più legata rispetto a questa, quanto più perfetta rispetto
alla medesima, resero ancora la letteratura latina assai più determinata,
perfetta, formata e raffinata della greca, e forse di qualunque altra siasi mai
vista, anche (senza dubbio) fra le moderne. Ma queste medesime circostanze, e
queste medesime perfezioni la resero (siccome la lingua) assai meno originale e
varia della greca. I latini scrittori furono grandi per arte, i greci per
natura, parlando di ambedue generalmente. {+I latini ebbero un gusto certo, formato, ragionato, i
greci più naturale che acquisito, e però vario, e originale ec. Qual è la
lingua tale è sempre insomma la letteratura, e viceversa.}
[2126,1] La gran libertà, varietà, ricchezza della lingua
greca, ed italiana, (siccome oggi della tedesca) qualità proprie del loro
carattere, oltre le altre cagioni assegnatene altrove pp. 2060-65 , riconosce come una delle
principali cause la circostanza contraria a quella che produsse le qualità
contrarie nella lingua latina e francese; cioè la mancanza di capitale, di
società nazionale, di unità politica, e di un centro di costumi, opinioni,
2127 spirito, letteratura e lingua nazionale. Omero e Dante (massime Dante) fecero
espressa professione di non volere restringere la lingua a veruna o città o
provincia d'italia, e per lingua cortigiana l'Alighieri, dichiarandosi di adottarla,
intese una lingua altrettanto varia, quante erano le corti e le repubbliche e
governi d'italia in que' tempi. Simile fu il caso d'Omero e della
Grecia a' suoi tempi e poi. Simile è quello
dell'italia anche oggi, e simile è stato da Dante in qua. Simile pertanto dev'essere
assolutamente la massima fondamentale d'ogni vero filosofo linguista italiano,
come lo è fra' tedeschi. (19. Nov. 1821.).
[2166,1] Può far meraviglia molto ragionevole che Marcaurelio scrivesse i suoi libri τῶν εἰς
2167 ἑαυτόν, delle considerazioni di se
stesso
come lo chiama il Menagio, piuttosto in greco che in latino,
essendo romano, non allevato in grecia (nè credo che mai
ci fosse), ed avendo posto molto e felice studio nelle lettere e nella lingua
nativa, come apparisce sì da altre notizie che danno di lui gli Storici, sì
massimamente da ciò ch'egli scrive a Frontone e Frontone a
lui. Non poteva aver egli di mira, cred'io, la maggior diffusione del
suo lavoro, scrivendolo in una lingua più divulgata. Ma io credo certissimo che
egli non fosse indotto a preferir la lingua greca alla latina se non per la
maggiore libertà di quella. Della quale libertà egli aveva bisogno in un'opera
profondamente ed intimamente filosofica, e attenente alla scienza della vita e
del cuore umano, ed alle sottili speculazioni psicologiche. Non dubito ch'egli
non disperasse di potere riuscire
2168 a trattare un
tale argomento in latino, a parlare a se stesso, e di se stesso, cioè del cuor
suo ec. (non delle sue cose pubbliche come fa Cic.) in latino. Questa lingua aveva già avuto un Cic. e un Seneca, e un Tacito, eppure ancor non bastava a una certa filosofia veramente
intima. La lingua greca aveva avuto scrittori filosofici profondi, ma senza ciò,
la sua pieghevolissima e liberissima indole, si prestava a qualsivoglia genere
di argomento, grado di filosofia, {ec.} ancorchè nuovo.
La lingua latina per lo contrario: ed oltracciò quello era un tempo, dove, come
accade dopo una decisa corruzione e licenza, che richiamandosi gl'istituti umani
alla buona strada, essi cadono nell'eccesso contrario; la lingua latina e il
gusto di quel tempo (come oggi in italia) peccava di
servilità, timidità (in
vitium ducit culpę fuga
*
), come si può vedere nelle opere
di Frontone, e come dicevano i maestri
di devozione,
2169 che le anime recentemente
convertite, sogliono patire di scrupoli, e sarebbe anzi mal segno se non ne
patissero. Questo durò poco, perchè la lingua e letteratura colle cose latine
tornò a precipitare indietro ben presto. Ma in quel tempo lo stile di Seneca, e altri tali stili filosofici si
condannavano altamente dai letteratori latini, come oggi dagli italiani quello
di Cesarotti ec. e ciò serviva
d'impaccio e di spauracchio a chi volesse scrivere filosoficamente in latino,
come oggi volendo scriver buon italiano, nessuno s'impaccia più di pensare. Marcaurelio pertanto dovè sentire questo
pericolo, disperare di poter essere profondo filosofo nella lingua nativa voluta
dal suo tempo, e senza violare il gusto corrente, e dar nel naso ai critici, i
quali già lo riprendevano di cattiva {e negligente}
lingua, e di licenza dopo ch'egli s'era dato alla filosofia, e dallo studio
delle parole a quello delle cose,
2170 come apertamente
lo riprende Frontone
de
Orationibus. Trovossi adunque obbligato per esprimere
i suoi più intimi sentimenti, a sceglier la lingua greca, a creder più facile di
esprimere le cose sue più proprie, in una lingua forestiera ed altrui, che nella
propria e nativa. (Il qual bisogno pur troppo si farebbe molte volte sentire
agl'italiani rispetto al francese, se gl'italiani pensassero, ed avessero cose
proprie da dire.)
[2173,3] Lo spirito della lingua {e dello
stile} latino è più ardito e poetico che quello della greca (non solo
in verso ma anche in prosa), e nondimeno egli è meno libero assai. Queste due
qualità si accordano benissimo. La lingua greca aveva la facoltà di non essere
ardita, la lingua latina non l'aveva. La lingua greca poteva non solo essere
ardita
2174 e poetica quanto la latina (come lo fu bene
spesso), non solo più della latina (come pur lo fu), ma in tutti i possibili
modi, laddove la latina non poteva esserlo se non dentro un determinato modo,
genere, gusto, indole di ardiri. La libertà di una lingua si misura dalla sua
maggiore o minore adattabilità a' diversi stili, dalla maggiore o minore quasi
quantità di caratteri ch'essa contiene in se stessa, o a' quali dà luogo. {ec.} Ma ch'ella sia di un tal carattere ardito, ch'ella
[abbia] per proprietà un certo tal genere
di ardire, ciò non prova ch'ella sia libera. Ci può dunque essere una lingua
serva ed ardita, come una lingua timida e serva, (tale è la francese) una lingua
libera e non ardita, come una lingua ardita e libera. Bensì da che una lingua è
libera, non dipende che dallo scrittore ec. il renderla ardita. L'ardire dello
spirito proprio della lingua latina formata e letterata, venne dalla
2175 natura {poetica} dei
popoli meridionali, da quella degli scrittori che la formarono, dall'energia e
vivacità degl'istituti politici e dei costumi e dei tempi romani. La poca
libertà della medesima lingua venne dall'uso sociale che la strinse, l'uniformò,
le prescrisse e determinò quella tale strada, quel tal carattere e non altro. La
lingua greca sebbene in mano di popoli vivacissimi per clima, carattere,
politica, costumi, opinioni ec. nondimeno inclinò più a far uso dello stile
semplice che dell'ardito, e ciò per la natura dei tempi candidi ne' quali essa
principalmente fiorì, e fu applicata alla letteratura. Ma dai soli scrittori
dipendeva il farla ardita più della latina, e in qualunque genere, come fecero
infatti ogni volta che vollero. Laddove non dipendeva dagli scrittori latini
dopo che la lingua fu formata, il ridurla al semplice, al candido, al piano, al
riposato della
2176 lingua greca, se non fino a un
certo segno. Onde accade alle frasi latine trasportate in greco, o viceversa,
quello appresso appoco che ho detto p.
2172. ma più nel caso di trasportare le frasi greche in latino, le
quali vi riescono troppo semplici, di quello che nel caso contrario, perchè la
lingua greca si presta a tutto.
[2180,1] Della pedanteria e scrupoli intorno alla purità
della lingua, novità delle parole ec. introdottisi nella letteratura latina fino
nell'aureo secolo, anzi regnanti appresso a poco come oggi in
italia, scrupoli ignoti alla
Grecia ne' buoni tempi della sua lingua, la quale
perciò dovette esser {necessariamente} tanto più libera
rispetto alla latina anche aurea, vedi soprattutto l'Arte Poet. di Orazio.
(28. Nov. 1821.).
[2397,2] Il Vocab. della
Crusca non ha interi due terzi delle voci, {o significati e vari usi loro,} e nè pure un decimo dei
modi di quegli stessi autori e libri che registra nell'indice. E questi non sono
appena una terza o quarta parte di quegli autori e libri italiani de' buoni
secoli che secondo ogni ragione vanno considerati e sono autentici nella lingua,
anche nella pura lingua antica. Aggiungeteci ora i libri moderni bene scritti, e
le voci e modi che usati o non usati ancora da buoni scrittori, sono
necessarissimi a chi vuole scriver
2398 (com'è dovere)
delle cose presenti, e a' presenti o futuri, massime le spettanti alle scienze
immateriali o materiali, e che tutti mancano al Vocabolario; si
può far ragione che questo non contenga più d'una quarantesima parte della
lingua italiana in genere (a dir molto); e non più d'una trentesima dell'antica
in particolare, ossia di quella che s'ha per classica. Del che non si può far
carico ai compilatori, se non quanto alle mancanze relative agli autori de'
quali professano d'aver fatto spoglio e formatone il vocabolario. Perchè del
resto nessuna lingua viva ha, nè può avere un vocabolario che la contenga tutta,
massime quanto ai modi, che son sempre (finch'ella vive) all'arbitrio dello
scrittore. E ciò tanto più nell'italiana (per indole sua). La quale molto meno
può esser compresa in un vocabolario, quanto {ch'}ella
è più vasta di tutte le viventi: mentre veggiamo che nè pur la greca ch'è morta,
s'è potuta mai comprendere in un Vocabolario nè men quanto alle voci, che ogni
nuovo scrittore, ne porta delle nuove.
2399
{+Molto meno quanto ai modi ne' quali
ell'è infinita e a disposizione degli scrittori, come appunto la nostra, e
ciascuno scrittor greco ne forma de' nuovi a suo piacere, e in gran
numero.} Or non è cosa ridicolissima che mentre nessun'altra nazione
stima che la sua lingua sia determinata e prescritta dal suo vocabolario, non
ostante che questo sia molto meglio fatto, molto più esteso (relativamente) del
nostro, e che la lingua loro possa più facilmente o meglio esser compresa in un
vocabolario; noi la cui lingua è impossibile (sopra qualunque altra) che vi si
possa comprendere, che di più, abbiamo un vocabolario inesattissimo nelle cose
stesse che porta, molto più inferiore alla ricchezza della nostra lingua di
quello che le convenga o se le debba perdonare di essere, fatto sopra un piano
sopra cui nessun altro è fatto, cioè sopra il piano dell'antico, mentre noi
siamo moderni, e della pura autorità quando la lingua è viva; noi dico vogliamo
che un vocabolario così ridondante d'imperfezioni, e poco proprio della lingua
nostra {(e d'ogni lingua viva),} abbia su di questa una
virtù, {un'autorità} e un dominio, che i più perfetti
vocabolari delle altre nazioni (anche nazioni unite come la francese e
l'inglese) nè si arrogano, nè sognano, nè pensano che
2400 sia menomamente proprio dell'essenza loro, nè compatibile colla
natura delle lingue vive, e che nessuno s'immagina mai di riconoscere in essi.
(29. Marzo. Venerdì dell'Addolorata. 1822.).
[2415,3] Una lingua non è bella se non è ardita, e in ultima
analisi troverete che in fatto di lingue, bellezza è lo stesso che ardire. E che altro sarebb'ella? L'armonia ec. del suono delle parole?
Quest'è una bellezza affatto esterna, e della quale poco o nulla si può
convenire, essendo diversissime in questo genere le opinioni e i gusti, secondo
le nazioni e i secoli. Per noi è bruttissimo il suono delle parole orientali, e
per gli orientali altrettanto sarà delle nostre. E parlando esattamente che cosa
intendiamo noi dell'armonia della lingua greca che pur chiamiamo bellissima? Che
sentimento, che gusto
2416 ne proviamo noi, se non, per
dir poco, incertissimo, confusissimo, e superficialissimo? Certo è che l'armonia
della lingua nostra, qualunque ella sia, ed ancorchè asprissima, ci diletta, ed
è sentita da noi molto più che quella della lingua greca, e quindi non avremmo
alcuna ragione di preferir questa lingua per la bellezza, neppure alla tedesca,
o alla russa. Forse la bellezza consisterà nella ricchezza? Ricchezza di frasi e
di modi non si dà se non in una lingua ardita, perchè di forme esatte e
matematiche, tutte le lingue ne sono o ne possono essere egualmente ricche nè
più nè meno: e questa ricchezza non può molto stendersi, essendo limitatissima
per natura sua: giacchè la dialettica poco può variare, anzi derivando da
principii uniformi e semplicissimi, tende e produce naturalmente somma
uniformità e semplicità di dicitura. La ricchezza poi di parole puramente, giova
alla bellezza, ma non basta di gran lunga; ed anch'essa è una qualità quasi
estrinseca, e senza quasi accidentale alla lingua, la quale senza punto punto
alterarsi, o scomporsi in niun
2417 modo può essere ed
è, oggi più abbondante di parole, domani meno, secondo le circostanze nazionali,
commerciali, politiche, scientifiche ec. Infatti la lingua francese è in verità
ricchissima di parole, massime in filosofia, scienze, conversazione,
manifatture, e in ogni uso e materia di società, di commercio ec. ec. e non per
questo è bella, nè più bella dell'italiana, e neanche della spagnuola. La vera e
non accidentale, ma essenziale bellezza di una lingua, quella che non si può
perdere, se la lingua non si corrompe formalmente, è una bellezza intrinseca, e
spetta all'indole della lingua; e questa non può consistere in altro che
nell'ardire. Or questo ardire che cos'è, fuorchè la libertà di non essere esatta
e matematica? Giacchè quanto all'esattezza, torno a dire, tutte le lingue ne
sono egualmente capaci, e tutte per mezzo suo posson divenire, e diverrebbero
uniformi affatto nell'indole, essendo la ragione, una; e non trovandosi varietà
se non se nella natura. Quindi se lingua
bella è lingua ardita e libera, ella è parimente lingua
non esatta, e non obbligata
2418 alle regole
dialettiche delle frasi, delle forme, e generalmente del discorso.
Osservate tutte le lingue chiamate belle, antiche e moderne, greca, latina,
italiana, spagnuola: in tutte troverete non altra bellezza propriamente che
ardire, e questo ardire non posto in altro che nelle cose sopraddette. Osservate
anche gli scrittori chiamati belli ed eleganti in ciascuna di tali lingue, e
paragonateli con quelli che non lo sono. Osservate per se, ciascuna frase, forma
ec. chiamata bella ed elegante, e paragonatela ec. Non v'è lingua bella che non
sia lingua poetica, cioè non solo capace, anzi posseditrice d'una lingua
distintamente poetica (come l'hanno tutte le suddette, e come non l'ha la
francese), ma poetiche, generalmente parlando, eziandio nella prosa, benchè
senza affettazione; vale a dir poetiche in quanto lingue, e non quanto allo
stile, come sono sconciamente, e discordantissimamente poetiche tutte le prose
francesi. Or lingua poetica, è lingua non matematica,
2419 anzi contraria per indole allo spirito matematico. (La sascrita,
riputata bellissima fra le orientali, è notatamente arditissima e
poeticissima.)
[2578,1] La lingua latina ebbe un modello d'altra lingua
regolata, ordinata, e stabilita, su cui formarsi. Ciò fu la greca, la quale non
n'ebbe alcuno. Tutte le cose umane si perfezionano grado per grado. L'aver avuto
un modello, al contrario della lingua greca, fu cagione che la lingua latina
fosse più perfetta della greca, e altresì che fosse meno libera. (Nè più nè meno
dico delle letterature greca e latina rispettivamente; questa più perfetta,
quella più originale e indipendente e varia.) I primi scrittori greci, anche
sommi, ed aurei, come Erodoto, Senofonte ec. erano i primi ad applicar
la dialettica, e l'ordine ragionato all'orazione. Non
2579 avevano alcun esempio di ciò sotto gli occhi. Quindi, com'è
naturale a chiunque incomincia, infinite sono le aberrazioni loro dalla
dialettica e dall'ordine ragionato. Le quali aberrazioni passate poi e
confermate nell'uso dello scrivere, sanzionate dall'autorità, e dallo stesso
errore di tali scrittori, sottoposte a regola esse pure, o divenute regola esse
medesime, si chiamarono, e si chiamano, e sono eleganze, e proprietà {della} lingua {greca.} Così è
accaduto alla lingua italiana. La ragione è ch'ella fu molto e da molti scritta
nel 300, secolo d'ignoranza, e che anche allora fu applicata alla letteratura in
modo sufficiente per far considerare quel secolo come classico, dare autorità a
quegli scrittori, {+presi in corpo e in
massa,} e farli seguire da' posteri. I greci o non avevano affatto
alcuna lingua coltivata a cui guardare, o se ve n'era, era molto lontana da
loro, come forse la sascrita, l'egiziana, ec. e poco o niente nota, neanche ai
loro più dotti. Gl'italiani n'avevano, cioè la
2580
latina e la greca. Ma quel secolo ignorante non conosceva la greca, pochissimo
la latina, massime la latina buona e regolata. {+(Fors'anche molti conoscendo passabilmente il latino, e
fors'anche scrivendolo con passabile regolatezza, erano sregolatissimi in
italiano, per incapacità di applicar quelle regole a questa lingua, che
tutto dì favellavano sregolatamente; di conoscere o scoprire i rapporti
delle cose ec.)} Quei pochi che conobbero un poco di latino, scrissero
con ordine più ragionato, come fecero principalmente i frati, Passavanti, F.
Bartolommeo, Cavalca ec.
Dante, e più ancora il Petrarca e il Boccaccio che meglio di tutti conoscevano il buono e
vero latino, meno di tutti aberrarono dall'ordine dialettico dell'orazione.
Questi principalmente diedero autorità presso i posteri a' loro scrittori
contemporanei, la massima parte ignoranti, non solo di fatto, ma anche di
professione laici e illetterati, e che
non pretendevano di scrivere se non per bisogno, come i nostri castaldi. I quali
abbondarono di sragionamenti, e disordini gramaticali d'ogni sorta.
[2633,1]
2633 Dalle suddette cose si può conoscere che l'immensa
ricchezza della lingua greca, non pregiudicava alla facilità di scriverla, e
quindi non s'opponeva alla sua universalità, non essendo necessaria più che
tanta ricchezza (o usata o conosciuta e posseduta) non solo per iscrivere e
parlar greco, ma eziandio per iscriverlo e parlarlo egregiamente; e bastando
poche radici per questo; poichè restavano liberi i composti all'arbitrio dello
scrittore, o quando anche non restassero liberi, infiniti composti e derivati
portava seco ciascuna radice, onde lo scrittore pratico di poche radici veniva
subito ad avere una lingua molto sufficiente a tutti i suoi bisogni. Il che
scemava infinitamente la difficoltà che si prova nelle lingue, perchè un
vocabolario sufficientissimo
2634 allo scrittore o
parlatore si riduceva sotto pochi elementi, e procedeva da pochi principii ossia
radici, e quindi era molto più facile ad impararlo ed impratichirsene, che se
esso senza essere niente maggiore, avesse contenuto tutta la lingua, ma fosse
proceduto da più numerose e diverse radici. Tutte queste circostanze siccome
quelle notate nel pensiero precedente non si trovavano nella lingua latina, che
meno ricca della greca, era però per la sua ricchezza più difficile a scrivere e
a parlare che la greca non fu, perchè la ricchezza (ancorchè minore) della
latina, bisognava averla tutta in contanti, a volere scrivere e parlar latino, e
massimamente a farlo bene. E l'orecchie latine erano delicatissime come le
francesi, circa il vero e
2635 proprio andamento {(e la purità)} della loro lingua, che rispetto alla
greca era liberissimo, cioè sommamente vario, ed in gran parte ad arbitrio.
(8. Ottobre. 1822.).
[2845,1] Vantano che la lingua tedesca è di tale e tanta
capacità e potenza, che non solo può, sempre che vuole, imitare lo stile e la
maniera di parlare o di scrivere usata da qualsivoglia nazione, da qualsivoglia
autore, in qualsivoglia possibile genere di discorso o di scrittura; non solo
può imitare qualsivoglia lingua; ma può effettivamente trasformarsi in
qualsivoglia lingua. Mi spiego. I tedeschi hanno traduzioni dal greco, dal
latino, dall'italiano, dall'inglese, dal francese, {dallo
spagnuolo,} d'Omero, dell'Ariosto, di Shakespeare, di Lope, di Calderon ec. le
quali non solamente conservano (secondo che si dice) il carattere dell'autore e
del suo stile tutto intero, non solamente imitano, esprimono, rappresentano il
genio e l'indole della rispettiva lingua, ma rispondono verso per verso, parola
per parola, sillaba per sillaba, ai versi, alle costruzioni, all'ordine preciso
2846 delle parole, {al numero
delle medesime, al metro, {al numero e} al ritmo di
ciascun verso, membro di periodo,} all'armonia {imitativa,} alle cadenze, a tutte le possibili qualità estrinseche
come intrinseche, che si ritrovano nell'originale; di cui per conseguenza elle
non sono imitazioni, ma copie così compagne com'è la copia d'un quadro di tela
fatta in tavola, o d'una pittura a fresco fatta a olio, o la copia d'una pittura
fatta in mosaico, o tutt'al più in rame {inciso,} colle
medesimissime dimensioni del quadro.
[3256,1] Quanto poi ad una lingua veramente
3257 universale, cioè da tutte le nazioni senza studio e fin dalla prima infanzia
intesa e parlata come propria, lasciando tutte le impossibilità accidentali ed
estrinseche, ma assolutamente insormontabili, che ognun conosce e confessa; dico
ch'ella è anche impossibile per sua propria ed assoluta natura, quando pur gli
uomini che l'avrebbero a usare, non fossero, come sono, diversissimamente
conformati rispetto agli organi ec. della favella ed alle altre naturali cagioni
che diversificano le lingue; di modo che, quando anche superato ogni ostacolo,
una qualunque lingua, per impossibile ipotesi, fosse divenuta universale nella
maniera qui sopra espressa, la sua universalità non potrebbe a patto alcuno
durare, e gli uomini tornerebbero ben tosto a variar di lingua, per la stessa
natura di quella tal favella universale, in cui le condizioni {medesime} che la farebbero atta ad esser tale, sarebbero
in espressa contraddizione colla durevolezza della sua universalità, e
formalmente la escluderebbono. Perocchè una lingua appropriata ad essere
strettamente universale, deve, come
3258 in altri
luoghi ho largamente esposto pp. 3253-54, essere di natura sua,
servilissima, poverissima, senza ardire alcuno, senza varietà, schiava di
pochissime, esattissime, e stringentissime regole, oltra o fuor delle quali
trapassando, non si potesse in alcun modo serbare nè il carattere nè la forma
d'essa lingua, ma in diversa lingua assolutamente si parlasse. Nè senza una
buona parte o similitudine almeno di queste qualità e di ciascuna di esse, la
lingua francese sarebbe potuta giungere a quel grado di universalità largamente
considerata, in cui la veggiamo: nè certo mantenervisi, seppur momentaneamente
vi fosse giunta, come vi giunse un dì la greca. Perocchè queste qualità
indispensabilmente richieggonsi ad una, ancorchè non assoluta o stretta,
universalità durevole di una lingua. Ora una lingua così formata e costituita, e
di tali qualità in sommo grado (come a una lingua strettamente universale si
ricercherebbe) fornita, a pochissimo andare, per cagione di queste medesime
qualità, si corromperebbe e traviserebbe
3259 in modo
che più non sarebbe quella; come altrove ho dimostrato pp. 239. sgg.
pp. 1038-39
pp. 1048-49
pp. 2057-59
pp.
2068-69 di tali lingue non libere, coll'esempio {+(fra l'altre cose)} della latina, la quale,
siccome ogni altra, quantunque servilissima, che si conosca, fu ed è ben lontana
dall'aver queste qualità in sommo grado, come si richiederebbe di necessità ad
una lingua che avesse ad essere strettamente e durabilmente universale. Così
quelle medesime condizioni che da una parte cagionerebbono, e in modo che senza
esse non potrebbe stare, la propria, o vogliam dire esatta, e durevole
universalità di una lingua; d'altra parte e nel tempo stesso, per propria natura
loro, rendono assolutamente inevitabile e inevitabilmente prontissima una totale
corruzione e mutazione della lingua medesima. Onde nè senza esse la {stretta} universalità di una lingua può stare, nè
qualsivoglia universalità durare, come si è altrove provato pp. 838. sgg.
pp.
1039-40
pp.
2007-2009
pp. 2694. sgg. ; e
parimente con esse non può durare nè la stretta universalità nè il proprio stato
di una lingua. Perocchè, quanto al proprio stato, è evidente che una lingua di
necessità corrompendosi e cangiandosi
3260
{del tutto,} di necessità lo perde, cioè perde la sua
forma, proprietà, carattere e natura. E quanto alla stretta universalità, dato
ancora che una lingua {corrompendosi} appo una sola
nazione, si corrompesse ugualmente, di modo ch'ella quantunque mutata da quella
prima, fosse pur sempre una sola in essa nazione, e a tutta comune; egli è
fisicamente impossibile {a seguire,} e assurdo a
supporre che una medesima lingua corrompendosi appo molte e diversissime nazioni
e cambiandosi affatto da quella di prima, pur corrompendosi da per tutto
ugualmente, e facendo da per tutto in un medesimo tempo gli stessi passi, si
mantenesse sempre una sola appo tutte le dette nazioni insieme. La corruzione
non ha legge, e quella che nasce dalla troppa schiavitù e circoscrizione d'una
lingua, n'ha meno che mai, ed è più cieca che ogni altra; nè dove non v'ha
regola alcuna, nè scambievole convenzione e consenso (il che sarebbe contrario
alla natura della corruzione di una lingua), nè conformità di circostanze, quivi
può essere uniformità. La quale se è quasi impossibile in una sola nazione, dal
continuo commercio e da
3261 tante altre circostanze
congiunta insieme e fatta una, quanto più tra molte nazioni, sempre, per quanto
commercio possano avere insieme, disgiunte e fra se diverse! E si è infatti
veduto quanto diversa fosse la corruzione della lingua latina nelle diverse
nazioni in ch'ella si propagò, fino a produrre varie affatto distinte e separate
e separatamente regolate e costituite favelle, che tuttavia si parlano. E ciò
quantunque la lingua latina non fosse d'assai così servile ec. come è necessario
supporre una lingua {strettamente} universale. Resta
dunque provato che una lingua strettamente universale, per cagione di quelle
stesse condizioni ond'ella sarebbe divenuta e con cui sole sarebbe potuta
divenire universale, e senza cui l'universalità sua non potrebbe durare se non
momentaneamente, per causa, dico, di queste medesime condizioni, subitamente
corrompendosi, dividerebbesi ben tosto, per causa di tal corruzione, e quindi
per causa di quelle medesime condizioni, che naturalmente e necessariamente
l'occasionerebbero, in diverse lingue, e perderebbe conseguentemente la sua
3262 universalità, la durata della quale sarebbe fatta
impossibile da quelle med.e[medesime]
condizioni che a tal durata indispensabilmente richieggonsi.
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