Mitologia greca.
Greek mythology.
52,1 68,2 285,2 1831 3430,2 3461,1 3638,3 3644 3771 4001,1 3878,1 4048,3 4238,4[52,1] Un esempio di quanto fosse naturale e piena di amabili e
naturali illusioni la mitologia greca, è la personificazione dell'eco.
[68,2] Il gran giudizio e gusto e bella immaginazione dei greci
si dimostra fra mille altre cose anche nell'aver fatto vecchio il barcaiuolo
dell'inferno
(cruda deo viridisque
senectus
*
, dice Virgilio divinamente) cosa che conviene sommamente alla ruvidezza e
squallore di quel luogo. E nota che tutti gli altri uffizi attribuiti dalla
mitologia alle divinità, sono attribuiti a Dei giovani. Qui solamente, perchè si
trattava dell'inferno, l'uffizio è dato ad un vecchio.
[285,2] Si può applicare alla poesia (come anche anche alle
cose che hanno relazione o affinità con lei) quello che ho detto altrove pp. 14-21
[p. 125,1]
p. 215: che alle grandi azioni è necessario un misto di persuasione e
di passione o illusione. Così la poesia tanto riguardo al maraviglioso, quanto
alla commozione o impulso di qualunque genere, ha bisogno di un falso che pur
possa persuadere, non solo secondo le regole ordinarie della verisimiglianza, ma
anche rispetto ad un certo tal quale convincimento che la cosa stia o possa
stare effettivamente così. Perciò l'antica mitologia, o
286 qualunque altra invenzione poetica che la somigli, ha tutto il
necessario dalla parte dell'illusione, passione ec. ma mancando affatto dalla
parte della persuasione, non può più produrre gli effetti di una volta, e
massime negli argomenti moderni, perchè negli antichi, l'abitudine ci proccura
una tal quale persuasione, principalmente quando anche il poeta sia antico,
perchè immedesimatasi in noi l'idea di quei fatti, di quei tempi, di quelle
poesie ec. con quelle finzioni, queste ci paiono naturali e quasi ci persuadono,
perchè l'assuefazione c'impedisce quasi di distinguerle da quei poeti, tempi,
avvenimenti ec. e così machinalmente ci lasciamo persuadere quanto basta
all'effetto, che la cosa potesse star così. Ma applicate nuovamente le stesse o
altre tali finzioni, sia ad altri argomenti antichi, sia massimamente a soggetti
moderni o de' bassi tempi ec. ci troviamo sempre un non so che di arido e di
falso, perchè manca la tal quale persuasione, quando anche la parte del bello
immaginario, maraviglioso ec. sia perfetta. Ed anche per questa parte il Tasso non produrrà mai l'effetto dei
poeti antichi,
287 sebbene il suo favoloso e
maraviglioso è tratto dalla religion Cristiana. Ma oggidì in tanta propagazione
e incremento di lumi, nessuna finzione o nuova nuovamente applicata, trova il
menomo luogo nell'intelletto, mancando la detta assuefazione, la quale supplisce
al resto ne' poeti antichi. E questa è una gran ragione per cui la poesia oggidì
non può più produrre quei grandi effetti nè riguardo alla maraviglia e al
diletto, nè riguardo all'eccitamento degli animi, delle passioni ec. all'impulso
a grandi azioni ec. Tanto più che la religion cristiana non si presta alla
finzione persuadibile, come la pagana. A ogni modo è certo appunto per le
sopraddette osservazioni, che la pagana oggidì non potendo aver più effetto, il
poeta deve appigliarsi alla cristiana; e che questa maneggiata con vero
giudizio, {scelta,} e abilità, può tanto per la
maraviglia che per gli affetti {ec.} produrre
impressioni sufficienti e notabili. (19. 8.bre 1820.).
[1830,1]
Alla p. 1824.
Non nego che questi effetti non possano anche derivare dal contrario
dell'indifferenza, cioè da una soprabbondanza di vita, di passione, di attività
nell'animo umano, quale si trova ne' meridionali, e massime negli orientali. In
oriente in fatti sono assai comuni le poesie, le
favole, le invenzioni, dove i protagonisti, o quelli per cui si pretende
d'interessare, sono animali, piante, nuvole, monti, {+divinità o enti favolosi e ideali, uomini in gran parte
diversi da quelli che sono ec.} ec. E
dall'oriente vennero col Cristianesimo le prime
tracce, anzi quasi l'intero sistema dell'amore universale. Presso noi però, e
1831 a' nostri tempi è certo che i detti effetti
non nascono se non dall'indifferenza: e il contrario di questa faceva che la
mitologia greca trasmutasse in uomini tutti gli oggetti della natura; e che gli
antichi amassero sommamente la loro patria, e odiassero gli stranieri. {{V. p. 1841.}}
[3430,2] Natura insegna il curare e onorare i cadaveri di
quelli che in vita ci furon cari o conoscenti per sangue o per circostanze ec. e
l'onorar quelli di chi fu in vita onorato ec.
{Veggasi a questo
proposito la Parte primera de la Chronica del Peru di
Pedro de Cieça de Leon. en
Anvers 1554. 8.vo piccolo. cap. 53. fine. a
car. 146. p. 2. cap. 62. 63. 100. 101. principio.} Ma ella
non insegna di seppellirli nè di abbruciarli, nè di torceli in altro modo
davanti agli occhi. Anzi a questo la natura ripugna, perchè il separarci
perpetuamente da' cadaveri de' nostri è, naturalmente parlando, separazione più
dolorosa che la morte loro, la qual non facciam noi, ma questa è volontaria ed
opera nostra, e quella è quasi insensibile a chi si trova presente, e accade
bene spesso a poco a poco; questa è manifestissima e si fa in un punto. E
separarsi da' cadaveri tanto è quasi in natura quanto separarsi dalle persone di
chi essi furono, perchè degli uomini non si vede che il corpo, il quale, ancor
morto, rimane, ed è, naturalmente, tenuto per la persona stessa, benchè mutata
(piuttosto che in luogo di
3431 quella), e per tutto
ciò ch'avanza di lei. Ma d'altra parte il lasciare i cadaveri imputridire sopra
terra e nelle proprie abitazioni, volendoseli conservare dappresso e presenti, è
mortifero, e dannoso ai privati e alla repubblica. I poeti, oltre all'avere
insegnato che nella morte sopravvive una parte dell'uomo, anzi la principale e
quella che costituisce la persona, e che questa parte va in luogo a' vivi non
accessibile e a lei destinato, onde vennero a persuadere che i cadaveri de'
morti, non fossero i morti stessi, nè il solo nè il più che di loro avanzava;
oltre, dico, di questo, insegnarono che l'anime degl'insepolti erano in istato
di pena, non potendo niuno, mentre i loro corpi non fossero coperti di terra,
passare al luogo destinatogli nell'altro mondo. Così vennero a fare che il
seppellire i morti o le loro ceneri, e levarsegli dinanzi, fosse, com'era utile
e necessario ai vivi, così stimato utile e dovuto ai morti, e desiderato da
loro; che paresse opera d'amore verso i morti quello che per se sarebbe stato
segno di disamore, e opera d'egoismo; che l'amore
3432
così consigliato e persuaso imponesse quello ch'esso medesimo naturalmente
vietava; {+che venisse ad esser secondo
natura e suggerito dall'amor naturale, quello che per se aveva al tutto
dello snaturato;} e che fosse inumanità e spietatezza il trascurar
quello che senza ciò sarebbesi tenuto per inumano e spietato. Così gli antichi e
primi poeti e sapienti facevano servire l'immaginazione de' popoli, e le
invenzioni e favole proprie a' bisogni e comodi della società, conformando
quelle a questi, e si verifica il detto di Orazio nella poetica ch'essi furono gl'istitutori e i
fondatori del viver cittadinesco e sociale, onde Orfeo ed Anfione furono eziandio tenuti per fondatori di città. E così gli
antichi dirigevano la religione al ben pubblico e temporale, e secondo che
questo richiedeva la modellavano, e di questo facevano la ragione e il principio
e l'origine de' dogmi di essa: opponendola alla natura dove questa si opponeva
alle convenienze della vita sociale; e vincendo la natura fortissima,
coll'opinione ancor più forte, massime l'opinion religiosa. (15.
Settembre. 1823.). {+Chi
riguarda come legge naturale il seppellire o abbruciare ec. i cadaveri,
troverà forse in queste osservazioni di che mutar sentenza.}

[3461,1]
3461 I poeti latini (e proporzionatamente gli altri
scrittori secondo che lor conveniva) usarono la mitologia greca, non per lo aver
preso da' greci la loro letteratura e poesia, ma perchè, o da' greci o
d'altronde ch'e' ricevessero la loro religione, essa mitologia alla religion
latina apparteneva niente meno che alla greca, e nel
Lazio non meno che in grecia
era cosa popolare e creduta dal popolo. Laonde se questa o quella favola
adoperata, accennata ec. dagli scrittori o poeti latini, fu tolta da' greci, o
ch'ella fosse stata primieramente e di netto inventata da qualche greco poeta, o
che in grecia e non nel Lazio ella
fosse sparsa {ec.,} non perciò segue che la mitologia
dagli scrittori latini usata, non fosse, com'ella fu, altrettanto latina che
greca. Perocchè il fabbricare, per dir così, sul fondamento delle opinioni
popolari, fu sempre lecito ai poeti, anzi fu loro sempre prescritto. Laonde se i
poeti latini fabbricarono su tali opinioni popolari nazionali, o dell'altrui
fabbriche sì servirono, o rami stranieri innestarono sul tronco domestico, niuno
di ciò li dee riprendere. Nè perciò
3462 essi vollero
introdurre un nuovo genere di opinioni popolari nella nazione e farne materia di
lor poesia; nè supposero falsamente un genere {un
sistema} di opinioni popolari che nella nazione non esisteva, ma su di
quel ch'esisteva in effetto, innestarono, fabbricarono, lavorarono. Similmente i
greci, da qualunque luogo pigliassero la loro mitologia, certo è che di là
presero eziandio la {loro} religion popolare, e che
{tra' greci} il sistema greco religioso e
mitologico, quanto alla sostanza, alla natura, alla principal parte ed al
generale, non fu prima de' poeti che del popolo. E se i letterati greci si
giovarono, come si dice, delle letterature o dottrine ec. egizie, indiane o
d'altre genti, non adottarono perciò nelle loro finzioni ch'avessero ad esser
popolari, e nazionali ec. le mitologie d'esse nazioni. L'aver noi dunque
ereditato la letteratura greca e latina, l'esser la nostra letteratura modellata
su di quella, anzi pure una continuazione, per così dire, di quella, non vale
perch'ella possa ragionevolmente usare la mitologia greca nè latina al modo che
quegli antichi l'adoperavano. Giacchè non abbiamo già noi colla
3463 letteratura ereditato eziandio la religione greca
e latina, nè i latini, come ho detto, usarono la mitologia greca perciò ch'essi
avevano adottato la greca letteratura; nè se la letteratura ebbero i greci dalla
Fenicia o donde si voglia, perciò fu che i greci
poeti e scrittori si valsero della mitologia di quella tal gente; ma fu per le
ragioni dette di sopra, e che nel nostro caso non hanno alcun luogo. Tutt'altre
sono le nostre opinioni popolari nazionali e moderne da quelle de' greci e de'
latini. E gli scrittori italiani o moderni che usano le favole antiche alla
maniera degli antichi, eccedono tutte le qualità della giusta imitazione.
L'imitare non è copiare, nè ragionevolmente s'imita se non quando l'imitazione è
adattata e conformata alle circostanze del luogo, del tempo, delle persone ec.
in cui e fra cui si trova l'imitatore, e per li quali imita, e a' quali è
destinata e indirizzata l'imitazione. Questa può essere imitazione nobile, degna
di un uomo, e di un alto spirito e ingegno,
3464 degna
di una letteratura, degna di esser presentata a una nazione. E una letteratura
fondata comunque su tale imitazione può esser nazionale e contemporanea e
meritare il nome di letteratura. Altrimenti l'imitazione è da scimmie, e una
letteratura fondata su di essa è indegna di questo nome, sì per la troppa viltà,
essendo letteratura da scimmie, sì perchè una letteratura che tra' suoi è
forestiera, e a' suoi tempi antica, non può esser letteratura per se, ma al più
solo una parte d'altra letteratura o una copia da potersi guardare, se fosse
però perfetta (ch'è sempre l'opposto) collo stesso interesse con cui si guarda
una copia d'un quadro antico ec. e niente più. Veramente pare che i nostri poeti
usando le antiche favole (come già i più antichi italiani e forestieri scrivendo
in latino) affettino di non essere italiani ma forestieri, non moderni ma
antichi, e se ne pregino, e che questo sia il debito della nostra poesia e
letteratura, non esser nè moderna nè nostra ma antica ed altrui. Affettazione e
finzione barbara,
3465 ripugnante alla ragione, e colla
qual macchia una poesia non è vera poesia, una letteratura non è vera
letteratura. Come non è nè letteratura nè lingua nostra quella letteratura e
quella lingua che oggidì usano i nostri pedanti affettando e simulando di esser
antichi italiani, e dissimulando al possibile di essere italiani moderni, di
aver qualche idea che gl'italiani antichi non avessero perchè non poterono,
(così forse fece Cic. verso Catone antico ec. o Virgilio verso Ennio ec.?) ec. ec. Onde segue che noi oggi non abbiamo letteratura
nè lingua, perchè questa non essendo moderna, benchè italiana, non è nostra, ma
d'altri italiani, e perchè non si dà nè si diede mai {nè può
darsi} letteratura che a' suoi tempi non sia moderna; e dandosi, non è
letteratura.
[3638,3]
Primos in orbe deos fecit timor.
*
Intorno a ciò
altrove p. 2208
pp. 2387-89. Or si aggiunga, che siccome quanto è maggior l'ignoranza
tanto è maggiore il timore, e quanta più la barbarie tanta {è} più l'ignoranza, però si vede che le idee de' più barbari e
selvaggi popoli circa la divinità, se non forse in alcuni climi tutti piacevoli,
sono per lo più spaventose ed odiose, come di esseri tanto di noi invidiosi e
vaghi del nostro male quanto più forti di noi. Onde le immagini ed idoli che
costoro si fabbricano de' loro Dei, sono mostruosi e di forme terribili, non
solo per lo poco artifizio di chi fabbricolle, ma eziandio perchè tale si fu la
intenzione e la idea dell'artefice. E vedesi questo medesimo anche in molte
nazioni che benchè lungi da civiltà pur non sono senza cognizione ed
3639 uso sufficiente di arte in tali ed altre opere di
mano ec. come fu quella de' Messicani, {#1.
i cui idoli più venerati eran pure bruttissimi e terribilissimi d'aspetto
{come} d'opinione. Molte nazioni selvagge, o
ne' lor principii, riconobbero per deità questi o quelli animali più forti
dell'uomo, e forse tanto più quanto maggiori danni ne riceveano, e maggior
timore ne aveano, e minori mezzi di liberarsene, combatterli, vincerli ec.
La forza superiore all'umana è il primo attributo riconosciuto dagli uomini
nella divinità. V. p.
3878.} E certo egli è segno di civiltà molto cresciuta e bene
istradata il ritrovare in una nazione e la idea e le immagini o simboli o
significazioni della divinità, piacevoli o non terribili. Come fu in
Grecia, sebben molto a ciò dovette contribuire la
piacevolezza e moderatezza di quel clima, che nulla o quasi nulla offre mai di
terribile. Perocchè le forze della natura vedute negli elementi ec.,
riconosciute per superiori di gran lunga a quelle degli uomini, e, a causa
dell'ignoranza, credute esser proprie di qualche cosa animata e capace, come
l'uomo, di volontà, poichè è capace di movimento, di muovere ec.; sono state le
cose che hanno suscitata l'idea della divinità (perchè gli uomini amano e son
soliti di spiegar con un mistero un altro mistero, e d'immaginar cause
indefinibili degli effetti che non intendono, e di rassomigliare l'ignoto al
noto; come le cause ignote de' movimenti naturali, alla volontà ed all'altre
forze note che producono i movimenti animali ec.), ond'è ben naturale che tale
3640 idea corrispondesse alla natura di tali
effetti, e fosse terribile se terribili, moderata se moderati, piacevole se
piacevoli ec. e più e meno secondo i gradi ec. Se non che nell'idea primitiva
dovette sempre prevalere o aver gran parte il {terribile,} perchè essendo l'uomo naturalmente inclinato più al
timore che alla speranza, {#1. come altrove
in più luoghi pp. 458-59
pp. 1303-304
pp. 2206-208
pp. 3433-35} una forza superiore
affatto all'umana, dovette agl'ignoranti naturalmente aver sempre del
formidabile. Oltre che in ogni paese v'ha tempeste, benchè più o meno terribili
ec. E tra le varie divinità di una nazione che ne riconosca più d'una, di una
mitologia ec., le più antiche son certamente le più formidabili e cattive, e le
più amabili e benefiche ec. son certamente le più moderne.
{Le nazioni più civilizzate adoravano gli animali utili,
domestici, mansueti ec. come gli egizi il bue, il cane, o loro immagini. Le
più rozze, gli animali più feroci, o loro sembianze (v. la parte 1. della Cron. del
Peru di Cieça,
cap. 55. fine. car. 152. p. 2.). Quelle p. e. il sole o solo o principalmente, queste, o sola o principalmente la tempesta ovvero ec. ec.
{+E a proporzione della rozzezza
o civiltà, gli Dei ec. malefici e benefici erano stimati più o men
principali e potenti, ed acquistavano o perdevano nell'opinione e
religion del popolo, e nelle mitologie, e riti ec.}
V. p. 3833.} Come della
mitologia greca e latina ec. senza dubbio si dee dire. Infatti anche
indipendentemente da questa osservazione, s'hanno argomenti di fatto per
asserire che {p. e.}
Saturno, Dio
crudele e malefico, {#2. e rappresentato
per vecchio, brutto, e d'aspetto come d'indole e di opere, odioso,} fu
l'uno de' più antichi Dei della Grecia o della nazione
onde venne la greca e latina mitologia, e più antico di Giove ec. Effettivamente la
detta mitologia favoleggia che Saturno regnò prima di Giove,
3641 e da costui fu privato del regno. La qual favola o volle
espressamente significare la mutazione delle idee de' greci ec. circa la
divinità, e il loro passaggio dallo spaventoso all'amabile ec. cagionato dal
progresso della civiltà, e decremento dell'ignoranza; o (più verisimilmente)
ebbe origine e occasione da questo passaggio, di essere inventata
naturalmente.

[3643,1] Fuoco - Il suo uso è indispensabile necessità ad una
vita comoda e civile, {+1. anzi pure ai
primissimi comodi.} - Or tanto è lungi che la natura l'abbia insegnato
all'uomo, che fuor di un puro caso, e senza lunghissime e diversissime
esperienze, ei non può averlo scoperto nè concepito - E non possono neppure i
filosofi indovinare come abbia fatto l'uomo non pure ad accendere, ma a vedere e
scoprire il primo fuoco. Chi ricorre a un incendio cagionato dal fulmine, chi al
frottement reciproco de' rami degli alberi
cagionato da' venti nelle
3644 foreste, {chi a' volcani,} e chi ad altre tali ipotesi l'una
peggio dell'altra - E conosciuto il fuoco, come avrà l'uomo trovato il modo di
accenderlo sempre che gli piaceva? Senza di che e' non gli era di veruno uso. E
di estinguerlo a suo piacere? Quanto avrà egli dovuto tardare a {sapere e a} trovar tutte queste cose - Gli antichi
favoleggiavano che il fuoco fosse stato rapito al cielo e portato di lassù in
terra. Segno che l'antica tradizione dava l'invenzione del fuoco e del suo uso e
del modo di averlo, accenderlo, estinguerlo a piacere, per un'invenzione non
delle volgari, ma delle più maravigliose; e che questa invenzione non fu fatta
subito, ma dopo istituita la società, e non tanto ignorante, altrimenti ella non
avrebbe potuto dar luogo a una favola, e a una favola la quale narra che il
ratto del fuoco fu opera di chi volle beneficare la società umana ec - Non solo
la natura non ha insegnato l'uso del fuoco, nè somministrato {pure} il fuoco {agli uomini} se non a caso,
ma ello[ella] lo ha fatto eziandio formidabile,
e pericolosissimo il suo uso. E lasciando i danni morali, quanti infiniti ed
immensi danni fisici non ha fatto l'uso del fuoco sì all'altre
3645 parti della natura sì allo stesso genere umano.
Niuno de' quali avrebbe avuto luogo se l'uomo non l'avesse adoperato, e
contratto il costume di adoperarlo. Il fuoco è una di quelle materie, di quegli
agenti terribili, come l'elettricità, che la natura sembra avere studiosamente
seppellito e appartato, e rimosso dalla vista e da' sensi e dalla vita degli
animali, e dalla superficie del globo, dove essa vita e la vegetazione e la vita
totale della natura ha principalmente luogo, per non manifestarlo o lasciarlo
manifestare che nelle convulsioni degli elementi e ne' fenomeni accidentali
{{e particolari,}} com'è quello de' vulcani, che
sono fuor dell'ordine {generale} e della regola
ordinaria della natura. Tanto è lungi ch'ella abbia avuto intenzione di farne
una materia d'uso ordinario e regolare nella vita degli animali o di
qualsivoglia specie di animali, e nella superficie del globo, e di sottometterlo
all'arbitrio dell'uomo, come le frutta o l'erbe ec., e di destinarlo come
necessario alla felicità e quindi alla natural perfezione della principale
specie di esseri terrestri -
3646
Orazio
(1. od. 3.) considera l'invenzione e l'uso del fuoco come cosa tanto
ardita, e come un ardire tanto contro natura, quanto lo è la navigazione, e
l'invenzion d'essa; e come origine, principio e cagione di altrettanti mali e
morbi ec. di quanti la navigazione; e come altrettanto colpevole della
corruzione e snaturamento e indebolimento ec. della specie umana - Ma il fuoco è
necessario all'uomo anche non sociale, ed alla vita umana semplicemente. Come si
vivrebbe in Lapponia o sotto il polo, anzi pure in
Russia ec. senza il fuoco? Primieramente, rispondo
io, come dunque la natura l'ha così nascosto ec. come sopra? Come poteva ella
negare agli esseri ch'ella produceva il precisamente necessario alla vita,
all'esistenza loro? o render loro difficilissimo il procacciarselo? e
pericolosissimo l'adoperare il necessario? pericolosissimo, dico, non meno a se
stessi che altrui? Ed essendo quasi certo, secondo il già detto, che gli uomini
non hanno potuto non tardare un pezzo (più o men lungo) a scoprire il fuoco, e
più ad avvedersi che lor potesse
3647 servire ed a che,
e più a trovare il come usarlo, il come averlo al bisogno ec. e a vincere il
timore che e' dovette ispirar loro, sì naturalmente, sì per li danni che ne
avranno ben tosto provati {e certo} prima di conoscerne
{anzi pur d'immaginarne l'uso e la proprietà,} sì
ancora forse per le cagioni che lo avranno prodotto (come se fulmini o volcani o
tali fenomeni ec.), sì per gli effetti che n'avranno veduto fuor di se, come
incendi e {{struggimenti}} d'arbori, di selve ec. morti
e consunzioni e incenerimento d'animali, {o d'altri
uomini} ec. ec.; stante dico tutto questo, come avranno potuto vivere
tanti uomini, o sempre, o fino a un certo tempo, senza il necessario alla vita
loro? Secondariamente, chiunque non consideri il genere umano per più che per
una specie di animali, superiore bensì all'altre, ma una finalmente di esse;
chiunque si contenti e si degni di tener l'uomo non per il solo essere, ma per
un degli esseri, di questa terra, diverso dagli altri di specie, ma non di
genere nè totalmente, nè formante un ordine e una natura a parte, ma compreso
nell'ordine e nella natura di tutti gli altri esseri sì della terra sì di questo mondo,
3648 e partecipante delle qualità ec. degli altri, come gli altri
delle sue, e in parte conforme in parte diverso dagli altri esseri, e fornito di
qualità parte comuni parte proprie, come sono tutti gli altri esseri di questo
mondo, ed insomma avente piena e vera proporzione cogli altri esseri, e non
posto fuor d'ogni proporzione e gradazione e rispetto e attinenza e convenienza
e affinità ec. verso gli altri; chiunque non crederà che tutto il mondo {o} tutta la terra e ciascuna parte di loro sian fatte
unicamente ed espressamente per l'uomo, e che sia inutile e indegna della natura
qualunque cosa, qualunque creatura, qualunque parte o della terra o del mondo
non servisse o non potesse nè dovesse servire all'uomo, nè avesse per fine il
suo servigio; chiunque così la pensi, risponderà facilmente alla soprascritta
obbiezione. S'egli v'ha, come certo v'avrà, una specie di pianta, che rispetto
al genere de' vegetabili ed alla propria natura loro {generale,} sia di tutti i vegetabili il più perfetto, e sia la
sommità del genere vegetale, come lo è l'uomo dell'animale, non per questo
3649 seguirà nè sarà necessario ch'essa pianta nè si
trovi nè prosperi, nè debba nè pur possa prosperare nè anche allignare nè
nascere in tutti i paesi e climi della terra, nè in qualsivoglia regione de'
climi ov'ella più prospera e moltiplica, nè in qualsivoglia terreno e parte
delle regioni a lei più proprie e naturali. Così discorrasi nel genere o regno
minerale, e negli altri qualunque. Che all'uomo in società giovi la
moltiplicazione e diffusione della sua specie, o per meglio dire che alla
società giovi la moltiplicazione e propagazione della specie umana, e tanto più
quanto è maggiore, questo è altro discorso, {#1. questo suppone lo stato di società ch'io
combatto.} e certo s'inganna assai chi lo nega. Ma che la natura {medesima} abbia destinato la specie umana a tutti i
climi e paesi, e tutti i climi e paesi alla specie umana, questo è ciò che nè si
può provare, e secondo l'analogia, che sarà sempre un fortissimo, e forse il più
forte argomento di cognizione concesso all'uomo, si dimostra per falsissimo.
Niuna pianta, niun vegetale, niun minerale, niuno animale conosciuto si trova in
tutti i paesi e climi
3650 nè in tutti potrebbe vivere
e nascere, non che prosperare ec. Altre specie di vegetabili e di animali {ec.} si trovano e stanno bene in più paesi e più
diversi, altre in meno, niuna in tutti, e niuna in tanti e così vari di qualità
e di clima, in quanti e quanto vari è diffusa la specie umana. Tra la
propagazione e diffusione di questa specie e quella dell'altre non v'ha
proporzione alcuna. E notisi che la propagazione di molte specie di animali, di
piante ec. devesi {in gran parte} non alla natura, ma
all'uomo stesso, onde non avrebbe forza di provar nulla nel nostro discorso.
Molte specie che per natura non erano destinate se non se a un solo paese, o a
una sola qualità di paesi, o a paesi poco differenti, sono state dagli uomini
trasportate e stabilite in più paesi, in paesi differentissimi ec. Ciò è contro
natura, come lo è lo stabilimento della specie umana medesima in quei luoghi che
a lei non convengono. Le piante, gli animali ec. trasportate e stabilite
dall'uomo in paesi a loro non convenienti, o non ci durano, o non prosperano, o
ci degenerano, ci si trovano male ec. Gl'inconvenienti
3651 a cui le tali specie sono soggette ne' tali casi in siffatti
luoghi, sono forse da attribuirsi alla natura? e se esse in detti luoghi, pur,
benchè male, sussistono, si dee forse dire che la natura ve le abbia destinate?
e il genere di vita ch'esse sono obbligate a tenere in siffatti luoghi, o che
loro è fatto tenere, e i mezzi che impiegano a sussistere, o che s'impiegano a
farle sussistere, si debbono forse considerare come naturali, come lor propri
per loro natura? e argomentare da essi delle intenzioni della natura intorno a
dette specie?
[3769,1] Ho detto in questo discorso come sia necessario che
il soggetto dell'epopea sia nazionale, e come dannoso sarebbe ch'ei fosse
universale ec. (se non nel modo usato dal Tasso ec.). Ma per altra parte la nazionalità del soggetto limita,
quanto a se, l'interesse e il grand'effetto del poema, a una sola nazione. Non
v'è altro modo di ovviare a questo gran male (il qual fa ancora che i posteri,
dopo le tante mutazioni politiche che cagiona il tempo, distruttore o cangiatore
delle nazioni, o de' loro nomi, ch'è tutt'uno,
3770 e
loro carattere nazionale ec. non considerino più quegli antichi, nè possano
considerarli, come lor nazionali, e che a lungo andare, immancabilmente, non vi
sia più nazione a cui quel poema sia nazionale), se non di costringere
l'immaginazion de' lettori qualunque a persuaderli di esser compatrioti e
contemporanei de' personaggi del poeta, a trasportarli in quella nazione e in
quei tempi ec. Illusione conforme a quella che deono proccurare i drammatici ec.
Or tra tutti gli epici quel che meglio l'ha proccurata si è Omero nell'iliade,
siccome fra tutti gli storici Livio.
Vero è che questo viene in grandissima parte da quelle tante cagioni altrove da
me esposte pp. 3125. sgg., le quali fanno che tutte le nazioni
civili in tutti i tempi sieno {state e sieno per
essere} connazionali e contemporanee de' troiani, greci {antichi} romani {antichi} ed
ebrei {antichi.} Infatti dopo l'iliade, il poema epico che meglio proccura la detta illusione
universale, si è l'Eneide, perchè di soggetto
troiano e romano. Ma vero è ancora che, massime quanto ai troiani, le dette
cagioni si riducono alla sola iliade (ed
all'Eneide),
3771
onde l'illusione ch'essa proccura, non viene da cause a lei affatto estrinseche,
anzi l'iliade è tanto più mirabile quanto essa sola, o essa
principalmente (cioè aiutata dall'Eneide ec.),
ha potuto rendere {e rende} tutti gli uomini civili
d'ogni nazione e tempo compatrioti e contemporanei de' troiani. Questo ella
consegue mediante le reminiscenze della fanciullezza ec. le quali l'accompagnano
perchè sin da fanciulli conosciamo l'iliade, o i
fatti da essa narrati e inventati, e la mitologia in essa contenuta, ec. e le
prime nozioni della mitologia che apprendiamo, sono strettamente legate e in
{buona} parte composte delle invenzioni d'Omero ec. ec. Ma tutto questo non sarebbe
{nè sarebbe stato} se l'iliade non fosse sempre stata così celebre. Nè così celebre sarebbe
stata sempre senza il suo sommo merito. Vero è che questo non ha che fare in
particolare colla condotta ec. ec. (25. Ott. 1823.).
[4001,1] A proposito delle divinità benefiche, che altrove ho
detto pp. 3638-45 essere
ed essere state venerate, inventate ec. dalle nazioni civili, e più quanto più
civili, si aggiunga che non solo benefiche, ma graziose, amabili ec. ancorchè
non benefiche, o indifferenti ec. come tante divinità, allegorici personaggi,
personificazioni di qualità o soggetti ec. naturali, umani ec. nella mitologia
greca ec. ec. (24. Dec. Vigilia del S. Natale. 1823.).
[3878,1]
Alla p. 3639.
marg. Esseri più forti dell'uomo; ecco i primi Dei adorati dagli
uomini, o da loro riconosciuti e immaginati e considerati per tali; ecco la
prima idea della divinità. E come i più forti per lo più {+anzi, naturalmente e primitivamente, sempre} si
prevalgono di questo, come di ogni altro, vantaggio, in loro proprio bene, e
quindi sovente in danno de' più deboli, e però essi sono, appunto in quanto più
forti, malefici e formidabili ai più deboli; e come gli stessi individui umani,
massime nella società primitiva e selvaggia (che fu quella in cui nacque
3879 l'idea della Divinità) così ne usavano {e ne usano} verso i più deboli per qualunque lato, sì
loro simili, sì d'altre specie; quindi nell'idea primitiva della Divinità che
consisteva nella maggior forza e soprumana, dovette necessariamente entrare
l'idea della maleficenza e della terribilità, naturali effetti e conseguenze e
compagne della maggior forza. Anche gli uomini ch'erano o erano stati
straordinariamente superiori e più forti degli altri, sia di forza corporale,
sia di quella che nasce da qualunqu'altro vantaggio, ancorchè malefici, temuti e
odiati, furono non di rado nelle società primitive, e lo sono forse ancora nelle
selvagge, divinizzati sì nell'idea, sì talora nel culto, vivi o morti; e questo
si può anche riconoscere presso i critici che indagano le origini della stessa
mitologia greca, men feroce {e terribile e odiosa,}
anzi più molle ed umana e ridente e amena {e vaga e
graziosa} ed amabile di tutte l'altre ec. (13. Nov.
1823.).
[4048,3]
Luciano nel Dialogo di Menippo, Amfiloco e Trofonio.
M. τί δὲ
*
(lego δὴ ut contextus expetit)
ὁ ἥρως ἐστίν; ἀγνοῶ γὰρ. T. ἐξ ἀνϑρώπου τι καὶ ϑεοῦ
σύνϑετον. M. ὃ μήτε ἄνϑρωπός ἐστιν, ὡς ϕῄς, μήτε ϑεός, καὶ συναμϕότερόν
ἐστι.
*
Rechisi al detto altrove pp. 3494-97
pp.
3544-45 sopra l'opinione degli antichi circa i semidei, segno
dell'alto concetto che avevano della natura umana. (16. Marzo
1824.).
[4238,4] Differenza tra le antiche e le più recenti, le prime
e le ultime, mitologie. Gl'inventori delle prime mitologie (individui o popoli)
non cercavano l'oscuro per
4239 tutto, eziandio nel
chiaro; anzi cercavano il chiaro nell'oscuro; volevano spiegare e non
mistificare e scoprire; tendevano a dichiarar colle cose sensibili quelle che
non cadono sotto i sensi, a render ragione a lor modo e meglio che potevano, di
quelle cose che l'uomo non può comprendere, o che essi non comprendevano ancora.
Gl'inventori delle ultime mitologie, i platonici, e massime gli uomini dei primi
secoli della nostra era, decisamente cercavano l'oscuro nel chiaro, volevano
spiegare le cose sensibili e intelligibili, colle non intelligibili e non
sensibili; si compiacevano delle tenebre; rendevano ragione delle cose chiare e
manifeste, con dei misteri e dei secreti. Le prime mitologie non avevano
misteri, anzi erano trovate per ispiegare, e far chiari a tutti, i misteri della
natura; le ultime sono state trovate per farci creder mistero e superiore alla
intelligenza nostra anche quello che noi tocchiamo con mano, quello dove,
altrimenti, non avremmo sospettato nessuno arcano. Quindi il diverso carattere
delle due sorti di mitologie, corrispondente al diverso carattere sì dei tempi
in cui nacquero, sì dello spirito e del fine o tendenza con cui furono create.
Le une gaie, le altre tetre ec. (Recanati 29. Dic.
1826.).
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