Teorica delle arti, lettere ec. Parte pratica, storica ec.
Theory of the arts, letters, etc. Practical, historical part.
1,5.6 3,5 5,1.2 8,1.2 9,2 13,2 25,1 29,3 31,2 39,1 41,2 46,1 49,2 50,2 52,2 54,1 57,1 57,3 58,3 59,4 61,1 76,4 82,1 92,1 100,1 109,4 119,1 128,2 129,1 136,1 143,1 101,1 143,2 144,1 152,2 160,1 161,1 164,2 177 189,1 203,2 204,2 208,1 211,2 217,1 218,1 220,3 222,2 223,3 225,1 231,2 231,3 232,1 236,1 237,1 237,2 238,1 246,1 257,2 259,1 263,1 270,1 313,2 338,1 347,1 373,1 392,1 455,2 462,1 467,1 469,1 470,2 527,2 646,1 650,1 658,1 661,3 690,1 694,1 704,1 707,1 714,1 721,1 722,1 724,3 735,1 823,1.2 838,1 863,1 865,1 949,1 950,3 956,1 962,1 975,23 977,1 985,1 986,2 1001,2 1024,2 1028,4 1037,2 1056,1 1067,2 1093,1 1157,1 1174,2 1213,1 1237,1 1243,2 1302,1 1303,1 1316,1 1323,segg. 1356,2 1365,1 1366,1 1372,1 1383,1 1393,1 1448,1 1449,1 1470,1 1525,1 1534,1 1540,1-1543,1 1573,1 1579,3 1594,1 1650,1 1653,2 1671,1 1679,1 1683,1 1689,1 1691,2 1695,1 1701,1 1774,2 1789,1 1798,3.4 1806,3 1822,1 1825,2 1832,1 1845,1 1823,1 1827,2 1847,1 1860,1 1900,1 1916,1 1917,2 1927,2 1930,1 1962,1 1982,2 1987,1 1988,1 1991,1 1993,2 2012,2 2025,1 2037,2 2041,1 2065,1-2068,1 2075,1 2079,2-2093,2 2103,1 2112,1 2118,1 2127,1 2130,2 2134,1 2150,1 2166,1 2171,1 2172,1 2173,3 1313,1 2197,3 2228,1 2235,1 2239,2 2251,1 2263,1 1429,1 2284,2 2288,1 2304,1 2313,1 2336,1 2337,1 2350,1 2357 2361,1 2363,2 2395,2 2396,1 2408,1 2415,3 2434,2 2468,1 2475,2 2484,1 2498,1 2500,2 2523,1 2568,1 2573,1 2578,1 2589,1 2594,1 2599,1 2608,2 2609,1 2611,2 2613,1 2630,2 2639,1 2645,2 2661,12 2662,2 2663,1 2666,1 2682,1 2693,1.2 2694,1 2700,1 2716,32715,3 2717,1 2725,1 2731,2 2738,1 2759,2 2791 2793,2 2804,1 2834 2836,2 2845,1 2866,1 2906,2 2940-1 2944,1 2976,1 3024,2 3047,1 3050,1 3066,1 3070,1 3095,2 3191,12 3192,1 3221,segg. 3224,1 3233 3289,3 3388,1 3389,1 3435,1 3441,1 3448,1 3461,1 3479,1 3482,1 3488,2 3543,2 3548,2 3626,segg. 3633,1 3672,2 3673,1 3680-2 3717,1 3816,5 3829,1 3855,1 3863,2 3866,1 3884,1 3941,3 3946,12 3952,1 3976,1 4001,2 4021,5 4026,7 4055,6 4066,1 4074,1 4082,2 4117,11 4118,3 4173,3 4182,9 4191,4 4202,1 4203,1 4213,7 4214,3 4216,1 4234,5 4238,4 4240,2 4241,3 4246,1 4249,1.3 4250,3 4255,6 4257,5 4267,3 4268,1.2.7 4294,1[3,5] Il quattrocento restò dal fare, ma conservava l'idea del
bello incorrotta; però benchè non facesse, pure apprezzava il fatto anzi lo
cercava: quindi l'infinito studio de' Classici e l'erudizione dominante nel
secolo. Il cinquecento col capitale acquistato nel 400. e coll'istradamento del
300 tornò a fare. Ma il seicento perchè era non debole ma corrotto, non
solamente non sapea far bene, ma disprezzava il ben fatto anzi gli dispiacea.
Quindi la dimenticanza di Dante del Petrarca ec. che non si stampavano più.
Nel principio del settecento ripigliammo non le forze, ma solo il buon gusto e
l'amore degli studi classici, e la prima metà di questo secolo somiglia però al
quattrocento, nè si fa molto conto di quest'epoca di risorgimento perchè non
produsse (come il 400) nessun lavoro d'arte fuorchè la Merope, e durò
tanto poco che un uomo stesso potè aver veduto il tempo di corruzione il
risorgimento e il ricadimento. Ricadute le nostre lettere (nella imitazione e
studio degli stranieri) son comparsi nella {seconda}
metà del 700 e principio dell'800 i nostri
4 ultimi lavori
d'arte. Questi sono di quegli {scrittori} che nella
corruzione si conservano illesi, non possono essere stimati da molti ec. Ma
adesso l'arte è venuta in un incredibile accrescimento, tutto è arte e poi arte,
non c'è più quasi niente di spontaneo, la stessa spontaneità si cerca a tutto
potere ma con uno studio infinito senza il quale non si può avere, e senza il
quale a gran pezza l'aveano (spezialmente nella lingua) Dante il Petrarca l'Ariosto ec. e
tutti i bravi trecentisti e cinquecentisti. Questo avviene perchè ora si viene
da un tempo corrotto (oltrechè si sta pure tra' corrotti) e bisogna porre il più
grande studio per evitare la corruzione, principalmente quella del tempo la
quale prima che abbiamo pensato a guardarcene s'è impadronita di noi, e poi
quella dei tempi passati, perchè adesso conosciamo tutti i vizi delle arti e ce
ne vogliamo guardare, e non siamo più semplici come erano i greci e i latini e i
300ti[trecentisti] e i
500ti[cinquecentisti] perchè siamo passati
pel tempo di corruzione e siamo divenuti astuti nell'arte, e schiviamo i vizi
con questa astuzia e coll'arte non colla natura come faceano gli antichi i quali
senza saperne più che tanto pure perchè l'arte era in sul principio e non ancora
corrotta nongli schivavano ma non ci cadevano. Erano come fanciulli che non
conoscono i vizi, noi siamo come vecchi che li conosciamo ma pel senno e
l'esperienza gli schiviamo. E però abbiamo moltissimo più senno e arte che gli
antichi, i quali per questo cadevano in infiniti difetti (non conoscendoli) in
cui adesso non cadrebbe uno scolaro. Vizi d'Omero concetti del Petrarca
grossezze di Dante, seicentisterie
dell'Ariosto del Tasso del Caro traduzione dell'Eneide
ec. E però adesso le nostre opere grandi (pochissime perchè ancora siamo nella
corruzione onde pochissimi emergono) saranno tutte senza difetti, perfettissime,
ma in somma non più originali, non avremo più Omero
Dante l'Ariosto. Esempio manifesto del Parini
Alfieri
Monti ec.. Onde apparisce quel che io
disopra ho detto che dopo che le arti di fanciulle e incorrotte si son fatte
{mature} e corrotte, (come gli uomini di mezza età
viziosi) invecchiando e ravvedendosi, non potranno più ripigliare il vigore
della fanciullezza e giovinezza. Le arti presso i Greci e i latini corrotte una
volta non risorsero più presso noi van risorgendo. primo esempio finora al
mondo, dal quale solo si possono cavare le prove pratiche della mia sentenza. Se
non che i poeti e altri scrittori grandi d'oggi stanno in certo modo agli
antichi del 300 e 500 come i greci dei secoli d'Augusto
{e degli imperatori} p. e. Dionigi Alicarnasseo, Dione, Arriano ad Erodoto
Tucidide
Senofonte: ma questi eran passati
{per un'età} e si trovavano ancora in un'età più
tosto di debolezza che di corruzione.
[9,2] In molte opere di mano dove c'è qualche pericolo (o di
fallare o di rompere ec.) una delle cose più necessarie perchè riescano bene è
non pensare al pericolo e portarsi con franchezza. Così i poeti antichi non
solamente non pensavano al pericolo in cui erano di
10
errare, ma (specialmente Omero) appena
sapevano che ci fosse, e però franchissimamente si diportavano, con quella
bellissima negligenza che accusa l'opera della natura e non della fatica. Ma noi
timidissimi, non solamente sapendo che si può errare, ma avendo sempre {avanti} gli occhi l'esempio di chi ha errato e di chi
erra, e però pensando sempre al pericolo (e con ragione perchè {1.} vediamo il gusto corrotto del secolo che
facilissimãnte[facilissimamente] ci
trasporterebbe in sommi errori, 2. osserviamo le cadute di molti che per certa
libertà di pensare e di comporre partoriscono mostri, come sono al presente p.
e. i romantici) non ci arrischiamo di scostarci non dirò dall'esempio degli
antichi e dei Classici, che molti pur sapranno abbandonare, ma da quelle regole
(ottime e Classiche ma sempre regole) che ci siamo formate in mente, e diamo in
voli bassi, nè mai osiamo di alzarci con quella negligente e sicura e non
curante e dirò pure ignorante franchezza, che è necessaria nelle somme opere
dell'arte, onde pel timore di non fare cose pessime, non ci attentiamo di farne
delle ottime, e ne facciamo delle mediocri, non dico già mediocri di quella
mediocrità che riprende Orazio
[Horace, Ars poetica 265–74], e che in
poesia è insopportabile, ma mediocri nel genere delle buone cioè lavorate,
studiate, pulitissime, armonia espressiva, bel verso, bella lingua, Classici
ottimamente imitati, belle imagini, belle similitudini, somma proprietà di
parole, (la quale soprattutto tradisce l'arte) insomma tutto, ma che non son
quelle, non sono quelle cose secolari e mondiali, insomma non c'è più Omero
Dante l'Ariosto, insomma il Parini il Monti sono bellissimi ma non hanno nessun difetto. {{V. p. 461.}}
[13,2] L'efficacia dell'espressioni bene spesso è il medesimo
che la novità. Accadrà molte volte che l'espressione usitata sia più robusta più
vera più energica, e nondimeno l'esser ella usitata le tolga la forza e la
snervi; e il poeta sostituendo in suo luogo un'altra espressione men robusta,
forse anche men propria ma nuova, otterrà un buon effetto sulla fantasia del
lettore, ci sveglierà quell'immagine che l'altra espressione non avrebbe potuto
eccitare; e la sua frase sarà veramente più efficace, non per se stessa, ma per
la circostanza dell'esser nuova.
[25,1] Una considerazion fina intorno all'arte dello scrivere è
questa che alle volte, la collocazione, diremo, fortuita delle parole,
quantunque il senso dell'autore
26 sia chiaro tuttavia
{a} prima vista produca ne' lettori un'altra idea,
il che, quando massime quest'idea non sia conveniente bisogna schivarlo, massime
in poesia dove il lettore è più sull'immaginare e più facile a creder di vedere
{e che il poeta voglia fargli vedere} quello ancora
che il poeta non {pensa o anche non} vorrebbe. Ecco un
es. Chiabrera
Canz. lugubre 15. In morte
di Orazio Zanchini che comincia: Benchè di Dirce al fonte
*
, strofe 3. verso della canz.
37. della strofa duodecimo e penultimo: Ora
il bel crin si frange, E sul tuo sasso piange
*
. Si frange qui vuol dire si percuote, e intende il
poeta, colle mani ec. Il senso è chiaro, e quel si
frange non ha che far niente con sul tuo
sasso, e n'è distinto quanto meglio si può dire. Ma la collocazione
casuale delle parole è tale, ch'io metto pegno che quanti leggono la Canz. del
Chiabrera colla mente così
sull'aspettare immagini, a prima giunta si figurano
Firenze personificata (che di
Fir. personif. parla il Chiabrera) che percuota la testa e si franga il
crine sul sasso del Zanchini;
quantunque immediatamente poi venga a ravvedersi e a comprendere senza fatica
l'intenzione del poeta ch'è manifesta. Ora, lasciando se l'immagine ch'io dico
sia conveniente o no, certo è che non è voluta dal poeta, e ch'egli perciò deve
schivare questa illusione quantunque momentanea (bastando che queste parole del
Chiabr. servano d'esempio senza
bisogno che l'immagine sia sconveniente) eccetto s'ella non gli piacesse come
forse si potrebbe dare il caso, ma questo non dev'essere se non quando
l'immagine illusoria non nocia alla vera e non ci sia bisogna di ravvedimento
per veder questa seconda, giacchè due immagini in una volta non si possono
vedere, ma bensì una dopo l'altra il che quando fosse, potrebbe anche il poeta
lasciare e anche proccurare questa illusione, dove pure non noccia al restante
del contesto, perch'ella non fa danno, e d'altra parte è bene che il lettore
stia sempre tra le immagini. Quello che dico del poeta s'intenda
proporzionatamente anche degli altri scrittori. Anzi questa sarebbe la sorgente
di una grand'arte e di un grandissimo effetto proccurando quel vago e
quell'incerto ch'è tanto propriamente e sommamente poetico, e destando immagini
delle quali non sia evidente la ragione, ma quasi nascosta, e tale ch'elle
paiano accidentali, e non proccurate dal poeta in nessun modo, ma quasi ispirate
da cosa invisibile e incomprensibile e da quell'ineffabile ondeggiamento del
poeta che quando è veramente inspirato dalla natura dalla campagna e da
checchessia, non sa veramente com'esprimere quello che sente, se non in modo
vago e incerto, ed è perciò naturaliss. che le immagini che destano le sue
parole appariscano accidentali.
[29,3] Ottimamente il Paciaudi come riferisce e loda l'Alfieri nella sua propria
vita, chiamava la prosa la nutrice del verso, giacchè uno che per far versi si
nutrisse solamente di versi sarebbe come chi si cibasse di solo grasso per
ingrassare, quando il grasso degli animali è la cosa meno atta a formare il
nostro, e le cose più atte sono appunto le carni succose ma magre; e la sostanza
cavata dalle parti più secche, quale si può considerare la prosa rispetto al
verso.
[31,2] La prosa per esser veramente bella (conforme era quella
degli antichi) e conservare quella morbidezza e pastosità {composta anche fra le altre cose di} nobiltà e dignità, che
comparisce in tutte le prose antiche e in quasi nessuna moderna, bisogna che
abbia sempre qualche cosa del poetico, non già qualche cosa particolare, ma una
mezza tinta generale, onde ci sono certe espressioni tecniche p. e. che essendo
bassissime nella poesia sono basse nella prosa; (giacchè qui non parlo di quelle
che son basse e plebee assolutamente le quali anche talvolta sconverranno meno
alla buona prosa di quelle ch'io dico qui) come altre che sono basse nella
poesia, alla prosa non disconvengono affatto: p. e. quei versi del Voltaire:
Je chante le héros qui régna sur la
France Et par droit de conquête, et par droit
de naissance
*
. Quel tecnicismo pessimo in questi versi, non
disdice in prosa. Da questo ch'io ho detto si vede quanto debba diventare come
infatti diventa {geometrica} arida sparuta dura, asciutta ossuta, e dirò
così, somigliante a una persona magra che abbia le punte dell'ossa tutte in
fuori, quella prosa tutta sparsa d'espressioni metafore frasi locuzioni modi
tecnici che usa presentemente massime in Francia, e
quanto lontana da quella freschezza e carnosità morbida sana vermiglia {vegeta} florida, e da {quella
pieghevolezza e da} quella dignità che s'ammira in tutte quelle prose
che sanno d'antico.
[39,1]
Dice Bacone da Verulamio che tutte le facoltà ridotte ad arte
steriliscono.
*
Della quale verissima sentenza farò un
breve commento applicandolo in particolare alla poesia. Steriliscono le facoltà
ridotte ad arte, vale a dire gli uomini non trovano altro che le amplifichi,
come trovavano quando ell'erano ancora informi, e senza nome e senza leggi
proprie ec. e di ciò mi sovvengono
(verbo usato in questo significato dal Tasso) 4. ragioni. La 1. che {quasi} nessuno
pensa più ad accrescere una facoltà già stabilita ordinata composta e che si ha
per perfetta, perchè ognuno si contenta e si acquieta stimando la cosa già
compita il che non accadeva prima della sua riduzione ad arte; ma ciascuno che
capitava a coltivare questa facoltà, si lambiccava il cervello per ampliarla
perchè non avea nome d'esser arte; quando l'ha avuto quando anche in fatti non
sia più ricca di prima, par ch'ell'abbia già il tutto. La 2. (e questa è
relativa particolarmente alla poesia) perchè moltissimi anzi quasi tutto il
volgo di quelli che si applicano alla poesia (dite lo stesso proporzionatamente
delle altre facoltà) non ardiscono di violare nessuna delle regole stabilite di
mettere il piede un dito fuori della traccia segnata dai predecessori, credendo
pedantescamente che il poetare non si possa eseguire senza stare a quelle leggi,
insomma la 2.da ragione è la pedanteria. La 3. più comune alle persone di senno
e giudiziose {e capaci, e anche esimie} è il costume e
l'abitudine dal quale non si sanno staccare parte relativamente a se, parte agli
altri. A se, perchè coll'abito preso di leggere di sentire di scrivere quella
tal sorta di poemi di tragedie ec. non sanno fare altrimenti quantunque non
siano ritenuti da nessuna superstizione. Agli altri, perchè non ardiscono di
abbandonare le[la] consuetudine corrente, e
quantunque non sieno schiavi dei pregiudizi tuttavia dovendo comporre qualche
poesia non si risolvono a parere stravaganti ideando cose non più sentite,
dovendo pubblicare un'azione drammatica ed esporla agli occhi del popolo, se la
facessero di capriccio e senz'adattarsi alla forma usata crederebbero meritarsi
le risa o il biasimo universale, se componessero un poema epico di forma
differente da quella che si costuma da tutto il mondo stimano e in certo modo
con ragione che dovrebbero essere ripresi d'aver barattati i nomi, non
ricevendosi per poema epico se non quello che è in questa forma consueta. E così
è in fatti che se uno intitola la sua opera tragedia, il pubblico si aspetta
quello che si suole intendere per tragedia, e trovando cosa tutta differente se
ne ride. Nè senza ragione perchè il danno dell'età nostra è che la poesia sia
già ridotta ad arte, in maniera che per essere veramente originale bisogna
rompere violare disprezzare lasciare da parte intieramente i costumi e le
abitudini e le nozioni di nomi di generi ec. ricevute da tutti, cosa difficile a
fare, e dalla quale si astiene ragionevolmente anche il savio, perchè le
consuetudini vanno rispettate massimamente nelle cose fatte pel popolo come sono
le poesie, nè va ingannato il pubblico con nomi falsi.
40
E dare una nuova poesia senza nome affatto {e} che non
possa averne dai generi conosciuti è ragionevole bensì, ma di un ardire
difficile a trovarsi, e che anche ha infiniti ostacoli reali, e non solamente
immaginari nè pedanteschi. La 4. e la più forte, e la più considerabile, che
quando anche un bravo poeta voglia effettivamente astrarre da ogni idea ricevuta
da ogni forma da ogni consuetudine, e si metta a immaginare una poesia tutta sua
propria, senza nessun rispetto, difficilissimamente riesce ad essere veramente
originale, o almeno ad esserlo come gli antichi, perchè a ogni momento anche
senz'avvedersene, senza volerlo, sdegnandosene ancora, ricadrebbe in quelle
forme, in quegli usi, in quelle parti, in quei mezzi, in quegli artifizi, in
quelle immagini, in quei generi ec. ec. come un riozzolo d'acqua che corra per
un luogo dov'è passata altr'acqua: avete bel distornarlo, sempre tenderà e
ricadrà nella strada ch'è restata bagnata dall'acqua precedente. Giacchè la
natura somministra ben da se idee sempre differenti e sempre nuove, e se un
poeta non fosse stato conosciuto dall'altro appena si sarebbero trovati due
poeti che avessero fatti poemi somiglianti {perchè questo non
sarebbe stato se non opera del caso, il quale difficilmente produce simili
combinazioni che ognuno vede quanto sian rare in ogni genere.} Perciò
quando gli esempi erano o scarsi o nulli, Eschilo per es. inventando ora una ora un'altra tragedia senza forme
senza usi stabiliti, e seguendo la sua natura, variava naturalmente a ogni
composizione. Così Omero scrivendo i
suoi poemi, vagava liberamente per li campi immaginabili, e sceglieva quello che
gli pareva giacchè tutto gli era presente effettivamente, non avendoci esempi
anteriori che glieli circoscrivessero e gliene chiudessero la vista. In questo
modo i poeti antichi difficilmente s'imbattevano a non essere originali, o piuttosto erano sempre
originali, e s'erano simili era caso. Ma ora con tanti usi con tanti esempi, con
tante nozioni, definizioni, regole, forme, con tante letture ec. per quanto un
poeta si voglia allontanare dalla strada segnata a ogni poco ci ritorna, mentre
la natura non opera più da se, sempre naturalmente e necessariamente influiscono
sulla mente del poeta le idee acquistate che circoscrivono l'efficacia della
natura e scemano la facoltà inventiva, la quale se ciò non fosse, malgrado i
tanti poeti che ci sono stati, saprebbe ben da se ritrovar naturalmente e senza
sforzo (parlo della facoltà inventiva di un vero poeta) cose sempre nuove, e non
tocche da altri, almeno non in quella maniera ec.
[41,2] Quello che ho detto {qui sopra}
della difficoltà d'astenersi dall'imitare è confermato e dall'esempio del Metastasio che se è vero quello che dice
il Calsabigi
{nella lettera all'Alfieri} non volle mai leggere tragedie francesi,
e da quello che scrive l'Alfieri di se nella sua vita, e tra l'altro del Caluso che gli negò una
tragedia del Voltaire ch'egli volea
leggere mentre stava per comporne un'altra sullo stesso argomento.
[46,1]
46 Quando colla lettura col tratto col discorso coi
trattenimenti o letterari o di qualunque genere (ma massime coi libri in quanto
al gusto dello scrivere, e colla conversazione degli uomini in quanto al
costume) ci siamo formati un abito cattivo, crediamo che quello sia natura,
giacchè non c'è cosa tanto simile e facile ad esser confuso[confusa] colla natura anche da' più oculati e da' filosofi,
quanto l'abito; e pretendiamo di dover seguire quell'abito p. e. nello scrivere,
(giacchè di questo io voglio qui parlare specialmente come quelli a cui pare che
lo scrivere in un italiano francese sia natura, e così la corruzione del gusto
in ogni genere e parte di scrittura e di stile) dicendo ch'è natura, e che così
vi viene spontaneamente e che la poesia deve fluire dalla natura e cose tali. Ma
non è natura, è abito, e abitaccio pessimo, e volete vederlo? se siete veramente
di buona indole per le B. A.[Belle Arti]
leggete i veri poeti e scrittori, particolarmente i greci, e vedrete subito che
quella è natura, e vi maraviglierete (come infatti succede, che quasi paiano due
naturalezze e non si sappia capir come, e dall'altra parte
queste[questa] duplicità ci faccia stupire)
come sia tanto differente da quella che voi credete che sia natura, eppur non
potete negare che questa non sia perch'è troppo evidente. Ed ecco se volete
esser poeta e servirvi di quello che vi somministra la natura, naturalmente, e
rettamente, cominciate, se siete uomo di giudizio, a conoscer la necessità
assolutissima dello studio, (oh bestemmia! necessario lo studio per iscrivere e
poetar bene) e della lezione dei classici e delle arti poetiche e dei trattati
ec. ec. e vedete appoco appoco la somma difficoltà d'imitare e seguir quella
natura che prima confondendola coll'abito giudicavate così facile a esprimere,
perchè infatti non c'è cosa più facile a seguire che l'abito, nè più difficile a
contrariare, il che appunto fa la somma difficoltà del seguir la natura vera, e
ciò non si ottiene senza un contrabito tanto più difficile del primo quanto
bisogna erigerlo dai fondamenti, (del che in quell'altro essendo venuto su
appoco appoco, nell'età fresca, e da se, senza nostra fatica, non ci eravamo
accorti) erigerlo sbarbando prima l'altro, e questa è la gran fatica che in
quell'altro non ci fu punto, e finalmente erigerlo continuarlo e finito
conservarlo in mezzo a infinite cose (come letture necessarie, discorsi, {commercio usuale per negozi ec.} trattenimenti
conversazioni corrotte secondo il solito, {corrispondenze} ascoltazione di discorsi altrui ec. ec.) che lo
contrastano, tanto più pericolose quanto vi richiamano a quell'altro abito prima
già fatto, onde il luogo resta sempre lubrico, ed è facile lo scivolare nel
cattivo. E così è necessarissimo lo studio per ben servirsi di quella natura,
senza la quale bensì non si fa niente, ma colla quale sola avreste ben forse
potuto quasi tutto, ma non potete più nulla, anzi meno del nulla, giacchè non
potete non far male, a cagione dell'abito inevitabile fatto contro di lei.
[49,2]
Quello che ho detto
nel princip. di questo pensiero me ne porge un altro, cioè che infatti
quella fav.[favola] non pecca d'inverisimile
non essendo scritta per li pavoni ma per noi, i quali naturalmente siamo portati
a credere che quelle zampe bruttissime agli occhi nostri sieno tali anche agli
occhi dei pavoni. E quantunque il filosofo facilmente conosca il contrario,
tuttavia scrive il poeta pel volgo, al quale non è inverisimile il dir p. e. che
le stelle cadano, anzi lo dice Virgil. e si
dice da' villani e da' poeti tuttogiorno, benchè a qualunque non ignorante sia
cosa impossibile.
[50,2] Anche la stessa negligenza e noncuranza e sprezzatura e
la stessa inaffettazione può essere affettata, risaltare ec. Anche la semplicità
la naturalezza la spontaneità. {{V. p.
160.}}
[52,2] Non ogni proposito deve nascondere il poeta, come per
esempio non dee nascondere il proposito d'istruire nel poema didascalico ec. in
somma i propositi manifesti e che si espongono p. e. nello stesso principio del
poema. Canto l'armi
pietose
*
ec. Ma sì bene quelli che non vanno naturalmente
col proposito manifesto, come col narrare il dipingere, coll'istruire il
dilettare, cose che il poeta si propone, ma non dee mostrare di proporselo
quantunque debba mostrare quegli altri propositi manifesti, i quali servono più
che altro di pretesto e manto ai propositi occulti. E questo perchè questi
ultimi non sono naturali come è naturale che uno narri ec. ma deve parer che
quel diletto, quella viva rappresentazione ec. venga spontanea e senza ch'il
poeta l'abbia cercata, il che mostrerebbe l'arte e lo studio e la diligenza, e
in somma non sarebbe naturale, giacchè figurandoci il poeta nello stato naturale
è un uomo che preso il suo tema, e questo è il proposito manifesto, venga giù
dicendo quello che gli si somministra spontaneamente come fanno tutti quelli che
parlano, e quantunque egli qui metta un'immagine, qui un affetto, qui un suono
espressivo, qui ec. e tutto a bella posta e pensatamente, non deve parer ch'egli
lo faccia così, ma solo naturalmente, e così portando il filo del suo discorso,
e l'accaloramento
53 della sua fantasia e il suo cuore
ec. Altrimenti la natura non è imitata naturalmente e questi sono i propositi
diremo così secondari, quantunque spessissimo in realtà sieno primari, (come ne'
poemi didascalici dove il fine primario par l'istruire, e deve parere, quando in
verità è solo un mezzo essendo il vero fine il dilettare) i quali bisogna
nascondere. E oltre il poeta s'intenda l'oratore lo storico, ed ogni {qualunque} scrittore. {Affettazione
in latino viene a dir lo stesso che proposito, e presso noi lo stesso che
proposito manifesto, anzi questa può esserne la definizione.}
[54,1]
54 Quando la poesia per tanto tempo sconosciuta entrò nel
Lazio e in Roma, che magnifico
e immenso campo di soggetti se le aperse avanti gli occhi! Essa stessa già
padrona del mondo, le sue infinite vicende passate, le speranze, ec. ec. ec.
Argomenti d'infinito entusiasmo e da accendere la fantasia e 'l cuore di
qualunque poeta anche straniero e postero, quanto più romano o latino, e
contemporaneo o vicino proporzionatamente ai tempi di quelle gesta? Eppure non
ci fu epopea latina che avesse per soggetto le cose latine così eccessivamente
grandi e poetiche, eccetto quella d'Ennio che dovette essere una misera cosa. La prima voce della tromba
epica che fu di Lucrezio, trattò di
filosofia. In somma l'imitazione dei greci fu per questa parte mortifera alla
poesia latina, come poi alla letteratura e poesia italiana nel suo vero
principio, cioè nel 500. l'imitazione servile de' greci e latini. Onde con tanto
immensa copia di fatti nazionali, cantavano, lasciati questi, i fatti greci, nè
io credo che si trovi indicata tragedia d'Ennio o d'Accio
{ec.} d'argomento {latino e}
non greco. Cosa tanto dannosa, massime in quella somma abbondanza di gran cose
nazionali, quanto ognuno può vedere. E lo vide ben Virgilio col suo gran giudizio, non però la schivò
affatto anzi l'argomento suo fu pure in certo modo greco, (così le
Buccoliche e le Georgiche di titolo e derivazione
greca) oltre le tante imitazioni d'Omero
ec. ma proccurò quanto più potè di tirarlo al nazionale, e spesso prese
occasione di cantare ex professo i fatti di Roma.
Similmente Orazio uomo però di poco
valore in quanto poeta, fra tanti argomenti delle sue odi derivate dal greco,
prese parecchie volte a celebrare le gesta romane. Ovidio nel suo gran
poema {cioè le Metamorfosi}
prese argomento tutto greco. Scrisse però i fasti di Roma
ma era opera piuttosto da versificatore che da poeta, trattandosi di narrare le
origini, s'io non erro, di quelle cerimonie feste ec. in somma non prese quei
fatti a cantare, ma così, come a trastullarcisi. Del resto la letteratura latina
si risentì bene dello stato di Roma colla magniloquenza
che, si può dire, aggiunse alle altre proprietà dell'orazione ricevute da'
greci, e a qualcune sostituì, qualità tutta propria de' latini, come nota l'Algarotti, colla nobiltà e la coltura dell'orazione del
periodo ec. molto maggiore che non appresso gli antichi greci classici, eccetto,
e forse neppure, Isocrate.
[57,1]
57 S'è osservato che è proprietà degli antichi poeti ed
artisti il lasciar molto alla fantasia ed al cuore del lettore o spettatore.
Questo però non si deve prendere per una proprietà isolata ma per un effetto
semplicissimo e naturale e necessario della naturalezza con cui nel descrivere
imitare ec. lasciano le minuzie e l'enumerazione delle parti tanto familiare ai
moderni descrivendo solo il tutto con disinvoltura, e come chi narra non come
chi vuole manifestamente dipingere muovere ec. Nella stessa maniera Ovidio il cui modo di dipingere è
l'enumerare (come i moderni descrittivi sentimentali ec.) non lascia quasi
niente {a fare} al lettore, laddove Dante che con due parole desta un'immagine lascia molto
a fare alla fantasia, ma dico a fare non già faticare, giacchè ella
spontaneamente concepisce quell'immagine e aggiunge quello che manca ai tratti
del poeta che son tali da richiamar quasi necessariamente l'idea del tutto. E
così presso gli antichi in ogni genere d'imitazione della natura.
[57,3] Circa le immaginazioni de' fanciulli comparate alla
poesia degli antichi vedi la verissima osservazione di Verter sul fine della lettera 50. Una terza sorgente degli
stessi diletti e delle stesse romanzesche idee sono i sogni.
[58,3] Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia.
[59,4] Quella miserabile lussuria di epiteti {sinonimi, riempiture, chevilles, ec.} che forma il
comunissimo orpello de' nostri classici cinquecentisti (e credo anche del Poliziano) però non paragonabili ai
latini ma più ai greci quanto allo stile, non si trova o più rara assai in Dante e nel Petrarca dove anzi trovi una misuratezza infinita di
parole {e castigatezza di ornati} e significazione
conveniente e opportunità di tutte {le voci} ec. come
60 in quello del Petrarca messo dall'Alfieri
avanti alla sua Virginia: Virginia
appresso al fero padre armato Di disdegno di ferro e di pietate
*
.
Trionfo Castità. Così anche le
rime del Petrarca sono molto più
spontanee, e con ciò tutto quello che dipende nel verso dalla necessità della
rima che alle volte fa aggiungere intieri versi che si potrebbono torre di netto
ec. come nei cinquecentisti.
[61,1] Gli ardiri rispetto a certi modi epiteti frasi metafore,
tanto commendati in poesia e anche nel resto della letteratura e tanto usati da
Orazio non sono bene spesso altro
che un bell'uso di quel vago e in certo modo quanto alla costruzione,
irragionevole, che tanto è necessario al poeta. Come in Orazio dove chiama
mano di bronzo quella della necessità (ode alla fortuna [Carmina 1. 35, 17-19]) ch'è un'idea
chiara, ma espressa vagamente (errantemente) così tirando l'epiteto come a caso
a quello di cui gli avvien di parlare senza badare se gli convenga bene cioè se
le due idee che gli si affacciano l'una sostantiva e l'altra di qualità ossia
aggettiva si possano così subito mettere insieme, come chi chiama duro il vento perchè difficilmente si rompe la sua
piena quando se gli va incontro ec.
[76,4] L'espressione del dolore antico, p. e. nel Laocoonte, nel gruppo di Niobe, nelle descrizioni di Omero ec. doveva essere per necessità
differente da quella del dolor moderno. Quello era un dolore senza medicina com'
ne ha il nostro, non sopravvenivano le sventure agli antichi come
necessariamente dovute alla nostra natura, ed anche come un nulla in questa
misera vita, ma
77 come impedimenti e contrasti a quella
felicità che agli antichi non pareva un sogno, come a noi pare, (ed
effettivamente non era tale per essi {certamente speravano,
mentre noi disperiamo, di poterla conseguire}) come mali evitabili e
non evitati. Perciò la vendetta del cielo, le ingiustizie degli uomini, i danni,
le calamità, le malattie, le ingiurie della fortuna, pareano mali tutti propri
di quello a cui sopravvenivano. (infatti il disgraziato al contrario di adesso
solea per la superstizione che si mescolava ai sentimenti e alle opinioni
naturali, esser creduto uno scellerato e in odio agli Dei, e destar più l'odio
che la compassione) Quindi il dolor loro era disperato, come suol essere in
natura, e come ora nei barbari e nelle genti di campagna, senza il conforto
della sensibilità, senza la rassegnazion dolce alle sventure da noi, non da
loro, conosciute inevitabili, non poteano conoscere il piacer del dolore, nè
l'affanno di una madre, perduti i suoi figli, come Niobe, era mescolato di nessuna amara e dolce
tenerezza di se stesso ec. ma intieramente disperato. Somma differenza tra il
dolore antico e il moderno per cui con ragione si raccomanda al poeta artista
ec. moderno di trattar soggetti moderni, non potendo a meno trattando soggetti
antichi di cadere in una di queste due, o violare il vero, dipingendo i fatti
antichi con prestare ai suoi personaggi sentimenti e affetti moderni, o non
interessare nè farsi
78 intendere dai moderni col far
sentire e parlare quei personaggi all'antica. Se non che l'offendere il vero,
nel primo caso non mi par così da schivare, purchè si salvi il verosimile,
divenendo cosa da puro erudito, quando l'effetto di quella mescolanza è buono,
il rilevare che gli antichi non avrebbero potuto provare quei sentimenti, come
io soglio anche dire dei vestimenti e delle attitudini nella pittura, ec. dove
purchè l'offesa del vero non salti agli occhi, vale a dire si salvi il
verisimile, sarà sempre meglio farsi intendere e colpire i moderni, che
assoggettarsi ad una miserabile esattezza erudita che non farebbe nessuno
effetto. Quindi non condanno punto anzi lodo p. e. Racine che avendo scelto soggetti antichi (che colla
loro natura non erano incompatibili coi sentimenti moderni, e d'altronde erano
per la loro bellezza, tragicità, forza ec. preferibili ad altri soggetti de'
giorni più bassi) gli ha trattati alla moderna. La sensibilità era negli antichi
in potenza, ma non in atto come in noi, e però una facoltà naturalissima (v. il mio discorso sui romantici), ma è
cosa provata che le diverse circostanze sviluppano le diverse facoltà naturali
dell'anima, che restano nascose e inoperose mancando quelle tali circostanze,
fisiche, politiche, morali, e soprattutto, nel nostro caso, intellettuali,
giacchè lo sviluppo del sentimento e della melanconia, è venuto soprattutto dal
progresso della filosofia, e della cognizione dell'uomo, e del mondo, e della
vanità delle cose, e della infelicità umana,
79
cognizione che produce appunto questa infelicità, che in natura non dovevamo mai
conoscere. Gli antichi in cambio di quel sentimento che ora è tutt'uno col
malinconico, avevano altri sentimenti entusiasmi ec. più lieti e felici, ed è
una pazzia l'accusare i loro poeti di non esser sentimentali, e anche il
preferire {a} quei sentimenti e piaceri loro che erano
spiritualissimi anch'essi, e destinati dalla natura all'uomo non fatto per
essere infelice, i sentimenti e le dolcezze nostre, benchè naturali anch'esse,
cioè l'ultima risorsa della natura per contrastare (com'è suo continuo scopo)
alla infelicità prodotta dalla innaturale cognizione della nostra miseria. La
consolazione degli antichi non era nella sventura, per es. un morto si consolava
cogli emblemi della vita, coi giuochi i più energici, colla lode di avere
incontrata una sventura minore o nulla morendo per la patria, per la gloria, per
passioni vive, morendo dirò quasi per la vita. La consolazione loro {anche della morte} non era nella morte ma nella vita.
{{V. p. 105. di questi
pensieri.}}
[82,1]
82 Citerò un luogo delle Notti romane, non perch'io creda che quel libro si
possa prendere per modello di stile, ma per addurre un esempio che mi cade in
acconcio. Ed è quello dove la Vestale dice che diede disperatamente del capo in
una parete, e giacque. La soppressione del verbo intermedio tra il battere il
capo e il giacere, che è il cadere, produce un effetto sensibilissimo, facendo
sentire al lettore tutta la violenza e come la scossa di quella caduta, per la
mancanza di quel verbo, che par che ti manchi sotto ai piedi, e che tu cada di
piombo dalla prima idea nella seconda che non può esser collegata colla prima se
non per quella di mezzo che ti manca. E queste sono le vere arti di dar virtù ed
efficacia allo stile, e di far quasi provare quello che tu racconti.
[92,1] La società francese la quale fa che l'esprit naturel se tourne en
épigrammes plutôt qu'en poésie
*
, dice la Staël, (vedila, Corinne, liv. 15, chap. 9. p. 80. t.
3. edizione citata da me alla p.
87) rende ancora epigrammatica tutta la loro scrittura, ed abituati
come sono a dare a tutti i loro detti nella conversazione, une tournure che li
renda gradevoli, un'aria di novità, una grazia ascitizia, un garbo proccurato
ec. ponendosi a scrivere, e stimando naturalmente che la scrittura non {li} disobblighi da quello a cui gli obbliga la
raffinatezza della conversazione, (naturale nel paese dove lo spirito di società
è così grande, anzi è l'anima e lo scopo e il tutto della vita) e per lo
contrario credendo che quest'obbligo sia maggiore nello scrivere che nel parlare
(e con ragione avuto riguardo al gusto de' lettori nazionali che altrimenti li
disprezzerebbero) si abbandonano a quello stesso studio che adoprano nella
conversazione per renderla aggradevole e piccante ec. e però il loro stile è
così diverso da
93 quello de' greci e de' latini e
degl'italiani, non essendo possibile ch'essi accettino quella prima frase che si
presenta naturalmente e da se a chi vuole esprimere un sentimento. E però le
grazie naturali sono affatto sbandite dal loro stile, anzi è curioso il vedere
quello ch'essi chiamino naturalezza e semplicità, {come} p. e. in La Fontaine tanto decantato per queste doti. In luogo
della[delle] grazie naturali il loro stile è
tutto composto delle grazie di società e di conversazione, e quando queste sono
conseguite essi chiamano il loro stile, semplice, come fanno sempre anche in
astratto quando paragonano lo stil francese all'italiano p. e. o al latino ec.
parte avuto riguardo alla collocazione materiale delle parole e alla costruzione
del periodo, e divisione del discorso ec. paragonata con quella delle altre
lingue, parte alla mancanza delle ampollosità delle gonfiezze, delle figure
troppo evidenti, dei giri e rigiri per dire una stessa cosa ec. ec. che si
trovano nei cattivi stili delle altre lingue, e che nel francese sono affatto
straordinari e sarebbero fischiati. E questa chiamano purezza di gusto, ed hanno
ragione da un lato, ma dall'altro non conoscono quella semplicità così
intrinseca come estrinseca dello stile che non ha niente di comune coll'eleganza
la politezza la tournure la raffinatezza il limato il ricercato della
conversazione, ma sta tutta nella natura, nella pura espressione de' sentimenti
che è presentata dalla cosa stessa, e che riceve novità {e
grazia}
piuttosto dalla cosa, se ne ha, che da se medesima e dal lavoro dello
scrittore, quella schiettezza di frase le cui grazie sono ingenite e
non ascitizie, quel modo di parlare che non viene dall'abitudine della
conversazione e che par naturale solamente a chi vi è accostumato (cioè ai
francesi e agli altri nutriti sempre di cose francesi) ma dalla natura
universale, e dalla stessa materia, quello insomma ch'era
94 proprio dei greci, e con una certa proporzione, de' latini, e
degl'italiani, di Senofonte di Erodoto de' trecentisti ec. i quali sono
intraducibili nella lingua francese. Cosa strana che una lingua di cui essi
sempre vantano la semplicità non abbia mezzi per tradurre autori semplicissimi,
e di uno stile il più naturale, libero, inaffettato, disinvolto, piano, facile
che si possa immaginare. E pur la cosa è rigorosamente vera, e basta osservar le
traduzioni francesi da classici antichi per veder come stentino a ridurre nel
loro stile di società e di conversazione ch'essi chiamano semplice (e ch'è
divenuto inseparabile dalla loro lingua anzi si è quasi confuso con lei) quei
prototipi di manifesta e incontrastabile semplicità; e come esse sieno lontane
dal conservare in nessun modo il carattere dello stile originale. Qui comprendo
anche le Georgiche di Delille intese da orecchie non francesi, e quella generale
osservazione fatta anche dalla Staël nella Biblioteca italiana che le traduzioni francesi da
qualunque lingua hanno sempre un carattere nazionale e diverso dallo stile {originale} e anche dalle parti più essenziali di esso, e
anche da' sentimenti. E basta anche notare come le traduzioni e lo stile d'Amyot veramente semplicissimo (e non
però suo proprio ma similissimo a quello de' suoi originali, e tra le lingue
moderne, all'italiano) si allontanino dall'indole della presente lingua
francese, non solo quanto alle parole e ai modi antiquati, ma principalmente
nelle forme sostanziali, e nell'insieme dello stile, che ora di francese non può
avere altro che il nome, e che sarebbe chiamato barbaro in un moderno, levato
anche ogni vestigio d'arcaismo. E scommetto ch'egli riesce più facile a
intendere agl'italiani, che ai francesi non dotti, massime nelle lingue
classiche.
[100,1]
100 È cosa osservata degli antichi poeti ed artefici,
massimamente greci, che solevano lasciar da pensare allo spettatore o uditore
più di quello ch'esprimessero. (V. p.
86-87. di questi pensieri) E quanto alla cagione di ciò, non è altra
che la loro semplicità e naturalezza, per cui non andavano come i moderni dietro
alle minuzie della cosa, dimostrando evidentemente lo studio dello scrittore,
che non parla o descrive la cosa come la natura stessa la presenta, ma va
sottilizzando, notando le circostanze, sminuzzando e allungando la descrizione
per desiderio di fare effetto, cosa che scuopre il proposito, distrugge la
naturale disinvoltura e negligenza, manifesta l'arte e l'affettazione, ed
introduce nella poesia a parlare più il poeta che la cosa. Del che v. il mio discorso sopra i romantici, e
vari di questi pensieri p. 21
p.
52
p.
57. Ma tra gli effetti di questo costume, dico effetti e non cagioni,
giacchè gli antichi non pensavano certamente a questo effetto, e non erano
portati se non dalla causa che ho detta, è notabilissimo quello del rendere
l'impressione della poesia o dell'arte bella, infinita, laddove quella de'
moderni è finita. Perchè descrivendo con pochi colpi, e mostrando poche parti
dell'oggetto, lasciavano l'immaginazione errare nel vago e indeterminato di
quelle idee fanciullesche, che nascono dagl'ignoranza dell'intiero. Ed una scena
campestre p. e. dipinta dal poeta antico in pochi tratti, e senza dirò così, il
suo orizzonte, destava nella fantasia quel divino ondeggiamento d'idee confuse,
e brillanti di un indefinibile romanzesco, e di quella eccessivamente cara e
soave stravaganza {e maraviglia,} che ci solea rendere
estatici nella nostra fanciullezza. Dove che i moderni, determinando ogni
oggetto, e mostrandone tutti i confini, son privi quasi affatto di questa
emozione infinita, e invece non destano se non quella finita e circoscritta, che
nasce dalla cognizione dell'oggetto intiero, e non ha nulla di stravagante, ma è
propria dell'età matura, che è priva di quegl'inesprimibili diletti della vaga
immaginazione provati nella fanciullezza. (8. Gen. 1820.)
[109,4] Le parole come osserva il Beccaria (tratt. dello stile) non
presentano la sola idea dell'oggetto significato, ma quando più quando meno
110 immagini accessorie. Ed è pregio sommo della lingua
l'aver di queste parole. Le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta
idea di quel tale oggetto, e perciò si chiamano termini perchè determinano e
definiscono la cosa da tutte le parti. Quanto più una lingua abbonda di parole,
tanto più è adattata alla letteratura e alla bellezza ec. ec. {e per lo contrario} quanto più abbonda di termini, dico
quando questa abbondanza noccia a quella delle parole, perchè l'abbondanza di
tutte due le cose non fa pregiudizio. Giacchè sono cose ben diverse la proprietà
delle parole e la nudità o secchezza, e se quella dà efficacia ed evidenza al
discorso, questa non gli dà altro che aridità. Il pericolo grande che corre ora
la lingua francese è di diventar lingua al tutto matematica e scientifica, per
troppa abbondanza di termini in ogni sorta
di cose, e dimenticanza delle antiche parole. Benchè questo la rende facile e comune, perch'è
la lingua più artifiziale e
geometricamente nuda ch'esista oramai. Perciò ha bisogno di grandi scrittori che
appoco appoco la tornino ad assuefare allo stile e alle voci del Bossuet del Fenelon e degli altri sommi prosatori del loro buon
secolo, e così nella poesia. Mad. di
Staël mostra col fatto di averlo conosciuto, pp. 1962-63 e il
suo stile ha molto della pastosità dell'antico a confronto dell'aridità moderna
e di quegli scheletri (regolari ma puri scheletri) di stile d'oggidì. Ed anche
non farebbe male ad attingere alle antiche sue fonti d'Amyot e degli altri tali che usati con discrezione
ridarebbero alla lingua quel sugo ch'ella oramai ha perduto anche per la
monotona e soverchia regolarità della sua costruzione (che anch'essa
contribuisce massimamente a renderla comune in europa) di
cui tanto si lagnava il Fenelon ed
altri insigni. (V. l'Algarotti
Saggio sulla lingua francese.)
Adattiamo questa osservazione a cose meno materiali.
111
V. p. 100 di questi pensieri. E
riducendo l'osservazione al generale troveremo il suo fondamento nella natura
delle cose, vedendo come la filosofia e l'uso della pura ragione {che si può paragonare ai termini e alla costruzione
regolare,} abbia istecchito e isterilito questa povera vita, e come
tutto il bello di questo mondo consista nella immaginazione che si può
paragonare alle parole e alla costruzione libera varia ardita e figurata. Le
voci greche {(le voci non i modi)} di cui s'è tanto
ingombrata la lingua francese in questi tempi, non possono nelle nostre lingue
esser altro che termini, con significazione nuda {e
circoscritta,} e aria tecnica e geometrica senza grazia e senza
eleganza. E quanto più ne abbonderemo con pregiudizio delle nostre parole, tanto
più toglieremo alla grazia e alla forza nativa della nostra lingua. Perchè la
forza e l'evidenza consiste nel destar l'immagine dell'oggetto, e non mica nel
definirlo dialetticamente, come fanno quelle parole trasportate nella nostra
lingua. Le metafore d'ogni sorta sono adattatissime per questa cagione alla
bellezza naturale
{e al colorito} del discorso. E la lingua italiana
studiata di tanti scrittorelli d'oggidì che ancorchè sia piena di modi e parole
native, riesce sì misera e dissonante, vien tale (oltre all'affettazione che si
manifesta per troppo superficiale perizia del vero linguaggio italiano, e
stentata ricerca di parole e frasi antiche, piuttosto che gusto e stile
modellato giudiziosamente sull'antico, e ridotti in succo e sangue proprio gli
antichi scrittori) perchè fa bruttissimo vedere l'aridità moderna che questi non
sanno schivare, colla freschezza il colorito {la morbidezza
la vistosità}
l'embonpoit[l'embonpoint] la floridezza il
vigore ec. antico.
[119,1] La naturalezza dello scrivere è così comandata che
posto il caso che per conservarla bisognasse mancare alla chiarezza, io
considero che questa è come di legge civile, e quella come di legge naturale, la
qual legge non esclude caso nessuno, e va osservata quando anche ne debba
soffrire la società o l'individuo, come non è straordinario che accada.
[128,2] La varietà che la natura ha posta nelle cose e
negl'ingegni, è tanta, che fino gli stessi filosofi, quantunque tutti cerchino
la stessa verità, nondimeno a cagione dei diversissimi aspetti nei quali una
stessa proposizione si presenta ai diversi ingegni, sarebbero tutti originali,
se non leggessero gli altri filosofi, e non
129
osservassero le cose cogli occhi altrui. Ed è facile a scoprire che una
grandissima parte delle verità dette ai nostri tempi da quegli scrittori che
s'hanno per originali, ancorchè queste verità passino per nuove, non hanno altro
di nuovo che l'aspetto, e sono già state esposte in altro modo. (18.
Giugno 1820.). {{E vedete come tutti gli scrittori
non europei, come gli orientali, Confucio ec. quantunque dicano appresso a poco le stesse cose che
i nostri, a ogni modo paiono originali, perchè non avendo letto i nostri
filosofi europei, non hanno potuto imitarli, o seguirli e conformarcisi non
volendo, come accade a tutti noi.}}
[129,1] Dei nostri poeti d'oggidì altri non sentono e non
pensano, e così scrivono, altri sentono e pensano ma non sanno dire quello che
vorrebbero, e mettendosi a scrivere, per mancanza di arte, si trovano subito
voti, e di tutto quello che avevano in mente, non trovano più nulla, e volendo
pure scrivere si danno al fraseggiare, e all'epitetare e se la passano in luoghi
comuni e così chiudono la poesia, perchè una cosa nuova da dire gli spaventa,
non sapendo trovare l'espressione che le corrisponda; altri finalmente sentendo
e pensando e non sapendo dir quello che vogliono, tuttavia lo vogliono dire, e
questi sono ridicoli per lo stento l'affettazione la durezza l'oscurità, e la
fanciullaggine della maniera, quando anche
130 i
sentimenti non fossero dispregevoli. (21. Giugno 1820.).
[136,1] La poesia malinconica e sentimentale è un respiro
dell'anima. L'oppressione del cuore, o venga da qualunque passione, o dallo
scoraggiamento della vita, e dal sentimento profondo della nullità delle cose,
{chiudendolo affatto,} non lascia luogo a questo
respiro. Gli altri {generi} di poesia molto meno sono
compatibili con questo stato. Ed io credo che le continue sventure del Tasso sieno il motivo per cui egli in
merito di originalità e d'invenzione restò inferiore agli altri tre sommi poeti
italiani, quando il suo animo per sentimenti, affetti, grandezza, tenerezza ec.
certamente gli uguagliava se non li superava, come apparisce dalle sue lettere
{e da altre prose.} Ma quantunque chi non ha
provato la sventura non sappia nulla, è certo che l'immaginazione e anche la
sensibilità malinconica non ha forza senza un'aura di prosperità, e senza un
vigor d'animo che non può stare senza un crepuscolo {un
raggio un barlume} di allegrezza. (24. Giugno 1820.).
[143,1]
143 Che vuol dire che fra tanti imitatori che si sono
trovati di opere e di scrittori classici, nessuno è pervenuto ad occupare un
grado {di fama} non dico uguale, ma neppur vicino a
quello dell'imitato? Non è già verisimile che essendo più facile l'inventis
addere, e il perfezionare una cosa inventata, che l'inventarla già perfetta, ed
essendoci stati molti imitatori di sommo ingegno, massimamente in
italia in un tempo dove l'imitare era cosa di moda, e
perciò diveniva occupazione anche dei migliori (come Sanazzaro imitator di Virgilio, il Tasso del Petrarca ec.), non
si sia mai data nessun'imitazione che almeno agguagli l'opera imitata, e per
conseguenza meritasse un posto compagno a quello dell'originale. Ma il fatto sta
che in materia di letteratura o di arti, basta accorgersi dell'imitazione, per
metter quell'opera infinitamente al di sotto del modello, e che in questo caso,
come in molti altri, la fama non ha tanto riguardo al merito assoluto ed
intrinseco dell'opera, quanto alla circostanza dello scrittore o dell'artefice.
Laonde, o imitatori qualunque vi siate, disperate affatto di arrivare
all'immortalità, quando bene le vostre copie valessero effettivamente molto più
dell'originale.
[101,1]
101 La cagione per cui gli uomini di gusto e di
sentimento provano una sensazione dolorosa nel leggere p. e. le continuazioni o
le imitazioni dove si contraffanno le bellezze gli stili ec. delle opere
classiche, (v. quello che dice il Foscolo della continuazione
del Viaggio
di Sterne) è che queste in
certo modo avviliscono presso noi stessi l'idea di quelle opere, per cui ci
eravamo sentiti così affettuosi, e verso cui proviamo una specie di tenerezza.
Il vederle così imitate e spesso con poca diversità, e tuttavia in modo
ridicolo, ci fa quasi dubitare della ragionevolezza della nostra ammirazione per
quei grandi originali, ce la fa quasi parere un'illusioni[un'illusione], ci dipinge come facili triviali e comuni quelle doti
che ci aveano destato tanto entusiasmo, cosa acerbissima di vedersi quasi in
procinto di dover rinunziare all'idolo della nostra fantasia, e rapire in certo
modo, e denudare, e avvilire agli occhi nostri l'oggetto del nostro amore e
della nostra venerazione ed ammirazione. Perchè in ogni sentimento dolce e
sublime entra sempre l'illusione, ch'è il più acerbo dolore il vedersi togliere
e svelare. Perciò quelle tali imitazioni ci sarebbero gravi quando anche
gareggiassero cogli originali, togliendoci l'inganno di quell'unico e
impareggiabile che forma il {caro} prestigio dell'amore
e della maraviglia. Nella stessa guisa che ci riesce dolorosissimo il vedere o
porre in ridicolo, o travisare, o imitare gli oggetti de' nostri sentimenti del
cuore; (v. Staël
Corinne liv. penult. ch. edizione quinta
di Parigi) cosa che ci fa o dubitare o
certificare della loro vanità reale, e della nostra illusione, e ci strappa a
quei soavi inganni che costituiscono la nostra vita: nè c'è cosa che abbia
questa forza più della precisa imitazione o somiglianza di un altro oggetto che
non possiamo pregiare nè amare (sia per qualche grado di inferiorità reale, di
ridicolo, di travisamento ec. sia anche quando la somiglianza non abbia niente
102 o poco d'inferiore) con quello che pregiamo ed
amiamo, e che occupa il cuore e l'immaginazione nostra in modo che ne siamo
gelosissimi e paurosi, e cerchiamo in tutti i modi di custodirlo. (8. Gen.
1820.)
[143,2] Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo
stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la
fantasia, e i miei versi erano pieni d'immagini, e delle mie letture poetiche io
cercava sempre di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì
sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva
ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non avea che un barlume, e
questo in grande, e con quella solita illusione che {noi} ci facciamo, cioè che nel mondo e nella vita ci debba esser
sempre un'eccezione a favor nostro. Sono stato sempre sventurato, ma le mie
sventure d'allora erano piene di vita, e mi disperavano perchè mi pareva (non
veramente alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che m'impedissero la
felicità, della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato era
allora in tutto e per tutto come quello degli antichi.
144 Ben è vero che anche allora, quando le sventure mi stringevano e mi
travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia, come
nell'ultimo canto della Cantica. La mutazione totale in me, e il passaggio dallo
stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819. dove
privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura,
cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai
ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (in questi
pensieri ho scritto in un anno il doppio quasi di quello che avea scritto in un
anno e mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla nostra natura, a
differenza dei pensieri passati, quasi tutti di letteratura), a divenir filosofo
di professione (di poeta ch'io era), a sentire l'infelicità certa del mondo, in
luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che
tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni. Allora
l'immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantunque la facoltà
dell'invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi quasi
cominciasse, verteva però principalmente, o sopra affari di prosa, o sopra
poesie sentimentali. E s'io mi metteva a far versi, le immagini mi venivano a
sommo stento, anzi la fantasia era quasi disseccata (anche astraendo dalla
poesia, cioè nella contemplazione delle belle scene naturali ec. come ora ch'io
ci resto duro come una pietra); bensì quei versi traboccavano di sentimento.
(1. Luglio 1820). {{Così si può ben dire che
in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se
non i fanciulli, o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono
altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando
perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla
ragione e al vero, in somma filosofo.}}
[144,1] È cosa già molte volte osservata che come le Accademie
scientifiche forse hanno giovato alle scienze, promosse e facilitate le
145 scoperte ec. così le letterarie hanno piuttosto
pregiudicato alla letteratura. Infatti le Accademie scientifiche non hanno quasi
mai seguito un sistema di filosofia, ma lasciato il campo libero al ritrovamento
della verità, qualunque sistema ne dovesse esser favorito, e massimamente nelle
cose naturali era difficile seguire un sistema, dovendo promuovere le scoperte
che non possono derivare se non dal vero, e non si può prevedere che cosa
riveleranno, e a che sistema si adatteranno. Se avessero seguito un sistema,
avrebbero pregiudicato alle scienze, come le Accademie letterarie alla
letteratura. Il fatto sta che questa benchè abbia le sue regole, tuttavia il
porre in chiaro queste regole, e il decretarle e il farne un codice, non le ha
mai giovato. Tutti i grandi poeti greci sono stati prima di Aristotele, e tutti i latini prima o contemporaneamente
ad Orazio. Ma dunque non giova che il
buon gusto sia promosso e promulgato, e costituito per norma delle opere
letterarie? Certamente ci vuole il buon gusto in una nazione ma questo
dev'essere negl'individui e nella nazione intiera, e non in un'adunanza
cattedratica, e legislatrice, e in una dittatura. Primieramente non è facile il
promuovere le opere di genio. Gli onori la gloria gli applausi i vantaggi sono
mezzi efficacissimi per promuoverle, ma non quegli onori e quella gloria che
derivano dagli applausi di un'Accademia. Gli antichi greci e anche i romani
avevano le loro gare pubbliche letterarie, ed Erodoto scrisse la sua storia per leggerla al popolo. Questo era ben
altro stimolo che quello di una piccola società tutta di persone coltissime e
istruitissime dove l'effetto non può esser mai quello che si fa nel popolo, e
per piacere ai critici si scrive 1. con timore, cosa mortifera, 2. si cercano
cose straordinarie, finezze, spirito, mille bagattelle. Il solo popolo
ascoltatore può far nascere l'originalità la grandezza e la
146 naturalezza della composizione. In secondo luogo se il promuovere
il genio non giova, se gli sproni non l'aiutano, il freno l'ammazza, intendo un
freno messogli dagli altri e non dal proprio giudizio. Se questo manca, non ci è
rimedio, ma la magistratura letteraria non fa nascere le virtù letterarie, se
non ci sono i buoni costumi, intendo il retto giudizio e il buon gusto. Ma se il
gusto è corrotto non gioverà il promulgarlo, il ristabilirlo ec.? Gioverà,
voglio dire che le Accademie riusciranno a fare che non si scriva più male, ma
non che si scriva bene. L'Arcadia fu stabilita per isbandire il seicentismo. Fu
sbandito, ma lo stile Arcadico è un nome derisorio che si dà in
italia a quelle poesie che {non} sanno di carne nè pesce. Ora che rimedio trovereste al cattivo
gusto? Ripeto quello che ho detto nel principio dei miei pensieri p.
4. Quasi tutte le nazioni colte dopo il loro secol d'oro, hanno avuto
quello della corruzione, e ne sono risorte. Ma dopo questo, un numero di
scrittori veramente grandi e paragonabili ai primi (dico in letteratura, non in
fatto di pensieri, filosofia ec.), in somma un altro secol d'oro è un esempio
che ancora mi resta da vedere. Negli ottimi secoli i grandi scrittori avevano
modelli del buono da seguire, ma non del cattivo da fuggire. Quelli possono
giovare, questi nocciono. Dico che i cattivi scrittori che si avevano, sì come
non formavano classe, perchè il gusto universale era buono, si dimenticavano
affatto, e si sapeva a un di presso in generale che non piacevano, piuttosto che
perchè non piacevano. Certamente l'idea de' loro vizi non era specificata, nè i
difetti notati per minuto{, e si vede infatti che anche sommi
scrittori cadevano in difetti puerili.} In somma la scienza del buono
e del cattivo non era organizzata, nè sminuzzata. Il gusto naturale tenea luogo
di tutto. Dopo la corruzione i letterati si rialzano tutti sbigottiti. Entrano
gli scrupoli, le paure, le sottigliezze. Si pesa
147
ogni cosa, si aguzzano gli occhi, si va col piede di piombo, ogni legge ogni
regola ogni idea è ben definita e circoscritta, si prevedono tutti i casi, il
gusto non è più naturale ma artefatto, o lo diviene, perchè nessuno crede di
potersi contentare del gusto naturale, l'arte e la critica vanno al sommo, la
natura si perde (forse ella può più nel secolo guasto che nel seguente), nascono
opere perfette ma non belle. (2. Luglio 1820.).
[152,2] Altro è la forza altro la fecondità dell'immaginazione
e l'una può stare senza l'altra. Forte era l'immaginazione di Omero e di Dante, feconda quella di Ovidio e dell'Ariosto. Cosa
che bisogna ben distinguere quando si sente lodare un poeta o chicchessia per
l'immaginazione. Quella facilmente rende l'uomo infelice per la profondità delle
sensazioni, questa al contrario lo rallegra colla varietà e colla facilità di
fermarsi sopra tutti gli oggetti e di abbandonarli, {e
conseguentemente colla copia delle distrazioni.} E ne seguono
diversissimi caratteri. Il primo grave, passionato, ordinariamente (ai nostri
tempi) malinconico, profondo nel sentimento e nelle passioni, e tutto proprio a
soffrir grandemente della vita. L'altro scherzevole, {leggiero,} vagabondo, incostante nell'amore, bello spirito, incapace
di forti e durevoli passioni e dolori d'animo, facile a consolarsi anche nelle
più grandi sventure ec. Riconoscete in questi due caratteri i verissimi ritratti
di Dante e di Ovidio, e vedete come la differenza della loro poesia
153 corrisponda appuntino alla differenza della
vita. Osservate ancora in che diverso modo Dante ed Ovidio sentissero e
portassero il loro esilio. Così una stessa facoltà dell'animo umano è madre di
effetti contrarii, secondo le sue qualità che quasi la distinguono in due
facoltà diverse. L'immaginazione profonda non credo che sia molto adattata al
coraggio, rappresentando al vivo il pericolo, il dolore, ec. e tanto più al vivo
della riflessione, quanto questa racconta e quella dipinge. E io credo che
l'immaginazione degli uomini valorosi (che non debbono esserne privi, perchè
l'entusiasmo è sempre compagno dell'immaginazione e deriva da lei) appartenga
più all'altro genere. (5. Luglio. 1820.).
[160,1] Applicate le cose dette nel pensiero che incomincia
Anche la stessa negligenza ec. (p. 50) alle produzioni francesi
riputate da quella nazione, modelli di semplicità naïveté ec. p. e. al Tempio di Gnido di Montesquieu{{, sebbene in
questo il male deriva piuttosto dal contrasto della semplicità delle cose
col ricercato e manierato dello stile.}}
[161,1] In proposito di quello che ho detto p. 145. osservate come infatti
l'eloquenza {vera} non abbia fiorito mai se non quando
ha avuto il popolo per uditore. Intendo un popolo padrone di se, e non servo, un
popolo vivo e non un popolo morto, sia per la sua condizione in genere, sia in
quella tal congiuntura, come alle nostre prediche il popolo non è vivo, non ha
azione ec. ec. Oltre che il soggetto delle prediche non ha il movimento,
l'azione, la vita necessarie alla grande eloquenza, e perciò quella del pergamo,
quando anche sia somma e perfetta, è tutt'altra eloquenza che l'antica, e forma
162 un genere a parte. Del resto appena le
repubbliche e la libertà si sono spente, le assemblee, le società, i tribunali,
le corti, non hanno mai sentito la vera eloquenza, non essendo uditorii capaci
di suscitarla. E questo probabilmente è uno de' motivi per cui la
repubblica di Venezia non ha avuto mai eloquenza, perch'era una
repubblica aristocratica e non democratica. Vedete quello che dice Cic.
nell'orazione per
Deiotaro capo 2.
[164,2] Il racconto è uffizio della parola, la descrizione del
disegno (eseguito in qualunque modo). Quindi non è maraviglia che quello sia più
facile di questa al parlatore. E questa è una delle primarie cagioni per cui era
falso ed assurdo quel genere {di poesia} poco fa tanto
in pregio e in uso appresso gli stranieri massimamente, che chiamavano
descrittiva. Perchè quantunque il poeta o lo scrittore possa bene assumere anche
l'uffizio di descrivere, è da stolto il farne professione, non essendo uffizio
proprio della poesia, e quindi non è possibile che non ne risulti affettazione e
ricercatezza, e stento, volendolo fare per istituto e per argomento, lasciando
stare la noia che deve nascere dalla lettura di una poesia tutta diretta a un
uffizio proprio di un'altra arte, e perciò e inferiore a questa, malgrado
qualunque studio, e stentata, e tediosa per la continuazione di una cosa che non
appartenendole non può esser troppo lunga, al contrario di quelle che le
appartengono, nelle quali nessuno biasima che poesia si ravvolga tutta intera.
(12. Luglio 1820.).
[172,1] Da questa teoria del
piacere deducete che la grandezza anche delle cose non piacevoli per
se stesse, diviene un piacere per questo solo ch'è grandezza. E non attribuite
questa cosa alla grandezza immaginaria della nostra natura. Posta la detta
teoria, si viene a conoscere (quello ch'è veramente) che il desiderio del
piacere diviene una pena, e una specie {di travaglio}
abituale dell'anima. Quindi 1. un assopimento dell'anima è piacevole. I turchi
se lo proccurano coll'oppio, ed è grato all'anima perchè in quei momenti non è
affannata dal desiderio, perchè è come un riposo dal desiderio tormentoso, e
impossibile a soddisfar pienamente; {un intervallo come il
sonno nel quale se ben l'anima forse non lascia di pensare, tuttavia non se
n'avvede.} 2. la vita continuamente occupata è la più felice, quando
anche non sieno occupazioni e sensazioni vive, e varie. L'animo occupato è
distratto da quel desiderio innato che non lo lascerebbe in pace, o lo rivolge a
quei piccoli fini della giornata (il terminare un lavoro {il
provvedere ai suoi bisogni ordinari ec.} ec. ec.) giacchè li considera
allora come piaceri (essendo piacere tutto quello che l'anima desidera), e
conseguitone uno, passa a un altro, così che è distratto da desideri maggiori, e
non ha campo di affliggersi della vanità e del vuoto delle cose, e la speranza
di quei
173 piccoli fini, e i {piccoli} disegni sulle occupazioni {avvenire} o sulle speranze di un esito {generale} lontano e desiderato, bastano a riempierlo, e a trattenerlo
nel tempo del suo riposo, il quale non è troppo lungo perchè sottentri la noia;
oltre che il riposo dalla fatica è un piacere per se. Questa dovea esser la vita
dell'uomo, ed era quella dei primitivi, ed è quella dei selvaggi, {degli agricoltori ec.} e gli animali non per altra
cagione se non per questa principalmente, vivono felici. Ed osservate come lo
spettacolo della vita occupata laboriosa e domestica, sembri anche oggidì, a chi
vive nel mondo, lo spettacolo della felicità, anche per la mancanza dei dolori,
e delle cure e afflizioni reali. 3. il maraviglioso, lo straordinario è
piacevole, quantunque la sua qualità particolare non appartenga a nessuna classe
delle cose piacevoli. L'anima prova sempre piacere quando è piena (purchè non
sia di dolore), e la distrazione viva ed intera è un piacere {rispetto a lei} assolutamente, come il riposo dalla fatica è piacere,
perchè una tal distrazione è riposo dal desiderio. E come è piacevole lo stupore
cagionato dall'oppio (anche relativamente alla dimenticanza dei mali positivi),
così quello cagionato dalla maraviglia, dalla novità, e dalla singolarità.
Quando anche la maraviglia non sia tanta che riempia l'anima, se non altro
l'occupa sempre fortemente, ed è piacevole per questa parte. Notate che la
natura aveva voluto che la maraviglia {1.} fosse cosa
ordinarissima all'uomo, 2. fosse {spessissimo} intera,
cioè capace di riempier tutta l'anima. Così accade ne' fanciulli, e accadeva ne'
primitivi, e ora negl'ignoranti, ma non può accadere senza l'ignoranza, e
l'ignoranza d'oggi non può mai esser come quella dell'uomo che non vive in
società, perchè vivendo in società,
174 l'esperienza de'
passati e de' presenti l'istruisce, più o meno, ma sempre l'istruisce, e la
novità diventa rara. 4. anche l'immagine del dolore e delle cose terribili ec. è
piacevole, come ne' drammi e poesie d'ogni sorta, spettacoli ec. Purchè l'uomo
non tema o non si dolga per se, la forza della distrazione gli è sempre
piacevole. Non è bisogno che quelle immagini siano di cose straordinarie: in
questo caso cadrebbero sotto la categoria precedente. Ma la semplice immagine
del dolore ec. è sufficiente a riempier l'animo e distrarlo. 5. la grandezza di
ogni qualsivoglia genere (eccetto del proprio {male}) è
piacevole. Naturalmente il grande occupa più spazio del piccolo, salvo se la
piccolezza è straordinaria, nel qual caso occupa più della grandezza ordinaria.
Questo ch'io dico della grandezza è un effetto materiale derivante dalla
inclinazione dell'uomo al piacere, e non dalla inclinazione alla grandezza. Si
potrebbe forse dir lo stesso del sublime, il quale è cosa diversa dal bello ch'è
piacevole all'uomo per se stesso. In somma la noia non è altro che una mancanza
del piacere che è l'elemento della nostra esistenza, e di cosa che ci distragga
dal desiderarlo. Se non fosse la tendenza imperiosa dell'uomo al piacere sotto
qualunque forma, la noia, quest'affezione tanto comune, tanto frequente, e tanto
abborrita non esisterebbe. E infatti per che motivo l'uomo dovrebbe sentirsi
male, quando non ha male nessuno? Poniamo un uomo isolato senza nessuna
occupazione spirituale o corporale, e senza nessuna cura o afflizione o dolor
positivo, o annoiato
175 dalla uniformità di una cosa
non penosa nè dispiacevole per sua natura, e ditemi per che motivo quest'uomo
deve soffrire. E pur vediamo che soffre, e si dispera, e preferirebbe qualunque
travaglio a quello stato. (Anzi è famosa la risposta affermativa data dai medici
consultati dal duca di Brancas, se la
noia potesse uccidere: Lady Morgan
France l. 8. notes) Non per altro se non per un
desiderio ingenito e compagno inseparabile dell'esistenza, che in quel tempo non
è soddisfatto, non ingannato, non mitigato, non addormentato. E la natura è
certo che ha provveduto in tutti i modi contro questo male, all'orrore e
ripugnanza del quale nell'uomo, si può paragonare quell'orrore del vuoto che gli
antichi fisici supponevano nella natura, per ispiegare alcuni effetti naturali.
Ha provveduto col dare all'uomo molti bisogni, e nella soddisfazione del bisogno
(come della fame e della sete, {freddo, caldo ec.})
porre il piacere, quindi col volerlo occupato; colla gran varietà, {colla immaginazione che l'occupa anche del nulla,} ed
anche col timore (il quale sebbene è un effetto naturale e spontaneo anch'esso
dell'amor proprio, tuttavia bisogna considerare il sistema della natura in
genere, e la mirabile armonia e corrispondenza di diversi effetti a questo o
quello scopo), coi pericoli i quali affezionano maggiormente alla vita, e
sciolgono la noia, {colle turbazioni degli elementi,}
coi dolori e coi mali istessi, perchè è più dolce il guarir dai mali, che il
vivere senza mali; {+e con tali altri
disastri, che si considerano come mali, e quasi difetti della natura,
scusandola col definirli per accidenti fuori dell'ordine; ma che forse
essendo tali ciascuno, non lo sono tutti insieme; ed appartengono anch'essi
al gran sistema universale.} In somma il sistema della natura rispetto
all'uomo è sempre diretto ad allontanar da lui questo male formidabile della
noia, che a detta di tutti i filosofi essendo così frequente all'uomo moderno, è
quasi sconosciuto al primitivo (e così agli animali). E osservate come i
fanciulli {anche} in una quasi perfetta inazione, pur
di rado o {non} mai sentano
176
il vero tormento della noia, perchè ogni minima bagattella basta ad occuparli
tutti interi, e la forza della loro immaginazione dà corpo e vita e azione ad
ogni fantasia che si affacci loro alla mente ec. e trovano in somma in se stessi
una sorgente inesauribile di occupazioni {e} sempre
varie. Questo senza cognizioni, senza esperienze, senza viaggi, senz'aver veduto
udito ec. in un mondo ristrettissimo {e uniforme.} E
laddove parrebbe che quanto più questo mondo e questo campo si accresce {e diversifica,} tanto più {ampio e
vario per} l'uomo dovesse essere il fondo delle occupazioni interne
come son quelle dei fanciulli, {e la noia tanto più
rara,} nondimeno vediamo accadere tutto il contrario. Gran lezione per
chi non vuol riconoscere la natura come sorgente quasi unica di felicità, e
l'alterazione di lei, come certa cagione d'infelicità. Del resto che la forza e
fecondità dell'immaginazione 1. come rende facilissima l'azione, così
spessissimo renda facile l'inazione, 2. sia cosa ben diversa dalla profondità
della mente, la quale per lo contrario conduce all'infelicità, è manifesto per
l'esempio de' popoli meridionali, segnatamente degl'italiani, rispetto ai
settentrionali. Giacchè gl'italiani {1.} come una volta
per il loro entusiasmo figlio di un'immaginazione viva e più ricca che profonda,
erano attivissimi, così ora una delle cagioni per cui non si accorgono o {almeno} non si disperano affatto di una vita sempre
uniforme, e di una perfetta inazione, è la stessa immaginazione ugualmente ricca
e varia, e la soprabbondanza delle sensazioni che ne deriva, la quale gl'immerge
senza che se n'avvedano in una specie di rêve, come i
fanciulli quando son soli ec. cosa continuamente inculcata dalla Staël, {laddove i
settentrionali non avendo tal sorgente di occupazione interna atta a
consolarli, per necessità ricorrono all'esterna, e divengono
attivissimi.} 2. la profondità della mente,
177 e la facoltà di penetrare nei più intimi recessi del vero dell'astratto ec.
quantunque non sia loro ignota a cagione della loro sottigliezza, {prontezza e penetrazione, (che rende loro più facile il
concepimento e la scoperta del vero, laddove agli altri bisogna più fatica,
e perciò spesso sbagliano con tutta la profondità)} contuttociò non è
il loro forte, e per lo contrario forma tutta l'occupazione e quindi
l'infelicità dei settentrionali colti (osservate perciò la frequenza de' suicidi
in inghilterra) i quali non hanno cosa che li distragga
dalla considerazione del vero. E quantunque paia che l'immaginazione anche
appresso loro sia caldissima originalissima ec. tuttavia quella è piuttosto
filosofia e profondità, che immaginazione, e la loro poesia piuttosto metafisica
che poesia, venendo più dal pensiero che dalle illusioni. {E
il loro sentimentale è piuttosto disperazione che consolazione.} E la
poesia antica perciò appunto non è stata mai fatta per loro; perciò appunto
hanno gusti tutti differenti, e si compiacciono degli {enti} allegorici, delle astrazioni ec. (V. p. 154.) perciò appunto sarà sempre vero che la
nostra è propriamente la patria della poesia, e la loro quella del pensiero.
(v. p. 143-144.)
[189,1] L'affettazione ordinariamente è madre dell'uniformità.
Da ciò viene che sazia ben presto. In tutti gli scritti di un gusto falso e
affettato, come in tante poesie straniere, come nelle poesie orientali,
osservate che voi sentirete sempre un senso di monotonia, come guardando quelle
figure gotiche che dice Montesquieu, l. c. des
Contrastes p. 383. E questo quando anche il poeta o lo
scrittore abbia cercato la varietà a più potere. Ragioni. 1. L'arte non può mai
uguagliare la ricchezza della natura, anzi vediamo quante varietà svaniscano
quando l'arte se ne impaccia, come nei caratteri e costumi e opinioni dell'uomo
e in tutto il gran sistema della natura umana già pieno di varietà, sia nelle
idee {e nell'immaginazione} sia nel materiale, ed ora
dall'arte reso tanto uniforme. Così dunque l'affettazione. 2. L'affettazione
continua è una uniformità da se sola, cioè in quanto è una qualità continua
dell'opera d'arte. Non dite che in questo caso anche la naturalezza continua
dovrebbe riuscire uniforme. 1. la naturalezza non risalta nè stanca
190 nè dà negli occhi come l'affettazione {(ch'è una qualità estranea alla cosa),} eccetto s'ella
pure fosse ricercata e affettata, nel qual caso non è più naturalezza ma
affettazione, come spessissimo nelle dette poesie. 2. la naturalezza appena si
può chiamar qualità o maniera, non essendo qualità o maniera estranea alle cose,
ma la maniera di trattar le cose naturalmente, e com'elle sono, vale a dire in
{mille} diversissime maniere, laonde le cose sono
varie nella poesia, nello scrivere, in qualunque imitazion vera, come nella
realtà. Applicate queste osservazioni anche alle arti, p. e. ai paesaggi
fiamminghi paragonati a quelli del Canaletto veneziano (v. la
Dionigi
Pittura de' paesi), alle stampe
di Alberto Duro, dove
lo stento e l'accuratezza manifesta del taglio dà un colore uguale e monotono
alla più gran varietà di oggetti imitati nel resto eccellentemente e
variatissimamente. Così {accade che} la negligenza
apparente, e l'abbandono, lasciando cader tutte le cose nella scrittura come
cadono naturalmente (o in pittura ec.) sia certa origine di varietà, e quindi
non istanchi come le altre qualità della scrittura ec. p. e. anche l'eleganza:
giacchè nessuna stancherà meno della disinvoltura.
[203,2] L'affettazione nuoce anche alla maraviglia, capital
cagione del diletto nelle arti. Primieramente il conoscere il proposito toglie
204 la sorpresa. Poi, e questo è il principale, non
vedi {somma} difficoltà in una figura somigliantissima
al vero, ma stentata. Oltre che lo stento detrae al vero, perchè non appartiene
al vero se non la naturalezza, non è maraviglia, che con fatica ti sia riuscito,
quello che volevi. E non è maraviglia che tu facci una cosa volendo, come che tu
la facci, senza che gli altri si accorgono che tu l'abbi voluto. E non è
difficile il fare una cosa difficile, difficilmente, ma in modo che paia facile.
Così c'è il contrasto fra la nota difficoltà della cosa, e l'apparente
difficoltà del modo. L'affettazione toglie il contrasto ec. ec. V. se vuoi Montesquieu, Essai sur le
goût. Amsterdam 1781. du je ne sais quoi. p.
396.-397. (9. Agosto 1820.).
[204,2] Tutti i caratteri {principali} dello spirito antico, che si trovano in Omero, e negli altri greci e latini, si
trovano anche
205 in Ossian, e nella sua nazione. Lo stesso pregio del
vigor del corpo, della giovanezza, del coraggio, di tutte le doti corporali. La
stessa divinizzazione della bellezza. Lo stesso entusiasmo per la gloria e per
la patria. In somma tutti i beati distintivi di una civilizzazione che sta nel
suo vero punto fra la natura e la ragione. Del resto, pietà filiale, e paterna,
e tutti gli altri sentimenti doverosi e naturali, hanno fra i caledoni tutta la
loro forza. Il divario tra i greci ed Ossian consiste principalmente in una malinconia generata dalle
disgrazie particolari, e non dalla disperante filosofia, ma più propriamente e
generalmente dal clima. Questa cagione non solo si conosce ma si sente nell'Ossian, e perciò rende la sua
malinconia molto inferiore a quella dei meridionali, Petrarca, Virgilio, ec. nei quali si conosce e sente anche una potenza di
allegria, come pure in Omero ec. cosa
necessaria alla varietà, all'ampiezza della poesia composta di diversissimi
generi, e quasi anche al sentimento.
[208,1] La grazia appena io credo che possa esser concepita
dai francesi con idea vera. Certo i loro scrittori non la conoscono. Lo confessa
pienamente Thomas
Essai sur les Eloges ch. 9. Infatti
manca loro cette sensibilité
tendre et pure,
*
cioè inaffettata e naturale,
(l'avrebbero per natura, ma la società non vuole che la conservino: l'avevano i
loro antichi scrittori) e cet instrument facile et
souple
*
vale a dire una lingua come la greca e l'italiana.
Vedi senza fallo quel passo di Thomas.
(13. Agosto 1820.).
[211,2] È curioso che si riprenda {(dagli stranieri particolarmente)}
Michelangelo per aver troppo voluto
dimostrare la sua scienza anatomica nelle scolture, e si dia per regola di
nasconder sempre questa scienza nell'arte dello scolpire o del dipingere, ed
esser meglio ignorarla affatto che ostentarla (come si dice, mi pare, di Raffaello, che non si curò di studiarla);
e che frattanto gli stranieri massimamente non sieno mai così contenti come
quando hanno inzeppato le loro poesie di tecnicismi, di formole, di nozioni
astratte e metafisiche, di psicologia, d'ideologia, di storia naturale, di
scienza di viaggi, di geografia, di politica, e d'erudizione, scienza, arte,
mestiero d'ogni sorta. E mentre non vogliono l'erudizione antica, lodano e
abusano vituperosamente della moderna. (15. Agosto 1820.). {{Vedi la p. 238. capoverso 1.}}
[217,1] Ripetono tutto giorno i francesi che Bossuet ha soggiogato la sua lingua al
suo genio. Io dico che il suo genio è stato soggiogato dalla lingua costumi
gusti del suo paese. I francesi che scrivono sempre come conversano, timidissimi
per conseguenza, o piuttosto codardi, come dev'esser quella nazione presso cui
un tratto di ridicolo scancella qualunque più grave e seria impressione, e fa
più romore degli affari e pericoli di Stato, si maravigliano d'ogni minimo
ardire, e stimano sforzi da Ercole
quelli che in italia e nel resto
d'europa sono {soltanto}
deboli argomenti d'ingegno robusto, libero, inventore e originale. E per una
parte hanno ragione, perchè l'osar poco in francia, dove
la regola è di vivre et faire comme tout monde, costa
assai più che l'osar molto altrove. Ma in fatti poi cercando in Bossuet questo grande ardire, e questa
robustissima eloquenza, trovate piuttosto impotenza che forza, e vedrete che
appena alzato si abbassa. Questo senza fallo è il
218
sentimento ch'io provo sempre leggendolo; appena mi ha dato indizio di un
movimento forte, sublime, e straordinario, ed io son tutto sulle mosse per
seguitarlo, trovo che non c'è da far altro, e ch'egli è già tornato a parler comme tout le monde. Cosa che produce una
grande pena e disgusto e secchezza nella lettura. Questo non ha che fare colle
inuguaglianze proprie dei grandi geni. Nessun genio si ferma così presto come
Bossuet. Si vede propriamente
ch'egli è come incatenato, e fa sforzi più penosi che grandiosi per liberarsi. E
il lettore prova appunto questo medesimo stato. E perciò volendo convenire che
Bossuet sia stato veramente un
genio, bisogna confessare che tentando di domar la sua lingua e la sua nazione,
n'è stato domato. Me ne appello a tutti gli stranieri e italiani. Se non che la
voce di tutta la francia ha tanta forza, che forma il
giudizio d'europa. E il ridirsi è quasi impossibile.
Sicchè queste parole intorno a Bossuet
sieno dette inutilmente. (20. Agosto 1820.).
[218,1] Non è cosa così dispiacevole come il vedere uno
scrittore dopo intrapreso un gran movimento, immagine, sublimità ec. mancar come
di fiato. È cosa che in certo modo rassomiglia agli sforzi impotenti di chi si
vede che vorrebbe esser grande, bello ec. nello scrivere, e non può. Ma questa è
più ridicola, quella più penosa. In Bossuet l'incontri a ogni momento. Una grande spinta; credi che
seguiterà l'impulso, ma è già finito. Quando anche
219
il seguito del suo parlare sia forte magnifico ec. non è più fuoco naturale, ma
artifiziale, e preso dai soliti luoghi. Lascio quando Bossuet non ha niente di vita neppur momentanea, e
queste lagune sono immense e frequentissime. Perchè se la morale ch'egli sempre
predica è sublime, sono sublimità ordinarie, e appartengono al consueto stile
degli oratori, non hanno che fare coll'entusiasmo proprio e presente. Ma tu
vorresti ch'egli esaurisse l'affetto ec. Non mi state a insegnare quello che
tutti sanno. Dall'eccesso al difetto ci corre un gran divario. Ed è contro
natura che un uomo quando si è abbandonato all'entusiasmo, ritorni in calma,
appena incominciata l'agitazione. E non c'è cosa più dispettosa che l'essere
arrestato in un movimento vivo e intrapreso con tutte le forze dell'animo o del
corpo. Leggendo i passi più vivi di Bossuet il passaggio istantaneo e l'alternativa continua e brusca del
moto brevissimo, e della quiete perfetta, vi fa sudare, e travagliare. Si
accerti lo scrittore o l'oratore, che finattanto che non si stancano le sue
forze naturali (non dico artifiziali ma naturali) nemmeno il lettore {o uditore} si stanca. E fino a quel punto non tema di
peccare in eccesso. Il quale anzi è forse meno penoso del difetto, in quanto il
lettore sentendosi stanco, lascia di seguir lo scrittore, e anche leggendo,
riposa. Ma obbligato
220 a fermarsi prima del tempo, non
può, come nell'altro caso, disubbidire allo scrittore, il quale per forza gli
taglia le ali. In somma se l'eloquenza è composta di movimenti ed affetti della
specie descritta, {e di freddezze e trivialità mortali nel
resto,} allora Bossuet sarà
veramente eloquente in mezzo agli eleganti del suo secolo, come dice Voltaire. (21. Agosto
1820.).
[220,3] La compassione spesso è fonte di amore, ma quando cade
sopra oggetti amabili o per se stessi, o in modo che aggiunta la compassione lo
possano divenire. E questa è la compassione che interessa e dura e si riaffaccia
più volte all'anima. Maggiori calamità in un oggetto anche innocentissimo ma non
amabile, come in persona vecchia e brutta, non destano che una compassione
passeggera, la quale
221 finisce ordinariamente colla
presenza dell'oggetto, o dell'immagine che ce ne fanno i racconti ec. {(E l'anima non se ne compiace, e non la richiama.)} I
quali ancora bisogna che sieno ben vivi ed efficaci per commuoverci
momentaneamente, laddove poche parole bastano per farci compatire una giovane e
bella, ancorchè non conosciuta, al semplice racconto della sua disgrazia. Perciò
Socrate sarà
sempre più ammirato che compianto, ed è un pessimo soggetto per tragedia. E
peccherebbe grandemente quel romanziere che fingesse dei brutti sventurati. Così
il poeta ec. Il quale ancora in qualsivoglia caso o genere di poesia, si deve
ben guardare dal dar sospetto ch'egli sia brutto, perchè nel leggere una bella
poesia noi subito ci figuriamo un bel poeta. E quel contrasto ci sarebbe
disgustosissimo. Molto più s'egli parla di se, delle sue sventure, de' suoi
amori sfortunati, come il Petrarca
ec.
[222,2] La lettura {per l'arte dello
scrivere} è come l'esperienza per l'arte di viver nel mondo, e di
conoscer gli uomini e le cose. Distendete e applicate questa osservazione,
specialmente a quello che è avvenuto a voi stesso nello studio della lingua e
dello stile, e vedrete che la lettura ha prodotto in voi lo stesso effetto
dell'esperienza rispetto al mondo. (22. Agosto 1820.).
[223,3] Lord
Byron nelle annotazioni al Corsaro (forse anche ad altre sue opere) cita esempi
storici, di quegli effetti delle
224 passioni, e di quei
caratteri ch'egli descrive. Male. Il lettore deve sentire e non imparare la
conformità che ha la tua descrizione ec. colla verità e colla natura, {e che quei tali caratteri e passioni in quelle tali
circostanze producono quel tale effetto;} altrimenti il diletto
poetico è svanito, e la imitazione cadendo sopra cose ignote, non produce
maraviglia, ancorchè esattissima. Lo vediamo anche nelle commedie e tragedie,
dove certi caratteri straordinari affatto, benchè veri, non fanno nessun colpo.
V. il discorso sui romantici, intorno agli altri oggetti d'imitazione. E come
non produce maraviglia, così neanche affetti e sentimenti, e corrispondenza del
cuore a ciò che si legge o si vede rappresentare. E la poesia si trasforma in un
trattato, e l'azione sua dall'immaginazione e dal cuore passa all'intelletto.
Effettivamente la poesia di Lord Byron
sebbene caldissima, tuttavia per la detta ragione, la quale fa che quel calore
non sia communicabile, è nella massima parte un trattato oscurissimo di
psicologia, ed anche non molto utile, perchè i caratteri e passioni ch'egli
descrive sono così strani che non combaciano in verun modo col cuore {di chi legge,} ma ci cascano sopra disadattamente, come
per angoli e spicoli, e l'impressione che ci fanno è molto più esterna che
interna. E noi non c'interessiamo vivamente se non per li nostri simili, e come
gli enti allegorici, o le piante o le bestie ec. così gli uomini
225 di carattere affatto straordinario non sono
personaggi adattati alla poesia. Già diceva
Aristotele che il
protagonista della tragedia non doveva essere nè affatto scellerato nè affatto
virtuoso. Schernite pure Aristotele
quanto volete, anche per questo insegnamento (come credo che abbian fatto); alla
fine la vostra psicologia, s'è vera, vi deve ricondurre allo stesso luogo, e a
ritrovare il già trovato. (24. Agosto 1820.). {{V. p. 238.
pensiero 1.}}
[225,1] La sola cosa che deve mostrare il poeta è di non
capire l'effetto che dovra{nno} produrre in chi legge,
le suoi[sue] immagini, descrizioni, affetti ec.
Così l'oratore, e ogni scrittore di bella letteratura, e si può dir quasi in
genere, ogni scrittore. Il ne paraît point chercher à vous
attendrir:,
*
dice di Demostene il Card.
Maury
Discours sur l'Éloquence, écoutez-le cependant, et il vous fera
pleurer par réflexion.
*
E quantunque anche la
disinvoltura possa essere affettata, e da ciò guasta, tuttavia possiamo dire
iperbolicamente, che se veruna affettazione è permessa allo scrittore, non è
altra che questa di non accorgersi nè prevedere i begli effetti che le sue
parole faranno in chi leggerà, o ascolterà, e di non aver volontà nè scopo
nessuno, eccetto quello ch'è manifesto e naturale, di narrare, di celebrare,
compiangere ec. Laonde è veramente miserabile {e
barbaro} quell'uso moderno di tramezzare tutta la scrittura o poesia
di segnetti e
226 lineette, e punti ammirativi doppi,
tripli, ec. Tutto il Corsaro di Lord Byron (parlo della traduzione non so del testo nè delle altre
sue opere) è tramezzato di lineette, non solo tra periodo e periodo, ma tra
frase e frase, anzi spessissimo la stessa frase è spezzata, e il sostantivo è
diviso dall'aggettivo con queste lineette (poco manca che le stesse parole non
siano così divise), le quali ci dicono a ogni tratto come il ciarlatano che fa
veder qualche bella cosa; fate attenzione, avvertite che
questo che viene è un bel pezzo, osservate questo epiteto ch'è notabile,
fermatevi sopra questa espressione, ponete mente a questa
immagine ec. ec. cosa che fa dispetto al lettore, il quale quanto
più si vede obbligato a fare avvertenza, tanto più vorrebbe trascurare, e quanto
più quella cosa gli si dà per bella, tanto più desidera di trovarla brutta, e
finalmente non fa nessun caso di quella segnatura, e legge alla distesa, come
non ci fosse. Lascio l'incredibile, continuo e manifestissimo stento con cui il
povero Lord suda e si affatica perchè ogni minima frase, ogni minimo aggiunto
sia originale e nuovo, e non ci sia cosa tanti milioni di volte detta, ch'egli
non la ridica in un altro modo, affettazione più chiara del sole, che disgusta
eccessivamente, e oltracciò stanca per l'uniformità, e per la continua fatica
dell'intelletto necessaria a capire quella studiatissima oscurissima e perenne
originalità. (25. Agosto 1820.).
[231,2]
Omero e Dante per l'età loro seppero moltissime cose, e più di
quelle che sappiano la massima parte degli uomini colti d'oggidì, non solo in
proporzione dei tempi, ma anche assolutamente. Bisogna distinguere la cognizione
materiale dalla filosofica, la cognizione fisica dalla matematica, la cognizione
degli effetti dalla cognizione delle cause. Quella è necessaria alla fecondità e
varietà dell'immaginativa, alla proprietà verità evidenza ed efficacia
dell'imitazione. Questa non può fare che non pregiudichi al poeta. Allora giova
sommamente al poeta l'erudizione, quando l'ignoranza delle cause, concede al
poeta, non solamente rispetto agli altri ma anche a se stesso, l'attribuire gli
effetti che vede o conosce, alle cagioni che si figura la sua fantasia.
(5. Settembre 1820.).
[231,3]
C'est que cela me donnera un battement de coeur, répondit - elle
naïvement; et je suis si heureuse
quand le coeur me bat!
*
dice Lady Morgan (France. l. 3. 1818. t. 1 p. 218.) di una Dama francese
232 e civetta. Queste naïvetés negli scrittori francesi, come per esempio nel tempio di
Gnido, contrastano in maniera col carattere del loro
stile, della loro lingua quale è ridotta presentemente, (giacchè nel francese
antico avrebbero fatto diversissima figura) e anche col carattere nazionale, che
sono piuttosto affettazioni che naturalezze, e non fanno verun buono effetto, ma
semplicemente risaltano, come una singolarità ricercata, nello stesso modo che
p. e. nello stile greco risalterebbero le eleganze e il manierato del francese,
e contrasterebbero col rimanente.
[232,1] L'origine del sentimento profondo dell'infelicità,
ossia lo sviluppo di quella che si chiama sensibilità, ordinariamente procede
dalla mancanza o perdita delle grandi e vive illusioni; e infatti l'espressione
di questo sentimento, comparve nel Lazio col mezzo di
Virgilio, appunto nel tempo che le
grandi e vive illusioni erano svanite pel privato romano che n'era vissuto sì
lungo tempo, e la vita e le cose pubbliche aveano preso l'andamento dell'ordine
e della monotonia. La sensibilità che si trova nei giovani ancora inesperti del
mondo e dei mali, sebbene tinto di malinconia, è diverso da questo sentimento, e
promette {e dà} a chi lo prova, non dolore ma piacere e
felicità. (6. 7.bre 1820.).
[236,1] Tutto quello che ho detto in parecchi luoghi p.
208 dell'affettazione dei francesi, della loro impossibilità di esser
graziosi ec. bisogna intenderlo relativamente alle idee che le altre nazioni o
tutte o in parte, o riguardo al genere, o solamente ad alcune particolarità,
hanno dell'affettazione grazia ec. perchè riflette molto bene Morgan
France l. 3. t. 1. p. 257. Il faut pourtant accorder beaucoup à
la différence des manières nationales; et celles de la femme
françoise la plus amie du naturel doivent porter avec elle ce qu'un
Anglois, dans le premier moment, jugera une teinte d'affectation,
jusqu'à ce que l'expérience en fasse mieux juger.
*
(9 7bre. 1820.).
[237,1]
237 Anche l'affettazione è relativa, e la tal cosa parrà
affettazione in un paese e in un altro no, in una lingua e in un[un'] altra no, o maggiore in questa e minore in quella,
dipendendo dalle abitudini, opinioni ec. L'espressione del sentimentale
conveniente in francia sarà affettata per noi, quella
conveniente per noi, sarebbe parsa affettazione agli antichi. La grazia francese
affettata per noi, non lo sarà per loro. Tuttavia è certo che la naturalezza ha
un non so che di determinato e di comune, e che si fa conoscere e gustare da
chicchessia, ma com'ella si conosce quando si trova, così le assuefazioni ec.
impediscono spessissimo di essere choqués della sua
mancanza, e di avvedercene. V. p. 201.
fine.
[237,2] La semplicità dev'esser tale che lo scrittore, o
chiunque l'adopra in qualsivoglia caso, non si accorga, o mostri di non
accorgersi di esser semplice, e molto meno di esser pregevole per questo capo.
Egli dev'esser come inconsapevole non solo di tutte le altre bellezze dello
scrivere, ma della stessa semplicità. Homme d'une simplicité
rare,
*
dice La
Harpe di La Fontaine (Eloge de La Fontaine), qui sans doute ne pouvait pas ignorer son genie,
mais ne l'appréciait pas, et qui même, s'il pouvait être témoin des
honneurs qu'on lui rend aujourd'hui, serait étonné de sa gloire, et
aurait besoin qu'on lui révélât le secret de son
mérite.
*
La stessa cosa
238 in
molto maggior grado si può dire degli scritti di Senofonte, e caratterizzarne la
semplicità. (10. 7bre 1820.).
[238,1] Sono state sempre derise quelle poesie che aveano
bisogno di note per farsi intendere. E tuttavia queste note riguardavano cose
accessorie o secondarie, nomi, allusioni, fatti poco noti e male espressi ec.
Che si dirà di quei poemi che hanno bisogno di note dichiarative delle cose
sostanziali e principali, vale a dire dei caratteri, e delle proprietà ed
operazioni del cuore umano che descrivono, come sono i poemi di Lord Byron? Questi sono i riformatori
della poesia? Questi sono i grandi psicologi? Ma senza psicologia sapevamo già
da gran tempo che in questo modo non si fa effetto in chi legge. Vedi la p. 223-225.
[246,1]
246 I francesi non solamente non sono atti al sublime,
nè avvezzi a sentirlo dai loro nazionali, o a produrlo in qualunque forma
(applicate questa osservazione ch'è anche letteralmente di Lady Morgan, e universale, ai miei pensieri sopra
Bossuet
pp.
217-18) ma disublimano ancora le cose veramente sublimi, come nelle
traduzioni ec.
[257,2] Bisogna distinguere in fatto di belle arti,
entusiasmo, immaginazione, calore ec. da invenzione massimamente di soggetti. La
vista della bella natura desta entusiasmo. Se questo entusiasmo sopraggiunge ad
uno che abbia già per le mani un soggetto, gli gioverà per la forza della
esecuzione, ed anche per la invenzione ed originalità secondaria, cioè delle
parti, dello stile, delle immagini, insomma di tutto ciò che spetta
all'esecuzione. Ma difficilmente, o non mai, giova all'invenzione del soggetto.
Perchè l'entusiasmo giovi a questo, bisogna che si aggiri appunto e sia
cagionato dallo stesso soggetto, come l'entusiasmo di una passione. Ma
l'entusiasmo astratto, vago, indefinito, che provano spesse volte gli uomini di
genio, all'udire una musica, allo spettacolo della natura ec. non è favorevole
in nessun modo all'invenzione del soggetto, anzi appena delle parti, perchè in
quei momenti l'uomo è quasi fuor di se, si abbandona come ad una forza estranea
che lo trasporta, non è capace di raccogliere nè di fissare le sue idee, tutto
quello che vede, è infinito, indeterminato, sfuggevole, e così vario e copioso,
che non ammette nè ordine, nè regola, nè
258 facoltà di
annoverare, o disporre, o scegliere, o solamente di concepire in modo chiaro e
completo, e molto meno di saisir un punto (vale a dire
un soggetto) {intorno} al quale possa ridurre tutte le
sensazioni {e immaginazioni} che prova, le quali non
hanno nessun centro. Anzi provando pure, come ho detto, l'entusiasmo di una
passione, e volendo scegliere per soggetto la stessa passione, se l'entusiasmo è
veramente vivo e vero, non saprete determinarvi a veruna forma {trattabile} di questo soggetto. In sostanza per
l'invenzione dei soggetti {formali e circoscritti, ed}
anche primitivi (voglio dire per la prima loro concezione) ed originali, non ci
vuole, anzi nuoce, il tempo dell'entusiasmo, del calore e dell'immaginazione
agitata. Ci vuole un tempo di forza, ma tranquilla; un tempo di genio attuale
piuttosto che di entusiasmo attuale (o sia, piuttosto un atto di genio che di
entusiasmo); un influsso dell'entusiasmo passato o futuro o abituale, piuttosto
che la sua presenza, e possiamo dire il suo crepuscolo, piuttosto che il
mezzogiorno. Spesso è adattatissimo un momento in cui dopo un entusiasmo, o un
sentimento provato, l'anima sebbene in calma, pure ritorna come a mareggiare
dopo la tempesta, e richiama con piacere la sensazione passata. Quello forse è
il tempo più atto, e il più frequente della concezione di un soggetto originale,
o delle parti originali di esso. E generalmente
259 si
può dire che nelle belle arti e poesia, le dimostrazioni di entusiasmo
d'immaginazione e di sensibilità, sono il frutto {immediato} piuttosto della memoria dell'entusiasmo, che dello stesso
entusiasmo, riguardo all'autore p. 714. (2. Ottb̃re
1820.)./
[259,1] Laddove insomma l'opinione comune che par vera a prima
vista, considera l'entusiasmo come padre dell'invenzione e concezione, e la
calma come necessaria alla buona esecuzione; io dico che l'entusiasmo nuoce o
piuttosto impedisce affatto l'invenzione (la quale dev'essere determinata, e
l'entusiasmo è lontanissimo da qualunque sorta di determinazione), e piuttosto
giova all'esecuzione, riscaldando il poeta o l'artefice, avvivando il suo stile,
e aiutandolo sommamente nella formazione, disposizione, ec. delle parti, le
quali cose tutte facilmente riescon fredde e monotone quando l'autore ha perduto
i primi sproni dell'originalità. (3. 8bre 1820.).
[263,1]
263 L'intrigo può star molte volte colla chiarezza, come
anche si può essere strigato ed oscuro. L'intrigo può venire o dallo scrittore,
o dalla necessità della materia, ed allora la chiarezza è difficilissima allo
scrittore, e il luogo può riuscir difficile al lettore, sebbene sia chiaro. Ma
spessissimo si confonde l'intrigo coll'oscurità, e si chiama oscuro quello ch'è
solamente intrigato, e intrigato quello ch'è solamente oscuro. Applicate
quest'osservazione ai cinquecentisti che bene spesso sono intrigati e
contuttociò chiari, ai trecentisti che per lo più sono strigatissimi e sovente
oscurissimi, agli scrittori scientifici, tecnici, gramatici ec.
[270,1]
270 Quello che ho detto p. 266.-268. deve servir di regola agli scrittori
drammatici nell'esprimere e modellare i caratteri dei diversi tempi. (10.
8bre 1820.).
[313,2] La letteratura francese si può chiamare originale per
la sua somma e singolare inoriginalità.
[338,1] Un pensiero degno di essere sviluppato intorno alla
perpetua superiorità degli antichi sopra i moderni a causa della maggior forza
della natura, per anche non corrotta, o meno corrotta, sta nelle notes
historiques de l'Éloge historique de l'Abbé de Mably, par l'abbé Brizard, avanti le Observations sur
l'hist. de France.
Kehll. 1789. t. 1. p. 114. Note
II. (17 Nov. 1820.).
[347,1] Le buone poesie sono ugualmente intelligibili agli
uomini d'immaginazione e di sentimento, e a quelli che ne son privi. E
contuttociò quelli le gustano, e questi no, anzi non comprendono come si possano
gustare, primieramente perchè non sono capaci nè disposti ad esser commossi,
sublimati ec. dal poeta; e oltracciò perchè sebbene intendano le parole, non
intendono la verità, l'evidenza di quei sentimenti: il cuore non dimostra loro
che quelle passioni, quegli effetti, quei fenomeni morali ec. che il poeta
descrive, vanno veramente così: e per tal modo le parole del poeta, benchè
chiare, e da loro bene intese non rappresentano loro quelle cose e quelle verità
che rappresentano altrui, ed intendendo le parole, non intendono il poeta.
Bisogna bene osservare che questo accade anche negli scritti filosofici,
profondi, metafisici, psicologici ec. affine di non maravigliarsi dei
diversissimi, e spesso contrarissimi effetti che producono in diversi individui,
e classi, e quindi del diverso concetto in cui son tenuti. Perchè, ponete uno
scritto di questo genere, pienissimo di verità, e composto con
348 tutta quella chiarezza d'espressioni, della quale possa mai esser
suscettibile. Le parole dicono lo stesso all'uomo profondo, e al superficiale:
tutti comprendono ugualmente il senso materiale dello scritto, e in somma tutti
intendono perfettamente quello che l'autore vuol dire. E non perciò quello
scritto è compreso da tutti, come si crede comunemente. Perchè l'uomo
superficiale; l'uomo che non sa mettere la sua mente nello stato in cui era
quella dell'autore; insomma l'uomo che appresso a poco non è capace di pensare
colla stessa profondità {dell'autore,} intende
materialmente quello che legge, ma non vede i rapporti che hanno quei detti col
vero, non sente che la cosa sta così, non iscuoprendo il campo che l'autore
scopriva, non conosce i rapporti e legami delle cose ch'egli vedeva, e dai quali
deduceva quelle conseguenze ec. che per lui, e per chiunque gli somigli sono
incontrastabili, per questi altri non sono neppur verità: vedranno le stesse
cose, ma non conosceranno {nè sentiranno} che abbiano
relazione insieme, e con quelle conseguenze che l'autore ne cava; {non vedranno la relazione scambievole delle parti del
sillogismo (giacchè ogni umana cognizione è un sillogismo)}:
brevemente, intenderanno appuntino lo scritto, e non capiranno la verità di
quello che dice, verità che esisterà realmente, e sarà compresa da altri. {Così pure non avranno tanta forza di mente da poter dubitare,
e sentire la ragionevolezza e la verità del dubbio intorno alle cose che la natura o l'abito danno
per certe.}
{+Non basta intendere una proposizion
vera, bisogna sentirne la verità. C'è un senso della verità, come delle
passioni, de' sentimenti, bellezze, ec.: del vero, come del bello. Chi la
intende, ma non la sente, intende ciò che significa quella verità, ma non
intende che sia verità, perchè non ne prova il senso, cioè la
persuasione.} In questo numero di persone va posta la maggior parte
dei moderni apologisti della religione, uomini senza cuore, senza sentimento,
senza tatto fino e profondo nelle cose della natura, {insomma
senza esperienza della verità, come
quei lettori de' poeti che sono senza esperienza di passioni, entusiasmo,
sentimenti ec.;} i quali,
349 posto che
intendano anche perfettamente il senso dei filosofi profondissimi che
combattono, non intendono la verità che quivi si contiene, e vi danno
nettamente, precisamente e consideratamente per falso, quello che voi saprete e
sentirete ch'è vero, o viceversa. Del resto per intendere i filosofi, e quasi
ogni scrittore, è necessario, come per intendere i poeti, aver tanta forza
d'immaginazione, e di sentimento, e tanta capacità di riflettere, da potersi
porre nei panni dello scrittore, e in quel punto preciso di vista e di
situazione, in cui egli si trovava nel considerare le cose di cui scrive;
altrimenti non troverete mai ch'egli sia chiaro abbastanza, per quanto lo sia in
effetto. E ciò, tanto quando in voi ne debba risultare la persuasione e
l'assenso allo scrittore, quanto nel caso contrario. Io so che con questo metodo
non ho trovato mai oscuri, o almeno inintelligibili, gli scritti della Staël, che tutti danno per oscurissimi.
(22. Nov. 1820.).
[373,1] La poesia e la prosa francese si confondono insieme, e
la francia non ha vera distinzione di prosa e di poesia,
non solamente perchè il suo stile poetico non è distinto dal prosaico, e
perch'ella non ha vera lingua poetica, e perchè anche relativamente alle cose, i
suoi poeti (massime moderni) sono più scrittori, e pensatori e filosofi che
poeti, e perchè Voltaire p. e. nell'Enriade, scrive con quello stesso enjouement, con quello stesso esprit, con
quella stess'aria di conversazione, con quello stesso tour e giuoco di parole di frasi di maniere e di sentimenti e
sentenze, che adopra nelle sue prose: non solamente, dico, per tutto questo, ma
anche perchè la prosa francese, oramai è una specie di poesia. Filosofi,
oratori, scienziati, scrittori d'ogni sorta, non sanno essere e non si chiamano
eleganti, se non per uno stile enfatico, similitudini, metafore, insomma stile
continuamente poetico, e montato principalmente sul tuono lirico. E ciò
massimamente è accaduto dopo l'introduzione de' poemi in prosa, siano poemi
propriamente detti, siano romanzi, opere descrittive, sentimentali ec. Ma
374 i francesi che si credono i soli maestri e modelli e
conservatori, e zelatori dello scriver classico a' tempi moderni, non so in qual
classico antico abbiano trovato questo costume, per cui non si sa essere
elegante nè eloquente, senza andare a quella perpetua, dirò così, traslazione
{e μετεωρία}
{e concitazione} di stile, ch'è propria della poesia.
(L'eloquenza di Bossuet, è appunto di
questo tenore; tutta Biblica, tutta in un gergo di convenzione; e lo stile
biblico, e questo gergo forma l'eloquenza e l'eleganza ordinaria d'ogni sorta di
scrittori francesi oggidì.) Non mai sedatezza, non mai posatezza, non
semplicità, non familiarità. Non dico semplicità nè familiarità distintiva di
uno stile o di uno scrittore particolare, ma dico quella ch'è propria
universalmente e naturalmente della prosa, che non è uno scrivere ispirato. Osservino Cicerone, osservino gli scrittori più energici
dell'antichità, e mi dicano se c'è uomo così cieco che non distingua {subito} come quella è prosa non poesia; se ridotta
questa prosa in misura, avrebbe mai niente di comune colla poesia (come
accadrebbe nelle loro prose); se la prosa antica la più elegante, eloquente,
energica, consiste, o no, in uno stile separatissimo dal poetico. Anche i loro
scrittori de' buoni secoli, sebbene la lingua francese ha sempre inclinato a
questo difetto,
375 nondimeno hanno un gusto {e un sapore} di prosa molto maggiore e più distinto
(eccetto pochi), {hanno non dico austerità, neanche gravità
{nè verecondia} (pregi ignoti ai francesi) ma
pur tanta posatezza {+e
castigatezza} di stile quanta è indispensabile alla prosa:}
come la Sévigné, Mm̃e Lambert, Racine e Boileau nelle
prose, Pascal ec. Anzi letto Pascal, e passando ai filosofi e
pensatori moderni, si nota e sente il passaggio e la differenza in questo punto.
(2. Dic. 1820.)
{{V. p. 477. capoverso 1.}}
[392,1] Oltre il progresso dei lumi esatti; dello studio e
imitazione degli esemplari {tanto nazionali che
antichi;} della regolarità della lingua, dello scrivere e della poesia
ridotti ad arte ec. un'altra gran cagione dell'estinguersi che fece subitamente
l'originalità vera e la facoltà creatrice nella letteratura italiana,
originalità finita con Dante e il Petrarca, cioè subito dopo la nascita di
essa letteratura, può essere l'estinzione della libertà, e il passaggio dalla
forma repubblicana, alla monarchica, la quale costringe lo spirito impedito, e
scacciato o limitato nelle idee e nelle cose, a rivolgersi alle parole. Il
cinquecento fu, si può dir, tutto monarchico in italia e
fuori, quanto al governo. E le lettere italiane risorsero dal sonno del
quattrocento, sotto Cosimo e Lorenzo de' Medici fondatori della monarchia toscana e distruttori di
quella repubblica. E in questo risorgimento (come poi sotto Leon X.) le lettere presero una forma regolare, una
forma tutta diversa da quella del trecento, e (quel che è più) da quella che
sogliono sempre prendere nel loro risorgimento
393 o
nascere. La letteratura italiana non è stata più propriamente originale e
inventiva. L'Alfieri è un'eccezione,
dovuta al suo spirito libero, e contrario a quello del tempo, e alla natura de'
governi sotto cui visse. (8. Dicembre 1820.).
[455,2]
*
*
*
Tityrus et segetes, Aeneiaque arma legentur
Roma triumphati dum caput orbis erit.
Ovid.
Amorum l. 1.
Fortunati ambo! si quid mea carmina possunt,
Nulla dies umquam memori vos eximet aevo:
456
Dum domus Aeneae
Capitoli immobile saxum
Adcolet, imperiumque pater Romanus habebit.
Virg.
Aen. IX. 446.
Usque ego postera
Crescam laude recens, dum Capitolium
Scandet cum tacita virgine pontifex.
Hor.
Carm. III. od. 30. v. 7.
[462,1] Chiunque conosce intimamente il Tasso, se non riporrà lo scrittore o il poeta fra i
sommi, porrà certo l'uomo fra i primi, e forse nel primo luogo del suo
tempo.
[467,1] Da queste osservazioni deducete 1. un'altra prova che
Senofonte è il vero autore della
K. A.[Κύρου
ἀναβάσει] non Temistogene ec. trattandosi di un giornale, che non
poteva essere scritto {o almeno abbozzato} se non in pręsentia, e dallo stesso Generale (come i
commentarii di Cesare), o almeno da
qualche suo intimo confidente. Questa proprietà, di essere cioè scritta da un
testimonio di
468 vista, anzi dal principale attore e
centro degli avvenimenti non è comune a nessun'altra {opera} storica greca, che ci rimanga, anzi a nessun'antica, fuorchè
ai commentarii di Cesare. Perciò ella
{è} singolarmente preziosa anche per questo capo, e
propria più delle altre a darci la vera idea de' costumi, pensieri, natura degli
antichi, e de' loro fatti; come le lettere
di Cicerone in altro genere di
scrittura, sono la più recondita e intima sorgente della storia di quei tempi.
{{V. p. 519. capoverso 2.}}
[469,1] È osservabile che Senofonte in quest'altra opera riesce minor di se stesso, perchè si
sforza d'imitar Tucidide, e ciò
servilmente, volendo che il suo stile non si distinguesse da quello di Tucidide, e le due opere sembrassero
tutt'una. E tanto peggio, quanto lo stile di Tucidide è quasi l'opposto di quello ch'era proprio di Senofonte. Infatti chi ha un poco di
criterio, può facilmente notare nei libri τῶν Ἑλληνικ.[Ἑλληνικῶν] una brevità forzata, una differenza
sensibile dallo stile delle altre opere Senofontee, uno studio impotente di esser efficace,
rapido, forte ec. Cosa contraria all'indole di Senofonte: e v.
Cic. nei
testimoni de Xenophonte ec. e Dionigi
Alicarnasseo parimente nelle testimonianze de
Xenophonte.
Anzi nelle stesse frasi, parole, modi, insomma nell'esterno e materiale dello
stile, Senofonte abbandona spesso il
suo costume per seguir quello di Tucidide, così che anche l'esteriore dello stile riesce alquanto
nuovo a chi ha l'orecchio assuefatto alle altre opere di Senofonte. Fino nell'ortografia, Senofonte volendo assomigliarsi a Tucidide, scrive (contro quello che suole nelle altre
470 opere) ξύν per σύν, e così nei composti
dov'entra questa preposizione: consuetudine ch'io credo familiare a Tucidide. (2. Gen.
1821.)
[470,2] La natura non è perfetta assolutamente parlando, ma la
sola natura è grande, e fonte di grandezza. Perciò tutto quello che è, o si
accosta al perfetto, secondo la nostra maniera astratta di considerare, non è
grande. Osservatelo in tutte le cose: nelle opere di genio, poesia, belle arti
ec. nelle azioni, nei caratteri, nei costumi, nei popoli, nei governi ec. Un
uomo perfetto, non è mai grande. Un uomo grande, non è mai perfetto.
471 L'eroismo e la perfezione sono cose contraddittorie.
Ogni eroe è imperfetto. Tali erano gli eroi antichi (i moderni non ne hanno);
tali ce li dipingono gli antichi poeti ec. tale era l'idea ch'essi avevano del
carattere eroico; al contrario di Virgilio, del Tasso ec.
tanto meno perfetti, quanto più perfetti sono i loro eroi, ed anche i loro
poemi. (3. Gen. 1821.).
[527,2]
Τέταρτος
*
(Ξενοκράτης), ϕιλόσοϕος, ᾽Ελεγείαν γεγραϕὼς
οὐκ ἐπιτυχῶς.
*
(Elegiae scriptor non satis probatus). Ἴδιον δέ
*
{Ιδιον,
strano. V. le mie osservazioni sui Taumasiografi greci. Mirum hoc videri potest, quod, etc..}
(Ita enim se habet res) Ποιηταὶ μὲν γὰρ ἐπιβαλλόμενοι
πεζογραϕεῖν, ἐπιτυγχάνουσι˙
*
(si quid prosa oratione scribere
velint, pręstant) πεζογράϕοι δὲ ἐπιτιϑέμενοι ποιητικῇ,
πταίουσι.
*
(si poeticę sibi partes vindicare velint, non
assequuntur) Δῆλον τὸ μὲν ϕύσεως εἶναι
*
, (scil.
τὸ τῆς ποιητικῆς) τὸ δὲ τέχνης ἔργον.
*
Laerz. in Xenocrate l. 4. segm. 15.
528 E v. se ha nulla in questo proposito il Menagio. (19. Gen.
1821.).
[646,1] Nessun secolo de' più barbari si è creduto mai
barbaro, anzi nessun secolo è stato mai, che non credesse di essere il fiore dei
secoli, e l'epoca più perfetta dello spirito umano e della società. Non ci
fidiamo dunque di noi stessi nel giudicare del tempo nostro, e non consideriamo
l'opinione presente, ma le cose, e quindi congetturiamo il giudizio della
posterità, se questa sarà tale da poter giudicarci rettamente. (12. Feb.
1821.).
[650,1]
Les
passions même les plus vives ont besoin de la pudeur pour se montrer dans une forme séduisante:
elle doit se répandre sur toutes vos actions; elle doit parer et
embellir
651 toute votre personne. On dit que
Jupiter, en formant les passions, leur donna à chacune sa
demeure; la pudeur fut oubliée, et quand elle se présenta, on ne savoit
plus où la placer; on lui permit de se mêler avec toutes les autres.
Depuis ce temps-là, elle en est inséparable.
*
Mme de Lambert, Avis d'une mère à sa fille,
dans ses oeuvres complètes citées ci-dessus, (p. 633.), p. 60-61. Che
vuol dir questo, se non che niente è buono senza la naturalezza? Applicate
questi detti della Marchesa anche alla
letteratura, inseparabile parimente dal pudore, e a quello ch'io dico del
sentimento, e del genere sentimentale nel Discorso sui romantici.
(13. Febbr. 1821.).
[658,1] La ragione di quanto ho più volte osservato circa la
difficoltà anzi impossibilità di riuscire in quelle cose che si fanno con troppo
impegno, pp. 461-62 e tanto più quanto queste cose sono
naturali, e quanto la perfezione loro consiste nella naturalezza, è questa. Non
riesce bene e secondo natura, se non quello che si fa naturalmente.
659 Ma i detti mezzi non sono naturali, e il servirsi di
essi non è secondo natura. Dunque ec. Non basta che un'operazione sia naturale:
ma quanto più è o dev'esser naturale, tanto più bisogna farla naturalmente. Anzi
non è naturale, se non è fatta naturalmente. (14. Feb. 1821.).
[661,3]
On aime à savoir les foiblesses des personnes
estimables,
*
non già solamente di quelle che si odiano o
invidiano, ma di quelle che si amano, si ammirano, si trattano, ci obbligano
e ci giovano coi loro benefizi, consigli ec. e in questo senso lo dice Mad. Lambert
La Femme Hermite. Nouvelle
Nouvelle,
662 dans ses oeuvres complètes
citées ci-dessus (p. 633),
p. 229. Tu puoi però applicarti questo pensiero, e
rendertelo proprio, giacchè Mad. lo
stende, lo spiega, e l'applica in maniera ordinaria, così che il pensiero sembra
comune, non fa gran colpo e non se ne osserva l'originalità. Essa lo applica
principalmente alla confidenza che ne deriva verso quelle tali persone: et
j'étois trop heureuse de trouver en elle, non-seulement des
conseils, mais de ces foiblesses aimables qui nous rendent plus
indulgens pour celles d'autrui.
*
Ma si può
considerare questa verità molto più in grande, dilatarla, osservarne i rapporti,
applicarla anche al teatro, alla poesia, a' romanzi ec. ed alle {arti} imitatrici, e confermarne quella regola di Aristotele, che il protagonista non sia
perfetto. (15. Feb. 1821.).
[690,1] Il secolo del cinquecento è il vero e solo secolo
aureo e della nostra lingua e della nostra letteratura.
[694,1]
Quanta[Quanto] alla letteratura nessuno
disconviene da quello ch'io dico, perchè il trecento ebbe tre o quattro
letterati famosi, ma nel resto ebbe non letteratura ma ignoranza. Quello però
ch'io dico, sarebbe molto più riconosciuto in italia e
fuori, e si giudicherebbe meglio, e con maggiore convincimento, quanto sia vero
che il cinquecento
695 sia l'ottimo ed aureo secolo
della letteratura italiana, anzi in questo pregio superi non solo tutti gli
altri secoli italiani, ma anche tutti i migliori secoli delle letterature
straniere; se si ponesse mente a questo ch'io son per dire.
[704,1]
704 L'uomo dev'esser libero e franco nel maneggiare la
sua lingua, non come i plebei si contengono liberalmente e disinvoltamente nelle
piazze, per non sapere stare decentemente e con garbo, ma come quegli ch'essendo
esperto ed avvezzo al commercio civile, si diporta francamente e scioltamente
nelle compagnie, per cagione di questa medesima esperienza e cognizione. Laonde
la libertà nella lingua dee venire dalla perfetta scienza e non dall'ignoranza.
La quale debita e conveniente libertà manca oggigiorno in quasi tutti gli
scrittori. Perchè quelli che vogliono seguire la purità e l'indole e le leggi
della lingua, non si portano liberamente, anzi da schiavi. Perchè non
possedendola {intieramente e} fortemente, e sempre
sospettosi di offendere, vanno così legati che pare che camminino fra le uova. E
quelli che si portano liberamente, hanno quella libertà de' plebei, che deriva
dall'ignoranza della lingua, dal non saperla maneggiare, e dal non curarsene. E
questi in comparazione
705 degli altri sopraddetti, si
lodano bene spesso come scrittori senza presunzione. Quasi che da un lato fosse
presunzione lo scriver bene (e quindi anche l'operar bene, e tutto quello che si
vuol fare convenientemente, fosse presunzione); dall'altro lato scrivesse bene
chi {ne} dimostra presunzione. Quando anzi il
dimostrarla, non solamente in ordine alla {buona}
lingua, ma a qualunque altra dote della scrittura, è il massimo vizio nel quale
scrivendo si possa incorrere. Perchè in somma è la stessa cosa che
l'affettazione; e l'affettazione è la peste d'ogni bellezza e d'ogni bontà,
perciò appunto che la prima e più necessaria dote sì dello scrivere, come di
tutti gli atti della vita umana, è la naturalezza. (28. Feb.
1821.).
[707,1] Perchè in fatti il secol d'oro di una lingua o di
qualunque altra disciplina, non è quello che la prepara, ma quello che l'adopra,
la compone de' materiali già pronti, e la forma; giacchè realmente quel secolo
che formò e determinò la lingua italiana fu più veramente il cinquecento che il
trecento, lasciando stare che i primi precetti della lingua nostra furono dati,
s'io non erro, in quel secolo, dal Bembo. Ma il cinquecento
708 formò e
determinò la lingua italiana in maniera ch'ella guadagnando nella coltura e
nell'ordine, non perdè nulla affatto nella naturalezza, nella copia, nella
varietà, nella forza, e neanche nella libertà, (quanta è compatibile colla
chiarezza e bellezza, e colla necessità di essere intesi, e quindi
convenientemente ordinati nel favellare): in somma e soprattutto, non mutò in
verun conto l'indole e natura sua primitiva, come la cambiò interamente la
francese, nella formazione e determinazione fattane dall'Accademia e dal secolo
di Luigi 14. (1. Marzo
1821.).
[714,1]
714 Spesse volte il troppo o l'eccesso è padre del
nulla. Avvertono anche i dialettici che quello che prova troppo non prova
niente. Ma questa proprietà dell'eccesso si può notare ordinariamente nella
vita. L'eccesso delle sensazioni o la soprabbondanza loro, si converte in
insensibilità. Ella produce l'indolenza e l'inazione, anzi l'abito ancora
dell'inattività negl'individui e ne' popoli; e vedi in questo proposito quello
che ho notato con Mad. di Staël, Floro ec. p. 620 fine - 625 principio. Il poeta nel colmo
dell'entusiasmo, della passione ec. non è poeta, cioè non è in grado di poetare.
All'aspetto della natura, mentre tutta l'anima sua è occupata dall'immagine
dell'infinito, mentre le idee segli affollano al pensiero, egli non è capace di
distinguere, di scegliere, di afferrarne veruna: in somma non è capace di nulla,
nè di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni: dico nessun frutto o di
considerazione e di massima, ovvero di uso e di scrittura; di teoria nè di
pratica. L'infinito non si
715 può esprimere se non
quando non si sente: bensì dopo sentito: e quando i sommi poeti scrivevano
quelle cose che ci destano le ammirabili sensazioni dell'infinito, l'animo loro
non era occupato da veruna sensazione infinita; e dipingendo l'infinito non lo
sentiva. {I sommi dolori corporali non si sentono, perchè o
fanno svenire, o uccidono.} Il sommo dolore non si sente,
cioè finattanto ch'egli è sommo; ma la sua proprietà, e[è] di render l'uomo attonito; confondergli, sommergergli,
oscurargli l'animo in guisa, ch'egli non conosce nè se stesso, nè la passione
che prova, nè l'oggetto di essa; rimane immobile, e senza azione esteriore, nè
{si può dire}, interiore. E perciò i sommi dolori
non si sentono nei primi momenti, nè tutti interi, ma nel successo dello spazio
e de' momenti, e per parti, come ho detto p. 366. - 368. Anzi non solo il sommo dolore, ma ogni somma passione,
ed anche ogni sensazione, ancorchè non somma, tuttavia tanto straordinaria, e,
per qualunque verso, grande, che l'animo nostro non sia capace di contenerla
716 tutta intera simultaneamente. Così sarebbe anche la
somma gioia.
[721,1] Dovunque l'arte tiene la principal parte in luogo
della natura, manca la varietà, sebbene sottentri una sterile curiosità. P. e.
gli Stati uniti si diversificano molto dal governo,
costumi ec. degli altri paesi civili, ma quella è una differenza d'arte, non di
natura, è parto della ragione, della filosofia del sapere, è cosa artifiziale,
non naturale.
722 Quindi la curiosità che ne deriva, è
una curiosità secca, e quella varietà, è quasi falsa, ascitizia, non propria
delle cose, non sostanziale, non inerente alla nazione, e alla natura di lei, e
per così dire, una varietà monotona. Al contrario di quella curiosità e varietà
che deriva dalla considerazione della Svizzera, della
Spagna ec. curiosità e varietà, naturale, propria,
innata. V. il pensiero precedente.
(5. Marzo 1821.).
[722,1] Lo sventurato non bello, e maggiormente se vecchio,
potrà esser compatito, ma difficilmente pianto. Così nelle tragedie, ne' poemi,
ne' romanzi ec. come nella vita. (6. Marzo 1821.)
[724,3] I poeti, oratori, storici, scrittori in somma di bella
letteratura, oggidì in italia, non manifestano mai, si
può dire, la menoma forza d'animo (vires animi, e non
intendo dire la magnanimità), ancorchè il soggetto, o l'occasione {ec.} contenga
725 grandissima
forza, sia per stesso fortissimo, abbia gran vita, grande sprone. Ma tutte le
opere letterarie italiane d'oggidì sono inanimate, esangui, senza moto, senza
calore, senza vita (se non altrui). Il più che si possa trovar di vita in
qualcuno, come in qualche poeta, è un poco d'immaginazione. Tale è il pregio del
Monti, e dopo il Monti, ma in assai minor grado,
dell'Arici. Ma oltre che questo
pregio è rarissimo nei nostri odierni o poeti o scrittori, oltre che in questi
rarissimi è anche scarso (perchè il più de' loro pregi appartengono allo stile),
osservo inoltre che non è veramente spontaneo nè di vena, e soggiungo che non
solamente non è, ma non può essere, se non in qualche singolarissima indole.
[735,1] La lingua greca da' suoi principii fino alla fine, non
lasciò mai di arricchirsi, e acquistar sempre, massimamente nuovi vocaboli. Non
è quasi scrittor greco {di qualsivoglia secolo,} che
venga nuovamente in luce, il quale non possa servire ad impinguare il
vocabolario greco di qualche novità.
736 Non è secolo
della buona lingua greca (la quale si stende molto innanzi, cioè almeno a Costantino, giacchè credo che S. Basilio e S. Crisostomo si citino nel Glossario sebbene anche nel Vocabolario) ne' cui scrittori la
lingua non si trovi arricchita di nuove voci e anche modi, che non si osservano
ne' più antichi. E questi incrementi erano tutti della propria sostanza e del
proprio fondo, giacchè la lingua greca fu oltremodo schiva d'ogni cosa
forestiera, ma trovava nelle sue radici e nella immensa facilità e copia de'
suoi composti, la facoltà di dir tutto quello che bisognava, e di conformare la
novità delle parole alla novità delle cose, senza ricorrere ad aiuti stranieri.
Insomma il tesoro e la natura, e non solamente ricchezza, ma fertilità naturale
e propria della lingua greca, era tale da bastare da per se sola, a tutte le
novità che occorresse di esprimere, come un paese così fertile che fosse
sufficiente ad alimentare
737 qualunque numero di nuovi
abitatori o di forestieri. E questo si può vedere manifestamente anche per
quello che interviene oggidì. Giacchè in tanta diversità di tempi e di costumi e
di opinioni, in tanta novità di conoscenze e di ritrovati, e fino d'intere
scienze e dottrine, qualunque novità massimamente scientifica occorra di
significare e denominare, si ha ricorso alla lingua greca. Nessuna lingua viva,
ancorchè pure le lingue vive sieno contemporanee alle nostre cognizioni e
scoperte, si stima in grado di bastare a questo effetto, e s'invoca una lingua
morta e antichissima per servire alla significazione ed enunziazione di quelle
cose a cui le lingue viventi e fiorenti non arrivano. La rivoluzione francese,
richiedendosi alla novità delle cose, la novità delle parole, ha popolato il
vocabolario francese ed anche europeo, di nuove voci greche. La fisica, la
Chimica, la storia naturale, le matematiche,
738 l'arte
militare, la nautica, {la medicina, la metafisica} la
politica ogni sorta di scienze o discipline, ancorchè rinnovellate e
diversissime da quelle che si usavano o conoscevano dagli antichi greci,
ancorchè nuove di pianta, hanno trovato in quella lingua il capitale sufficiente
ai bisogni delle loro nomenclature. Ogni scienza o disciplina nuova, comincia
subito dal trarre il suo nome dal greco. E questa lingua ancorchè da tanti
secoli spenta, resta sempre inesauribile, e provvede a tutto, e si può dire che
prima mancherà all'uomo la facoltà di sapere di conoscere e di scoprire, prima
saranno esaurite tutte le fonti dello scibile, di quello che manchi alla lingua
greca la facoltà di esprimerlo, e sia inaridita la fonte delle sue denominazioni
e parole. Il qual uso, ancorchè io lo biasimi e condanni per le ragioni che ho
dette altrove p. 48
p.
50, non è però che non renda evidente e palpabile l'onnipotenza
immortale di quella lingua.
[838,1] Quanto più l'indole, la struttura, l'andamento di una
lingua, è conforme alle regole naturali, semplice, diritto ec. tanto più quella
lingua è adattata alla universalità. E per lo contrario tanto meno, quanto più
ella e[è] figurata, composta, contorta, quanto
più v'ha nella sua forma di arbitrario, di particolare e proprio suo, o de' suoi
scrittori ec. non della natura comune delle cose. Le prime qualità spettano per
eccellenza alla lingua francese, quantunque la lingua italiana le possieda molto
più della latina, anzi senza confronto; tuttavia in esse (e felicemente) cede
alla francese, come tutte le lingue moderne {Europee,}
quantunque nessuna di queste ceda in esse qualità alla latina, anzi la vinca di
gran lunga, e neppure alla greca.
[863,1] Come la proprietà delle parole è ben altro che la
secchezza e nudità di ciascuna, così anche la semplicità e naturalezza e
facilità della struttura di una lingua e di un discorso, è ben altro che
l'aridità e geometrica esattezza di esso. Così distinguete il carattere
dell'ottima e antica scrittura greca da quello della moderna e riformata
francese. Così quello dell'ottima e antica e propria lingua e scrittura
italiana, sì da quello della
864 francese, sì da quello
dell'odierna italiana. La quale quando anche non fosse barbara per le parole,
modi ec. è barbara pel geometrico, sterile, secco, esatto dell'andamento e del
carattere. Barbara per questo, tanto assolutamente, quanto relativamente
all'essere del tutto straniera e francese, e diversa dall'indole della nostra
lingua; ben altra cosa che lo straniero de' vocaboli o frasi, le quali ancorchè
straniere non sono essenzialmente inammissibili, nè cagione assoluta di
barbarie; bensì l'indole straniera in qualunque lingua è sostanzialmente
barbara, e la vera cagione della barbarie di una lingua, che non può non esser
barbara, quando si allontana, non dalle frasi o parole, ma dal carattere e
dall'indole sua. E tanto più barbaro è l'odierno italiano scritto, quanto il
sapore italiano di certi vocaboli e modi per lo più ricercati ed antichi, e la
cui italianità risalta e dà negli occhi; contrasta colla innazionalità ed anche
coll'assoluta differenza del carattere totale della scrittura. (24. Marzo
1821.).
[865,1]
865 Lodo che si distornino gl'italiani dal cieco amore
{e imitazione} delle cose straniere, e molto più
che si richiamano[richiamino] e s'invitino a
servirsi e a considerare le proprie; lodo che si proccuri ridestare in loro
quello spirito nazionale, senza cui non v'è stata mai grandezza a questo mondo,
non solo grandezza nazionale, ma appena grandezza individuale; ma non posso
lodare che le nostre cose presenti, e parlando di studi, la nostra presente
letteratura, la massima parte de' nostri scrittori, ec. ec. si celebrino, si
esaltino tutto giorno quasi superiori a tutti i sommi stranieri, quando sono
inferiori agli ultimi: che ci si propongano per modelli; e che alla fine quasi
ci s'inculchi di seguire quella strada in cui ci troviamo. Se noi dobbiamo
risvegliarci una volta, e riprendere lo spirito di nazione, il primo nostro moto
dev'essere, {non} la superbia nè la stima delle nostre
cose presenti, ma la vergogna. E questa ci deve spronare a cangiare strada del
tutto, e rinnovellare ogni cosa. Senza ciò non faremo
866 mai nulla. Commemorare le nostre glorie passate, è stimolo alla virtù, ma
mentire e fingere le presenti è conforto all'ignavia, e argomento di rimanersi
contenti in questa vilissima condizione. Oltre che questo serve ancora ad
alimentare e confermare e mantenere quella miseria di giudizio, o piuttosto
quella incapacità d'ogni retto giudizio, e mancanza d'ogni arte critica, di cui
lagnavasi l'Alfieri (nella sua vita)
rispetto all'italia, e che oggidì è così evidente per la
continua esperienza sì delle grandi scempiaggini lodate, sì dei pregi (se
qualcuno per miracolo ne occorre) o sconosciuti, o trascurati, o negati, o
biasimati. (24. Marzo 1821.).
[949,1] Dalla sciocca idea che si ha del bello assoluto deriva
quella sciocchissima opinione che le cose utili non debbano esser belle, o
possano non esser belle. Poniamo per esempio un'opera scientifica. Se non è
bella, la scusano perciò ch'è utile, anzi dicono che la bellezza non le
conviene. Ed io dico che se non è bella, e quindi è brutta, è dunque cattiva per
questo verso, quando anche pregevolissima in tutto il resto. Per qual ragione è
bello il Trattato di Celso, ch'è un trattato di Medicina? Forse perchè ha ornamenti
poetici o rettorici? Anzi prima di tutto perchè ne manca onninamente, e perchè
ha quel nudo candore e semplicità che conviene a siffatte opere. Poi perchè è
chiaro, preciso, perchè ha una lingua ed uno stile puro. Questi pregi o bellezze
convengono a qualunque libro. Ogni libro ha obbligo di esser bello in tutto il
rigore di questo termine: cioè di essere intieramente buono. Se non è bello, per
questo lato è cattivo, e non v'è cosa di mezzo tra il non esser bello, e il non
essere perfettamente buono, e l'esser quindi per questa parte cattivo. E ciò che
dico dei libri, si deve estendere a tutti
950 gli altri
generi di cose chiamate utili, e generalmente a tutto. (16. Aprile
1821.)
[950,3]
Lo Spettatore
di Milano 15. Febbraio 1816. Quaderno 46.
p. 244. Parte Straniera, in un articolo estratto dal Leipziger Litter. Zeitung, rendendo brevissimo
conto di un opuscolo
951 tedesco di Pietro Enrico Holthaus,
intitolato Anche nella nostra lingua possiamo e
dobbiamo essere Tedeschi, pubblicato a Schwelm, presso
Scherz, 1814. in 8o. grande, dice che, fra le altre cose, l'autore intende
provare Che il miscuglio di parole
straniere reca nocumento alla chiarezza delle
idee.
*
(L'opuscolo è diretto principalmente contro il
francesismo introdotto e trionfante nella lingua tedesca, come nell'italiana)
Questo sentimento combina con quello che ho svolto in altri pensieri pp.
110-11
p.
808, dove ho detto che le parole greche nelle nostre lingue sono
sempre termini, e così si deve dire
delle altre parole straniere affatto alla nostra lingua; e spiegato che cosa
sieno termini, e come si distinguano
dalle parole. E infatti i termini, e le
parole prese da una lingua straniera del tutto, potranno essere precise, ma non
chiare, e così l'idea che
risvegliano sarà precisa ed esatta, senza esser chiara, perchè quelle parole non
esprimono la natura della cosa per noi, non sono cavate dalle qualità della
cosa, come le parole originali di qualunque lingua, così che l'oggetto che
esprimono, sebbene ci si possa per mezzo loro affacciare alla mente con
precisione e determinazione, non lo potranno però con chiarezza: perchè le
parole non derivanti immediatamente dalle qualità della cosa, o che almeno per
l'assuefazione non ci paiano tali, non hanno forza di suscitare nella nostra
mente un'idea sensibile della cosa, non
hanno
952 forza di farci sentire la cosa in qualunque modo, ma solamente di
darcela precisamente ad intendere, come si fa di quelle cose che non si possono
formalmente esprimere. Che tale appunto è il caso degli oggetti significatici
con parole del tutto straniere. Dal che è manifesto quanto danno riceva sì la
chiarezza delle idee, come la bellezza e la forza del discorso, che consistono
massimamente nella sua vita, e questa vita del discorso, consiste nella
efficacia, vivacità, e sensibilità con
cui esso ci fa concepire le cose di cui tratta. (17. Aprile
1821.).
[956,1] La lingua greca va considerata rispetto all'italiana
nell'ordine di lingua madre, (o nonna) quanto ai modi, ma non quanto alle
parole. Dico quanto ai modi, massimamente per la sua conformità naturale o
somiglianza in questa parte colla lingua latina sua sorella, e madre della
nostra, e di più perchè gli scrittori latini, dal nascimento della loro
letteratura, modellarono sulla greca le forme della loro lingua, e così hanno
tramandata a noi una lingua formata in grandissima parte sui modi della greca.
Del che vedi un bell'articolo del Barone Winspear (Bibliot. Ital. t. 8. p. 163.) nello
Spettatore di Milano, 1. Settembre
1817. Parte italiana, Quaderno 83. p. 442. dal mezzo al fine della
pagina. E così pure, parte per lo studio immediato de' greci
esemplari, (del che vedi ivi p. 443. dal principio al mezzo) parte per lo studio
de' latini, e la derivazione della lingua italiana dalla latina, parte e
massimamente per una naturale conformità, che forse per accidente, ha la
struttura e costruzione della lingua nostra colla greca (come dice espressamente
la Staël nella B. Italiana
957 Vol. 1. p. 15. la costruzione gramaticale di quella lingua è
capace di una perfetta imitazione de' concetti
greci,
*
a differenza della tedesca della quale ha detto il
contrario), per tutte queste ragioni si trova una evidentissima e somma affinità
fra l'andamento greco e l'italiano, massime nel più puro italiano, e più nativo
e vero, cioè in quello del trecento. Da tutto ciò segue che la lingua greca,
come madre della nostra rispetto ai modi, sia e per ragione e per fatto
adattatissima ad arricchire e rifiorire la lingua italiana d'infinite e
variatissime forme e frasi e costrutti {(Cesari)} e idiotismi ec. Non così quanto
alle parole, che non possiamo derivare dalla lingua greca che non è madre della
nostra rispetto ad esse; fuorchè in ordine a quelle che gli scrittori o l'uso
latino ne derivarono, e divenute precisamente latine, passarono all'idioma
nostro come latine e con sapore latino, non come greche. Le quali però ancora,
sebbene incontrastabili all'uso dell'italiano, tuttavia soggiacciono in parte,
malgrado la lunga assuefazione che ci abbiamo, ai difetti notati da me p. 951-952. Che p. e. chi dice filosofia eccita un'idea meno sensibile di chi dice sapienza, non vedendosi in quella
parola e non sentendosi come in questa seconda, l'etimologia, cioè la
derivazione della parola dalla cosa, il qual sentimento è quello che produce la
vivezza ed efficacia,
958 e limpida evidenza dell'idea,
quando si ascolta una parola. (19. Aprile 1821.).
[962,1]
Sono
perciò rare tra' francesi le buone traduzioni poetiche; eccetto
le Georgiche volgarizzate dall'abate De-Lille. I nostri traduttori
imitan bene; tramutano in francese ciò che altronde pigliano, cosicchè
nol sapresti discernere, ma non trovo opera di poesia che faccia
riconoscere la sua origine, e serbi le sue sembianze forestiere: credo
anzi che tale opera non possa mai farsi. E se degnamente ammiriamo
la georgica dell'abate De-Lille, n'è cagione quella maggior
somiglianza che la nostra lingua tiene colla romana onde nacque, di cui
mantiene la maestà e la pompa. Ma le moderne lingue sono tanto disformi
dalla francese, che se questa volesse conformarsi a quelle, ne
perderebbe ogni decoro.
*
Staël, B. Ital. Vol. 1. p.
12. Esaminiamo.
[975,3] La scrittura dev'essere scrittura e non algebra;
976 deve rappresentar le parole coi segni convenuti, e
l'esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, {ovvero i
pensieri e gli affetti dell'animo,} è ufficio delle parole così
rappresentate. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti,
{di punti ammirativi doppi e tripli,} che so io?
Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le
idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le
cose colle parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i
cinesi la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee. {+Che altro è questo se non ritornare l'arte
{dello scrivere} all'infanzia?} Imparate
imparate l'arte dello stile, quell'arte che possedevano così bene i nostri
antichi, quell'arte che oggi è nella massima parte perduta, quell'arte che è
necessario possedere in tutta la sua profondità, in tutta la sua varietà, in
tutta la sua perfezione, chi vuole scrivere. E così obbligherete il lettore alla
sospensione, all'attenzione, alla meditazione, alla posatezza nel leggere, agli
affetti che occorreranno, ve l'obbligherete, dico, con le parole, e non coi
segnetti, nè collo spendere due pagine in quella scrittura che si potrebbe
contenere in una sola pagina, togliendo le lineette, e le divisioni ec. Che
maraviglia risulta da questa sorta d'imitazioni? Non consiste nella maraviglia
uno de' principalissimi pregi dell'imitazione, una
977
delle somme cause del diletto ch'ella produce? Or dunque non è meglio che lo
scrittore volendo scrivere in questa maniera, si metta a fare il pittore? Non ha
sbagliato mestiere? non produrreb' egli molto meglio quegli effetti che vuol
produrre scrivendo così? Non c'è maraviglia, dove non c'è difficoltà. E che
difficoltà nell'imitare in questo modo? Che difficoltà nell'esprimere il
calpestio dei cavalli col trap trap trap, e il suono
de' campanelli col tin tin tin, come fanno i
romantici? (Bürger nell'Eleonora, B. Ital. tomo 8. p. 365.) Questa è
l'imitazione delle balie, e de' saltimbanchi, ed è tutt'una con quella che si fa
nella detta maniera di scrivere, e coi detti segni, sconosciutissimi, e con
ragione a tutti gli antichi e sommi. (22. Aprile. Giorno di Pasqua
1821.).
[977,1] Quanto più qualsivoglia imitazione trapassa i limiti
dello strumento che l'è destinato, e che la caratterizza e qualifica, tanto più esce della sua natura e proprietà,
e tanto più si scema la maraviglia, come se nella scultura che imita col marmo
s'introducessero gli occhi di vetro, o le parrucche invece delle chiome
scolpite. E così appunto si deve dire in ordine alla scrittura, la quale imita
colle parole, e non deve uscire del suo strumento. Massime se questi nuovi
strumenti son troppo facili e ovvi,
978 cosa contraria
alla dignità e alla maraviglia dell'imitazione, e che confonde la imitazione del
poeta o dell'artefice colla misera imitazione delle balie, de' mimi, de'
ciarlatani, delle scimie, e con quella imitazione che si fa tutto giorno o con
parole, o con gesti, o con lavori {triviali} di mano,
senza che alcuno si avvisi di maravigliarsene, o di crederla opera del genio, e
divina. (23. Aprile. 1821.).
[985,1] La soverchia ristrettezza e superstizione e tirannia
in ordine alla purità della lingua, ne produce dirittamente la barbarie e
licenza, come la eccessiva servitù produce la soverchia e smoderata libertà dei
popoli. I quali ora perciò non divengono liberi, perchè non
986 sono eccessivamente servi, e perchè la tirannia è perfetta, e
peggiore che mai fosse, essendo più moderata che fosse mai. (25. Aprile
1821.).
[986,2] Dal confronto delle poesie di Ossian, vere naturali e indigene
dell'inghilterra, colle poesie orientali, si può
dedurre {(ironico)} quanto sia naturale
all'inghilterra la sua presente poesia {(come quella di Lord
Byron)}
derivata in gran parte
dall'oriente,
*
come dice il riputatissimo giornale
dell'Edinburgh Review in proposito del Lalla Roca di Tommaso Moore
(Londra 1817.) intitolato Romanzo orientale
{(Spettatore di Milano. 1.
Giugno 1818. Parte Straniera. Quaderno 101. p. 233. e puoi
vederlo.)}
[1001,2] Quello che ho detto pp. 970-73 della difficoltà naturale che
hanno e debbono avere i francesi a conoscere e molto più a gustare le altrui
lingue, cresce se si applica alle lingue antiche, e fra le moderne Europee e
colte, alla lingua nostra. Giacchè la lingua
1002
francese è per eccellenza, lingua moderna; vale a dire che occupa l'ultimo degli
estremi fra le lingue {nella cui indole ec.}
signoreggia l'immaginazione, e quelle dove la ragione. (Intendo la lingua
francese qual è ne' suoi classici, qual è oggi, qual è stata sempre da che ha
preso una forma stabile, e quale fu ridotta dall'Accademia). Si giudichi dunque
quanto ella sia propria a servire d'istrumento per conoscere e gustare le lingue
antiche, e molto più a tradurle: e si veda quanto male Mad. di Staël (v. p. 962.) la creda più atta ad esprimere la lingua romana che le
altre, perciocch'è nata da lei. Anzi tutto all'opposto, se c'è lingua
difficilissima a gustare ai francesi, e impossibile a rendere in francese, è la
latina, la quale occupa forse l'altra estremità o grado nella detta scala delle
lingue, ristringendoci alle lingue Europee. Giacchè la lingua latina è quella
fra le dette lingue (almeno fra le {ben} note, {e colte,} per non parlare adesso della Celtica poco nota
ec.) dove meno signoreggia la ragione. Generalmente poi le lingue antiche sono
tutte suddite della immaginazione, e però estremamente separate dalla lingua
francese. Ed è ben naturale che le lingue antiche fossero signoreggiate
dall'immaginazione più che qualunque moderna, e quindi siano senza contrasto, le
meno adattabili alla lingua francese, all'indole sua; ed alla conoscenza e molto
più al gusto de' francesi.
1003 Nella scala poi e
proporzione delle lingue moderne, la lingua italiana, {(alla
quale tien subito dietro la Spagnuola)} occupa senza contrasto
l'estremità della immaginazione, ed è la più simile alle antiche, ed al carattere antico. Parlo delle
lingue moderne colte, se non altro delle Europee: giacchè non voglio entrare
nelle Orientali, e nelle incolte regna sempre l'immaginazione più che in
qualunque colta, e la ragione vi ha meno parte che in qualunque lingua formata.
Proporzionatamente dunque dovremo dire della lingua francese rispetto
all'italiana, quello stesso che diciamo rispetto alle antiche. E il fatto lo
conferma, giacchè nessuna lingua {moderna colta,} è
tanto o ignorata, o malissimo e assurdamente gustata dai francesi, quanto
l'italiana: di nessuna essi conoscono meno lo spirito e il genio, che
dell'italiana; di nessuna discorrono con tanti spropositi non solo di teorica,
ma anche di fatto e di pratica; non ostante che la lingua italiana sia sorella
della loro, e similissima ad essa nella più gran parte delle sue radici, e nel
materiale delle lettere componenti il radicale delle parole (siano radici, o
derivati, o composti); e non ostante che p. e. la lingua inglese e la tedesca,
nelle quali essi riescono molto meglio, (anche nel tradurre ec. mentre una
traduzione francese dall'italiano dal latino o dal greco non è riconoscibile)
appartengano a tutt'altra famiglia di lingue. (1 Maggio 1821).
{{V. p. 1007. capoverso 1.}}
[1024,2] Da Demostene in poi la grecia non ebbe altro
scrittore che in ordine alla lingua e allo stile, somigliasse, anzi uguagliasse
gli ottimi antichi, se non Arriano (e
questo senza la menoma affettazione, o sembianza d'imitazione, o di lingua o
stile antiquato, come i nostri moderni imitatori del trecento o del
cinquecento). Nè Polibio, nè Dionigi Alicarnasseo
{(sebben questi più degli altri, e gli può venir
dopo),} nè Plutarco, nè lo
stesso Luciano
{atticissimo ed} elegantissimo (di eleganza però ben
diversa dalla nativa eleganza degli antichi, e della perfetta {e propria} lingua e stile greco) non possono essergli
paragonati per questo capo. (9. Maggio 1821.).
[1028,4] La Bibbia ed Omero sono i due gran fonti dello scrivere, dice l'Alfieri nella sua Vita.
{Così Dante nell'italiano,
ec.} Non per altro se non perch'essendo i più antichi libri,
sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita,
della varietà. Introdotta la ragione nel mondo tutto a poco a poco, e in
proporzione de' suoi progressi, divien brutto, piccolo, morto, monotono.
(11. Maggio 1821.).
[1037,2] Una lingua non si forma nè stabilisce mai, se non
applicandola alla letteratura. Questo è chiaro dall'esempio di tutte. Nessuna
lingua non applicata alla letteratura è stata mai formata nè stabilita,
1038 e molto meno perfetta. Come dunque la perfezione
dell'italiana starà nel 300? Altro è scrivere una lingua (come si scriveva
l'antica teutonica, non mai {ben} formata nè perfetta)
altro è applicarla alla letteratura. Alla quale l'italiano non fu applicato che
nel 500. Nel 300. {veramente e propriamente} da tre
soli (lasciando le barbare traduzioni di quel secolo), il che ognun vede se si
possa chiamare, perfetta applicazione alla letteratura. Se lo scrivere una
lingua fosse lo stesso che l'applicarla alla letteratura, l'epoca della
perfezione della latina si dovrebbe porre non nel secolo di Cic. ec. ma nel tempo dei primi scrittorelli latini;
ovvero con molto più ragione in quello d'Ennio ec. e degli scrittori anteriori a Lucrezio, {a Catullo, a Cicerone (contemporanei)} giacchè allora il latino fu
applicato {generalmente} a lavori molto più letterarii,
che nella universalità del 300. E così dico pure delle altre lingue o morte, o
viventi. (12. Maggio 1821.). {{V. p.
1056.}}
[1056,1]
1056
Alla p. 1038.
La lingua latina prima del detto tempo, ebbe anzi alcuni scrittori veramente
insigni, e come {scrittori di letteratura,} e come
scrittori di lingua; alcuni eziandio che nel loro genere furono così perfetti
che la letteratura romana non ebbe poi nessun altro da vincerli. Lasciando gli
Oratori nominati da Cic. e
principalmente i Gracchi (o C. Gracco), lasciando tanti altri {scrittori} perduti, come alcuni comici elegantissimi,
basterà nominar Plauto e Terenzio
{che ancora ammiriamo,} l'uno non mai superato in
seguito da nessun latino nella forza comica, l'altro parimente non mai
agguagliato nella più pura e perfetta e nativa eleganza. E certo (se non erro)
la Comedia latina dopo Cic.
{e al suo stesso tempo,} andò piuttosto indietro, di
quello che oltrepassasse il grado di perfezione a cui era stata portata da' suoi
antenati. E pure chi mette la perfezione della lingua latina, o la sua
formazione ec. piuttosto nel secolo di Terenzio, che in quello di Cic. e di Virgilio? E Lucrezio un secolo dopo Terenzio, si lagnava, com'è noto, della
povertà della lingua latina.
[1067,2] Le cause per cui la lingua greca formata fu liberissima d'indole e di
fatto, a differenza della latina, sono
[1093,1] La letteratura di una nazione, la quale ne forma la
lingua, e le dà la sua impronta, e le comunica il suo genio, corrompendosi,
corrompe conseguentemente anche la lingua, che le va sempre a fianco e a
seconda. E la corruzione della letteratura non è mai scompagnata dalla
corruzione della lingua, influendo vicendevolmente anche questa sulla corruzione
di quella, come senza fallo, anche lo spirito della lingua contribuisce a
determinare e formare lo spirito della letteratura. Così è accaduto alla lingua
latina, così all'italiana nel 400, nel 600, e negli ultimi tempi, così pure nel
600, e negli ultimi tempi alla spagnuola: tutte corrotte al corrompersi della
rispettiva letteratura. Eppure la lingua greca, con esempio forse unico,
corrotta, anzi, dirò, imputridita la letteratura, si mantenne incorrotta
1094 più secoli, e molto altro spazio poco alterata,
come si può vedere in Libanio, in Imerio, in S. Gregorio Nazianzeno, e altri tali sofisti più antichi o più moderni di
questi, che sono corrottissimi nel gusto, e non corrotti {o
leggermente corrotti} nella lingua. Tanta era per una parte la
libertà, la pieghevolezza, e dirò così la capacità della lingua greca formata, che poteva anche essere applicata a pessimi
stili, senza allontanarsi dall'indole della sua formazione, e senza perdere le
sue forme proprie, e il suo naturale; ed essere adoperata da una letteratura
guasta senza guastarsi essa stessa, adattandosi tanto al buono come al cattivo,
e ricevendo nella immensa capacità delle sue forme, e nella sua {varietà,} copia e ricchezza, sì l'uno come l'altro.
Simile in ciò all'italiana, dove si può scrivere purissimamente cose di pessimo
gusto, ed usare un pessimo stile, in ottima o non corrotta lingua, come ho detto
altrove pp. 243-45
p.
321
pp.
686. sgg.
pp.
766-67. Dal che nasce la difficoltà di scriver bene in italiano, a
differenza del francese, che avendo una sola
lingua, ha anche un solo
stile, e chiunque scrive in francese, non può non iscrivere in istile appresso a poco, buono. E
però non dobbiamo farci maraviglia di quello che dicono, che tutti i francesi
più o meno scrivono bene.
[1157,1] Il concorso delle vocali suol essere accetto
generalmente alle lingue (se non altro de' popoli meridionali {d'occidente}) tanto più, quanto
elle sono più vicine ai loro principii, ovvero ancora quanto sono più antiche, e
quanto più la loro formazione si dovè a tempi vicini alla naturalezza de'
costumi e de' gusti. Per lo più vanno perdendo questa inclinazione col tempo, e
col ripulimento, e si considera come duro e sgradevole il concorso delle vocali
che da principio s'aveva per fonte di dolcezza e di leggiadria. La lingua latina
che noi conosciamo, cioè la lingua polita e formata {e
scritta} non ama il concorso delle vocali, perch'ella fu polita e
formata {e scritta} in tempi appunto politi e civili, e
i più lontani forse dell'antichità dalla prima naturalezza; nell'ultima epoca
dell'antichità; presso una nazione già molto civile ec. Per lo contrario la
lingua greca stabilita e formata, e ridotta a perfette scritture in tempi
antichissimi, gradì nelle scritture il concorso delle vocali, lo considerò come
dolcezza e dilicatezza; e perciò la lingua greca che noi conosciamo e possiamo
conoscere, cioè la scritta,
1158 ama il concorso delle
vocali, specialmente quella lingua che appartiene agli scrittori più antichi, e
nel tempo stesso più grandi, più classici, più puri, e più veramente greci.
[1174,2] Ho detto più volte p. 1030
pp.
1039-40 che la letteratura francese è precisamente letteratura
moderna, ed è quanto dire che non è letteratura. Perchè considerando bene
vedremo che i tempi moderni hanno filosofia, dottrina, scienze d'ogni sorta, ma
non hanno propriamente letteratura, e se l'hanno, non è moderna, ma di carattere
antico, ed è quasi un innesto dell'antico sul moderno. L'immaginazione ch'è la
base della letteratura strettamente considerata,
1175
sì poetica come prosaica, non è propria, anzi impropria de' tempi moderni, e se
anche oggi si trova in qualche individuo, non è moderna, perchè non solamente
non deriva dalla natura de' tempi, ma questa l'è sommamente contraria, anzi
nemica e micidiale. E vedete infatti che la letteratura francese, {nata e formata} in tempi moderni, è la meno immaginosa
non solo delle antiche, ma anche di tutte le moderne letterature. E per questo
appunto è letteratura pienamente moderna, cioè falsissima, perchè il predominio
{odierno} della ragione quanto giova alle scienze,
e a tutte le cognizioni del vero e dell'utile (così detto), tanto nuoce alla
letteratura e a tutte le arti del bello e del grande, il cui fondamento, la cui
sorgente e nutrice è la sola natura, bisognosa bensì di un mezzano aiuto della
ragione, ma sommamente schiva del suo predominio che l'uccide, come pur troppo
vediamo nei nostri costumi, e in tutta la nostra vita d'oggidì. (16.
Giugno 1821.).
[1213,1] Da qualche tempo tutte le lingue colte di
europa hanno un buon numero di voci comuni, massime
in politica e in filosofia, ed intendo anche quella filosofia che entra
tuttogiorno nella conversazone, fino nella conversazione o nel discorso meno
colto, meno studiato, meno artifiziato. Non parlo poi delle voci pertinenti alle
scienze, dove quasi tutta l'europa conviene. Ma una
grandissima parte di quelle parole che esprimono cose più sottili, e dirò così,
più spirituali di quelle che potevano arrivare ad esprimere le lingue antiche e
le nostre medesime ne' passati secoli; ovvero esprimono le stesse cose espresse
in dette lingue, ma più sottilmente e finamente, secondo il progresso e la
raffinatezza delle cognizioni e della metafisica e della scienza dell'uomo in
questi ultimi tempi; {+e in somma tutte o
quasi tutte quelle parole ch'esprimono precisamente un'idea al
tempo stesso sottile, e chiara o almeno perfetta ed intera;}
grandissima parte, dico, di queste voci, sono le stesse in tutte le lingue colte
d'europa, eccetto piccole modificazioni particolari,
per lo più nella desinenza. Così che vengono a formare una specie di piccola
lingua, o un vocabolario, strettamente universale. E dico strettamente
universale, cioè non come è universale la lingua francese, ch'è lingua
secondaria
1214 di tutto il mondo civile. Ma questo
vocabolario ch'io dico, è parte della lingua primaria e propria di tutte le
nazioni, e serve all'uso quotidiano di tutte le lingue, e degli scrittori e
parlatori di tutta l'europa colta. Ora la massima parte
di questo vocabolario {universale} manca affatto alla
lingua italiana accettata e riconosciuta per classica e pura; e quello ch'è puro
in tutta l'europa, è impuro in
italia. Questo è voler veramente e consigliatamente
{metter} l'italia fuori di
questo mondo e fuori di questo secolo. Tutto il mondo civile facendo oggi quasi
una sola nazione, è naturale che le voci più importanti, ed esprimenti le cose
che appartengono all'intima natura universale, sieno comuni, ed uniformi da per
tutto, come è comune ed uniforme una lingua che tutta
l'europa adopera oggi più universalmente e
frequentemente che mai in altro tempo, appunto per la detta ragione, cioè la
lingua francese. E siccome le scienze sono state sempre uguali dappertutto (a
differenza della letteratura), perciò la repubblica scientifica diffusa per
tutta l'europa ha sempre avuto una nomenclatura
universale ed uniforme nelle lingue le più difformi, ed intesa da per tutto
egualmente. Così sono oggi uguali (per necessità e per natura del tempo) le
cognizioni metafisiche, filosofiche, politiche ec. la cui massa e il cui sistema
semplicizzato e uniformato, è comune oggi
1215 più o
meno a tutto il mondo civile; naturale conseguenza dell'andamento del secolo.
Quindi è ben congruente, e conforme alla natura delle cose, che almeno la
massima parte del vocabolario che serve a trattarle ed esprimerle, sia uniforme
generalmente, tendendo oggi tutto il mondo a uniformarsi. E le lingue sono
sempre il termometro de' costumi, delle opinioni ec. delle nazioni e de' tempi,
e seguono per natura l'andamento di questi.
[1237,1]
1237 Nè solamente col progresso dello spirito umano si
sono distinte e denominate le diverse parti componenti un'idea che gli antichi
linguaggi denominavano con una voce complessiva di tutte esse parti, o idee
contenute; ma anche si sono distinte e denominate con diverse voci non poche
idee che per essere in qualche modo somiglianti, o analoghe ad altre idee, non
si sapevano per l'addietro distinguer da queste, e si denotavano con una stessa
voce, benchè fossero essenzialmente diverse e d'altra specie o genere. V. p. e.
quello che ho detto p. 1199-200.
circa il bello, e quello ch'essendo piacevole alla vista, non è però bello, nè
appartiene alla sfera della bellezza, benchè ne' linguaggi comuni, si chiami
bello, e l'intelletto volgare non lo distingua dal vero bello.
[1243,2] Altre cagioni di fatto della ricchezza e varietà
della lingua italiana, oltre la copia degli scrittori, come ho detto altrove
pp. 343-45
p. 686
p. 776-77 sono:
[1302,1] Un ritratto, ancorchè somigliantissimo, (anzi
specialmente in tal caso) non solo ci suol fare più effetto della persona
rappresentata (il che viene dalla sorpresa che deriva dall'imitazione, e dal
piacere che viene dalla sorpresa), ma, per così dire, quella stessa persona ci
fa più effetto dipinta che
1303 reale, e la troviamo
più bella se è bella, o al contrario. {ec.} Non per
altro se non perchè vedendo quella persona, la vediamo in maniera ordinaria, e
vedendo il ritratto, vediamo la persona in maniera straordinaria, il che
incredibilmente accresce l'acutezza de' nostri organi nell'osservare e nel
riflettere, e l'attenzione e la forza della nostra mente e facoltà, {e dà generalmente sommo risalto alle nostre sensazioni.
ec.}
{+(Osservate in tal propos. ciò che dice
uno stenografo francese, del maggior gusto ch'egli provava leggendo i
classici da lui scritti in istenografia.)} Così osserva il Gravina intorno al diletto partorito dall'imitazione
poetica. (9. Luglio 1821.).
[1303,1] Diletto ordinarissimo ci produce un ritratto
ancorchè somigliantissimo, se non conosciamo la persona; straordinario se la
conosciamo. Applicate questa osservazione alla scelta degli oggetti d'imitazione
pel poeta e l'artefice, condannando i romantici {e il più de'
poeti stranieri} che scelgono {di preferenza}
oggetti forestieri ed ignoti per esercitare la forza della loro imitazione.
(9. Luglio 1821.).
[1316,1] La nostra lingua ha, si può dire, esempi di tutti
gli stili, e del modo nel quale può essere applicata a tutti i generi di
scrittura: fuorchè al genere filosofico moderno e preciso. Perchè vogliamo noi
ch'ella manchi e debba mancare di questo, contro la sua natura, ch'è di essere
adattata anche a questo, perchè è adatta a tutti gli stili? Ma nel vero,
quantunque l'esito sia certo, non s'è fatta mai la prova di applicare la buona
lingua italiana al detto genere, eccetto ad alcuni generi scientifici
1317 negli scritti del Galilei del Redi, e pochi
altri; ed alla politica, negli scritti del Machiavelli, e di qualche altro antico, riusciti perfettamente quanto
alla lingua, ed in ordine alla materia, quanto comportavano i tempi e le
cognizioni d'allora. Ma a {quel} genere filosofico che
possiamo generalmente chiamare metafisico, e che abbraccia la morale,
l'ideologia, la psicologia (scienza de' sentimenti, {delle
passioni} e del cuore umano) {+la logica, la politica più sottile,} ec. non è stata mai applicata la
buona lingua italiana. Ora questo genere è la parte principalissima e quasi il
tutto degli studi e della vita d'oggidì. (13. Luglio 1821.).
[1356,2] È cosa già nota che la letteratura e poesia vanno a
ritroso delle scienze. Quelle ridotte ad arte isteriliscono, queste prosperano;
quelle giunte a un certo segno, decadono, queste più s'avanzano, più crescono;
quelle sono sempre più grandi più belle più maravigliose presso gli antichi,
queste presso i moderni; quelle più s'allontanano dai loro principii, più
deteriorano, finchè si corrompono, queste più son vicine ai loro principii più
sono imperfette, deboli, povere, e spesso stolte. La cagione è che il principal
fondamento di quelle è la natura, la quale non si perfeziona (fuorchè ad un
certo punto) ma si corrompe; di queste la ragione la quale ha bisogno del tempo
per crescere, ed avanza in proporzione de' secoli, e dell'esperienza. La qual
esperienza è maestra della ragione, nutrice, {educatrice} della ragione, e omicida della natura. Così dunque accade
rispetto alle lingue.
1357 Quelle qualità loro che
giovano per l'una parte alla ragione, e per l'altra da lei dipendono, si
accrescono e perfezionano col tempo; quelle che dipendono dalla natura,
decadono, si corrompono, e si perdono. Quindi le lingue guadagnano in
precisione, allontanandosi dal primitivo, guadagnano in chiarezza, ordine,
regola ec. Ma in efficacia, varietà ec. e in tutto ciò ch'è bellezza, perdono
sempre quanto più s'allontanano, da quello stato che costituisce la loro
primitiva forma. La combinazione della ragione colla natura accade quando elle
sono applicate alla letteratura. Allora l'arte corregge la rozzezza della
natura, e la natura la secchezza dell'arte. Allora le lingue sono in uno stato
di perfezione relativa. Ma qui non si fermano. La ragione avanza, e avanzando la
ragione, la natura retrocede. L'arte non è più contrabbilanciata. La precisione
predomina, la bellezza soccombe. Ecco la lingua che avendo perduto il suo
primitivo stato di natura, e l'altro più perfetto di natura regolata, o vogliamo
dire formata, cade
1358 nello stato geometrico, nello
stato di secchezza, e di bruttezza. (La lingua francese nella sua formazione, si
accostò fin d'allora, per le circostanze del tempo, a quest'ultimo stato, perchè
prevalse in essa la ragione, e l'equilibrio fra l'arte e la natura, nella lingua
francese non vi fu mai, o non mai perfetto.) I filosofi chiamano questo stato,
stato di perfezione, i letterati, stato di corruzione.
[1365,1] La grazia bene spesso non è altro che
1366 un genere di bellezza diverso dagli ordinari, e
che però non ci par bello, ma grazioso, o bello insieme e grazioso (che la
grazia è sempre nel bello). A'[A] quelli a'
quali quel genere non riesca straordinario, parrà bello ma non grazioso, e
quindi farà meno effetto. Tale è p. e. quella grazia che deriva dal semplice,
dal naturale ec. che a noi in tanto par grazioso, in quanto, atteso i nostri
costumi e assuefazioni ec., ci riesce straordinario, come osserva appunto Montesquieu. Diversa è l'impressione che a noi produce la
semplicità degli scrittori greci, v. g. Omero, da quella che produceva ne' contemporanei. A noi par graziosa,
{+(V. Foscolo nell'articolo
sull'Odiss. del Pindemonte; dove parla della sua propria traduzione del
1. Iliade)} perchè divisa da' nostri costumi, e
naturale. Ai greci contemporanei, appunto perchè naturale, pareva bella, cioè
conveniente, perchè conforme alle loro assuefazioni, ma non graziosa, o certo
meno che a noi. Quante cose in questo genere paiono ai francesi graziose, che a
noi paiono soltanto belle, o non ci fanno caso in verun conto! A molte cose può
estendersi questo pensiero. (21. Luglio 1821.)
[1366,1] Non basta che Dante, Petr.
Bocc. siano stati tre sommi scrittori.
Nè la letteratura nè la lingua è perfetta e perfettamente formata in essi, nè
quando pur
1367 fosse ciò basterebbe a porre nel 300 il
secol d'oro della lingua. Qual poeta, anzi quale scrittore, anzi quale ingegno
maggiore di Omero ebbe {mai, non dirò} la Grecia,
ancorchè sì feconda per sì gran tempo, {ma il mondo?} E
tuttavia nessuno può riporre la perfetta formazione e il secol d'oro della
lingua greca, nel tempo, e neppur nella lingua d'Omero: {+(v. se vuoi, la lettera al Monti
sulla Grecità del Frullone, in fine.
Proposta ec. vol. 2. par. 1. appendice.)}
quantunque la lingua greca sia molto più formata in Omero, che non è l'italiana massime in Dante; perchè Dante fu quasi il primo scrittore italiano, Omero non fu nè il primo scrittore nè il
primo poeta greco. E la lingua greca architettata (siccome lingua veramente
antica) sopra un piano assai più naturale ec. del nostro, era capace di arrivare
alla perfezione sua propria in molto meno tempo dell'italiana, ch'è pur lingua
moderna, e spetta (necessariamente) al genere moderno. (22. Luglio
1821.). {{V. p. 1384. fine.}}
[1372,1] È verissimo che la chiarezza dell'espressione
principalmente deriva dalla chiarezza con cui lo scrittore o il parlatore
concepisce ed ha in mente quella tale idea. Quel metafisico il quale non veda
ben chiaro in quel tal punto, quello storico il quale non conosca bene quel
fatto ec. ec. riusciranno oscurissimi al lettore, come a se stessi. Ma ciò
specialmente accade quando lo scrittore non vuole nè confessare, nè dare a
vedere {che} quella cosa non l'intende chiaramente,
perchè anche le cose che noi vediamo oscuramente possiamo, fare che il lettore
la[le] veda nello stesso modo, e ci
esprimeremo sempre con chiarezza, se faremo vedere al lettore qualunque idea tal
quale noi la concepiamo, e tal quale sta e giace nella nostra mente. Perchè
l'effetto della chiarezza non è propriamente far concepire al lettore un'idea
chiara di una cosa in se stessa, ma un'idea chiara dello stato preciso della
nostra mente, o ch'ella veda chiaro, o veda scuro; giacchè
1373 questo è fuor del caso, e indifferente alla chiarezza della
scrittura o dell'espressione propriamente considerata, e in se stessa.
[1383,1]
1383 Malgrado quanto ho detto pp. 1228-29
p. 1231
p. 1313
pp. 1359-61
dell'insociabilità dell'odierna filosofia colla poesia, gli spiriti veramente
straordinari e sommi i quali si ridono dei precetti, e delle osservazioni, e
quasi dell'impossibile[impossibili], e non
consultano che loro stessi, potranno vincere qualunque ostacolo, ed essere sommi
filosofi moderni poetando perfettamente. Ma questa cosa, come vicina
all'impossibile, non sarà che rarissima e singolare. (24. Luglio
1821.).
[1393,1]
1393 A volere che il ridicolo primieramente giovi,
secondariamente piaccia vivamente, e durevolmente, cioè la sua continuazione non
annoi, deve cadere sopra qualcosa di serio, e d'importante. Se il ridicolo cade
sopra bagattelle, e sopra, dirò quasi, lo stesso ridicolo, oltre che nulla
giova, poco diletta, e presto annoia. Quanto più la materia del ridicolo è
seria, quanto più importa, tanto il ridicolo è più dilettevole, anche per il
contrasto ec. Ne' miei dialoghi io cercherò di portar la commedia a quello che
finora è stato proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i principii
fondamentali delle calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica,
le sconvenienze appartenenti alla morale universale, e alla filosofia,
l'andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della
società, della civiltà presente, le disgrazie e le rivoluzioni e le condizioni
del mondo, i vizi e le infamie non degli uomini ma dell'uomo, lo stato delle
nazioni ec. E credo che le armi del ridicolo, massime in questo {ridicolissimo e} freddissimo tempo, e anche per la loro
natural forza, potranno giovare più di quelle della passione, dell'affetto,
dell'immaginazione dell'eloquenza; e anche più di quelle del ragionamento,
1394 benchè oggi assai forti. Così a scuotere la mia
povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi dell'affetto e
dell'entusiasmo e dell'eloquenza e dell'immaginazione nella lirica, e in quelle
prose letterarie ch'io potrò scrivere; le armi della ragione, della logica,
della filosofia, ne' Trattati filosofici ch'io dispongo; e le armi del ridicolo
ne' dialoghi e novelle Lucianee ch'io
vo preparando.
Iliaci cineres, et flamma extrema meorum,
Testor, in occasu vestro, nec tela, nec ullas
Vitavisse vices Danaum; et, si fata fuissent,
Ut caderem, meruisse manu * (Virg. Aen. 2. 431. seqq.). (27. Luglio. 1821.).
Iliaci cineres, et flamma extrema meorum,
Testor, in occasu vestro, nec tela, nec ullas
Vitavisse vices Danaum; et, si fata fuissent,
Ut caderem, meruisse manu * (Virg. Aen. 2. 431. seqq.). (27. Luglio. 1821.).
[1448,1] È vero che la poesia propria de' nostri tempi è la
sentimentale. Pure un uomo di genio, giunto a una certa età, quando ha il cuor
disseccato dall'esperienza e dal sapere, può più facilmente scriver belle poesie
d'immaginazione che di sentimento, perchè quella si può in qualche modo
comandare, questo no, o molto meno. E se il poeta scrivendo non
1449 è riscaldato dall'immaginazione, può felicemente
fingerlo, aiutandosi della rimembranza di quando lo era, e richiamando,
raccogliendo, e dipingendo le sue fantasie passate. Non così facilmente quanto
alla passione. E generalmente io credo che il poeta vecchio sia meglio adattato
alla poesia d'immaginazione, che a quella di sentimento proprio, cioè ben diverso dalla filosofia, dal pensiero
ec. E di ciò si potrebbero forse recare molti esempi di fatto, antichi e
moderni, contro quello che pare a prima vista, perchè l'immaginazione è propria
de' fanciulli, e il sentimento degli adulti. (3. Agosto. 1821.).
{{V. p. 1548.}}
[1449,1] Non solo i contemporanei p. e. di Omero, sentivano e gustavano la di lui semplicità ben
meno di noi, come ho detto altrove p. 1420, ma lo stesso Omero non si accorgeva di esser semplice,
non credè non cercò di esser pregevole per questo, non sentì non conobbe
pienamente il pregio e il gusto della semplicità (nè in genere, nè della sua
propria): come si può vedere in quei soverchi epiteti ec. ed altri ornamenti
ch'egli profonde fuor di luogo, come fanno i fanciulli
1450 quando cominciano a comporre, e si studiano e stiman pregio
dell'opera tutto il contrario della semplicità, cioè l'esser manierati, ornati
ec. Segni di un'arte bambina, la quale infanzia dell'arte produceva
insaputamente la semplicità, e volutamente questi piccoli difetti in ordine alla
stessa semplicità; difetti che un'arte più matura ha saputo facilmente evitare
cercando la semplicità, la quale però non ha mai più potuto conseguire. Così
dico dell'Ariosto ec. de' cui difetti
ho parlato ne' miei primi pensieri pp. 4-5 , ed altrove p. 700. Così dei
trecentisti manieratissimi, e scioccamente carichi di ornamenti in molte cose,
benchè, per indole naturale,
semplicissimi ec. (4. Agos. 1821.).
[1470,1] Una delle principali e universali e caratteristiche
inseparabili proprietà dello stile degli
1471 antichi
non corrotti, cioè o classici, o anteriori alla perfezione della letteratura, si
è la forza e l'efficacia. Quest'è la prima, anzi l'unica qualità ch'io {ho} sentito notare da uomini poco avvezzi a letture
classiche, ogni volta che venivano dal leggere qualche libro de' buoni antichi,
o qualche libro moderno su quel gusto di stile. Ed era l'unica perchè forse essi
non erano capaci di discernere a prima vista, nè gustare le altre. Ma questa dà
subito nell'occhio, e si distingue e si separa facilmente dalle altre. Quindi
osservate quanto sia vero che la natura è sorgente di forza, e che questa è sua
qualità caratteristica, come la debolezza lo è della ragione. Perciocchè 1. gli
antichi scrittori, massime quelli anteriori al perfezionamento della
letteratura, i quali sono ordinariamente più energici degli altri, non cercavano
gran fatto l'energia, nè se ne pregiavano, nè volevano esser famosi per questo
ec. come ho detto altrove p. 207
pp. 691-94
p. 1325
p.
1335
p. 1420
pp. 1435-36
pp. 1449-50 della semplicità, dell'eleganza, della purità di lingua
ec. Tali sono i
1472 trecentisti ec. Eppure senza
cercarlo, riuscivano robustissimi e nervosissimi per la sola forza della natura
che in loro parlava e regnava, e quindi per la loro propria forza. 2. Quando
anche la cercassero, già la cercavano assai meno di noi che tanto meno la
troviamo, poi se la cercavano in proporzione della riuscita, vuol dire che la
cercavano sopra tutto, e che quindi nel tempo che la natura regnava, l'efficacia
e l'energia si stimava la principal dote dello stile. E così accadeva in tutto:
e così la prima e perenne sorgente di forza, sia nello stile, sia nella lingua,
sia ne' concetti, sia nelle azioni, sarà sempre l'esempio degli antichi, cioè la
natura. E i tempi moderni con tutti i loro lumi non possono mai supplire a
questa fonte. (8. Agos. 1821.).
[1525,1] Degli stessi tre soli scrittori letterati del
trecento, un solo, cioè Dante, ebbe
intenzione scrivendo, di applicar la lingua italiana alla letteratura. Il che si
fa manifesto sì dal poema sacro, ch'egli considerava, non come trastullo, ma
come impresa di gran momento, e dov'egli trattò le materie più gravi della
filosofia e teologia; sì dall'opera, tutta filosofica, teologica, e insomma
dottrinale e gravissima del Convito, simile agli antichi Dialoghi
scientifici ec. (vedilo); sì finalmente dalle opinioni ch'egli manifesta nel
Volgare
Eloquio. Ond'è che Dante fu propriamente, com'è stato sempre considerato, e per
intenzione e per effetto, il fondatore della lingua italiana.
1526 Ma gli altri due, non iscrissero italiano che per passatempo, e
tanto è lungi che volessero applicarlo alla letteratura, che anzi non
iscrivevano quelle materie in quella lingua, se non perchè le credevano indegne
della lingua letterata, cioè latina, in cui scrivevano tutto ciò con cui
miravano a farsi nome di letterati, e ad accrescer la letteratura. Siccome
giudicavano (ancor dopo Dante, ed
espressamente contro il parere e l'esempio suo, specialmente il Petr.) che la lingua italiana fosse
indegna e incapace delle materie gravi e della letteratura. Sicchè non pur non
vollero applicarvela, ma non credettero di potere, nè che veruno potesse mai
farlo. Opinione che durò fin dopo la metà del Cinquecento circa il poema eroico,
del quale pochi anni dopo la morte dell'Ariosto, e pochi prima che uscisse la Gerusalemme, si
credeva in italia che la lingua italiana non fosse
capace: onde il Caro prese a tradurre
l'Eneide ec. (v. il 3. tomo delle sue lett. se non fallo). Ed è
notissima l'opinione che portava il Petr. del suo canzoniere: ed egli lo scrisse
1527 in italiano, come anche il Boccaccio le sue novelle e romanzi, per divertimento
delle brigate, come ora si scriverebbe in un dialetto vernacolo, e per li
cavalieri e dame, e genti di mondo, che non si credevano capaci di letteratura.
ec. ec. Ed è pur noto come nel 500. si scrivessero poemi sudatissimi in latino,
e storie ec. (19. Agos. 1821.).
[1534,1] Le parole irrevocabile, irremeabile e altre tali, produrranno sempre una
sensazione piacevole (se l'uomo non vi si avvezza troppo), perchè destano
un'idea senza limiti, e non possibile a concepirsi interamente. E però saranno
sempre poeticissime: e di queste tali parole sa far uso, e giovarsi con
grandissimo effetto il vero poeta. (20. Agos. 1821.).
[1573,1] Dice Cicerone (il luogo lo cita, se ben mi ricordo, il Mai, prefazione alla versione d'isocrate, de
Permutatione) che gli uomini di gusto nell'eloquenza non
si appagano mai pienamente nè delle loro opere nè delle altrui, e che la mente
loro semper divinum aliquid atque infinitum
desiderat,
*
a cui le forze dell'eloquenza non
arrivano. Questo detto è notabilissimo riguardo all'arte, alla critica, al
gusto.
[1579,3] Per un esempio e in conferma di quanto ho detto
altrove p. 1420
pp.
1434. sgg.
pp. 1449-50
pp.
1456-57, che l'eleganza, la grazia ec. dello scrivere antico, la
semplicità de' concetti e de' modi, la purità ec. della lingua, sono o in tutto
o in parte piaceri artifiziali, dipendenti dall'assuefazione e dall'opinione,
relativi ec. e fanno maggior effetto in noi, e ci piacciono più che agli stessi
antichi, a quegli stessi scrittori che ci recano oggidì tali piaceri ec. ec. si
può addurre il Petrarca,
1580 e il disprezzo in che egli teneva i suoi scritti
volgari, apprezzando i latini che più non si curano. Egli certo non sentiva in
quella lingua illetterata e spregiata ch'egli maneggiava, in quello stile
ch'egli formava, la bellezza, il pregio e il piacere di quell'eleganza, di
quella grazia, naturalezza, semplicità, nobiltà, forza, purità che noi vi
sentiamo a prima giunta. Egli non si credeva nè puro (in una lingua tutta impura
e barbara come giudicavasi la italiana, corruzione della latina) nè nobile, nè
elegante ec. ec. L'opinione, l'assuefazione ec. o piuttosto la mancanza di esse
glielo impedivano. (28. Agos. 1821.).
[1594,1]
1594 La forza dell'opinione, dell'assuefazione ec. e
come tutto sia relativo, si può anche vedere nelle parole, ne' modi, ne'
concetti, nelle immagini della poesia e della prosa comparativamente. Paragone
il quale si può facilmente istituire, mostrando p. e. come una parola, una
sentenza {non insolita}, che non fa verun
effetto nella prosa {perchè vi siamo assuefatti,} lo
faccia nel verso ec. ec. ec. e puoi vedere la p. 1127. (31. Agos. 1821.).
[1650,1] Quanto l'immaginazione contribuisca alla filosofia
(ch'è pur sua nemica), e quanto sia vero che il gran poeta in diverse
circostanze avria potuto essere un gran filosofo, promotore di quella ragione
ch'è micidiale al genere da lui professato, {e viceversa il
filosofo, gran poeta,} osserviamo. Proprietà del vero poeta è la
facoltà e la vena delle similitudini. (Omero ὁ ποιητής n'è il più grande e fecondo modello). L'animo in
entusiasmo, {nel caldo della passione qualunque ec.
ec.} discopre vivissime somiglianze fra le cose. Un vigore anche
passeggero del corpo, che influisca sullo spirito, gli fa vedere dei rapporti
fra cose disparatissime, trovare dei paragoni, delle similitudini astrusissime e
ingegnosissime (o nel serio o nello scherzoso), gli mostra delle relazioni a cui
egli non aveva mai pensato, gli dà insomma una facilità mirabile di ravvicinare
e rassomigliare gli oggetti delle specie le più distinte, come l'ideale col più
puro materiale, d'incorporare vivissimamente il pensiero il più astratto, di
ridur tutto ad immagine, e crearne delle più nuove e vive che si possa credere.
{+Nè ciò solo mediante espresse
similitudini o paragoni, ma col mezzo di epiteti nuovissimi, di metafore
arditissime, di parole contenenti esse sole una similitudine ec. Tutte
facoltà del gran poeta, e tutte contenute e derivanti dalla facoltà di
scoprire i rapporti delle cose, anche i menomi, e più lontani, anche delle
cose che paiono le meno analoghe ec.} Or questo è tutto il filosofo:
facoltà di scoprire e conoscere i rapporti, di legare insieme i particolari, e
di generalizzare. (7. Sett. 1821.). {V.
1651
p. 1654.
principio.}
[1653,2] Ho detto altrove p. 714
pp. 1176-79 che il troppo
produce il nulla, e citato le eccessive passioni e le estreme sventure, {il pericolo presente e inevitabile che dà una forza e
tranquillità d'animo anche al più vile, una disgrazia sicura e che non può
fuggirsi ec.} che non producono già l'agitazione, ma l'immobilità, la
stupidità, una specie di rassegnazione non ragionata; in maniera che l'aspetto
dell'uomo in tali casi è bene spesso affatto simile a quello dell'indifferente:
ed un bravo pittore non lo farebbe distinguere dall'uomo il più noncurante ec.
{+eccetto per un'aria di meditazione
stupida, ed una fissazione di occhi in qualsivoglia parte.} Aggiungo
1654 ora che ciò non si deve solamente restringere
all'atto, ma anche all'abito d'indifferenza, rassegnazione alla fortuna,
insensibilità ec. che è prodotto dall'estrema infelicità e disperazione abituale
ec. e puoi vedere la p. 1648.
(8. Sett. 1821.).
[1671,1] Le teorie delle quali i romantici han fatto tanto
romore a' nostri giorni, avrebbero dovuto restringersi a provare che non c'è
bello assoluto, nè quindi buon gusto stabile, e norma universale di esso per
tutti i tempi e popoli; ch'esso varia secondo gli uni e gli altri, e che però il
buon gusto, e quindi la poesia, le arti, l'eloquenza ec. de' tempi nostri, non
denno esser quelle stesse degli antichi, nè quelle della
Germania, le stesse che le francesi; che le regole
assolutamente parlando non esistono. Ma essi son andati più avanti, hanno
ricusato o male interpretato
1672 il giudizio e il
modello della stessa natura parziale, sola norma del bello; il fanatismo e la
smania di essere originali (qualità che bisogna bene avere ma non cercare) gli
ha precipitati in mille stravaganze; hanno errato anche bene spesso in
filosofia, ne' principj, e nella speculativa non solo delle arti ec. ma anche
della natura generale delle cose, dalla quale dipendono tutte le teorie di
qualsivoglia genere. - Il primo poema regolare venuto in luce {in europa} dopo il risorgimento,
dice il Sismondi, è la Lusiade (pubblicata un anno
avanti la Gerusalemme). Questo è detto abusivamente: per regolare,
non si può intendere se non simile a' poemi d'Omero e di Virgilio. Regolare
non è assolutamente nessun poema. Tanto è regolare il Furioso, quanto
il Goffredo. L'uno
potrà dirsi esclusivamente epico, l'altro romanzesco. Ma in quanto poemi tutti
due sono {ugualmente} regolari; e lo sono e lo
sarebbero parimente altri poemi di forme affatto diverse, purchè si contenessero
ne' confini della natura. I generi ponno essere infiniti, e ciascun genere,
1673 da che è genere, è regolare, fosse anche composto
di un solo individuo. Un individuo non
può essere irregolare se non rispetto al suo genere o specie. Quando
egli forma genere, non si dà irregolarità per lui. Anche dentro uno stesso
genere (come l'epico) si danno mille specie, ed anche mille differenze di forme
individuali. Qual divario dall'iliade all'odissea,
dall'una e l'altra all'Eneide. Pur tutti questi
si chiamano poemi epici, e potrebbero anche non chiamarsi. Anzi si potrebbe dire
che se l'iliade è poema epico, l'Eneide non lo è, o viceversa. Tutto è quistione di
nomi, e le regole non dipendono se non dal modo in cui la cosa è: non esistono
prima della cosa, ma nascono con lei, o da lei. (11. Sett.
1821.)
[1679,1] L'italiano il francese lo spagnuolo i quali parlano
(massime l'italiano) poco differentemente da quello che parlavano i latini, non
perciò scrivono come i latini scrivevano. Vale a dire che delle due lingue
Romane distinte da Cicerone, la rustica
è sopravvissuta alla colta, l'una vive alterata, l'altra {è} morta del tutto. Tanta è la tenacità del popolo, tanta la
difficoltà di conservare e
1680 perpetuare quello a cui
la moltitudine non partecipa. Questo però per le mutazioni de' tempi per la
barbarie, per la dimenticanza del buono scrivere ec. quello, non solo si
conservò per la tenacissima natura del popolo, malgrado le tante vicende delle
nazioni, influenze e inondazioni di forestieri ec. ma s'introdusse anche, e
resta in luogo del latino scritto. E il ridurre a letteratura la lingua italiana
ec. fu in certo modo un dare una letteratura al rustico latino, essendo perduta
l'altra letteratura del latino colto. E malgrado gli sforzi fatti nel 400. e
500. per ravvivare questa seconda, (e ciò tanto in italia
che altrove) ella s'è perduta, e l'altra s'è propagata, accresciuta, e vive.
(12. Sett. 1821.).
[1683,1] Perciò appunto che la lingua francese non ammette se
non il suo proprio (unico) stile, esso è ammissibile (non però senza guastarlo,
quando si faccia senza giudizio), o certo più universalmente facile ad essere
ammesso in tutte le lingue, che qualunque altro. Perch'ella è incapace di
traduzioni, ella è più facilmente di qualunque altra, traducibile in tutte le
lingue colte. Viceversa per le contrarie ragioni
1684
accade proporzionatamente alle altre lingue, e sopra tutte le moderne
all'italiana, perch'ella sovrasta a tutte nella moltiplicità degli stili, e
capacità di traduzioni. Le altre lingue contengono in certo modo lo stile
francese, come un genere, il qual genere nella lingua francese è tutto. Vero è
che in questo tal genere ella primeggia di gran lunga su tutte le antiche e
moderne. Sviluppate e dichiarate questo pensiero: ed osservate che infatti le
bellezze le più minute della lingua francese si ponno facilmente rendere; e
com'ella abbia corrotto facilmente quasi tutte le lingue
d'europa, ed insinuatavisi; laddove ella {(quale ora è ridotta)} non sarebbe stata certo
corrompibile {da niun'altra,} nemmeno in qualsivoglia
circostanza si possa immaginare. (12. Sett. 1821.).
[1689,1] A ciò che ho detto altrove p. 1366
pp.
1579-80 che la semplicità è relativa, aggiungete che oggi per es.
sarebbe bruttissimo uno stile semplice al modo di Senofonte, o de' nostri trecentisti, ancorchè
inaffettato, e composto di voci e frasi niente anticate. La semplicità d'oggi è
diversissima da quella d'allora, e di un grado molto minore. Cosa che non
s'intende da coloro che raccomandano l'imitazione degli antichi. (13.
Sett. 1821.).
[1691,2] Voi altri riformatori dello spirito umano, e
dell'opera della natura, voi altri predicatori della ragione, provatevi un poco
a
1692 fare un romanzo, un poema ec. il cui
protagonista si finga perfettissimo e straordinario in tutte le parti morali, e
dipendenti dall'uomo, e imperfetto {o men che perfetto}
nelle parti fisiche, dove l'uomo non ha per se verun merito. Di che si parla in
questo secolo sì spirituale massime in letteratura che oramai par che sdegni
tutto ciò che sa di corporeo, di che si parla, dico, ne' poemi, ne' romanzi,
nelle opere tutte d'immaginazione e sentimento, fuorchè di bellezza del corpo?
Questa è la prima condizione in un personaggio che si vuol fare interessante.
{+La perfettibilità
dell'uomo, come altrove ha[ho] detto
p. 830, non ha che fare col corpo. E
contuttociò la perfezione del corpo, che non dipende dagli uomini nè è
opera della ragione, si è la principal condizione che si ricerca in un
eroe di poema ec. (o si dee supporre, perchè ogni menoma imperfezione
corporale suppostagli guasterebbe ogni effetto) e la più efficace,
supponendolo ancora perfetto nello spirito.} Questa
circostanza non si può tacere; quando anche si taccia, la supplirà il lettore;
ma fare espressamente un protagonista brutto, è lo stesso che rinunziare a
qualsivoglia effetto. (V. ciò che dico in tal proposito dove parlo della
compassione pp. 220-21). Mad.
di Staël non era bella: in un'anima come la sua, questa circostanza
avrà prodotto mille pensieri e sentimenti sublimi, nuovissimi a scriverli,
profondissimi, sentimentalissimi: (così di Virgilio pretende Chateaubriand) ella amava
sopra tutto l'originalità, e poco teneva il buon
1693
gusto (v. Allemagne tome 1. ch. dernier.): ella, come tutti i
grandi, dipingeva ne' suoi romanzi il suo cuore, i suoi casi, e però si serve di
donne per li principali effetti; nondimeno si guarda bene di far brutti o men
che belli i suoi eroi o le sue eroine. Tutto lo spregiudizio, tutto l'ardire,
tutta l'originalità di un autore in qualsivoglia tempo non può giunger fin qua.
Che cosa è la bellezza? lo stesso in fondo, che la nobiltà e la ricchezza: dono
del caso? È egli punto meno pregevole un uomo sensibile e grande, perchè non è
bello? {+Quale inferiorità di vero merito
si trova nel più brutto degli uomini verso il più bello?} Eppure non
solamente lo scrittore o il poeta si deve guardare dal fingerlo brutto, ma deve
anche guardarsi da entrare in comparazioni sulla {sua}
bellezza. Ogni effetto svanirebbe se parlando o di se stesso (come fa il Petrarca) o del suo eroe, l'autore
dicesse ch'egli era sfortunato nel tale amore perchè le sue forme, o anche il
suo tratto e maniere esteriori (cosa al tutto corporea) non piacevano all'amata,
o perch'egli era men bello di un suo rivale ec. ec. Che cosa è dunque il mondo
fuorchè
1694 NATURA? Ho detto [pp. 601-603]
p. 1026
p. 1262
p. 1657 che l'intelletto umano è materiale in tutte le sue operazioni
e concezioni. La teoria stessa dell'intelletto si deve applicare al cuore e alla
fantasia. La virtù, il sentimento, i più grandi pregi morali, le qualità
dell'uomo le più pure, le più sublimi, infinite, le più immensamente lontane in
apparenza dalla materia, non si amano, non fanno effetto veruno se non come
materia, e in quanto materiali. Divideteli dalla bellezza, o dalle maniere
esteriori, non si sente più nulla in essi. Il cuore può bene immaginarsi di
amare lo spirito, o di sentir qualche cosa d'immateriale: ma assolutamente
s'inganna.
[1695,1] Forza dell'assuefazione sull'idea della convenienza.
L'uso ha introdotto che il poeta scriva in verso. Ciò non è della sostanza nè
della poesia, nè del suo linguaggio, e modo di esprimer le cose. Vero è che
questo linguaggio e modo, e le cose che il poeta dice, essendo al tutto divise
dalle ordinarie, è molto conveniente, e giova moltissimo all'effetto, ch'egli
impieghi un ritmo ec. diviso dal volgare e comune, con cui si esprimono le cose
alla maniera ch'elle sono, e che si sogliono considerare nella vita. Lascio poi
l'utilità dell'armonia ec. Ma in sostanza, e per se stessa, la poesia non è
legata al
1696 verso. E pure fuor del verso, gli
ardimenti, le metafore, le immagini, i concetti, tutto bisogna che prenda un
carattere più piano, se si vuole sfuggire il disgusto dell'affettazione, e il
senso della sconvenienza di ciò che si chiama troppo poetico per la prosa,
benchè il poetico, in tutta l'estensione del termine, non includa punto l'idea
nè la necessità del verso, nè di veruna melodia. L'uomo potrebb'esser poeta
caldissimo in prosa, senza veruna sconvenienza assoluta: e quella prosa, che
sarebbe poesia, potrebbe senza nessuna sconvenienza assumere interissimamente il
linguaggio, il modo, e tutti i possibili caratteri del poeta. Ma l'assuefazione
contraria ed antichissima (originata forse da ciò che i poeti si animavano a
comporre colla musica, e componevano secondo essa, {a
misura,} e cantando, e quindi verseggiando, cosa molto naturale)
c'impedisce di trovar conveniente una cosa che nè in se stessa nè nella natura
del linguaggio umano, o dello spirito poetico, o dell'uomo, o delle cose,
rinchiude niuna discordanza.
1697
(14. Sett. 1821.).
[1701,1] Le idee concomitanti che ho detto pp. 109-111 esser destate dalle parole {anche} le più proprie, a differenza dei termini, sono 1. le infinite
idee {ricordanze ec.} annesse a dette parole, derivanti
dal loro uso giornaliero, e indipendenti affatto dalla loro particolare natura,
ma legate all'assuefazione, e alle diversissime circostanze in cui quella parola
si è udita o usata. S'io nomino una pianta o un animale col nome Linneano, invece del
nome usuale, io non desto nessuna di queste idee, benchè dia chiaramente a
conoscer la cosa. Queste idee sono spessissimo legate alla parola (che nella
mente umana è inseparabile dalla cosa, è la sua immagine, il suo corpo, ancorchè
la cosa sia materiale, anzi è un tutto con lei, e si può dir che la lingua
riguardo alla mente di chi l'adopra, contenga non solo i segni delle cose, ma
quasi le cose stesse)
1702 sono dico legate alla parola
più che alla cosa, o legate a tutte due in modo che divisa la cosa dalla parola
(giacchè la parola non si può staccar dalla cosa), la cosa non produce più le
stesse idee. {+Divisa dalla parola, o
dalle parole usuali ec. essa divien quasi straniera alla nostra vita. Una
cosa espressa con un vocabolo tecnico non ha alcuna domestichezza con noi,
{+non ci destano[desta] alcuna delle infinite ricordanze della vita,
ec. ec.} nel modo che le cose ci riescono quasi nuove, {e nude} quando le vediamo espresse in una lingua
straniera e nuova per noi: nè si arriva a gustare perfettamente una tal
lingua, finchè non si penetra in tutte le minuzie e le piccole parti e idee
contenute nelle parole del senso il più semplice.} 2. Le idee
contenute nelle metafore. La massima parte di qualunque linguaggio umano è
composto di metafore, perchè le radici sono pochissime, e il linguaggio si
dilatò massimamente a forza di similitudini e di rapporti. Ma la massima parte
di queste metafore, perduto il primitivo senso, son divenute così proprie, che
la cosa ch'esprimono non può esprimersi, o meglio esprimersi diversamente.
Infinite ancora di queste metafore non ebbero mai altro senso che il presente,
eppur sono metafore, cioè con una piccola modificazione, si fece che una parola
significante una cosa, modificata così ne significasse un'altra di qualche
rapporto colla prima. Questo è il principal modo in cui son cresciute tutte le
lingue. Ora sin tanto che l'etimologie di queste originariamente metafore, ma
oggi, o anche da principio, parole effettivamente proprie, si ravvisano e
sentono, il
1703 accade almeno nella maggior parte
delle parole proprie di una lingua,
l'idea ch'elle destano, è quasi doppia, benchè la parola sia proprissima, e di
più esse producono nella mente, non la sola concezione ma l'immagine della cosa,
ancorchè la più astratta, essendo anche queste in qualsivoglia lingua, sempre in
ultima analisi espresse con metafore prese dal materiale e sensibile (più o men
vivo, ed esprimente e adattato, secondo i caratteri delle lingue e delle nazioni
ec.). Per esempio il nostro costringere che significa
sforzare, serba ancora ben chiara la sua
etimologia, e quindi l'immagine materiale da cui questa che in origine è
metafora, derivò. ec. ec. Il complesso di tali immagini nella scrittura o nel
parlare, massime nella poesia, dove più si attende all'intero valore di ciascuna
parola, e con maggior disposizione a concepire {e
notare} le immagini ch'elle contengono, ec. questo complesso, dico,
forma la bellezza di una lingua, e la differente forza ec. sì delle lingue
rispettivamente a loro, sì dei diversi stili ec. in una stessa lingua. Ma se p.
e. la cosa espressa da costringere, l'esprimessimo
1704 con una parola presa da lingua straniera, e la cui
origine ed etimologia non si sapesse generalmente, o certo non si sentisse,
ella, quando fosse ben intesa, desterebbe bensì l'idea della cosa, ma nessuna
immagine, neppur {quasi} della stessa cosa, benchè
materiale. Così accade in tutte le parole derivate dal greco, delle quali
abbondano le nostre lingue, e massime le nostre nomenclature. Esse, quando siano
usuali, e quotidiane, come filosofo ec.
possono appartenere alla classe che ho notate[notata] nel primo luogo, ma non mai a questa seconda. Esse e le altre
simili prese da qualsivoglia lingua, e non proprie della nostra rispettiva, saranno sempre, come altrove ho detto
pp.
109-111
pp. 951-52, parole tecniche, e di significato nudo ec. Similmente le
parole moderne, che o si derivano da parole già stanziate nella nostra lingua,
ma d'etimologia pellegrina, o si derivano da parole anche proprie della lingua;
essendo per lo più, stante la natura del tempo, assai più lontane dal materiale
e sensibile che non sono le antiche, e di un carattere più spirituale, sono
quindi ordinariamente termini e non parole, non destando verun'
1705 immagine concomitante, nè avendo nulla di vivo.
ec. Tali sono i termini de' quali altrove ho detto pp. 109-110
p. 1226,1 che abbonda la lingua francese, massime la moderna, e ciò
non solo per natura del tempo, ma anche per la natura di essa lingua, e del suo
carattere e forma.
[1774,2] È molto facile lo scherzare sulle cose
straordinarie, sui difetti del corpo ec. La difficoltà consiste nel saper
muovere a riso sulle cose ordinarie. Il perchè lo troverai presto se ci
penserai, e potrai riferirlo agli altri tuoi pensieri analoghi. (23. Sett.
1821.).
[1789,1] Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perchè
destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse. Così in quella
divina stanza
dell'Ariosto (1. 65.)
Quale stordito e stupido aratore,
Poi ch'è passato il fulmine, si leva
Di là dove l'altissimo fragore
Presso a gli uccisi buoi steso l'aveva,
Che mira senza fronde e senza onore
Il pin che di lontan veder soleva;
Tal si levò il Pagano a piè rimaso,
Angelica presente al duro caso. *
Dove l'effetto delle parole di lontano si unisce a quello del soleva, parola di significato egualmente vasto per la copia delle rimembranze che contiene. Togliete queste due parole ed idee; l'effetto di quel verso si perde, e si scema se togliete l'una delle delle due. (25. Sett. 1821.).
Quale stordito e stupido aratore,
Poi ch'è passato il fulmine, si leva
Di là dove l'altissimo fragore
Presso a gli uccisi buoi steso l'aveva,
Che mira senza fronde e senza onore
Il pin che di lontan veder soleva;
Tal si levò il Pagano a piè rimaso,
Angelica presente al duro caso. *
Dove l'effetto delle parole di lontano si unisce a quello del soleva, parola di significato egualmente vasto per la copia delle rimembranze che contiene. Togliete queste due parole ed idee; l'effetto di quel verso si perde, e si scema se togliete l'una delle delle due. (25. Sett. 1821.).
[1806,3] Una parola {o frase}
difficilmente è elegante se non si apparta in qualche modo dall'uso volgare.
Intendo che difficilmente le converrà l'attributo di elegante, non già ch'ella
debba perciò essere inelegante, e che una
1807
scrittura elegante, si debba comporre di sole voci e frasi segregate dal volgo.
Le parole antiche (non anticate) sogliono riuscire eleganti, perchè tanto rimote
dall'uso quotidiano, quanto basta perchè abbiano quello straordinario e
peregrino che non pregiudica nè alla chiarezza, nè alla disinvoltura, e
convenienza loro colle parole e frasi moderne.
[1822,1] Quanto una lingua è più ricca e vasta, tanto ha
bisogno di meno parole per esprimersi, e viceversa quanto è più ristretta, tanto
più le conviene largheggiare in parole per comporre un'espressione perfetta. Non
si dà proprietà di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si
dà brevità di espressione senza proprietà. Quindi la lingua francese che certo
non può gloriarsi di vastità (altrimenti non sarebbe universale), si gloria
indarno di brevità; quasi che la brevità de' periodi fosse lo stesso che la
brevità dell'espressione, o che slegatura e
1823 e
brevità fossero una cosa. V. il Sallustio di Dureau Delamalle. t. 1. p. CXIV. (1.
Ott. 1821.).
[1825,2] Le parole che indicano moltitudine, copia,
grandezza, lunghezza, larghezza, altezza, vastità ec. ec. sia in estensione, o
in forza, intensità ec. ec. sono pure poeticissime, e così le immagini
corrispondenti. Come nel Petr.
1826
Te solo aspetto, e quel che tanto amasti
E laggiuso è rimaso, il mio bel velo. *
Te solo aspetto, e quel che tanto amasti
E laggiuso è rimaso, il mio bel velo. *
[1832,1] La forza dell'assuefazione della prevenzione,
dell'opinione nel giudizio del bello ec. si può vedere anche negli effetti che
tu provi vedendo una pittura, {udendo una musica,}
leggendo un libro ec. se tu ne conosci l'autore, s'egli t'è familiare ec. La
qual cosa ora accresce le bellezze, ora le scema, ora finge quelle che non ci
sono, o scuopre le più difficili a vedere, e le più fine, e rende sensibilissimi
ad ogni menoma cosa ec. ora nasconde quelle che ci sono, anche le più notabili,
rende incapaci di sentir nulla ec. Intendo di escludere dalla conoscenza ogni
sorta di passione relativa, e considero solamente l'applicare che fa il lettore
{tutto} quello che legge, all'autore ch'egli ben
conosce. Il che spontaneamente e inevitabilmente, quanto
1833 inavvedutamente, modifica il giudizio e il senso, in mille guise
indipendenti dalla propria natura di ciò che si legge o vede o sente ec.
(3. Ott. 1821.).
[1845,1] Moltissime parole si trovano, comuni a più lingue, o
perchè derivate da questa a quella, ed immedesimate con lei, o perchè venute da
origine comune, le quali parole in una lingua sono eleganti, in
un[un'] altra no; in una affatto nobili anzi
sublimi, in un'altra affatto pedestri. Così dico delle frasi ec. Unica ragione è
la differenza dell'uso, e delle assuefazioni. Noi italiani possiamo facilmente
osservare
1846 nella lingua spagnuola, la più affine
alla nostra che esista, e di maniera che tanta affinità e somiglianza non si
trova forse fra due altre lingue colte; non poche parole e frasi {+o significazioni, o metafore ec.}
proprie della sola poesia, che nella nostra son proprie della sola prosa, e
viceversa: parte derivate dalla comune madre di ambe le lingue, parte dalla
italiana alla spagnuola, parte viceversa. Così pure possiamo osservar noi, e
possono pur gli spagnuoli, non poche altre notabilissime differenze di nobiltà
di eleganza di gusto ec. in parole e frasi comuni ad ambe le lingue nella
medesima significazione. Similmente discorrete dell'inglese e del tedesco, del
francese rispetto alle tante lingue che han preso da lei, o rispetto alle due
sue sorelle ec. del greco ancora rispetto al latino ec. (5. Ott.
1821.).
[1823,1] L'uomo tende sempre a' suoi simili (così ogni
animale), e non può interessarsi che per essi, per la stessa ragione per cui
tende a se stesso, ed ama se stesso più che qualunque de' suoi simili. Non vi
vuole che un intero snaturamento prodotto dalla filosofia, per far che l'uomo
inclini agli animali, alle piante ec. e perchè i poeti (massime stranieri) de'
nostri giorni pretendano d'interessarci per una bestia, un fiore, un sasso, un
ente ideale, un'allegoria. È ben curioso che la filosofia, rendendoci
indifferenti verso noi medesimi e i nostri simili, che la natura ci ha posto a
cuore, voglia interessarci per quello a cui l'irresistibile natura ci ha fatti
indifferenti. Ma questo è un effetto conseguentissimo del sistema generale
d'indifferenza derivante dalla ragione, il quale non mette diversità fra' simili
e dissimili; e noi non ci figuriamo di poter provare interesse per questi, se
non perchè l'abbiamo
1824 perduto o illanguidito per
noi e per gli uomini, e siamo in somma indifferenti a tutto. Così gli altri
esseri vengono a partecipare non del nostro interesse ma della nostra
indifferenza. Lo stesso accade {riguardo a'} nostri
simili, nella sostituzione dell'amore universale all'amor di patria. ec.
(1. Ott. 1821.). {{V. p. 1830. e
1846.}}
[1827,2] A quello che altrove ho detto pp. 1744-46
dell'effetto che fa nell'uomo la vista del cielo, si può aggiungere e paragonare
quello del mare, delle egloghe piscatorie, e d'ogni sorta d'immagine presa dalla
navigazione ec. Le idee relative al mare sono vaste, e piacevoli per questo
motivo, ma non durevolmente, perchè mancano di due qualità, la varietà, e
l'esser proprie e vicine alla nostra vita quotidiana, agli oggetti che ci
circondano, alle nostre assuefazioni rimembranze ec. (dico di chi non è marinaio
ec. di professione) ed anche alle nostri[nostre]
cognizioni pratiche; giacchè la
cognizione pratica,
1828 almeno in grosso, l'uso,
l'esperienza, una tal quale familiarità con ciò che il poeta ha per le mani, è
necessaria all'effetto delle immagini e sentimenti poetici ec.; ed è per questo
che piace soprattutto nella poesia ciò che spetta al cuore umano (che è la cosa
della quale abbiamo più cognizione pratica), siccome nella pittura, scultura ec.
l'imitazione dell'uomo, delle sue passioni ec. (3. Ott. 1821.).
[1847,1] Come l'uomo non s'interessa che per l'uomo
(perch'egli s'interessa più per se che per gli altri uomini); com'è vuota
d'effetto quella pittura che non rappresenta niente di animato, e più quella che
rappresenta pietre ec. che quella che rappresenta piante ec.; come il principale
effetto della pittura è prodotto dall'imitazione dell'uomo più che degli
animali, e molto più che degli altri oggetti; come la poesia non diletta nè
molto nè durevolmente se verte 1. sopra cose inorganizzate, 2. sopra cose
organizzate ma non vive, 3. sopra enti vivi ma non uomini, 4. sopra uomini ma
non sopra ciò che meglio spetta all'uomo ed a ciascun lettore, cioè le passioni,
i sentimenti, insomma l'animo umano; {+(notate queste gradazioni che sono applicabili ad ogni genere di cose e
idee piacevoli, ed alla mia teoria del
piacere)} così
1848 la poesia,
{i drammi} i romanzi, le storie, le pitture ec. ec.
non possono durevolmente nè molto dilettare se versano sopra uomini di costumi,
opinioni, indole ec. ec. e quasi natura affatto diversa dalla nostra, come i
personaggi favoriti delle care poesie ec. del Nord, sia per differenza
nazionale, sia per eccessiva differenza e stranezza di carattere, come i
protagonisti di Lord Byron, ed anche per
eccessivo eroismo, onde Aristotele non
voleva che il protagonista della tragedia fosse troppo eroe. {+(Quindi è che se forse da principio
interessano per la novità, a poco andare annoiano le storie ec. de' popoli
lontani, de' viaggi ec. e interessano sempre più proporzionatamente quelle
de' più vicini, e fra gli antichi de' latini Greci, ed Ebrei, a causa che
questi sono in relazione con tutto il mondo colto per la rimembranza ec.
della nostra gioventù, studi, religione letteratura ec. Anche questo però
secondo le circostanze degli individui.)} Da per tutto l'uomo cerca il
suo simile, perchè non cerca e non ha mai altro scopo che se stesso; e il
sistema del bello, come tutto il sistema della vita, si aggira sopra il perno,
ed è posto in movimento dalla gran molla dell'egoismo, e quindi della
similitudine e relazione a se stesso, cioè a colui che deve godere del bello di
qualunque genere. (5. Ott. 1821.).
[1860,1] Ho detto pp. 1548-51 che l'immaginazione può risorgere o durare
anche ne' vecchi e disingannati. Aggiungo che l'immaginazione e il piacere che
ne deriva, consistendo in gran parte nelle rimembranze, lo stesso aver perduto
l'abito della continua immaginativa, contribuisce ad accrescere il piacere delle
rimembranze, giacch'elle, se fossero presenti ed abituali, 1. non sarebbero, o
sarebbero meno rimembranze, 2. non sarebbero così dilettevoli, perchè il
presente non illude mai, bensì il lontano, e quanto è più lontano. Onde non è
dubbio che le immagini della vita degli antichi, non riescano più dilettevoli a
noi per cui sono rimembranze lontanissime, che agli stessi antichi per cui erano
o presenze, o ricordanze poco lontane. Del resto la rimembranza quanto più è
lontana, e meno abituale, tanto più innalza, stringe, addolora dolcemente,
diletta
1861 l'anima, e fa più viva, energica,
profonda, sensibile, e fruttuosa
impressione, perch'essendo più lontana, è più sottoposta all'illusione; e non
essendo abituale nè essa individualmente, nè nel suo genere, va esente
dall'influenza dell'assuefazione che indebolisce ogni sensazione. Ciò che dico
dell'immaginativa, si può applicare alla sensibilità. Certo è però che tali
lontane rimembranze, quanto dolci, tanto separate dalla nostra vita presente, e
di genere contrario a quello delle nostre sensazioni abituali, ispirando della
poesia ec. non ponno ispirare che poesia malinconica, come è naturale,
trattandosi di ciò che si è perduto; all'opposto degli antichi a cui tali
immagini, poteano ben far minore effetto a causa dell'abitudine, ma erano sempre
proprie, presenti, si rinnovavano tuttogiorno, nè mai si consideravano come cose
perdute, o riconosciute per vane; quindi la loro poesia dovea esser lieta, come
quella che verteva sopra dei beni e delle dolcezze da
1862 loro ancor possedute, e senza timore. (7. Ott.
1821.).
[1900,1] Insomma la lingua italiana è facilmente
corruttibile, perchè può far moltissimo; laddove p. e. la lingua francese,
pochissimo. Ora il poco s'impara più facilmente del molto. (10-12. Ott.
1821.).
[1916,1] Molte parole che in una lingua sono triviali e
volgari, molte applicazioni o di parole o di frasi che in quel tal senso sono
ordinarissime nella lingua da cui si prendono, riescono elegantissime e
nobilissime ec. trasportandole in un'altra lingua, a causa del pellegrino.
Questo è ciò che accade a noi spessissimo trasportando nell'italiano, voci o
frasi latine. Sarebbe ben poco accorto chi trovandole volgari e dozzinali in
latino, le credesse per ciò tali in italiano. Se in latino sono comuni e plebee,
in italiano possono essere del tutto divise dal volgo e nobilissime.
Elegantemente il Petrarca nel Proemio:
1917
Ma ben veggi'or sì come al popol tutto
Favola fui gran tempo. *
E pur questa frase potè ben essere molto, se non altro usitata, anche nel parlar latino, dove sappiamo che fabulare, e fabula si adopravano comunemente per parlare chiacchierare, giacchè n'è derivato il nostro favellare e favella, e lo spagnuolo fablar, oggi hablar. Ma favola in nostra lingua oggi non vuol dir propriamente altro che novella falsa; ond'è che presa questa voce nel detto senso riesce elegantissima e di più riceve presso noi un'intelligenza quanto significativa, tanto diversa da quella che le davano i latini nella frase simile, dove usurpavano fabula, per favella o ciancia.
Ma ben veggi'or sì come al popol tutto
Favola fui gran tempo. *
E pur questa frase potè ben essere molto, se non altro usitata, anche nel parlar latino, dove sappiamo che fabulare, e fabula si adopravano comunemente per parlare chiacchierare, giacchè n'è derivato il nostro favellare e favella, e lo spagnuolo fablar, oggi hablar. Ma favola in nostra lingua oggi non vuol dir propriamente altro che novella falsa; ond'è che presa questa voce nel detto senso riesce elegantissima e di più riceve presso noi un'intelligenza quanto significativa, tanto diversa da quella che le davano i latini nella frase simile, dove usurpavano fabula, per favella o ciancia.
[1917,2] Moltissime volte o l'eleganza o la nobiltà (quanto
alla lingua) deriva
1918 dall'uso metaforico delle
parole o frasi, quando anche, come spessissimo e necessariamente accade, il
metaforico appena o punto si ravvisi. Moltissime volte per lo contrario deriva
dalla proprietà delle stesse parole o frasi, quando elle non sono usitate nel
senso proprio, o quando non sono comunemente usitate in nessun modo, o essendo
usitate nella prosa non lo sono nella poesia, o viceversa, o in un genere di
scrittura sì, in altra no, ec. (La precisione sola non può mai produrre nè
eleganza nè nobiltà, nè altro che precisione e angolosità di stile.). {{V. p. 1925. fine.}}
[1927,2] Quello che altrove ho detto pp. 1744-47 sugli effetti della luce, o
degli oggetti visibili, in riguardo all'idea dell'infinito, si deve applicare
parimente al suono, al canto, a tutto ciò che
1928
spetta all'udito. È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per
un'idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il più spregevole) udito da
lungi, {o che paia lontano senza esserlo,} o che si
vada appoco appoco allontanando, e divenendo insensibile; {+o anche viceversa (ma meno), o che sia così lontano, in
apparenza o in verità, che l'orecchio e l'idea quasi lo perda nella vastità
degli spazi;} un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la
lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un
canto che risuoni per le volte di una stanza ec. dove voi non vi troviate però
dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s'ode suonare per le
valli, senza però vederli, e così il muggito degli armenti ec. {Stando in casa, e udendo tali canti o
suoni per la strada, massime di notte, si è più disposti a questi effetti,
perchè nè l'udito nè gli altri sensi non arrivano a determinare nè
circoscrivere la sensazione, e le sue concomitanze.} È piacevole
qualunque suono (anche vilissimo) che largamente e vastamente si diffonda, come
{in} taluno dei detti casi, massime se non si vede
l'oggetto da cui parte. A queste considerazioni appartiene il piacere che può
dare e dà (quando non sia vinto dalla paura) il fragore del tuono, massime
quand'è più sordo, quando è udito
1929 in aperta
campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi, quando freme
confusamente in una foresta, o tra i vari oggetti di una campagna, o quando è
udito da lungi, o dentro una città trovandosi per le strade ec. Perocchè oltre
la vastità, e l'incertezza e confusione del suono, non si vede l'oggetto che lo
produce, giacchè il tuono e il vento non si vedono. E[È] piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec. che ripeta il
calpestio de' piedi, o la voce ec. Perocchè l'eco non si vede ec. E tanto più
quanto il luogo e l'eco e[è] più vasto, quanto
più l'eco vien da lontano, quanto più si diffonde; e molto più ancora se vi si
aggiunge l'oscurità del luogo che non lasci determinare la vastità del suono, nè
i punti da cui esso parte ec. ec. E tutte queste immagini in poesia ec. sono
sempre bellissime, e tanto più quanto più negligentemente son messe, e toccando
il soggetto, senza mostrar
1930 l'intenzione per cui
ciò si fa, anzi mostrando d'ignorare l'effetto e le immagini che son per
produrre, e di non toccarli se non per ispontanea, e necessaria congiuntura, e
indole dell'argomento ec. V. in questo
proposito Virg.
Eneide 7. v. 8. seqq. La notte, o
l'immagine della notte è la più propria ad aiutare, o anche a cagionare i detti
effetti del suono. Virgilio da maestro
l'ha adoperata. (16. Ott. 1821.).
[1930,1]
Posteri, posterità, (e questo più perchè più generale) futuro, passato, eterno, lungo in fatto di tempo, morte, mortale, immortale, e cento simili, son parole di senso o di
significazione quanto indefinita, tanto poetica e nobile, e perciò cagione di
nobiltà, di bellezza ec. a tutti gli stili. (16. Ott. 1821.).
[1962,1]
Un des grands avantages
des dialectes germaniques en
poésie, c'est la variété et la beauté de leurs épithètes. L'allemand
sous ce rapport aussi, peut se comparer au grec; l'on sent dans un seul
1963
mot plusieurs images, comme, dans la note fondamentale d'un
accord, on entend les autres sons dont il est composé, ou comme de
certains couleurs réveillent en nous la sensations de celles qui en
dépendent. L'on ne dit en français
que ce qu'on veut dire, et l'on ne voit point errer autour des
paroles ces nuages à mille formes, qui entourent la poésie des langues
du nord, et réveillent une foule de souvenirs. A la liberté de former une seule épithète de deux
ou trois, se joint celle d'animer le langage en faisant avec
les verbes des noms:
*
(proprietà egualmente del greco, dell'italiano, e dello spagnuolo) le vivre, le vouloir, le sentir, sont des expressions
moins abstraites que la vie, la volonté, le sentiment; et tout ce qui
tend à changer la pensée en action donne toujour plus de mouvement au
style. La facilité de renverser à son gré la construction
1964 de la phrase
*
(ho detto altrove
pp. 109-11
pp.
950-52
pp. 1226-28 che come le parole, così le frasi e costruzioni ec.
possono esser termini, e che quella
lingua che più abbonda di termini,
{in pregiudizio delle parole,} suole per
analogia esser matematica nella frase ec., e che la francese è tutta un gran
termine) est aussi très-favorable à la poésie, et permet d'exciter, par les
moyens variés de la versification, des impressions analogues à celles de la peinture et de la
musique
*
. (impressioni vaghe.) Enfin l'esprit général des dialectes teutoniques, c'est l'indépendance:
les écrivains cherchent avant tout à
transmettre ce qu'il sentent; ils diroient volontiers à la
poésie comme Héloïse à son amant: S'il
y a un mot plus vrai, plus tendre, plus profond encore pour exprimer
ce que j'éprouve, c'est celui-là que je veux choisir. Le
souvenir des convenances de société poursuit en
France le talent
*
1965
jusques dans ses émotions les plus intimes; et la
crainte du ridicule est l'épée de Damoclès, qu'aucune fête
de l'imagination ne peut faire oublier.
*
De l'Allemagne, tome 1. 2.de part. ch. 9.
vers la fin.
(21. Ott. 1821.).
[1982,2] Quello che ho detto altrove pp. 1744-47
pp.
1927-30 degli effetti della luce, del suono, e d'altre tali sensazioni
circa l'idea dell'infinito, si deve intendere non solo di tali sensazioni nel
naturale, ma nelle loro imitazioni ancora, fatte dalla pittura, dalla musica,
dalla poesia
1983 ec. Il bello delle quali arti, in
grandissima parte, e più di quello che si crede o si osserva, consiste nella
scelta di tali o somiglianti sensazioni indefinite da imitare.
[1987,1] Per la copia e la vivezza ec. delle rimembranze sono
piacevolissime e e poeticissime tutte le imagini che tengono del fanciullesco, e
tutto ciò che ce le desta (parole, frasi, poesie, pitture, imitazioni o realtà
ec.). Nel che tengono il primo luogo gli antichi poeti, e fra questi Omero. Siccome le impressioni, così le
ricordanze della fanciullezza in qualunque età, sono più vive che quelle di
qualunque altra età. E son piacevoli per la loro vivezza, anche le ricordanze
d'immagini e di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose, o spaventose ec.
E per la stessa ragione ci è piacevole nella vita anche la ricordanza dolorosa,
e quando bene la cagion del dolore non sia passata, e quando pure la ricordanza
lo cagioni o l'accresca, come nella morte de' nostri
1988 cari, il ricordarsi del passato ec. (25. Ott. 1821.).
[1988,1] Qualunque stile moderno ha proprietà, forza,
semplicità, nobiltà, ha sempre sapore di antico, e non par moderno, e forse
anche perciò si riprende, e volgarmente non piace. Viceversa qualunque stile
antico ha ec., tiene del moderno. Che vuol dir questo? Qual è dunque la natura
de' moderni? quale degli antichi? (25. Ott. 1821.)
[1991,1] Colui che imita la maniera di parlare, di gestire,
ec. ec. usata da una persona ignota a colei a cui egli l'imita e la descrive,
quando anche l'imitazione sia vivissima, ingegnosissima ec. non produce quasi
nessun {effetto} nè piacere; laddove un'imitazione
assai men viva della stessa cosa, fatta a chi ne conosca bene il soggetto,
riuscirà piacevolissima. Questo serva di regola ai poeti, ai pittori, {ai comici} ec. ec. che esauriscono
1992 la loro vena imitativa (sia pur felicissima) nell'imitar cose
ignote o poco note o niente familiari a' lettori agli spettatori, o al più de'
medesimi. (26. Ott. 1821.).
[1993,2] La lingua francese ricevette una certa forma, e
venne in onore prima dell'italiana, e forse anche della spagnuola, mercè de'
poeti provenzali che la scrivevano ec. Onde sulla fine stessa del ducento, e
principio di quel trecento che innalzò la lingua italiana su tutte le vive
d'allora, si stimava in italia
la
parlatura francesca
*
esser la più dilettevole e comuna di tutti gli altri
linguaggi parlati
*
;
1994
si scriveva in quella piuttosto che nella nostra, stimandola più bella e
migliore
*
ec. v. Perticari, del 300. p.
14-15. Ma la buona fortuna dell'italia volle
che nel 300, cioè prima {assai} che in nessun'altra
nazione, sorgessero in essa tre grandi scrittori, giudicati grandi anche poscia,
indipendentemente dall'età in cui vissero, i quali applicarono la nostra lingua
alla letteratura, togliendola dalle bocche della plebe, le diedero stabilità,
regole, andamento, indole, tutte le modificazioni necessarie per farne una
lingua non del tutto formata, ch'era impossibile a tre soli, ma pur tale che già
bastasse ad esser grande scrittore adoperandola; la modellarono sulla già
esistente letteratura latina ec. Questa circostanza, indipendente affatto dalla
natura della lingua italiana, ha fatto e dovuto far sì che l'epoca di essa
lingua si pigli necessariamente
1995 d'allora in poi,
cioè da quando ell'ebbe tre sommi scrittori, che l'applicarono decisamente alla
letteratura, {all'altissima poesia,} alle grandi e
nobili cose, alla filosofia, alla teologia (ch'era allora il non plus ultra, e
perciò Dante col suo magnanimo ardire,
pigliando quella linguaccia greggia ed informe dalle bocche plebee, e volendo
innalzarla fin dove si può mai giungere, si compiacque, anche in onta della
convenienza e buon gusto poetico, di applicarla a ciò che allora si stimava la
più sublime materia, cioè la teologia). Questa circostanza ha fatto che la
lingua italiana contando oggi, a differenza di tutte le altre, cinque interi
secoli di letteratura, sia la più ricca
di tutte; questa che la sua formazione e la sua indole sia decisamente antica,
cioè bellissima e liberissima, con gli altri infiniti vantaggi delle lingue
antiche (giacchè i cinquecentisti che poi decisamente la formarono, oltre
1996 che sono antichi essi stessi, e che si modellarono
sugli antichi classici latini e greci seguirono ed in ciò, e in ogni altra cosa
il disegno e le parti di quella tal forma che la nostra lingua ricevette nel
300. e ch'essi solamente perfezionarono, compirono, e per ogni parte regolarono,
uniformarono, ed armonizzarono); questa circostanza ha fatto che la
nr̃a[nostra] lingua non abbia mai
rinunziato alle parole, modi, forme antiche, ed all'autorità degli antichi dal
300 in poi, non potendo rinunziarvi se non rinunziando a se stessa, perchè
d'allora in poi ell'assunse l'indole che la caratterizza, e fu splendidamente
applicata alla vera letteratura. Questa circostanza è unica nella lingua
italiana. La spagnuola le tenne dietro più presto che qualunqu'altra, ma solo
due secoli dopo. Dal 500. dunque ella prende la sua epoca, ed ella è la più
antica di fatto e d'indole, dopo
1997 l'italiana. La
lingua francese non ebbe uno scrittore assolutamente grande e da riconoscersi
per tale in tutti i secoli, prima del secolo di Luigi 14. o in quel torno. (Montagne nel 500. o non fu tale, o non bastò, o non
era tale da formare e fissare bastantemente una lingua.) Quindi la sua epoca non
va più in là, ella conta un secolo e mezzo al più, l'autorità degli antichi è e
dev'esser nulla per lei. Dove comincia la vera e propria letteratura di una
nazione quivi comincia l'autorità de' suoi scrittori in punto di lingua.
[2012,2] Non bisogna confondere la purità {della lingua} la quale è di debito in tutte le scritture di qualunque
nazione, coll'eleganza, la quale non è di debito se non in alcune
2013 scritture, ed in altre non solo non necessaria ma
impossibile; nè perchè la lingua italiana è capacissima di eleganza, e perchè ne
sentiamo un grandissimo sapore nella più parte de' nostri buoni scrittori,
credere che gli scritti didascalici ec. se e dove non ci riescono eleganti, non
sieno italiani. Torno a dire che la precisione moderna ch'è estrema, e che in tali scritti e generi è
di prima necessità, e che oggi si ricerca sopra tutte le qualità ec. è
assolutamente di sua natura incompatibile colla eleganza: ed infatti il nostro
secolo che è quello della precisione, non è certo quello della eleganza in
nessun genere. Bensì ell'è compatibilissima colla purità, come si può vedere in
Galileo, che dovunque è preciso e
matematico quivi non è mai elegante, ma sempre purissimo italiano. Perocchè la
nostra lingua, come qualunque altra è incapace di uno stile
2014 che abbia due qualità ripugnanti e contrarie essenzialmente, ma è
capacissima dello stile preciso, non meno che dell'elegante, a somiglianza della
greca, e al contrario della francese, ch'essendo capacissima di precisione è
incapace di eleganza (quella che noi, i latini i greci intendevano per
eleganza), e della latina, capacissima di eleganza e incapace di precisione, e
però corrotta appena fu applicata alle sottigliezze teologiche, scolastiche ec.
(fra le quali fu allevata per lo contrario la nostra, e crebbe la greca) ed
anche a quelle della filosofia greca, dopo Cicerone; e quindi affatto inadattabile alle cose moderne, ed alle
traduzioni di cose moderne. (30. Ott. 1821.)
[2025,1] Gli antichi poeti e proporzionatamente gli scrittori
in prosa, non parlavano mai delle cose umane e della natura, se non per
esaltarle, ingrandirle, quando anche parlassero delle miserie {+e di argomenti, e in istile
malinconico.} ec. Così che la grandezza costituiva il loro modo di
veder le cose, e lo spirito della loro poesia. Tutto al contrario accade ne'
poeti, e negli
2026 scrittori moderni, i quali non
parlano nè possono parlare delle cose umane e del mondo, che per deprimerne,
impiccolirne, avvilirne l'idea. Quindi è che i linguaggi antichi sempre
innalzano e ingrandiscono, massime quelli de' poeti, i moderni sempre
impiccoliscono e abbassano {e annullano} anche quando
sono poetici. {+Anzi appunto in ciò
consiste lo spirito poetico d'oggidì (che ha sempre, e massime oggi, grandi
rapporti col filosofico di ciascun tempo). Gli antichi si distinguevano dal
volgo coll'inalzare le cose al di sopra dell'opinione comune; i moderni
poeti col deprimerle al di sotto di essa. In ciò pure v'è grandezza, ma del
contrario genere.} Onde avviene che gli scritti moderni tradotti p. e.
in latino, o le cose moderne trattate in latino, suonano tutt'altro da quello
che intendono, e ne segue un effetto discordante tra la grandezza e l'altezza
del linguaggio, e la strettezza e bassezza delle idee, ancorchè fra noi
poeticissime. (Come accaderebbe trasportando le nostre letterature in
Oriente). E viceversa traducendo gli antichi
negl'idiomi moderni, o trattando in questi le cose antiche.
[2037,2] La semplicità bene spesso non è altro
2038 che quella cosa, quella qualità, quella forma,
quella maniera alla quale noi siamo assuefatti, sia naturale o no. Altra cosa,
forma, ec. benchè assai più semplice in se, o più naturale ec. se non ci par
semplice, perchè ripugna, o è lontana dalle nostre assuefazioni.
[2041,1] La rapidità e la concisione dello stile, piace
perchè presenta all'anima una folla d'idee simultanee, o così rapidamente
succedentisi, che paiono simultanee, e fanno ondeggiar l'anima in una tale
abbondanza di pensieri, o d'immagini e sensazioni spirituali, ch'ella o non è
capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare
in ozio, e priva di sensazioni.
2042 La forza dello
stile poetico, che in gran parte è tutt'uno colla rapidità, non è piacevole per
altro che per questi effetti, e non consiste in altro. L'eccitamento d'idee
simultanee, può derivare e da ciascuna parola isolata, o propria o metaforica, e
dalla loro collocazione, e dal giro della frase, e dalla soppressione stessa di
altre parole o frasi ec. Perchè è debole lo stile di Ovidio, e però non molto piacevole, quantunque egli sia
un fedelissimo pittore degli oggetti, ed un ostinatissimo e acutissimo
cacciatore d'immagini? Perchè queste immagini risultano in lui da una copia di
parole e di versi, che non destano l'immagine senza lungo circuito, e così poco
o nulla v'ha di simultaneo, giacchè anzi lo spirito è condotto a veder gli
oggetti appoco appoco per le loro parti. Perchè lo stile di Dante è il più forte che mai si possa concepire, e per
questa parte il più bello e dilettevole possibile? Perchè ogni
2043 parola presso lui è un'immagine ec. ec. V. il mio discorso sui romantici. Qua
si possono riferire la debolezza essenziale, e la ingenita sazietà della poesia
descrittiva, (assurda in stessa) e quell'antico precetto che il poeta (o lo
scrittore) non si fermi troppo in una descrizione. Qua la bellezza dello stile
di Orazio (rapidissimo, e pieno
d'immagini per ciascuna parola, o costruzione, o inversione, o traslazione di
significato ec.), {V. p. 2049.} e quanto al pensiero, quella dello
stile di Tacito. ec.
(3. Nov. 1821.). {{V. p. 2239.}}
[2075,1] Molte volte riescono eleganti delle parole
corrottissime e popolarissime, e ineleganti o meno eleganti delle altre
incorrotte o meno corrotte, e meno popolari. Per es. commessi in vece di commisi, potrà riuscire
più elegante in una scrittura, benchè sia una pura corruzione di commisi che viene dirittamente dal commisi latino. Ma questa corruzione sebben popolare,
essendo antica, ed avendo cessato oggi di essere in uso frequente, o presso il
popolo, o presso gli scrittori, e trovandosi ne' buoni scrittori antichi, essa
riesce, in una scrittura, elegante perchè fuori dell'ordinario, e più elegante
di commisi (ch'è incorrotto) perciò appunto che questo
è in uso commune, e che nell'uso la parola più antica; e non corrotta ha
prevaluto alla corrotta, così che la più moderna e corrotta, viene a parere più
antica e meno ordinaria della stessa antica. E quante volte le eleganze non
derivano e non sono altro
2076 che pure corruzioni di
voci, frasi ec. ec. ec. E chi perciò le condannasse, o stimasse più eleganti le
corrispondenti voci o frasi incorrotte, e più regolari, più corrispondenti
all'etimologia ec. non saprebbe che cosa sia eleganza per sua natura. ec.
(9. Nov. 1821.).
[2103,1] Le stesse circostanze sociali e politiche e
cronologiche che renderono la lingua latina tanto più determinata, e meno libera
della greca, e tanto più legata rispetto a questa, quanto più perfetta rispetto
alla medesima, resero ancora la letteratura latina assai più determinata,
perfetta, formata e raffinata della greca, e forse di qualunque altra siasi mai
vista, anche (senza dubbio) fra le moderne. Ma queste medesime circostanze, e
queste medesime perfezioni la resero (siccome la lingua) assai meno originale e
varia della greca. I latini scrittori furono grandi per arte, i greci per
natura, parlando di ambedue generalmente. {+I latini ebbero un gusto certo, formato, ragionato, i
greci più naturale che acquisito, e però vario, e originale ec. Qual è la
lingua tale è sempre insomma la letteratura, e viceversa.}
[2112,1] Come anche le costruzioni, l'andamento, la struttura
ch'io chiamo naturale in una lingua, distinguendola dalla ragionevole, logica,
geometrica, abbia una proprietà universale, e sia da tutti più o meno facilmente
appresa (almeno dentro una stessa categoria di nazioni e di tempi), e come per
conseguenza la semplicissima e naturalissima (sebbene perciò appunto
figuratissima) struttura della lingua greca, dovesse facilitare la di lei
universalità; si può vedere in questo, che le scritture le più facili in
qualunque lingua per noi nuova o poco nota, sono quasi sempre e generalmente
2113 le più antiche e primitive, e quelle al cui tempo,
la lingua o si veniva formando, e non era ancor pienamente formata, o non
peranche era incominciata a formare. Così accade nello spagnuolo, così ne'
trecentisti italiani (i più facili scrittori nostri), così nella stessa
oscurissima lingua tedesca, i cui antichi romanzi (come di un certo Romanzo del 13.zo sec. intitolato Nibelung, dice espressamente la Staël) sono anche oggi assai più facili e
chiari ad intendersi, che i libri moderni. Accade insomma il contrario di quello
che a prima vista parrebbe, cioè che una lingua non formata, o non ben formata e
regolata, {e poco logica,} sia più facile della
perfettamente formata {, e logica.} (Eccetto le minuzie
degli arcaismi, che abbisognano di Dizionario per intenderli ec. difficoltà che
per lo straniero apprentif è nulla, e
non è sensibile se non al nazionale ec. ec. {+Eccetto ancora certi ardiri propri della natura, e
diversi secondo l'indole delle nazioni delle lingue, e degl'individui in
que' tempi, i quali ardiri piuttosto affaticano, di quello che impediscano
di capire. v. p. 2153.})
Parimente infatti
2114 i più antichi scrittori greci
sono i più facili e chiari, perchè i più semplici, e di costrutti e frasi le più
naturali, e lo studioso che intende benissimo Senofonte, Demostene, Isocrate ec. si
maraviglia di non intendere i sofisti, e Luciano, e Dion Cassio, e i
padri greci, e altri tali; e molto sbaglierebbe quel maestro che facesse
incominciare i suoi scolari dagli scrittori greci più moderni, credendo, come
può parere a prima giunta, che i più antichi, e più perfettamente greci, debbano
esser più difficili. Così pure accade nel latino, che i più antichi sono i più
facili, e di dizione più somigliante di gran lunga alla greca, che tale fu
infatti la letteratura latina ne' suoi principii, e la lingua latina, anche
prima della letteratura, e l'una e l'altra indipendentemente ancora
dall'imitazione e dallo studio degli esemplari e letteratura greca. Son più
facili gli antichi poeti latini, che i prosatori del secol d'oro. (18.
Nov. 1821.).
[2118,1] Piace l'essere spettatore di cose vigorose ec. ec.
non solo relative agli uomini ma comunque. Il tuono, la tempesta, la grandine,
il vento gagliardo, veduto o udito, e i suoi effetti ec. Ogni sensazione viva
porta seco nell'uomo una vena di piacere, quantunque ella sia per se stessa
dispiacevole, o come formidabile, o come dolorosa ec. Io sentiva un contadino,
al quale un fiume vicino soleva recare grandi danni, dire che nondimeno era un piacere la vista della piena,
quando s'avanzava e correva velocemente verso i suoi campi, con grandissimo
strepito, e menandosi davanti gran quantità di sassi, mota ec. E tali immagini,
benchè brutte in se stesse, riescono infatti sempre belle nella poesia, nella
pittura, nell'eloquenza ec. (18. Nov. 1821.).
[2127,1] Vien pure accagionato il Sig. Botta di alcuni termini familiari, che parvero
non comportabili dalla dignità storica ..... Si mise in campo a sua discolpa
l'osservazione, esser pregio particolare della lingua italiana, l'adattarsi a
tutti i tuoni, anche ne'
2128 più gravi argomenti. Di
fatti, chi ben guardi addentro la materia, non è forse vero, che questo idioma
non si formò già nelle corti, bensì in una repubblica tempestosa, nella quale
esprimere l'energia de' sentimenti popolari, non già fornire occorreva locuzioni
temperate a gente placida, o simulata. Da questa impronta originaria ricevette
la lingua mentovata il privilegio d'essere per l'appunto in modo singolare sì
acconcia a descrivere rivoluzioni politiche. Pref. del Sig. L. di Sevelinges alla sua traduzione della
Storia ec. di C. Botta, in francese, volgarizzata
dal Cav. L. Rossi.
Milano, Botta
Storia ec. 1819. 3.za edizione t. 1. p. LXI.-II.
[2130,2] Pare sproposito, e pure è certo che una lingua è
tanto più atta alla più squisita eleganza e nobiltà del parlare il più elevato,
e dello stile più sublime, quanto la sua indole è più popolare, quanto ella è
più modellata sulla favella domestica e familiare
2131
e volgare. Lo prova l'esempio della lingua greca e italiana e il contrario
esempio della Francese. La ragione è, che sola una tal lingua è suscettibile di
eleganza, la quale non deriva se non dall'uso peregrino e ardito e figurato e
non logico, delle parole e locuzioni. Ora quest'uso è tutto proprio della
favella popolare, proprio per natura, proprio in tutti i climi e tempi, ma
soprattutto ne' tempi antichi, o in quelle nazioni che più tengono dell'antico,
e ne' climi meridionali. Quindi è che lo stesso esser popolare per indole, dà ad
una lingua la facoltà e la facilità di dividersi totalmente dal volgo e dalla
favella parlata, e di non esser popolare, e di variar tuono a piacer suo, e di
essere energica, nobile, sublime, ricca, bella, tenera ogni
volte[volta] che le piace. Insomma l'indole
popolare di una lingua rinchiude tutte le qualità delle quali una lingua umana
possa esser capace (siccome la natura rinchiude tutte le qualità e facoltà di
cui l'
2132 uomo o il vivente è suscettibile, ossia le
disposizioni a tutte le facoltà possibili); rinchiude il poetico come il logico
e il matematico ec. (siccome la natura rinchiude la ragione): laddove una lingua
d'indole modellata sulla conversazione civile, o sopra qualunque gusto,
andamento ec. linguaggio ec. di convenzione, non rinchiude se non quel tale
linguaggio e non più (siccome la ragione non rinchiude la natura, nè vi dispone
l'uomo, anzi la esclude precisamente), secondo che vediamo infatti nella lingua
latina, e molto più nella francese, proporzionatamente alle circostanze che asservissent e legano quest'ultima al suo modello ec.
molto più che la latina ec. (20. Nov. 1821.).
[2134,1] La perfezion della traduzione consiste in questo,
che l'autore tradotto, non sia p. e. greco in italiano, greco o francese in
tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese.
Questo è il difficile, questo è ciò che non in
2135
tutte le lingue è possibile. In francese è impossibile, tanto il tradurre in
modo che p. e. un autore italiano resti italiano in francese, quanto in modo che
egli sia tale in francese qual è in italiano. In tedesco è facile il tradurre in
modo che l'autore sia greco, latino italiano francese in tedesco, ma non in modo
ch'egli sia tale in tedesco qual è nella sua lingua. Egli non può esser mai tale
nella lingua della traduzione, s'egli resta greco, francese ec. Ed allora la
traduzione per esatta che sia, non è traduzione, perchè l'autore non è quello,
cioè non pare p. e. ai tedeschi quale nè più nè meno parve ai greci, o pare ai
francesi, e non produce di gran lunga nei lettori tedeschi quel medesimo effetto
che produce l'originale nei lettori francesi ec.
[2150,1]
2150 Lo stile, e la lingua di Cic. non è mai tanto semplice quanto nel Timeo,
perocch'egli è tradotto dal greco di Platone. E pure Platone fra i
greci del secol d'oro è (se non vogliamo escludere Isocrate) senza controversia il più elegante e
lavorato di stile e di lingua, e il Timeo è delle sue opere più astruse, e forse anche più lavorate,
perch'esso principalmente contiene il suo sistema filosofico. Platone il principe della raffinatezza nella lingua e
stile greco {prosaico,} riesce maravigliosamente
semplice in latino, e nelle mani di Cicerone, a fronte della lingua e stile originale degli altri latini,
e di esso Cicerone principe della
raffinatezza nella prosa latina. {+La
maggiore raffinatezza ed eleganza dell'aureo tempo della letteratura greca,
riesce semplicità trasportata non già ne' tempi corrotti ma nell'aureo della
letteratura latina, e per opera del suo maggiore scrittore.}
(23. Nov. 1821.).
[2166,1] Può far meraviglia molto ragionevole che Marcaurelio scrivesse i suoi libri τῶν εἰς
2167 ἑαυτόν, delle considerazioni di se
stesso
come lo chiama il Menagio, piuttosto in greco che in latino,
essendo romano, non allevato in grecia (nè credo che mai
ci fosse), ed avendo posto molto e felice studio nelle lettere e nella lingua
nativa, come apparisce sì da altre notizie che danno di lui gli Storici, sì
massimamente da ciò ch'egli scrive a Frontone e Frontone a
lui. Non poteva aver egli di mira, cred'io, la maggior diffusione del
suo lavoro, scrivendolo in una lingua più divulgata. Ma io credo certissimo che
egli non fosse indotto a preferir la lingua greca alla latina se non per la
maggiore libertà di quella. Della quale libertà egli aveva bisogno in un'opera
profondamente ed intimamente filosofica, e attenente alla scienza della vita e
del cuore umano, ed alle sottili speculazioni psicologiche. Non dubito ch'egli
non disperasse di potere riuscire
2168 a trattare un
tale argomento in latino, a parlare a se stesso, e di se stesso, cioè del cuor
suo ec. (non delle sue cose pubbliche come fa Cic.) in latino. Questa lingua aveva già avuto un Cic. e un Seneca, e un Tacito, eppure ancor non bastava a una certa filosofia veramente
intima. La lingua greca aveva avuto scrittori filosofici profondi, ma senza ciò,
la sua pieghevolissima e liberissima indole, si prestava a qualsivoglia genere
di argomento, grado di filosofia, {ec.} ancorchè nuovo.
La lingua latina per lo contrario: ed oltracciò quello era un tempo, dove, come
accade dopo una decisa corruzione e licenza, che richiamandosi gl'istituti umani
alla buona strada, essi cadono nell'eccesso contrario; la lingua latina e il
gusto di quel tempo (come oggi in italia) peccava di
servilità, timidità (in
vitium ducit culpę fuga
*
), come si può vedere nelle opere
di Frontone, e come dicevano i maestri
di devozione,
2169 che le anime recentemente
convertite, sogliono patire di scrupoli, e sarebbe anzi mal segno se non ne
patissero. Questo durò poco, perchè la lingua e letteratura colle cose latine
tornò a precipitare indietro ben presto. Ma in quel tempo lo stile di Seneca, e altri tali stili filosofici si
condannavano altamente dai letteratori latini, come oggi dagli italiani quello
di Cesarotti ec. e ciò serviva
d'impaccio e di spauracchio a chi volesse scrivere filosoficamente in latino,
come oggi volendo scriver buon italiano, nessuno s'impaccia più di pensare. Marcaurelio pertanto dovè sentire questo
pericolo, disperare di poter essere profondo filosofo nella lingua nativa voluta
dal suo tempo, e senza violare il gusto corrente, e dar nel naso ai critici, i
quali già lo riprendevano di cattiva {e negligente}
lingua, e di licenza dopo ch'egli s'era dato alla filosofia, e dallo studio
delle parole a quello delle cose,
2170 come apertamente
lo riprende Frontone
de
Orationibus. Trovossi adunque obbligato per esprimere
i suoi più intimi sentimenti, a sceglier la lingua greca, a creder più facile di
esprimere le cose sue più proprie, in una lingua forestiera ed altrui, che nella
propria e nativa. (Il qual bisogno pur troppo si farebbe molte volte sentire
agl'italiani rispetto al francese, se gl'italiani pensassero, ed avessero cose
proprie da dire.)
[2171,1] Non solo alla lingua francese, (come osserva la Staël) ma anche a tutte le altre moderne, pare che la prosa
sarebbe più confacente del verso alla poesia moderna. Ho mostrato altrove pp.
734-35 in che cosa debba questa essenzialmente consistere, e quanto
ella sia più prosaica che poetica. Infatti laddove leggendo le prose antiche,
talvolta desideriamo quasi il numero e la misura, per la poeticità delle idee
che contengono (non ostante che e per numero e per ogni altra qualità, la prosa
antica tenga tanto della versificazione); per lo contrario leggendo i versi
moderni, anche gli ottimi, e molto più quando ci proviamo a mettere noi stessi
in verso de' pensieri poetici, veramente propri e moderni, desideriamo la
libertà, la scioltezza, l'abbandono, {+la
scorrevolezza, la facilità, la chiarezza, la placidezza, la semplicità, il
disadorno, l'assennato, il serio e sodo,}
{la posatezza}, il piano della prosa,
2172 come meglio armonizzante con quelle idee che non
hanno quasi niente di versificabile ec. (26. Nov. 1821.).
[2172,1] Sono tanto più {ardite}
poetiche le lingue e gli stili antichi, che i moderni, che {+(per quanto qualunque di esse antiche sia affine a
qualunque delle moderne, per quanto questa sia fra le moderne arditissima,
poeticissima liberissima e ciò per clima, carattere nazionale ec.)}
anche nella lingua italiana la più poetica e ardita delle perfettamente formate
fra le moderne, {e figlia germana della latina,} un
ardire della prosa latina non riesce comportabile se non in verso, un ardire
proprio dell'epica latina, non si può tollerare se non nella nostra lirica. Anzi
la più ardita delle nostre poesie (o per genere, o per istile particolare
dell'autore ec.) quando va più avanti in ardire, non va più là di quello che
andassero i greci o i latini nella loro poesia più rimessa; anzi spessissimo una
frase, metafora ec. prosaica ed usitata (forse anche familiare) in latino o in
greco, non può esser che lirica in italiano.
[2173,3] Lo spirito della lingua {e dello
stile} latino è più ardito e poetico che quello della greca (non solo
in verso ma anche in prosa), e nondimeno egli è meno libero assai. Queste due
qualità si accordano benissimo. La lingua greca aveva la facoltà di non essere
ardita, la lingua latina non l'aveva. La lingua greca poteva non solo essere
ardita
2174 e poetica quanto la latina (come lo fu bene
spesso), non solo più della latina (come pur lo fu), ma in tutti i possibili
modi, laddove la latina non poteva esserlo se non dentro un determinato modo,
genere, gusto, indole di ardiri. La libertà di una lingua si misura dalla sua
maggiore o minore adattabilità a' diversi stili, dalla maggiore o minore quasi
quantità di caratteri ch'essa contiene in se stessa, o a' quali dà luogo. {ec.} Ma ch'ella sia di un tal carattere ardito, ch'ella
[abbia] per proprietà un certo tal genere
di ardire, ciò non prova ch'ella sia libera. Ci può dunque essere una lingua
serva ed ardita, come una lingua timida e serva, (tale è la francese) una lingua
libera e non ardita, come una lingua ardita e libera. Bensì da che una lingua è
libera, non dipende che dallo scrittore ec. il renderla ardita. L'ardire dello
spirito proprio della lingua latina formata e letterata, venne dalla
2175 natura {poetica} dei
popoli meridionali, da quella degli scrittori che la formarono, dall'energia e
vivacità degl'istituti politici e dei costumi e dei tempi romani. La poca
libertà della medesima lingua venne dall'uso sociale che la strinse, l'uniformò,
le prescrisse e determinò quella tale strada, quel tal carattere e non altro. La
lingua greca sebbene in mano di popoli vivacissimi per clima, carattere,
politica, costumi, opinioni ec. nondimeno inclinò più a far uso dello stile
semplice che dell'ardito, e ciò per la natura dei tempi candidi ne' quali essa
principalmente fiorì, e fu applicata alla letteratura. Ma dai soli scrittori
dipendeva il farla ardita più della latina, e in qualunque genere, come fecero
infatti ogni volta che vollero. Laddove non dipendeva dagli scrittori latini
dopo che la lingua fu formata, il ridurla al semplice, al candido, al piano, al
riposato della
2176 lingua greca, se non fino a un
certo segno. Onde accade alle frasi latine trasportate in greco, o viceversa,
quello appresso appoco che ho detto p.
2172. ma più nel caso di trasportare le frasi greche in latino, le
quali vi riescono troppo semplici, di quello che nel caso contrario, perchè la
lingua greca si presta a tutto.
[1313,1] Chi vuol persuadersi dell'immensa moltiplicità di
stili e quasi lingue diverse, rinchiuse nella lingua italiana, consideri le
opere di Daniello Bartoli, meglio
*
del quale niuno conobbe i più riposti segreti della nostra
lingua.
*
(Monti, Proposta, vol. 1 par.
1. p. XIII.)
1314 Un uomo consumato negli studi della nostra
favella, il quale per la prima volta prenda a leggere questo scrittore, resta
attonito e spaventato, e laddove stimava d'essere alla fine del cammino negli
studi sopraddetti, comincia a credere di non essere a mala pena al mezzo. Ed io
posso dire per esperienza che la lettura del Bartoli, fatta da me dopo bastevole notizia degli
scrittori italiani d'ogni sorta e d'ogni stile, fa disperare di conoscer mai
pienamente la forza, e la infinita varietà delle forme e sembianze che la lingua
italiana può assumere. Vi trovate in una lingua nuova: locuzioni e parole e
forme delle quali non avevate mai sospettato, benchè le riconosciate ora per
bellissime e italianissime: efficacia ed evidenza tale di espressione che alle
volte disgrada lo stesso Dante, e vince
non solo la facoltà di qualunque altro scrittore antico o moderno, di
qualsivoglia lingua, ma la stessa opinione delle possibili forze della favella.
E tutta questa novità non è già novità che non s'intenda, che questo non sarebbe
pregio ma vizio sommo, e non farebbe vergogna al lettore ma allo scrittore.
Tutto s'intende benissimo, e tutto è nuovo, e diverso dal consueto:
1315 ella è lingua e stile italianissimo, e pure è
tutt'altra lingua e stile: e il lettore si maraviglia d'intender bene, e
perfettamente gustare una lingua che non ha mai sentita, ovvero di parlare una
lingua, che si esprime in quel modo a lui sconosciuto, e però ben inteso. Tale è
l'immensità e la varietà della lingua italiana, facoltà che pochi osservano e
pochi sentono fra gli stessi italiani più dotti nella loro lingua; facoltà che
gli stranieri difficilmente potranno mai conoscere pienamente, e quindi
confessare. (13. Luglio 1821.).
[2197,3] Quello che altrove ho detto della lingua del Bartoli
pp.
1313-15, dimostra quanto la nostra lingua si presti all'originalità
dello stile e degli stili individuali, in tutti i generi, e in tutta
l'estensione del termine. Originalità
2198 strettamente
vietata dalla lingua francese allo stile ec. dell'individuo, se non pochissima,
che a' francesi pare gran cosa, come la lingua di Bossuet. Perocchè è molto una piccola differenza, in
una nazione, in una letteratura, in una lingua, avvezza, e necessariamente
conducẽte[conducente] all'uniformità, che
non può essere alterata se non se menomamente, senza dar bruttamente negli
occhi, e uscir de' limiti del lecito. Laddove nella lingua italiana lo scrittore
individuo può essere uniforme agli altri, e difforme se vuole, anzi tutt'altro,
e nuovissimo, e originalissimo, senza lasciar di essere e di parere italiano, e
ottimo italiano, e insigne nella lingua. Ciascuno colla lingua italiana si può
aprire una strada novissima, propria, ignota, e far maravigliare i nazionali di
parlare una lingua che si possa esprimere in modo si[sì] differente dal loro, e da loro non mai pensato,
2199 benchè benissimo l'intendano, per nuovo che sia.
(30. Nov. 1821.).
[2228,1] È cosa facilmente osservabile che nel comporre ec.
giova moltissimo, e facilita ec. il leggere abitualmente in quel tempo degli
autori di stile, di materia ec. analoga a quella che abbiamo per le mani ec. Da
che cosa crediamo noi che ciò derivi? forse dal ricevere quelle tali letture,
quegli autori ec. come modelli, come esempi di ciò che dobbiamo fare,
dall'averli più in pronto, per mirare in essi, e regolarci nell'imitarli? ec.
non già, ma dall'abitudine materiale che la mente acquista a quel tale stile ec.
la quale abitudine le rende molto più facile l'eseguir ciò che ha da fare. Tali
letture in tal tempo non sono studi, ma esercizi, come la lunga abitudine del
comporre facilita la composizione. Ora tali letture fanno appunto allora
l'uffizio di quest'abitudine, la facilitano, esercitano insomma la mente in
quell'operazione
2229 ch'ella ha da fare. E giovano
massimamente quando ella v'è già dentro, e la sua disposizione e[è] sul traine[train] di eseguire, di applicare al fatto ec.
Così leggendo un ragionatore, per quei giorni si prova una straordinaria
tendenza, facilità, frequenza ec. di ragionare sopra qualunque cosa occorrente,
anche menoma. Così un pensatore, così uno scrittore d'immaginazione, di
sentimento (esso ci avvezza per allora a sentire anche da noi stessi), originale, inventivo ec. E questi
effetti li producono essi non in forza di modelli (giacchè li producono quando
anche il lettore li disprezzi, o li consideri come tutt'altro che modelli), ma
come mezzi di assuefazione. E però, massime nell'atto di comporre, bisogna
fuggir le cattive letture, sia in ordine allo stile, o a qualunque altra cosa;
perchè la mente senz'avvedersene si abitua a quelle maniere, per quanto le
condanni, e per quanto sia abituata già a maniere diverse, abbia formato una
maniera
2230 propria, ben radicata nella di lui
assuefazione ec. (6. Dic. 1821.).
[2235,1] Ed è cosa generalmente notabile che gli uomini
disingannati, e disseccati sono necessariamente cattivi giudici della poesia,
eloquenza ec. Or tale è ben presto il caso degli uomini più sensibili e
immaginosi, come ho detto altrove pp. 1648-49
pp. 2039-41
pp. 2107. sgg.
p. 2208-10. Anzi lo è quasi sempre in quel tempo in cui essi son
giunti a formarsi un gusto e un tatto fino e squisito in materie letterarie e in
ogni altra cosa, il che non può essere se non dopo lungo studio, esperienza,
tempo. Quindi è che oggidì i più competenti giudici delle opere d'immaginazione
e sentimento, anzi i soli competenti, vengono pur troppo ad essere incompetenti,
per la quasi
2236 inevitabile abitudine di freddezza e
noncuranza ch'essi contraggono più presto, più costantemente e durevolmente e
continuamente, e più radicalmente, profondamente, e vivamente degli spiriti
mediocri. Fra' quali per conseguenza non isbaglierebbe forse, chi pretendesse di
ritrovare i giudici migliori possibili in tali materie, se non altro come mezzi
e subbietti d'esperimento. (8. Dic. dì della Concezione di Maria SS.
1821.).
[2239,2] Osservando bene, potrete vedere che la prosa (ed
anche la poesia) latina, nelle metafore,
2240 eleganze,
ardimenti abituali e solenni, giro della frase, costruzione ec. è molto più
poetica della greca, la quale (parlo della classica ed antica) ha un andamento
assai più rimesso, posato, piano, semplice, meno ardito, anzi non soffrirebbe in
nessun caso quelle metafore ardite e poetiche che a' prosatori latini sono
familiari, e poco meno che volgari. E se non le soffrirebbe, ciò non è
perch'ella ne abbia ed usi delle altre equivalenti, ma intendo dire ch'ella non
soffrirebbe un'egual misura e grado di ardimento ne' traslati e in tutta
l'elocuzione della prosa la più alta, come è quella di Demostene, a petto a cui Cicerone è un poeta per lo stile è[e] la lingua, laddove egli è quasi un prosatore ne'
concetti, passioni ec. rispetto a Demostene poeta, o certo più poeta di Cicerone. Quindi una frase prosaica latina sarebbe
poetica in greco, una frase epica
2241 o elegiaca in
latino sarebbe lirica in greco ec. Quasi gl'istessi rispetti ha la lingua latina
coll'italiana, similissima in queste parti alla greca, e però non è maraviglia
se il latinismo dello stile diede qualche durezza ai cinquecentisti, e sforzò e
snaturò alquanto il loro scrivere. (10. Dic. dì della Venuta della S.
Casa. 1821.).
[2251,1]
Alla p. 2243.
Tutto ciò che è finito, tutto ciò che è ultimo, desta sempre naturalmente nell'uomo un sentimento di
dolore, e di malinconia. Nel tempo stesso eccita un sentimento piacevole, e
piacevole nel medesimo dolore, e ciò a causa dell'infinità dell'idea che si
contiene in queste parole finito,
ultimo ec. (le quali però sono di lor natura, e saranno sempre
poeticissime, per usuali e volgari che sieno, in qualunque lingua e stile. E tali son pure
2252
in qualsivoglia lingua ec. quelle altre
parole e idee, che ho notate in vari luoghi p. 1534
p.
1789
pp. 1825-26
pp.
1927-30, come poetiche per se, e per l'infinità che essenzialmente
contengono.) (13. Dic. 1821.). {{V. p. 2451.}}
[2263,1]
Antichi, antico, antichità; posteri, posterità sono
parole poeticissime ec. perchè contengono un'idea 1. vasta, 2. indefinita ed
incerta, massime posterità della quale non sappiamo
nulla, ed antichità similmente è cosa oscurissima per
noi. Del resto tutte le parole che esprimono generalità, o una cosa in generale,
appartengono a queste considerazioni. (20. Dic. 1821.).
[1429,1] L'antico è un principalissimo ingrediente delle
sublimi sensazioni, siano materiali, come una prospettiva, una veduta romantica
ec. ec. o solamente spirituali ed interiori. Perchè ciò? per la tendenza
dell'uomo all'infinito. L'antico non è eterno, e quindi non è infinito, ma il
concepire che fa l'anima uno spazio di molti secoli, produce una sensazione
indefinita, l'idea di un tempo indeterminato, dove l'anima si perde, e sebben sa
che vi sono confini, non li discerne, e non sa quali sieno. Non così nelle cose
moderne, perch'ella non vi si può perdere, e vede chiaramente tutta la stesa del
tempo, e giunge subito all'epoca, al termine ec. Anzi è notabile che l'anima in
una delle
1430
{{dette}} estasi, vedendo p. es. una torre moderna, ma
che non sappia quando fabbricata, e un'altra antica della quale sappia l'epoca
precisa, tuttavia è molto più commossa da questa che da quella. Perchè
l'indefinito di quella è troppo piccolo, e lo spazio, benchè i confini {{non}} si discernano, è tanto angusto, che l'anima arriva
a comprenderlo tutto. Ma nell'altro caso, sebbene i confini si vedano, e quanto
ad essi non vi sia indefinito, v'è però in questo, che lo spazio è così ampio
che l'anima non l'abbraccia, e vi si perde; e sebbene distingue gli estremi, non
distingue però se non se confusamente lo spazio che corre tra loro. Come
allorchè vediamo una vasta campagna, di cui {pur} da
tutte le parti si scuopra l'orizzonte. (1. Agosto. 1821.).
[2284,2] Qual autor greco più facile di Senofonte? anzi qual autor latino? e forse anche qual
autore in qualunque lingua, massime antica, può essere, o avrebbe potuto esser
più facile, figurandoci anche una lingua a nostro talento? E pure egli è
pienissimo di locuzioni, modi, forme figuratissime, irregolarissime. Ma esse
sono naturali, e ciascuno le comprende, e qualunque principiante di greco,
proverà gran facilità ad intender Senofonte (forse sopra qualunque altro autore, massime della stessa
antichità), di qualunque nazione egli sia, e quantunque quelle frequentissime e
stranissime figure di Senofonte, non
sieno meno contrarie alle regole della sintassi greca, che all'ordine
2285 logico universale del discorso. Tanto è vero che
la natura non è meno universale della ragione, e che adoperando naturalmente le
facoltà proprie di una lingua, per
molto ch'elle si allontanino dalla logica, non si corre rischio di oscurità, e
che una lingua di andamento naturale; se non è così facile come quella di
andamento logico, certo non è oscura, e fra le antiche poteva (e può) esser
giudicata facilissima, e servire anche alla universalità. (25. Dic. dì di
Natale. 1821.).
[2288,1] La lingua latina così esatta, così regolata, e
definita, ha nondimeno moltissime frasi ec. che per la stessa natura loro, e del
linguaggio latino, sono di significato così vago, che a determinarlo, e renderlo
preciso non basta qualsivoglia scienza di latino, e non avrebbe bastato l'esser
nato latino, perocch'elle son vaghe per se medesime, e quella tal frase e la
vaghezza della significazione sono per essenza loro inseparabili, nè quella può
sussistere senza questa. Come Georg. 1. 44. et Zephyro putris se gleba
resolvit.
*
Quest'è una frase regolarissima, e
nondimeno regolarmente e gramaticalmente indefinita di significazione, perocchè
nessuno potrà dire se quel Zephyro significhi al zefiro, per lo zefiro,
2289
col zefiro ec. Così quell'altra: Sunt lacrimę
rerum
*
ec. della quale altrove ho parlato p.
1337. E cento mila di questa e simili nature, regolarissime,
latinissime, conformissime alla gramatica, e alla costruzione latina, prive o
affatto, o quasi affatto d'ogni figura di dizione, e tuttavolta vaghissime e
indefinibili di significato, non solo a noi, ma agli stessi latini. Di tali
frasi abbonda assai più la lingua greca. Vedete come dovevano esser poetiche le
lingue antiche: anche le più colte, raffinate, adoperate, regolate. Qual è la
lingua moderna, che abbia o possa ricevere non dico molte, ma qualche frasi ec.
di significato indefinibile, e per la sua propria natura vago, senz'alcuna
offesa ec. della gramatica? La italiana forse alcun poco, ma molto al di sotto
della latina. La tedesca credo che in questa facoltà vinca la nostra, e tutte le
altre moderne. Ma ciò solo perch'ella non
2290 è ancora
bastantemente o pienamente formata; perch'ella stessa non è definita, è capace
di locuzioni indefinite, anzi, volendo, non potrebbe mancarne. Così accade in
qualunque lingua, nè solo nelle locuzioni, ma nelle parole. La vaghezza di
queste va in ragion diretta della poca formazione, {+uniformità, unità ec.} della lingua, e questa,
della letteratura e conversazione, e queste, della nazione. Ho notato altrove
pp. 1953-57
pp. 2080. sgg.
pp. 2087-89
pp. 2177-78 come la letteratura tedesca non avendo alcuna unità, non
abbia forma, giacchè per confessione dei conoscitori, il di lei carattere è
appunto il non aver carattere. Non si può dunque dir nulla circa le facoltà del
tedesco, che non può esser formato nè definito, non essendo tale la letteratura,
(per vastissima ch'ella sia, e fosse anche il decuplo di quel che è) e mancando
affatto la conversazione. Quindi anche le loro parole e frasi denno per
necessità avere (come hanno) moltissimo d'indefinito.
2291
(26. Dic. 1821.).
[2304,1] I diminutivi sogliono esser sempre graziosi, e recar
grazia e leggiadria ed eleganza al discorso, alla frase ec. Riferite
quest'osservazione alla grazia che nasce dalla piccolezza
p.
200
pp.
250-51. (29. Dic. 1821.).
[2313,1] Il grande intreccio in un'azione drammatica, la
complicazione dei nodi ec. distoglie affatto l'animo dell'uditore o lettore
dalla considerazione della naturalezza, verità, forza della imitazione, del
dialogo, delle passioni ec. e di tutte quelle bellezze di dettaglio nelle quali
principalmente consiste il pregio d'ogni genere di poesia. Anzi per l'ordinario
dispensa l'autore da queste bellezze, lo dispensa dall'osservanza, e
dall'efficace e viva ἐκτύπωσις dei caratteri ec. In questo modo l'unico
2314 o certo il principale effetto ed affetto ed
interesse che i drammi di grande intreccio producono, si è la curiosità; e
questa sola spinge l'uditore a interessarsi e fare attenzione a ciò che si
rappresenta, questa sola trova pascolo, e questa sola è soddisfatta nello
scioglimento. Nessun'altra passione o interesse è prodotta in lui da tali
drammi, per caldi e passionati che l'autore abbia inteso di farli. Or questo è
del tutto alieno dall'essenza della drammatica: esso appartiene all'essenza del
racconto: la drammatica essendo una rappresentazion viva e quasi vera delle cose
umane, deve destar ben altro interesse che quello della curiosità, come può fare
la storia: in questo caso, l'azione drammatica viene ad esser come quella di una
novella, il dramma produce lo stesso effetto di una novella, ed è indifferente
per l'uditore o lettore che quell'azione accada sotto gli occhi suoi, o gli
venga fatta sapere per mezzo di parlate, ovvero che se gli racconti
semplicemente il caso come in un romanzo, o in una storia curiosa e complicata.
2315 Quindi la necessità e il pregio degl'intrecci
semplici in ogni genere di drammi, ma proporzionatamente più in quelli dove
l'interesse della passione, e la commozione dell'uditore dev'esser più viva,
come nella tragedia: a cui la semplicità dell'azione è più necessaria che alla
commedia. A questa poi ancora è proporzionatamente necessaria per il pieno
sviluppo, e la perfetta pittura dei caratteri, e lo spicco dei medesimi, i quali
si perdono affatto (per vivi e ben imitati che sieno) quando la curiosità
dell'intreccio assorbe tutto l'interesse e l'attenzione dell'uditore. In somma
l'uditore non deve tanto interessarsi del successo, e anelare allo scioglimento
del nodo, ch'egli perda l'interesse e la commozione ec. successiva, e continua,
ed applicata individualmente a ciascuna parte del dramma, e a tutto il processo
dell'azione ugualmente. (31. Dic. 1821.). {{V. p.
2326.}}
[2336,1] Ho parlato altrove pp. 1684-85
pp.
1716-17
pp.
1780-81
p.
1999
pp. 2049-50
p. 2239 del perchè la sveltezza debba piacere, e com'ell'abbia che fare colla velocità, colla prontezza ec. Ho notato che questa sveltezza piacevole, non è solo nella figura o delle
persone, o degli oggetti visibili, nè nei movimenti ec. ma in ogni altro genere
di cose, e qualità di esse. P. e. ho fatto osservare come la sveltezza, la
pieghevolezza, la rapidità della voce, de' passaggi ec. sia una delle principali
sorgenti di piacere nella musica, massimamente moderna. Or aggiungo. Piace la
sveltezza e la rapidità anche nel discorso, nella pronunzia, ec. Le donne
Veneziane piacciono molto a sentirle parlare anche per la rapidità materiale del
loro discorso, per la copia inesauribile che hanno di parole, perchè la rapidità
non le conduce a verun intoppo ec., cioè non ostante la velocità della pronunzia
e del discorso, non intoppano ec. Anche
2337 a
rapidità, la concisione ec. dello stile, e il piacere che ne ridonda, possono e
debbono in parte ridursi sotto queste considerazioni. (8. Gen.
1822.).
[2337,1] La sveltezza o veduta o concepita, per mezzo di
qualunque senso, o comunque, (v. il
pensiero precedente) comunica all'anima un'attività, una mobilità, la trasporta qua e là,
l'agita, l'esercita ec. Ed ecco ch'ella per necessità dev'esser piacevole,
perchè l'animo nostro trova sempre qualche piacere (maggiore o minore, ma sempre qualche piacere) nell'azione,
sinch'ella non è o non diviene fatica, e non produce stanchezza. (8. Gen.
1822.
[2350,1]
2350
Alto, altezza e simili sono
parole e idee poetiche ec. per le ragioni accennate altrove, {(p. 2257.)} e
così le immagini che spettano a questa qualità. (14. Gen.
1822.)
[2355,2] Noi diciamo leccare, i
francesi lécher, (gli spagnuoli vedilo), i greci
λείχειν, i latini nulla di simile. A primissima giunta è manifesto che il greco
λείχω, cioè lecho, o licho è
tuttuno col nostro lecco, che anche, volgarmente, si
dice licco. E notate pure che il francese non dice léquer o lecquer, ma lécher, conservando il χ greco. Queste parole sono
antichissimamente e primitivamente proprie delle nostre lingue. Sono
volgarissime, anzi plebee; nè s'usa altra voce nel linguaggio familiare per
dinotare la stessa azione.
2356 Antichissima e
proprissima della lingua greca è la voce λείχω. Come dunque questa conformità
fra l'antichissimo greco, e il modernissimo, vivente, ed usualissimo italiano,
francese ec? Non è egli evidente che leccare, lécher ec. ci viene dal volgare latino? E da qual
altra fonte che da un volgare ci può esser venuta una parola sì volgare, e
propria del nostro più familiare discorso? E qual altro volgare che il latino
può ed avere avuta questa parola greca, usandola volgarmente, ed averla
comunicata a queste due lingue moderne, nate l'una separatamente dall'altra? Ma
come potè nel volgare latino divenire sì familiare, e conservarsi poi sino
all'ultimo, un'[un] antichissimo verbo greco?
Certo il volgo latino non istudiava il greco, e più grecizzanti erano i nobili
che la plebe. È dunque manifesto che tal verbo deriva niente meno che da quella
primitiva sorgente da cui vennero il greco e il latino (volgari tutti due quando
nacquero, come son tutte le lingue); e che perduto poi, o escluso dalle polite
scritture, e dal linguaggio nobile, come tante altre,
2357 (e come accade appunto nell'italiano che
parecchie voci volgari benchè derivate dalla purissima latinità, cioè dalla
nostra madre, si escludono dalle polite scritture o discorsi, perchè appunto
fatte troppo familiari dall'uso quotidiano della plebe, ec. e si antepongono
altre d'origine o di forma corrottissima) si conservò perpetuamente nel
popolare. Ed appunto qui possiamo osservare un esempio di ciò che ho detto nella
parentesi, poichè lingo
(v. il Forcell.) non è che corruzione
di λείχω, o lecho, o licho;
pur quello fu adottato nelle scritture, questo escluso, benchè certo esistesse
nella lingua latina, come abbiamo veduto. V.
il Ducange in Lecator, e nota anche Licator sì quivi
in un esempio, come al suo luogo. (23. Gen. 1822.).
[2361,1] Che vuol dire che l'uomo ama tanto l'imitazione e
l'espressione ec. delle passioni? e più delle più vive? e più l'imitazione la
più viva ed efficace? Laonde o pittura, o scultura, o poesia, {ec.} per bella, efficace, elegante, e pienissimamente
imitativa ch'ella sia, se non esprime passione, {+se non ha per soggetto veruna passione, (o solamente
qualcuna troppo poco viva)} è sempre posposta a quelle che
l'esprimono, ancorchè con minor perfezione nel loro soggetto. E le arti che non
possono esprimere passione, come l'architettura, sono tenute le infime fra le
belle, e le meno dilettevoli. E la drammatica e la lirica son tenute fra le
prime per la ragione
2362 contraria. Che vuol dir ciò?
non è dunque la sola verità dell'imitazione, nè la sola bellezza e dei soggetti,
e di essa, che l'uomo desidera, ma la forza, l'energia, che lo metta in
attività, e lo faccia sentire gagliardamente. L'uomo odia l'inattività, e di
questa vuol esser liberato dalle arti belle. {{Però le
pitture di paesi, gl'idilli ec. ec. saranno sempre d'assai poco effetto; e
così anche le pitture di pastorelle, di scherzi ec. di esseri insomma senza
passione: e lo stesso dico della scrittura, della scultura, e
proporzionatamente della musica. (26. Gen. 1822.).}}
[2363,2] Quei pochissimi {poeti}
italiani che in questo o nel passato secolo hanno avuto qualche barlume di genio
e natura poetica, qualche poco di forza nell'animo
2364
o nel sentimento, qualche poco di passione, sono stati tutti malinconici nelle
loro poesie. (Alfieri, Foscolo ec.) Il Parini tende
anch'esso nella malinconia, specialmente nelle odi, ma anche nel Giorno, per ischerzoso che
paia. Il Parini però non aveva
bastante forza di passione e sentimento, per esser vero poeta. E generalmente
non è che la pura debolezza del sentimento, la scarsezza della forza poetica
dell'animo, che {può} permettere ai nostri poeti
italiani d'oggidì (ed anche degli altri secoli, e anche d'ogni altra nazione), a
quei medesimi che più si distinguono, e che per certi meriti di stile, o di
stiracchiata immaginazione, son tenuti poeti, l'essere allegri in poesia, ed
anche inclinarli e sforzarli a preferir l'allegro al malinconico. Ciò che dico
della poesia dico proporzionatamente delle altre parti della bella letteratura.
Dovunque non regna il malinconico nella letteratura moderna, la sola debolezza
n'è causa. (27. Gen. 1822.).
[2395,2] Nelle scritture de' moderni puristi italiani (p. e.
del Botta) per lo più si vede
chiaramente un moderno che scrive all'antica, e quindi non ha la grazia dello
scrivere antico, non avendone lo spontaneo. Una delle due, o s'ha da parere un
2396 antico che scriva all'antica, vale a dire che
questo scrivere paia naturale dello scrittore, e venuto da se; o s'ha da essere
un moderno che scriva alla moderna: e volendo parere un moderno, non si dee
volere scrivere altrimenti, se si vuol fuggire il contrasto ridicolo e
l'affettazione; e molto meno volendo scriver cose moderne, e pensieri di
andamento moderno (cioè insomma propri dello scrittore, che mentre vive non sarà
mai antico): le quali cose e i quali pensieri, da che mondo è mondo, in
qualsivoglia nazione non si sono scritti nè potuti scrivere in altra lingua che
moderna (perchè questa sola è loro connaturale, e perciò sola dà il modo di bene
e pienamente esprimerli), e non altrimenti che alla moderna. (19. Marzo dì
di S. Giuseppe. 1822.)
{Quando mai, se si potesse, dovressimo,
quanto allo stile, parere antichi che pensassero alla moderna. Laddove nei
nostri accade tutto il contrario.}
[2396,1] Il P. Dan.
Bartoli è il Dante della prosa
italiana. Il suo stile in ciò che spetta alla lingua, è tutto a risalti e
rilievi. (22. Marzo 1822.).
[2408,1] Che la lingua greca si conservasse incorrotta, o
quasi incorrotta, tanto più tempo della latina, e anche dopo scaduta già la
latina ch'era venuta in fiore tanto più tardi, si potrà spiegare anche
osservando, che la letteratura (consorte indivisibile della lingua) sebbene era
scaduta appresso i greci, pur aveva ancor tanto di buono, ed era eziandio capace
di tal perfezione, che talvolta non aveva che invidiare all'antica. Esempio ne
può essere la Spedizione di Alessandro, e l'Indica d'Arriano, opere di stile e di lingua così purgate, così
uguali in ogni parte e continuamente a se stesse, senza sbalzi, risalti, slanci,
voli o cadute di sorte alcuna (che sono le proprietà dello scriver sofistico e
guasto, in qualsivoglia genere, lingua, e secolo corrotto), di semplicità e
naturalezza e facilità {chiarezza, nettezza ec.} così
spontanea ed inaffettata, così ricche, così
2409
proprie, così greche insomma nella lingua, e nella maniera, e nel gusto, che
quantunque Arriano fosse imitatore,
cioè quello stile e quella lingua non fossero cose naturali in lui ma
procacciate collo studio de' Classici (come è necessario in ogni secolo dove la
letteratura non sia primitiva) e principalmente di Senofonte, non per questo si può dire ch'egli non le
avesse acquistate in modo che paiano e si debbano anzi chiamar sue, nè se gli
può negare un posto se non uguale, certo vicinissimo a quello degl'imitati da
lui. Ora il tempo d'Arriano fu quello
d'Adriano e degli Antonini, nel qual tempo la
letteratura latina, con tutto che fosse tanto meno lontana della greca dal suo
secol d'oro, non ha opera nessuna che si possa di gran lunga paragonare a queste
d'Arriano ne' suddetti pregi, come
anche in quelli d'una ordinata e ben architettata narrazione, e altre tali virtù
dello scriver di storie. Tacito fu alquanto anteriore, e nella perfezion della lingua non si
potrebbe ragguagliar troppo bene ad Arriano: forse neanche nelle doti di storico appartenenti
2410 al bello letterario, sebben egli l'avanza di molto
in quelle che spettano alla filosofia, politica ec. Ma quel che mantiene la
lingua, è la bella letteratura, non la filosofia nè le altre scienze, che
piuttosto contribuiscono a corromperla, come fece lo stile di Seneca. E però Plutarco contemporaneo di Tacito, e com'esso, alquanto più vecchio d'Arriano, non si può recar per modello nè
di lingua nè di stile, essendo però stato forse più filosofo di tutti i filosofi
greci, molti de' quali sono esempi di perfettissimo scrivere. Ma non erano così
sottili come Plutarco, siccome Cicerone non lo era quanto Seneca, questi corrottissimo nello
scrivere, e {{quegli}} perfettissimo. (1. Maggio
1822.).
[2415,3] Una lingua non è bella se non è ardita, e in ultima
analisi troverete che in fatto di lingue, bellezza è lo stesso che ardire. E che altro sarebb'ella? L'armonia ec. del suono delle parole?
Quest'è una bellezza affatto esterna, e della quale poco o nulla si può
convenire, essendo diversissime in questo genere le opinioni e i gusti, secondo
le nazioni e i secoli. Per noi è bruttissimo il suono delle parole orientali, e
per gli orientali altrettanto sarà delle nostre. E parlando esattamente che cosa
intendiamo noi dell'armonia della lingua greca che pur chiamiamo bellissima? Che
sentimento, che gusto
2416 ne proviamo noi, se non, per
dir poco, incertissimo, confusissimo, e superficialissimo? Certo è che l'armonia
della lingua nostra, qualunque ella sia, ed ancorchè asprissima, ci diletta, ed
è sentita da noi molto più che quella della lingua greca, e quindi non avremmo
alcuna ragione di preferir questa lingua per la bellezza, neppure alla tedesca,
o alla russa. Forse la bellezza consisterà nella ricchezza? Ricchezza di frasi e
di modi non si dà se non in una lingua ardita, perchè di forme esatte e
matematiche, tutte le lingue ne sono o ne possono essere egualmente ricche nè
più nè meno: e questa ricchezza non può molto stendersi, essendo limitatissima
per natura sua: giacchè la dialettica poco può variare, anzi derivando da
principii uniformi e semplicissimi, tende e produce naturalmente somma
uniformità e semplicità di dicitura. La ricchezza poi di parole puramente, giova
alla bellezza, ma non basta di gran lunga; ed anch'essa è una qualità quasi
estrinseca, e senza quasi accidentale alla lingua, la quale senza punto punto
alterarsi, o scomporsi in niun
2417 modo può essere ed
è, oggi più abbondante di parole, domani meno, secondo le circostanze nazionali,
commerciali, politiche, scientifiche ec. Infatti la lingua francese è in verità
ricchissima di parole, massime in filosofia, scienze, conversazione,
manifatture, e in ogni uso e materia di società, di commercio ec. ec. e non per
questo è bella, nè più bella dell'italiana, e neanche della spagnuola. La vera e
non accidentale, ma essenziale bellezza di una lingua, quella che non si può
perdere, se la lingua non si corrompe formalmente, è una bellezza intrinseca, e
spetta all'indole della lingua; e questa non può consistere in altro che
nell'ardire. Or questo ardire che cos'è, fuorchè la libertà di non essere esatta
e matematica? Giacchè quanto all'esattezza, torno a dire, tutte le lingue ne
sono egualmente capaci, e tutte per mezzo suo posson divenire, e diverrebbero
uniformi affatto nell'indole, essendo la ragione, una; e non trovandosi varietà
se non se nella natura. Quindi se lingua
bella è lingua ardita e libera, ella è parimente lingua
non esatta, e non obbligata
2418 alle regole
dialettiche delle frasi, delle forme, e generalmente del discorso.
Osservate tutte le lingue chiamate belle, antiche e moderne, greca, latina,
italiana, spagnuola: in tutte troverete non altra bellezza propriamente che
ardire, e questo ardire non posto in altro che nelle cose sopraddette. Osservate
anche gli scrittori chiamati belli ed eleganti in ciascuna di tali lingue, e
paragonateli con quelli che non lo sono. Osservate per se, ciascuna frase, forma
ec. chiamata bella ed elegante, e paragonatela ec. Non v'è lingua bella che non
sia lingua poetica, cioè non solo capace, anzi posseditrice d'una lingua
distintamente poetica (come l'hanno tutte le suddette, e come non l'ha la
francese), ma poetiche, generalmente parlando, eziandio nella prosa, benchè
senza affettazione; vale a dir poetiche in quanto lingue, e non quanto allo
stile, come sono sconciamente, e discordantissimamente poetiche tutte le prose
francesi. Or lingua poetica, è lingua non matematica,
2419 anzi contraria per indole allo spirito matematico. (La sascrita,
riputata bellissima fra le orientali, è notatamente arditissima e
poeticissima.)
[2434,2] Che le passioni antiche fossero senza comparazione
più gagliarde delle moderne, e gli effetti loro più strepitosi, più risaltati,
più materiali,
2435 più furiosi, e che però
nell'espression loro convenga impiegare colori e tratti molto più risentiti che
in quella delle passioni moderne, è cosa già nota e ripetuta pp. 76.
sgg. Ma io credo che una differenza notabile bisogni fare tra le varie
passioni, appunto in riguardo alla maggiore o minor veemenza loro fra gli
antichi e i moderni comparativamente; e per comprenderle tutte sotto due capi
generali, io tengo per fermo (come fanno tutti) che il dolore antico fosse di
gran lunga più veemente, più attivo, più versato al di fuori, più smanioso e
terribile (quantunque forse per le stesse ragioni più breve) del moderno. Ma in
quanto alla gioia, ne dubiterei, e crederei che, se non altro in molti casi,
ella potesse esser più furiosa e violenta presso i moderni che presso gli
antichi, e ciò non per altro se non perch'ella oggidì è appunto più rara e breve
che fosse mai, come lo era nè più nè meno il dolore anticamente. Questa
osservazione potrebbe forse servire al tragico, al pittore, ed altri imitatori
delle passioni. Vero è che nel fanciullo e la gioia e il dolore sono del pari
2436 più violenti, ed altresì per la stessa ragione
più brevi che nell'adulto. Ed è vero ancora che l'abitudine dell'animo de'
moderni li porta a contenere dentro di se, ed a riflettere sullo spirito, senza
punto o quasi punto lasciarla spargere ed operare al di fuori, qualunque più
gagliarda impressione e affezione. Contuttociò credo che la detta osservazione
possa essere di qualche rilievo, massime intorno alle persone non molto o non
interamente colte e disciplinate, sia nella vita civile, sia nelle dottrine e
nella scienza delle cose e dell'uomo; e intorno a quelle che dall'esperienza e
dall'uso della vita, della società, e de' casi umani non sono {stati} bastantemente ammaestrati ad uniformarsi col
generale, nè accostumati a quell'apatia e noncuranza di se stesso e di tutto il
resto, che caratterizza il nostro secolo. (9. Maggio. 1822.).
[2468,1]
Nelle annotazioni alle mie Canzoni (Canzone 6. stanza 3. verso 1)
ho detto e mostrato che la metafora raddoppia o moltiplica l'idea rappresentata
dal vocabolo. Questa è una delle principali cagioni per cui la metafora è una
figura così bella, così poetica, e annoverata da tutti i maestri fra le parti e
gl'istrumenti principalissimi dello stile poetico, o anche prosaico ornato e
sublime ec. Voglio dire ch'ella è così piacevole perchè rappresenta più idee in
un tempo stesso (al contrario dei termini). E però ancora si raccomanda al poeta (ed è effetto e segno
notabilissimo della sua vena ed entusiasmo e natura poetica, e facoltà
inventrice e creatrice) la novità delle metafore. Perchè grandissima, anzi
infinita parte del nostro discorso è metaforica, e non perciò quelle metafore di
cui ordinariamente si compone risvegliano più d'una semplice idea.
2469 Giacchè l'idea primitiva significata propriamente
da quei vocaboli traslati è mangiata a lungo andare dal significato metaforico
il quale solo rimane, come ho pur detto l. c. E ciò quando anche la stessa
parola non abbia perduto affatto, anzi punto, il suo suo significato proprio, ma
lo conservi e lo porti a suo tempo. P. e. accendere ha
tuttavia la forza sua propria. Ma s'io dico accender
l'animo, l'ira ec. che sono metafore, l'idea che risvegliano è una,
cioè la metaforica, perchè il lungo uso ha fatto che in queste tali metafore non
si senta più il significato proprio di accendere, ma
solo il traslato. E così queste tali voci vengono ad aver più significazioni
quasi al tutto separate l'una dall'altra, quasi affatto semplici, e che tutte si
possono {omai} chiamare ugualmente proprie. Il che non può accadere nelle metafore nuove,
nelle quali la moltiplicità delle idee resta, e si sente tutto il diletto della
metafora: massime s'ell'è ardita, cioè se non è presa sì da vicino che le idee,
benchè diverse,
2470 pur quasi si confondano insieme, e
la mente del lettore o uditore non sia obbligata a nessun'azione ed energia più
che ordinaria per trovare e vedere in un tratto la relazione il legame
l'affinità la corrispondenza d'esse idee, e per correr velocemente e come in un
punto solo dall'una all'altra; in che consiste il piacere della loro
moltiplicità. Siccome per lo contrario le metafore troppo lontane stancano, o il
lettore non arriva ad abbracciare lo spazio che è tra l'una e l'altra idea
rappresentata dalla metafora; o non ci arriva in un punto, ma dopo un certo
tempo; e così la moltiplicità simultanea delle idee, nel che consiste il
piacere, non ha più luogo. (10. Giugno 1822.). {{V. p.
2663.}}
[2475,2] Chi negherà che l'arte del comporre non sia oggi e
infinitamente meglio e più chiaramente e distintamente considerata, svolta,
esposta, conosciuta, dichiarata {in tutti i} suoi
principii, eziandio più intimi, e infinitamente più divulgata fra gli uomini, e
più nelle mani degli studiosi, e aiutata oltracciò di molto maggior quantità di
esempi e modelli, che non era presso gli antichi? e massime presso quegli
antichi e in quei secoli ne' quali meglio e più perfettamente e immortalmente si
scrisse? Eppure
2476 dov'è oggi in qualsivoglia nazione
o lingua, non dico un Cicerone
(quell'eterno e supremo modello d'ogni possibile perfezione in ogni genere di
prosa), non dico un Tito Livio, ma uno
scrittore che nella lingua e nel gener suo abbia tanto valore quanto n'ha
qualunque non degli ottimi, ma pur de' buoni scrittori greci o latini? E dov'è
poi un numero di scrittori, non dico ottimi, ma buoni, uguale a quello che
n'hanno i greci e i latini? Trovatemelo, se potete, ponendo insieme {tutti} i migliori scrittori di tutte le nazioni
letterate, dal risorgimento delle lettere sino a oggidì. E dico buoni
precisamente in quel che spetta all'arte del comporre, e del saper dire {una cosa,} e
trattare un argomento con tutta la perfezione di quest'arte. Dico buoni
quanto alla lingua loro, qualunqu'ella sia, e perfetti in essa e padroni, come
fu Cicerone della latina, o come lo
furono gli altri scrittori latini e greci, men grandi di Cicerone in questo e nel rimanente, ma pur buonissimi e
classici.
2477 Dico buoni in questo senso, giacchè non
entro nell'arte del pensare, ec. E quel che dico de' prosatori, dico anche de'
poeti, colle stesse restrizioni, e quanto al modo di trattare e significare le
cose immaginate: chè l'invenzione e l'immaginazione {in se
stesse e {{assolutamente}} considerate,}
appartengono a un altro discorso.
[2484,1]
2484 I francesi non hanno poesia che non sia prosaica,
e non hanno oramai prosa che non sia poetica. Il che confondendo due linguaggi
distintissimi per natura loro, e tutti due propri dell'uomo per natura sua,
nuoce essenzialmente all'espressione de' nostri pensieri, e contrasta alla
natura dello spirito umano: il quale non parla mai poeticamente quando ragiona
coll'animo riposato ec. come par che sieno obbligati di fare i francesi, se
vogliono scrivere in prosa che sia per loro elegante e spiritosa ed ornata ec.
(19. Giugno. 1822.).
[2498,1] L'estrema possibile semplicità o naturalezza dello
stile, dello scrivere o del parlar francese civile, è sempre di quel genere
ch'essi medesimi (in altre occasioni) chiamano maniéré. {+Anche il Salvini lo chiama ammanierato. V. la definizione di maniéré ne' Diz. francesi, dove lo
diffiniscono per un'abitudine
viziosa che deforma tutto, e fa proprio al caso.}
V. p. e. il Tempio di Gnido, e le Favole di
La
Fontaine. (26. Giugno. 1822.).
[2500,2] Per qual cagione il barbarismo reca inevitabilmente
agli scritti tanta trivialità di sapore, e ripugna sì dirittamente all'eleganza?
Intendo per barbarismo l'uso di parole o modi stranieri, che non sieno affatto
alieni e discordi dall'indole della propria lingua, e degli orecchi nazionali, e
delle abitudini ec. Perocchè
2501 se noi usassimo p. e.
delle costruzioni tedesche, o delle parole con terminazioni arabiche o indiane,
o delle congiugazioni ebraiche o cose simili, non ci sarebbe bisogno di cercare
perchè questi barbarismi ripugnassero all'eleganza, quando sarebbero in
contraddizione e sconvenienza col resto della favella, e cogli abiti nazionali.
Ma intendo di quei barbarismi quali sono p. e. nell'italiano i gallicismi (cioè
parole o modi francesi italianizzati, e non già trasportati p. e. colle stesse
forme e terminazioni e pronunziazioni francesi, chè questo pure sarebbe fuor del
caso e della quistione). E domando perchè il barbarismo così definito e inteso,
distrugga affatto l'eleganza delle scritture.
[2523,1]
Ovidio descrive, Virgilio dipinge, Dante (e così proporzionatamente nella prosa il nostro Bartoli) a parlar con proprietà, non
solo dipinge da maestro in due colpi, e vi fa una figura con un tratto di
pennello; non solo dipinge senza descrivere, (come fa anche Virgilio ed Omero), ma intaglia e scolpisce dinanzi agli occhi del lettore le
proprie idee, concetti, immagini, sentimenti. (29. Giugno, 1822. dì di
S.
Pietro.).
[2568,1] Tutto è arte, e tutto fa l'arte fra gli uomini.
Galanteria, commercio civile, cura de' propri negozi o degli altrui, carriere
pubbliche, amministrazione politica interiore ed esteriore, letteratura; in
tutte queste
2569 cose, e s'altre ve ne sono, riesce
meglio chi v'adopra più arte. In letteratura, (lasciando stare quel che spetta
alla politica letteraria, e al modo di governarsi col mondo letterato) colui che
scrive con più arte i suoi pensieri, è sempre quello che trionfa, e che meglio
arriva all'immortalità, sieno pure i suoi pensieri di poco conto, e sieno pure
importantissimi e originalissimi quelli d'un altro che non abbia sufficiente
arte nello scrivere: il quale non riuscirà mai a farsi nome, e ad esser letto
con piacere, e nemmeno a far valutare, e pigliare in considerazione e studio i
suoi pensieri. La natura ha certamente la sua parte, e la sua gran forza; ma
quanta sia la parte e la forza della natura in tutte queste cose,
rispettivamente a quella dell'arte, mi pare che dopo le gran dispute che se ne
son fatte, si possa determinare in questo modo, e precisare
2570 in questi termini. Supposto in due persone ugual grado d'arte,
quella ch'è superiore per natura, riesce certamente meglio dell'{altra} nelle sue imprese. Datemi due persone che
sappiano ugualmente scrivere. Quella che ha più genio, sicuramente trionfa nel
giudizio de' posteri e della verità. Datemi due galanti egualmente bravi nel
mestier loro. Quello ch'è più bello {+(in
parità d'altre circostanze, come ricchezza, fortuna d'ogni genere, comodità
ed occasioni particolari ec.)} soverchia sicuramente l'altro. Ma
ponete un uomo bellissimo senz'arte di trattar le donne; un gran genio senza
scienza o pratica dello scrivere; e dall'altra parte un bruttissimo bene
ammaestrato e pratico della galanteria, un uomo freddissimo bene istruito ed
esercitato nella maniera d'esporre i propri pensieri, questi due si godranno le
donne e la gloria, e quegli altri due staranno indubitatamente a vedere. Dal che
si deduce che in ultima
2571 analisi la forza dell'arte
nelle cose umane è maggiore assai che non è quella della natura. Lucano era forse maggior genio di Virgilio, nè perciò resta che sia stato
maggior poeta, e riuscito meglio nella sua impresa; anzi che veruno lo stimi
nemmeno paragonabile a Virgilio.
[2573,1]
Omero è il padre e il perpetuo principe
di tutti i poeti del mondo. Queste due qualità di padre e principe non si
riuniscono in verun altro uomo rispetto a verun'altra arte o scienza umana. Di
più, nessuno riconosciuto per principe in qualunque altra arte o scienza, se ne
può con questa sicurezza, cagionata dall'esperienza di tanti secoli, chiamar
principe
2574 perpetuo. Tale è la natura della poesia
ch'ella sia somma nel cominciare. Dico somma e inarrivabile in appresso in
quanto puramente poesia, ed in quanto vera poesia, non in quanto allo stile ec.
ec. Esempio ripetuto in Dante, che in
quanto poeta, non ebbe nè avrà mai pari fra gl'italiani. (21. Luglio
1822.).
[2578,1] La lingua latina ebbe un modello d'altra lingua
regolata, ordinata, e stabilita, su cui formarsi. Ciò fu la greca, la quale non
n'ebbe alcuno. Tutte le cose umane si perfezionano grado per grado. L'aver avuto
un modello, al contrario della lingua greca, fu cagione che la lingua latina
fosse più perfetta della greca, e altresì che fosse meno libera. (Nè più nè meno
dico delle letterature greca e latina rispettivamente; questa più perfetta,
quella più originale e indipendente e varia.) I primi scrittori greci, anche
sommi, ed aurei, come Erodoto, Senofonte ec. erano i primi ad applicar
la dialettica, e l'ordine ragionato all'orazione. Non
2579 avevano alcun esempio di ciò sotto gli occhi. Quindi, com'è
naturale a chiunque incomincia, infinite sono le aberrazioni loro dalla
dialettica e dall'ordine ragionato. Le quali aberrazioni passate poi e
confermate nell'uso dello scrivere, sanzionate dall'autorità, e dallo stesso
errore di tali scrittori, sottoposte a regola esse pure, o divenute regola esse
medesime, si chiamarono, e si chiamano, e sono eleganze, e proprietà {della} lingua {greca.} Così è
accaduto alla lingua italiana. La ragione è ch'ella fu molto e da molti scritta
nel 300, secolo d'ignoranza, e che anche allora fu applicata alla letteratura in
modo sufficiente per far considerare quel secolo come classico, dare autorità a
quegli scrittori, {+presi in corpo e in
massa,} e farli seguire da' posteri. I greci o non avevano affatto
alcuna lingua coltivata a cui guardare, o se ve n'era, era molto lontana da
loro, come forse la sascrita, l'egiziana, ec. e poco o niente nota, neanche ai
loro più dotti. Gl'italiani n'avevano, cioè la
2580
latina e la greca. Ma quel secolo ignorante non conosceva la greca, pochissimo
la latina, massime la latina buona e regolata. {+(Fors'anche molti conoscendo passabilmente il latino, e
fors'anche scrivendolo con passabile regolatezza, erano sregolatissimi in
italiano, per incapacità di applicar quelle regole a questa lingua, che
tutto dì favellavano sregolatamente; di conoscere o scoprire i rapporti
delle cose ec.)} Quei pochi che conobbero un poco di latino, scrissero
con ordine più ragionato, come fecero principalmente i frati, Passavanti, F.
Bartolommeo, Cavalca ec.
Dante, e più ancora il Petrarca e il Boccaccio che meglio di tutti conoscevano il buono e
vero latino, meno di tutti aberrarono dall'ordine dialettico dell'orazione.
Questi principalmente diedero autorità presso i posteri a' loro scrittori
contemporanei, la massima parte ignoranti, non solo di fatto, ma anche di
professione laici e illetterati, e che
non pretendevano di scrivere se non per bisogno, come i nostri castaldi. I quali
abbondarono di sragionamenti, e disordini gramaticali d'ogni sorta.
[2589,1] La letteratura greca fu per lungo tempo (anzi
lunghissimo) l'unica del mondo (allora ben noto): e la latina (quand'ella sorse)
naturalissimamente non fu degnata dai greci, essendo ella derivata in tutto
dalla greca; e molto meno fu da essi imitata. Come appunto in[i] francesi poco degnano di conoscere e neppur pensano
d'imitare la letteratura russa o svedese, o l'inglese del tempo d'Anna, tutte nate
dalla loro. Così anche, la lingua greca fu l'unica formata e colta nel mondo
allora ben conosciuto (giacchè p. e. l'india non era ben
conosciuta). Queste ragioni fecero naturalmente che la letteratura e lingua
greca si conservassero tanto tempo incorrotte, che d'altrettanta durata non si
conosce altro esempio. Quanto alla lingua n'ho già detto altrove p.
996,1
pp.
1093-94
pp.
2408-10. Quanto alla letteratura, lasciando stare Omero, è prodigiosa la durata della letteratura greca
non solo incorrotta, ma nello stato di
creatrice. Da Pindaro, Erodoto, Anacreonte, Saffo, Mimnermo, gli altri
lirici ec. ella dura senza interruzione fino a Demostene; se non che, dal tempo di Tucidide a Demostene, ella si restringe alla sola
Atene per
2590 circostanze
ch'ora non accade esporre. V. Velleio lib. 1. fine. Nati,
anzi propagati e adulti i sofisti e cominciata la letteratura greca {(non la lingua)} a degenerare, (massime per la perdita
della libertà, da Alessandro, cioè da
Demostene in poi), ella con
pochissimo intervallo risorge in Sicilia e in
Egitto, e ancora quasi in istato di creatrice. Teocrito, Callimaco, Apollonio Rodio ec. Finito il suo stato di creatrice, e dichiaratasi
la letteratura greca imitatrice e figlia di se stessa, cioè ridotta (come sempre
a lungo andare interviene) allo studio e imitazione de' suoi propri classici
antichi, l'esser questi classici, suoi, e questa imitazione, di se stessa, la
preserva dalla corruzione, e purissimi di stile e di lingua riescono Dionigi Alicarnasseo, Polibio, e tutta la ϕορά di scrittori greci
contemporanei al buon tempo della letteratura latina; i quali appartengono alla
classe, e sono in tutto e per tutto una ϕορά d'imitatori dell'antica letteratura
greca, e di quella ϕορά durevolissima di scrittori greci classici, ch'io chiamo
ϕορά creatrice. Corrotta già
2591 la letteratura
latina, e sfruttata e indebolita, la greca sopravvive alla sua figlia ed alunna,
e s'ella produce degli Aristidi, degli
Erodi attici, e altri tali retori
di niun conto nello stile (non barbari però, e nella lingua purissimi), ella pur
s'arricchisce d'un Arriano, d'un Plutarco, d'un Luciano, {ec.} che
quantunque imitatori, pur sanno così bene scrivere, e maneggiar lo stile e la
lingua antica o moderna, che quasi in parte le rendono la facoltà creatrice.
Aggiungi che in tal tempo la grecia, colla sua
letteratura e lingua incorrotta, era serva, e l'Italia
signora colla sua letteratura e lingua imbastardita e impoverita. (30.
Luglio 1822.).
[2594,1] Ho detto altrove p. 111
pp. 950-52
pp. 1704 che le voci greche nelle lingue nostre non sono altro che
termini (in proporzione però del tempo da ch'elle vi sono introdotte: p. e. filosofia e tali altre voci greche venuteci mediante
il latino, sono alquanto più che termini), cioè ch'elle non esprimono se non se
una pura idea, senz'alcun'altra concomitante. Per questa ragione appunto, oltre
le altre notate altrove, le voci greche sono infinitamente a proposito nelle
nostre scuole e scienze, perocch'elle rappresentano costantemente e
schiettamente quella nuda, secca e semplicissima idea alla quale sono state
appropriate; e perciò servono alla precisione
2595
molto meglio di quello che possano mai fare le voci tolte dalle proprie lingue,
le quali voci benchè fossero formate, composte ec. di nuovo, sempre porterebbero
seco qualche idea concomitante. Ma per questa medesima ragione le voci greche
sono intollerabili nella bella letteratura (barbare poi nella poesia, benchè i
francesi si facciano un pregio, un vezzo e una galanteria d'introdurcele), dove
intollerabili sono le idee secche e nude, o la secca e nuda espressione delle
idee. (6. Agosto 1822.).
[2599,1] L'uniformità è certa cagione di noia. L'uniformità è
noia, e la noia uniformità. D'uniformità vi sono moltissime specie. V'è anche
l'uniformità prodotta dalla continua varietà, e questa pure è noia, come ho
detto altrove p. 51, e provatolo con esempi. V'è la continuità di
tale o tal piacere, la qual continuità è uniformità, e perciò noia ancor essa,
benchè il suo soggetto sia il piacere. Quegli sciocchi poeti, i quali vedendo
che le descrizioni nella poesia sono piacevoli hanno ridotto la poesia a {continue} descrizioni, hanno tolto il piacere, e
sostituitagli la noia (come i bravi poeti stranieri moderni, detti descrittivi): ed io ho veduto persone
di niuna letteratura, leggere avidamente l'Eneide
2600 (ridotta nella loro lingua) la qual par che non
possa esser gustata da chi non è intendente, e gettar via dopo i primi libri
le
Metamorfosi, che {pur} paiono
scritte per chi si vuol divertire con poca spesa. Vedi quello che dice Omero in persona di Menelao: Di tutto è
sazietà, della cetra, del sonno
*
ec. La continuità
de' piaceri, (benchè fra loro diversissimi) o di cose poco differenti dai
piaceri, anch'essa è uniformità, e però noia, e però nemica del piacere. E
siccome la felicità consiste nel piacere, quindi la continuità de' piaceri
(qualunque si sieno) è nemica della felicità per natura sua, essendo nemica e
distruttiva del piacere. La Natura ha proccurato in tutti i modi la felicità
degli animali. Quindi ell'ha dovuto allontanare e vietare agli animali la
continuità dei piaceri. (Di più abbiamo veduto {parecchie
volte}
pp.
172-77
pp. 2433-34 come la
Natura ha combattuto la noia in tutti i modi possibili, ed avutala in
quell'orrore che gli antichi le attribuivano rispetto al vuoto.) Ecco come i
mali vengono ad esser necessarii alla stessa felicità, e pigliano vera e reale
essenza
2601 di beni nell'ordine generale della natura:
massimamente che le cose indifferenti, cioè non beni e non mali, sono cagioni di
noia per se, come ho provato altrove pp. 1554-55, e di più non interrompono
il piacere, e quindi non distruggono l'uniformità, così vivamente e pienamente
come fanno, e soli possono fare, i mali. Laonde le convulsioni degli elementi e
altre tali cose che cagionano l'affanno e il male del timore all'uomo naturale o
civile, e parimente agli animali ec. le infermità, e cent'altri mali inevitabili
ai viventi, anche nello stato
primitivo, (i quali mali benchè accidentali uno per uno, forse il genere e
l'università loro non è accidentale) si riconoscono per conducenti, e in certo
modo necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti e
collocati e ricevuti nell'ordine naturale, il qual mira in tutti i modi alla
predetta felicità. E ciò non solo perch'essi mali danno risalto ai beni, e
perchè più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma
perchè senza essi mali, i beni
2602 non sarebbero
neppur beni, {a poco andare,} venendo a noia, e non
essendo gustati, nè sentiti come beni e piaceri, e non potendo la sensazione del
piacere, in quanto realmente piacevole, durar lungo tempo ec. (7. Agosto
1822.).
[2608,2]
Sallustio, Catil. c. 23. Maria montesque
polliceri.
*
Non si trova, ch'io sappia, questo
proverbio, oggi volgarissimo in italia, se non in questo
scrittore studiosissimo delle voci e maniere antiche, e {che} per conseguenza bene spesso declina alle voci e maniere
popolari, come sempre accade agli scrittori studiosi dell'antichità della
lingua, della quale antichità principal conservatrice è la plebe. (17.
Agosto. 1822.).
[2609,1] L'immenso francesismo che inonda i costumi e la
{letteratura e la} lingua degl'italiani e degli
altri europei, non è bevuto se non dai libri francesi, e dall'influenza delle
loro mode, e coll'andarli a trovare in casa loro, il che per quanto sia
frequente, non può mai esser gran cosa. Laddove Roma e
l'italia da' tempi del secondo Scipione in poi, e massime sotto i primi
imperatori, era piena di greci (greci proprii, o nativi d'altri paesi
grecizzati); n'eran piene le case de' nobili, dove i greci erano chiamati e
ricevuti e collocati stabilmente in ogni genere di uffici, da quei della cucina,
fino a quello di maestro di filosofia ec. ec. (V. Luciano
περὶ τῶν ἐπὶ μισϑῷ συνόντων,
2610 e l'epig. di
Marziale del graeculus esuriens ec. ec.); n'eran pieni i
palazzi e gli offici pubblici: oltre che tutti i ricchi mandavano i figli a
studiare in grecia, e questi poi divenivano i principali
in Roma e in italia, nelle
cariche, nel foro ec. Quindi si può stimar quale e quanto dovesse
necessariamente essere il grecismo de' costumi, e letteratura, e quindi della
lingua in italia a quei tempi. Aggiunto che anche le
donne avevano a sapere il greco, lo studio che tutti più o meno facevano de'
loro libri, e il piacere che ne prendevano, e le biblioteche che ne componevano
ec. ec. (18. Agosto. Domenica. 1822.).
[2611,2] Non basta che lo scrittore sia padrone del proprio
stile. Bisogna che il suo stile sia padrone delle cose: e in ciò consiste la
perfezion dell'arte, e la somma qualità dell'artefice. Alcuni de' pochissimi che
meritano nell'italia moderna il nome di scrittori (anzi
tutti questi pochissimi), danno a vedere di essere padroni dello stile: vale a
dir che il loro stile è fermo, uguale, non traballante, non sempre sull'orlo di
precipizi, {+non incerto, non legato e
retreci, come quello di tutti gli altri nostri
moderni, francesisti o no, ma libero e sciolto e facile, e che si sa
spandere e distendere e dispiegare e scorrere,} sicuro di non dir
quello che lo scrittore non vuole intendere, sicuro di non dir nulla in quel
modo che lo scrittore non lo vuol dire, sicuro di non dare in un altro stile, di
non cadere in una qualità che lo scrittore voglia evitare; procede a piè saldo
senza inciampare nè dubitare di se stesso, {non va a
trabalzoni, ora in cielo ora in terra, or qua or là,} ec. Tutte queste
qualità nel loro stile si trovano, e si dimostrano, cioè si fanno sentire al
lettore. Questi tali son padroni del loro stile. Ma il loro stile non è padrone
delle cose, vale
2612 a dir che lo scrittore non è
padrone di dir nel suo stile tutto ciò che vuole, o che gli bisogna dire, {o di dirlo pienamente e perfettamente:} e anche questo
si fa sentire al lettore. Perciocchè spessissimo occorrendo loro molte cose che
farebbero all'argomento, al tempo, {ec.} che sarebbero
utili o necessarie in proposito, e ch'essi desidererebbero dire, e concepiscono
perfettamente, e forse anche originalmente, e che darebbero luogo a pensieri
notabili e belli; essi scrittori, ben conoscendo questo, tuttavia le fuggono, o
le toccano di fianco, e di traverso, e se ne spacciano pel generale, o ne dicono
sola una parte, sapendo ben che tralasciano l'altra, e che sarebbe bene il
dirla, o in somma non confidano o disperano di poterle dire o dirle pienamente
nel loro stile. La qual cosa non è mai accaduta ai veri grandi scrittori, ed è
mortifera alla letteratura. E per ispecificare; i detti scrittori sono e si
mostrano sicuri di non dare nel francese (cioè in quel cattivo italiano che è
proprio del nostro tempo, e quindi naturale anche a loro, anzi solo naturale),
ma non sono nè si mostrano sicuri di
2613 poter dire
nel buono italiano tutto quello che loro occorra; {come lo
erano i nostri antichi.} Anzi lasciano ottimamente sentire, che molte
cose quasi necessarie, e delle quali si compiacerebbero se le {avessero potuto e saputo} dire nel buono italiano, e la
cui mancanza si sente, e che molte volte sono anche notissime a tutti in questo
secolo, essi le tralasciano avvertitamente, e le dissimulano, almeno da qualche
necessaria parte, e se ne mostrano o ignoranti, o poco istruiti, o di non averle
concepite, quando pur l'hanno fatto anche più degli altri, e che in somma non
ardiscono dirle per timore di offendere il buono italiano e il proprio stile. Il
qual timore e la quale impotenza assicurerebbe alla letteratura {e filosofia} italiana di non dar mai più un passo
avanti, e di non dir mai più cosa nuova, come pur troppo si verifica nel fatto.
(27. Agosto. 1822.).
[2613,1] Lo scriver francese tutto staccato, dove il periodo
non è mai legato col precedente (anzi è vizio la collegazione e congiuntura de'
periodi, come
2614 nelle altre lingue è virtù), il cui
stile non si dispiega mai, e non sa nè può nè dee mai prendere quell'andamento
piano, modesto disinvoltamente, unito e fluido che è naturale al discorso umano,
anche parlando, e proprio di tutte le altre nazioni; questo tale scrivere, dico
io, fuor del quale i francesi non hanno altro, è una specie di Gnomologia. E
queste qualità gli convengono necessariamente, posto quell'avventato del suo
stile, di cui non sanno fare a meno i francesi, e senza cui non trovano degno
alcun libro di esser letto. Per la quale avventatezza lo scrittore e il lettore
hanno di necessità ogni momento di riprender fiato. E par proprio così, che lo
scrittore parli con quanto ha nel polmone, e perciò gli convenga spezzare il suo
{dire,} e fare i periodi corti, per fermarsi a
respirare. (28. Agosto 1822.). {{ Effettivamente
il tuono di qualunque scrittura francese fin dalla prima sillaba è quello di
uno che parla ad alta voce. Tale riesce almeno per chi non
2615 è francese, e per chi non è assuefatto durante
tutta la sua vita a letture francesi ec. Quel tuono moderato del discorso
naturale, col qual tuono gli antichi aprivano {anche} le loro Orazioni, {e fra
queste, anche} più veementi e passionate, è una qualità eterogenea
{anche alle lettere familiari de'} francesi.
(28. Agosto 1822.).}}
[2630,2] Ho detto p. 244 che gli scrittori greci
hanno ciascuno un vocabolarietto a parte, dal quale
2631 non escono mai o quasi mai, e nella totalità del quale ciascun d'essi si
distingue benissimo da ciascun altro, e ch'esso vocabolario, massime ne' più
antichi è molto ristretto, e che la lingua greca ricchissima in genere, non è
più che tanto ricca in veruno scrittore individuo; e tanto meno è ricca quanto
lo scrittore è più antico e classico, e quindi i più antichi e classici si
distinguono fra loro nelle parole e frasi più di quel che facciano parimente fra
loro i più moderni, che son più ricchi assai, ed abbracciano ciascuno una
maggior parte della lingua, onde debbono aver fra loro più di comune che gli
antichi non hanno fra loro medesimi, come che le parole e frasi di ciascuno
generalmente prese, sieno tutte ugualmente proprie della lingua.
[2639,1] Ho detto altrove pp. 1806. sgg.
pp.
2500. sgg. che gran parte delle voci che in poesia si chiamano
eleganti, e si tengono per poetiche, non sono tali, se non per esser fuori
dell'uso comune e familiare, nel quale già furono una volta (o furono certo
nell'uso degli scrittori in prosa); e conseguentemente per essere antiche
rispetto
2640 alla moderna lingua, benchè non sieno
antiquate. E ciò principalmente cade nelle voci (o frasi) che sono oggidì esclusivamente poetiche. Ho detto
ancora che per tal cagione, non potendo {i primi} poeti
o prosatori di niuna lingua, aver molte voci nè frasi antiche da usare ne' loro
scritti, e quindi mancando d'un'abbondantissima fonte d'eleganza, è convenuto
loro tenersi per lo più allo stile familiare, come familiarissimo è il Petrarca ec., e sono stati incapaci
dell'eleganza Virgiliana.
[2645,2] La storia greca, romana ed ebrea contengono le
reminiscenze delle idee acquistate da ciascuno nella sua fanciullezza. Ciascun
nome, ciascun fatto delle dette storie, e massime i principali e più noti ci
richiamano idee quasi primitive per noi, e sono in certo modo legati alla storia
della vita, e della fanciullezza
2646
massimente[massimamente], delle cognizioni, de'
pensieri di ciascuno di noi. Quindi l'interesse che ispirano le dette storie, e
loro parti, e tutto ciò che loro appartiene; interesse unico nel suo genere,
come fu osservato da Chateaubriand
(Génie ec.); interesse che non può esserci mai ispirato da
verun'altra storia, sia anche più bella, varia, grande, e per se più importante
delle sopraddette; sia anche più importante per noi, come le storie nazionali.
Le suddette tre sono le più interessanti perchè sono le più note; perchè sono le più domestiche, familiari, pratiche, e quasi
strette parenti di ciascun uomo civile e colto, ancorchè di patria diversissimo
da queste tre nazioni. E perciò elle sono le più, anzi le sole, feconde di
argomenti {storici} veramente propri d'epopea, di
tragedia, ec.
2647 e all'interesse dei detti argomenti,
massime nella poesia, non si può supplire in verun conto, nè con veruna
industria, cavando argomenti {o dall'immaginazione, o}
dalle altre storie, neppur dalle patrie. Aggiungasi alle tre dette storie,
quella della guerra troiana, la quale interessa sommamente per le dette ragioni,
anzi più delle altre tre, perchè i poemi d'Omero e di Virgilio, l'hanno
resa più nota e familiare a ciascuno, che verun'altra, e perch'ella a cagione
dei detti poemi, delle favole ec. è più legata alle ricordanze della nostra
fanciullezza, che non sono la storia greca e romana, e neanche l'ebrea. Tutto
ciò è relativo, e l'interesse delle dette storie non deriva particolarmente
dalle loro proprie e intrinseche qualità, ma dalla circostanza estrinseca
dell'essere le medesime familiari
2648 a ciascuno fin
dalla sua fanciullezza; tolta la qual circostanza, che ben si potrebbe togliere,
dipendendo dalla educazione ec., questo interesse o si confonderebbe e
agguaglierebbe con quello delle altre storie, e argomenti storici, o sarebbe
anche superato. (Roma. 25. Nov. 1822.).
[2661,2]
E pensatamente io
chiamai figura non tutto quello, che si diparte dalla prima formazion
della lingua, ma dal più ordinario modo de' parlatori presenti.
Imperocchè ciò che fu figura in un tempo,
2662
non riman poi figura quando è sì accomunato dall'uso, che divien la più
trivial maniera del linguaggio usitato, dipendendo i linguaggi
dall'arbitrio degli uomini, tanto nell'introdursi, quanto
nell'alterarsi; ed essendo i Gramatici non legislatori, come alcun
pensa, ma compilatori di quelle Leggi che per avanti la Signoria
dell'Uso ha prescritte.
*
Trattato dello stile e del dialogo
del Padre Sforza Pallavicino
della Compagnia di Gesù. Capo 4. Modena 1819. p.
22. (26. Dicembre; festa di Santo Stefano Protomartire. 1822.)
[2662,2] Il Padre Sforza
Pallavicino nel Trattato dello Stile e del
Dialogo, Capo 27, intitolato Si stabilisce quali Autori
deono esser seguiti nelle materie scientifiche da quelli che
scrivono in Italiano, ovvero in Latino (ristampa di Modena
1819. pag. 175-8.) dà decisa ed universale, e non relativa ma assoluta
preferenza agli
2663
scrittori, stile e lingua del 500, (e del seguente secolo ancora, in cui egli scriveva)
sopra quelli e quella del 300. (5. Gennaio 1823.).
[2663,1]
In ristretto
*
(in somma), la favella e la Scrittura sono
indirizzate a' coetanei, ed a' futuri, non a' defunti.
*
Pallavic. loc. sup. cit. pag.
181. fine. (5. Gen. 1823.).
[2666,1]
2666 La prosa francese (nazione e lingua la più
impoetica fra le moderne, che sono le più impoetiche del mondo) è molto più
poetica della stessa prosa antica scritta nelle lingue le più poetiche
possibili. Lo stesso mancare affatto di linguaggio poetico distinto dal prosaico
fa che lo scrittor francese confonda quello ch'è proprio dell'uno con quel ch'è
proprio dell'altro, e che come il poeta francese scrive prosaicamente così il
prosatore scriva poeticamente, e che la lingua francese manchi non solo di
linguaggio e stile poetico distinto per rispetto al prosaico, ma anche di
linguaggio e stile veramente prosaico, e ben distinto e circoscritto e definito
per rispetto al poetico. Questa è l'una delle cagioni della poeticità della
prosa francese. Altre ancora se ne potranno addurre, ma fra queste, una che ha
del paradosso e pure è verissima. La prosa francese è poetica perchè la lingua
francese è poverissima. Quindi la necessità di metafore di metonimie di
catacresi di mille figure di dizione che rendono poetica la lingua della prosa,
e secondo il nostro gusto,
2667 gonfia, concitata ed
aliena da quella semplicità, riposatezza, calma, sicurezza ed equabilità e
gravità di passo che s'ammira nelle prose latina e greca, le più poetiche lingue
dell'occidente. P. e. non avendo i francesi una
parola che significhi unitamente il padre e la madre, (come noi, che diciamo i genitori), sono obbligati a dire spesso les auteurs de ses jours, des
jours de quelqu'un, de celui-là etc. Queste
tali frasi necessarie e forzate, obbligano poi lo scrittor prosaico francese a
formar loro un contorno conveniente, a seguire una forma di dire, uno stile,
dove queste frasi, figure ec. non disdicano, e quindi a innalzare il tuono della
sua prosa, e dargli un color poetico tanto nello stile quanto nella lingua: e
così la povertà della lingua francese rende poetica la sua prosa, e per le
figure che l'obbliga ad usare in cambio delle parole che le mancano, e per le
figure che queste medesime figure forzate richiedono intorno a se, e quasi
portano con se, e per lo stile e il linguaggio {e il
tuono} che queste figure forzate
2668
domandano per non disdire. (2. Feb. 1823.).
[2682,1]
2682 Grazia dal contrasto. {Conte}
Baldessar Castiglione, Il Libro del Cortegiano. lib. 1.
Milano, dalla Società tipogr. de' Classici
italiani, 1803. vol. 1. p. 43-4. Ma avendo io già più
volte pensato meco, onde nasca questa grazia, lasciando quegli che dalle
stelle l'hanno, trovo una regola universalissima; la qual mi par valer
circa questo in tutte le cose umane, che si facciano, o dicano, più che
alcuna altra; e ciò è fuggir quanto più si può, e come un asperissimo e
pericoloso scoglio la affettazione; e, per dir forse una nuova parola,
usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte, e
dimostri, ciò che si fa, e dice, venir fatto senza fatica, e quasi senza
pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia: perchè delle cose rare, e ben fatte ognun
sa
*
{+(p. 44. dell'edizione)}
la
difficultà, onde in
esse
la facilità
genera grandissima maraviglia; e per lo
contrario, lo sforzare, e, come si dice, tirar per i capegli, dà somma
disgrazia, e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch'ella si
sia.
*
(Roma 14. Marzo. 1823. secondo Venerdì di
Marzo.).
[2694,1]
2694 Formata una volta una lingua illustre, cioè una
lingua ordinata, regolare, stabilita e grammaticale, ella non si perde più
finchè la nazione a cui ella appartiene non ricade nella barbarie. La durata
della civiltà di una nazione è la misura della durata della sua lingua illustre
e viceversa. E siccome una medesima nazione può avere più civiltà, cioè dopo
fatta civile, ricadere nella barbarie, e poi risorgere a civiltà nuova, ciascuna
sua civiltà ha la sua lingua illustre nata, cresciuta, perfezionata, corrotta,
decaduta e morta insieme con lei. Il qual rinnuovamento e di civiltà e di lingua
illustre, ha, nella storia delle nazioni conosciute, o vogliamo piuttosto dire,
nella storia conosciuta, un solo esempio, cioè quello della nazione italiana.
Perchè niuna delle altre nazioni state civili in antico, sono risorte a civiltà
moderna e presente, e niuna delle nazioni presentemente civili, fu mai civile
(che si sappia) in antico, se non l'italiana. Così niun'altra nazione può
mostrare due lingue illustri da
2695 lei usate e
coltivate generalmente, (come può far l'italiana) se non in quanto la nostra
antica lingua, cioè la latina, si diffuse insieme coi nostri costumi per
l'europa a noi soggetta, e fece per qualche tempo
italiane di costumi e di lingua e letteratura le Gallie,
le Spagne, la Numidia (che non
è più risorta a civiltà) ec.
[2700,1] La cagione per cui negli antichissimi scrittori
latini si trova maggiore conformità e di voci e di modi colla lingua italiana,
che non se ne trova negli scrittori latini dell'aureo secolo, e tanto maggiore
quanto sono più antichi, si è che i primi scrittori di una lingua, mentre non
v'è ancora lingua illustre, o non è abbastanza formata, divisa dalla plebea,
fatta propria della scrittura, usano un più gran numero di voci, frasi, forme
plebee, idiotismi ec. che non fanno gli scrittori seguenti; sono in somma più
vicini al plebeo da cui le lingue scritte per necessità incominciano, e da cui
si vanno dividendo solamente appoco appoco, usano una più gran parte della
lingua plebea ch'è la sola ch'esista allora nella nazione, o che
2701 non è abbastanza distinta dalla lingua nobile e
cortigiana ec. sì perchè quella lingua che si parla (com'è la cortigiana) tien sempre più o meno della plebea; sì
perchè allora i cortigiani ec. non hanno l'esempio e la coltura derivante dalle
Lettere nazionali e dalla lingua nazionale scritta, per parlare molto
diversamente dalla plebe. Ora l'unica lingua che possano seguire e prendere in
mano i primi scrittori di una lingua, si è la parlata, giacchè la scritta ancor
non esiste. E siccome la lingua italiana e le sue sorelle non derivano dal
latino scritto ma dal parlato, e questo in gran parte non illustre, ma
principalmente dal plebeo e volgare, quindi la molta conformità di queste nostre
lingue cogli antichissimi e primi scrittori latini. Vedi un luogo di Tiraboschi appresso Perticari, Apologia di Dante, capo 43.
pag. 430. (20. Maggio 1823).
[2715,3] Ho detto altrove pp. 787. sgg. che
la lingua francese, povera di forme, è tuttavia ricchissima e sempre più si
arricchisce di voci. Distinguo. La lingua francese è povera di sinonimi, ma
ricchissima di voci denotanti ogni sorta di cose e di idee, e ogni menoma parte
di ciascuna cosa e di ciascuna idea. Non può molto variare nella espressione
d'una cosa medesima, ma può variamente esprimere le più varie e diverse cose. Il
che non possiamo noi, benchè possiamo ridire
2716 in
cento modi le cose dette. Ma certo è sempre varia quella scrittura che può esser
sempre propria, perchè ad ogni nuova cosa che le occorre di significare, ha la
sua parola diversa dalle altre per significarla. Anzi questa è la più vera, la
più sostanziale, la più intima, la più importante, ed anche la più dilettevole
varietà di lingua nelle scritture. E quelle scritte in una lingua soprabbondante
di sinonimi, per lo più sono poco varie, perchè la troppa moltitudine delle voci
fa che ciascheduno scrittore per significare ciaschedun oggetto, scelga fra le
tante una sola o due parole al più, e questa si faccia familiare e l'adoperi
ogni volta che le occorre di significare il medesimo oggetto; e così ciascheduno
scrittore in quella lingua abbia il suo vocabolarietto diverso da quel degli
altri, e limitato: come altrove ho detto pp. 244-45
pp.
2386-87
pp.
2397-400
pp. 2630-32 accadere
agli scrittori greci ed italiani. E osservo che sebbene
2717 la lingua greca è molto più varia della latina, nondimeno per la
detta ragione le scritture greche, massime quelle degli ottimi e originali, sono
meno varie delle latine per ciò che spetta ai vocaboli e ai modi. (23.
Maggio 1823.). {{V. p. 2755.}}
[2717,1] Chi vuol vedere un piccolo esempio della infinita
varietà della lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue
che una lingua sola, secondo che ho detto altrove pp. 2060-62
e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in uno stesso libro; legga il Fedro di
Platone. Nel quale troverà, non dico
tre stili, ma tre vere lingue, l'una nelle parole che compongono il Dialogo
tra Socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di Platone, l'altra nelle due orazioni contro
l'amore, in persona di Lisia e di Socrate; la terza nell'orazione di questo in lode dell'amore.
Perciocchè Platone in queste orazioni
adopra e vocaboli e frasi e costrutti
2718
notabilissimamente e visibilmente diversi da quelli che compongono la lingua
ordinaria de' suoi Dialoghi, sebbene in questi egli tratta bene
spesso le medesime o simili materie a quelle delle tre suddette orazioni,
massime dell'ultima. E i vocaboli, le frasi i costrutti dell'ultima orazione (di
stile tutta poetica, ma non perciò tumida o esagerata o eccessiva o tale che non
sia vera prosa) sono pure diversissimi da quelli delle altre due. Nè in veruna
di queste {tre} lo scrittore fa forza alla lingua, o
dimostra affettazione, come fecero poi quei greci più recenti che si scostarono
dalla maniera propria per seguire e imitare l'altrui. Ma certo chi non
conoscesse altra lingua greca che la consueta di Platone, non senza una certa difficoltà potrebbe
intendere quelle tre orazioni. (23. Maggio. 1823.).
[2725,1] Per quanto voglia farsi, non si speri mai che le
opere degli scienziati si scrivano in bella lingua, elegantemente e in buono
stile {(con arte di stile.)}
Chiunque si è veramente formato un buono stile, sa che immensa fatica gli è
costato l'acquisto di quest'abitudine, quanti anni spesi unicamente in questo
studio, quante riflessioni profonde, quanto esercizio dedicato unicamente a ciò,
quanti confronti, quante letture destinate a questo solo fine, quanti tentativi
inutili, e come solamente a poco a poco dopo lunghissimi travagli, e lunghissima
assuefazione gli sia finalmente riuscito di possedere il vero sensorio del bello
scrivere, la scienza di tutte le minutissime parti e cagioni di esso, e
finalmente l'arte di mettere in opera esso stesso quello che non senza molta
difficoltà
2726 è giunto a riconoscere e sentire ne'
grandi maestri, {{arte}} difficilissima ad acquistare, e
che non viene già dietro per nessun modo da se alla scienza dello stile; bensì
la suppone, e perfettissima, ma questa scienza può stare e sta spessissimo senza
l'arte. Ora gli scienziati che fino da fanciulli hanno sempre avuta tutta la
loro mente e tutto il loro amore a studi diversissimi e lontanissimi da questi,
come può mai essere che mettendosi a scrivere, scrivano bene, se per far questo
si richiede un'arte tutta propria della cosa, e che domanda tutto l'uomo, e
tanti studi, esercizi, e fatiche? E come si può presumere che gli scienziati si
assoggettino a questi studi e fatiche, non avendoci amore alcuno, ed essendo
tutti occupati e pieni di assuefazioni ripugnanti a queste, e mancando loro
assolutamente il tempo necessario per un'arte che domanda più tempo d'ogni
altra? Oltre di ciò i più perfetti possessori di quest'arte, dopo le
2727 lunghissime fatiche spese per acquistarla, non
sono mai padroni di metterla in opera senza che lo stesso adoperarla riesca loro
faticosissimo e lunghissimo, perchè certo neppure i grandi maestri scrivono bene
senza gravissime e lunghissime meditazioni, e revisioni, e correzioni, e lime
ec. ec. Si può mai pretendere o sperare dagli scienziati questo lavoro, il quale
è tanto indispensabile come quello che si richiede ad acquistare l'arte di bene
scrivere?
[2731,2] In proposito della prontissima decadenza della
letteratura latina, e della lunghissima conservazione della greca, è cosa molto
notabile, come dopo Tacito, cioè dall'imperio di Vespasiano in poi (fino al quale si stendono le
2732 sue storie) la storia latina restò in mano dei greci, e le azioni
nostre furono narrate da Appiano, Dione, Erodiano, anche prima della traslocazione
dell'imperio a Constantinopoli, e dopo questa da Procopio, Agazia, Zosimo ec. Senza i quali la storia del nostro
impero da Vespasiano in poi, sarebbe quasi cieca, non avendo altri scrittori
latini che quei miserabili delle Vite degli Augusti, piene di
errori di fatto, di negligenza, di barbarie, e Ammiano non meno barbaro, per non dir di Orosio e d'altri tali più miserabili
ancora. Così quella nazione che ne' tempi suoi più floridi aveva narrato le sue
proprie cose, e i suoi splendidissimi gesti, e le sue altissime fortune, e forse
prima d'ogni altra, aveva dato in Erodoto l'esempio e l'ammaestramento di questo genere di scrittura;
dopo tanti secoli, quando già non restava se non la lontana memoria della sua
grandezza, estinto il suo imperio e la sua potenza, fatta
2733 suddita di un popolo che quando ella scriveva le sue proprie
storie, ancora non conosceva, seguiva pure ad essere l'istrumento della memoria
dei secoli, e i casi del genere umano e di quello stesso popolo dominante che
l'aveva ingoiata, ed annullato da gran tempo la sua esistenza politica, erano
confidati unicamente alle sue penne. Tanto può la civilizzazione, e tanto è vero
che la civilizzazione della grecia ebbe una prodigiosa
durata, e vide nascere e morire quella degli altri popoli (anche grandissimi), i
quali erano infanti, anzi ignoti, quand'ella era matura e parlava e scriveva; e
giunsero alla vecchiezza e alla morte, durando ancora la sua maturità, e
parlando essa tuttavia e scrivendo. Veramente la grecia
si trovò sola civile nel mondo ai più antichi tempi, e senza mai perdere la sua
civiltà, dopo immense vicissitudini di casi, così universali
2734 come proprie, dopo aver veduto passare l'intera favola del più grande impero, che nella
di lei giovanezza non era ancor nato; dopo aver communicata la sua civiltà a
cento altri popoli, e vedutala in questi fiorire e cadere, tornò un'altra volta,
in tempi che si possono chiamar moderni, a trovarsi sola civile nel mondo, e
nuovamente da lei uscirono i lumi e gli aiuti che incominciarono la nuova e
moderna civiltà nelle altre nazioni.
[2738,1] Il qual ristagno è micidiale alla felicità per le
ragioni sopraddette. Ora esso è l'effetto proprio del moderno modo di vivere, e
il carattere che lo distingue dall'antico, e quello che osservato da Chateaubriand, volendo fare un romanzo
di carattere essenzialmente moderno, e ignoto e impossibile da farsi o da
concepirsi agli
2739 antichi, gl'ispirò il
René, che si aggira tutto in descrivere e determinare questo
ristagno, e gli effetti suoi. Da ciò solo si conchiuda se la vita antica o la
moderna è più conducente alla felicità, ovvero qual delle due sia meno
conducente all'infelicità. E poichè lo Chateaubriand considera questo ristagno come effetto preciso e
proprio del Cristianesimo, vegga egli qual conseguenza se ne debba tirare
intorno a questa religione, per ciò che spetta al temporale. In verità si trova
ad ogni passo che le sue {+più fine,
profonde, {nuove}
{e vere}} osservazioni e i suoi argomenti
intorno al Cristianesimo, e agli effetti di lui, ed alla moderna civiltà, ed al
carattere e spirito dell'uomo Cristiano, o moderno e civile, provano
dirittamente il contrario di quello ch'egli si propone. {+E può
dirsi che ogni volta ch'egli reca in mezzo osservazioni nuove, travaglia
per la sentenza contraria alla sua, accresce gli argomenti che la
fortificano, e somministra {nuove} armi ai suoi
propri avversari, credendosi di combatterli.}
(1. Giugno. Domenica. 1823.). {{V. p.
2752.}}
[2759,2] Chi vuol manifestamente vedere la differenza de'
tempi d'Omero da quelli di Virgilio, quanto ai costumi, e alla
civilizzazione, e alle opinioni che
2760 s'avevano
intorno alla virtù e all'eroismo, {+siccome anche quanto ai rapporti scambievoli delle nazioni, ai diritti e al
modo della guerra, alle relazioni del nimico col nimico;} e chi vuol
notare la totale diversità che passa tra il carattere e l'idea della virtù
eroica che si formarono questi due poeti, e che l'uno espresse in Achille e l'altro in Enea, consideri quel luogo dell'Eneide (X. 521-36.) dov'Enea fattosi sopra Magone che gittandosi in terra e abbracciandogli le
ginocchia, lo supplica miserabilmente di lasciarlo in vita e di farlo cattivo,
risponde, che morto Pallante, non ha
più luogo co' Rutuli alcuna misericordia nè alcun commercio di guerra, e spietatamente pigliandolo per la
celata, gl'immerge la spada dietro al collo per insino all'elsa. Questa scena e
questo pensiero è tolto di peso da Omero, il quale introduce Menelao sul punto di lasciarsi commuovere da simili prieghi, ripreso
da Agamennone, che senza alcuna pietà
uccide il troiano già vinto e supplichevole.
[2791,1] Del resto il luogo dell'iscrizione triopea ῞Αρπυιαι κλωθῶες
ἀνηρείψαντο μέλαιναι
*
, dove ἅρπυιαι è manifesto aggettivo e sta
per rapaci, nótisi essere espressamente imitato
dai seguenti versi dell'odissea, ed averli
l'autore avuti onninamente in vista.
Nῦν δέ μιν ἀκλειῶς ἅρπυιαι ἀνηρείψαντο * . α, 241. ξ, 371.
Tόϕρα δέ τὰς κούρας ἅρπυιαι ἀνηρείψαντο * . υ, 77.
2792 Nótisi ancora l'aggettivo μέλαιναι compagno d'ἅρπυιαι e tuttavia non legato con questo per nessuna congiunzione.
Nῦν δέ μιν ἀκλειῶς ἅρπυιαι ἀνηρείψαντο * . α, 241. ξ, 371.
Tόϕρα δέ τὰς κούρας ἅρπυιαι ἀνηρείψαντο * . υ, 77.
2792 Nótisi ancora l'aggettivo μέλαιναι compagno d'ἅρπυιαι e tuttavia non legato con questo per nessuna congiunzione.
[2793,2] Gli scrittori greci de' secoli medii e bassi, cioè
dal terzo inclusive in poi, sono pieni d'improprietà di lingua (com'è quella di
Coricio sofista del sesto secolo nell'Orazione εἰς Σοῦμμον στρατηλάτην in Summum ducem, §. 11. ap. Fabric.
B. G. edit. vet. vol. 8. p. 869. lib. 5. cap. 31. di
usare la voce δικαστής in vece di κριτής o di μάρτυς), pieni di frasi strane
quanto alla lingua, pieni di solecismi, e di mille contravvenzioni alle antiche
regole della sintassi e grammatica greca, ma non hanno barbarismi. La loro
lingua per tutto ciò che appartiene all'eleganza, è diversissima da quella degli
antichi scrittori: ma per tutto il resto è la stessa. Si può dir ch'essi
ignorino il buon uso della lingua che scrivono, che non la sappiano adoperare;
ma la lingua che scrivono è quella degli antichi: quella che gli antichi
scrissero
2794 bene, essi la scrivono male. Molte {loro} parole che non si trovano negli antichi, sono però
cavate dal fondo della lingua greca o per derivazione o per composizione ec.;
rade volte ripugnano all'indole d'essa lingua, e per esser chiamate buone,
greche, pure e di buona lega, non manca loro se non la sanzione dell'antichità.
In somma il grecismo di questi scrittori è per lo più cattivo o pessimo, ma la
loro lingua è pura. Le voci e frasi poetiche versate a due mani nelle prose, le
voci o frasi antiquate, le metafore o strane affatto e barbare, o poetiche, non
offendono la purità della lingua, ed appartengono piuttosto al conto dello
stile. Il periodo di questi scrittori, il giro della dicitura, per lo più rotto,
slegato, saltellante, ineguale, ovvero intralciato, duro, aspro, monotono, e
lontanissimo dalla semplicità e dalla maestà dell'antica elocuzione greca,
appartiene certo in gran parte alla lingua, al cui genio è contrarissima la
struttura dell'orazione di quei bassi scrittori, ma non nuoce alla purità. Il
numero e l'armonia è diversissimo
2795 in questi
scrittori da quel ch'egli è negli antichi, ma ciò non solo per la negligenza di
quelli, bensì ancora per la diversa pronunzia introdotta appoco appoco nella
lingua greca, massimamente estendendosi ella a tanti e sì diversi e tra se
lontani paesi, e subentrando a sì diverse favelle, o prendendo luogo accanto ad
esse e in compagnia di esse, o in mezzo ad esse: giacchè bisogna considerare che
la più parte degli scrittori greci dal 3. secolo in poi, non furono greci di
nazione, o certo non furono greci di paese, ma Asiatici ec., e greci solamente
di lingua, e questo ancora non sempre dalla nascita, ma per istudio, come p. e.
Porfirio, della cui lingua patria,
vedi la Vita di
Plotino, capo 17. e l'Holstenio
de Vita et scriptis Porphyrii cap.
2.
(17. Giugno. 1823.). {V. p. 2827.}
[2804,1] Si sa che negli antichi drammi aveva gran parte il
coro. Del qual uso molto si è detto a favore e contro. {Vedi
il Viaggio d'Anacarsi
cap. 70.} Il dramma moderno l'ha sbandito, e bene
stava di sbandirlo a tutto ciò ch'è moderno. Io considero quest'uso come parte
di quel vago, di quell'indefinito ch'è la principal cagione dello charme dell'antica poesia e bella letteratura.
L'individuo è sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile. Il bello
e il grande ha bisogno dell'indefinito, e questo {indefinito} non si poteva introdurre sulla scena, se non
introducendovi la moltitudine. Tutto quello che vien dalla moltitudine è
rispettabile, bench'ella sia composta d'individui tutti disprezzabili. Il
pubblico,
2805 il popolo, l'antichità, gli antenati, la
posterità: nomi grandi e belli, perchè rappresentano un'idea indefinita.
Analizziamo questo pubblico, questa posterità. Uomini la più parte da nulla,
tutti pieni di difetti. Le massime di giustizia, di virtù, di eroismo, di
compassione, d'amor patrio sonavano negli antichi drammi sulle bocche del coro,
cioè di una moltitudine indefinita, e spesso innominata, giacchè il poeta non
dichiarava in alcun modo di quali persone s'intendesse composto il suo coro.
Esse erano espresse in versi lirici, questi si cantavano, ed erano accompagnati
dalla musica degl'istrumenti. Tutte queste circostanze, che noi possiamo
condannare quanto ci piace come contrarie alla verisimiglianza, come assurde,
ec. quale altra impressione potevano produrre, se non un'impressione vaga e
indeterminata, e quindi tutta {grande,} tutta bella,
tutta poetica? Quelle massime non erano poste in bocca di un individuo, che le
recitasse in tuono ordinario e naturale.
2806 Per
grande e perfetto che il poeta avesse finto questo individuo, la idea medesima
d'individuo è troppo determinata e ristretta, per produrre una sensazione o
concezione indeterminata ed immensa. Queste qualità contrastano con quelle, e
quelle avrebbero direttamente impedita questa concezione, non che potessero
produrla. Gli uditori avrebbero conosciuto il nome, le azioni, le qualità, le
avventure di quell'individuo. Egli sarebbe stato sempre quel tal Teseo, quel tal Edipo, re di Tebe, uccisore
del padre, marito della madre, e cose simili. La nazione intera, la stessa
posterità compariva sulla scena. Ella non parlava come ciascuno de' mortali che
rappresentavano l'azione: ella s'esprimeva in versi lirici e pieni di poesia. Il
suono della sua voce non era quello degl'individui umani: egli era una musica
un'armonia. Negl'intervalli della rappresentazione questo attore ignoto,
innominato, questa moltitudine di mortali, prendeva a far delle profonde o
sublimi riflessioni
2807 sugli avvenimenti ch'erano
passati o dovevano passare sotto gli occhi dello spettatore, piangeva le miserie
dell'umanità, sospirava, malediceva il vizio, eseguiva la vendetta
dell'innocenza e della virtù, la sola vendetta che sia loro concessa in questo
mondo, cioè l'esecrare che fa il pubblico e la posterità gli oppressori delle
medesime; esaltava l'eroismo, rendeva merito di lodi ai benefattori degli
uomini, al sangue dato per la patria. (V. Oraz.
art. poet. v. 193-201.) Questo era
quasi lo stesso che legare sulla scena il mondo reale col mondo ideale e morale,
come essi sono legati nella vita: e legarli drammaticamente, cioè recando questo
legame sotto i sensi dello spettatore, secondo l'uffizio e il costume del poeta
drammatico, e quanto è possibile al dramma di rappresentare quello che è. Questo era personificare le immaginazioni del poeta,
e i sentimenti degli uditori e della nazione a cui lo spettacolo si
rappresentava. Gli avvenimenti erano
2808 rappresentati
dagl'individui; i sentimenti, le riflessioni, le passioni, gli effetti ch'essi
producevano o dovevano produrre nelle persone poste fuori di essi avvenimenti
erano rappresentati dalla moltitudine, da una specie di essere ideale. Questo
s'incaricava di raccogliere ed esprimere l'utilità che si cava dall'esempio di
quelli avvenimenti. E per certo modo gli uditori venivano ad udire gli stessi
sentimenti che la rappresentazione ispirava loro, rappresentati altresì sulla
scena, e si vedevano quasi trasportati essi medesimi sul palco a fare la loro
parte; o imitati {{dal coro,}} non meno che si fossero
gli eroi imitati e rappresentati dagli attori individui. Anche quando il coro
prendeva parte diretta all'azione, questo fare agir nel dramma la moltitudine,
era più poetico, e doveva produrre maggiore e più vivo effetto, che {il} divider tutta l'azione fra pochi individui, come noi
facciamo.
[2834,1] Dovunque non cade bellezza, non cade grazia. Dico
relativamente agli uomini, perchè bellezza e bruttezza cade in qualsivoglia
cosa, ma gli uomini non ne giudicano, e non ne ricevono il senso se non in
certe. E in queste sole, dov'essi possono ricevere il senso della bellezza,
possono anche ricever quello della grazia e concepirla. E viceversa similmente,
dovunque cade bellezza, cade ancor grazia. Non che l'una non possa esser senza
l'altra. Ma quel genere ch'è capace dell'una è capace dell'altra. E per
bellezza, intendo quella ch'è propriamente e filosoficamente
2835 tale, cioè quella ch'è convenienza, {non
l'altre impropriamente chiamate bellezze.}
(27. Giugno 1823.)
[2836,2] Ho mostrato altrove p. 1808
p. 2640 che i poeti e gli scrittori primitivi {di
qualunque lingua} non potevano mai essere eleganti {quanto alla lingua,} mancando loro la {principal} materia di questa eleganza, che sono le parole e modi
rimoti dall'uso comune, i quali ancora non esistevano nella lingua, perchè
scrittori e poeti non v'erano stati, da' quali si potessero torre, e i quali
conservassero quelle parole e modi che già furono in uso. Onde {quando una lingua comincia}
{ad essere scritta,} tanto esiste della lingua quanto è
nell'uso comune: tutto quello che già fu in uso, e che poi ne cadde, è
dimenticato, non avendovi avuto chi lo conservasse, il che fanno gli scrittori,
che ancora non vi sono stati. Togliere più che tante parole o forme da quella
lingua la cui letteratura serve di modello alla nuova (come gl'italiani
avrebbero potuto fare dalla lingua latina), è pericoloso in quei principii molto
più che nel séguito (contro quello che si stimano i pedanti), anzi non si può,
perchè quando nasce la letteratura
2837 di una nazione,
questa nazione è naturalmente ignorante, e però lo scrittore o il poeta, così
facendo, non sarebbe inteso, e la letteratura non prenderebbe piede, non si
propagherebbe mai, non crescerebbe, non diverrebbe mai nazionale. {Di più, il poeta sembrerebbe affettato. Vedi in
questo proposito la p.
3015.} Questo medesimo vale anche per le parole
della stessa lingua, rimote più che tanto dall'uso comune, sia per disuso
(seppur lo scrittore stesso o il poeta avesse modo di conoscerle, mancando {fin allora} gli scrittori), sia per qualsivoglia altra
cagione. Bisogna considerare che la nazione in quel tempo è ignorante, e non
istudia, e non leggerebbe quella scrittura o quel poema, benchè scritto in
volgare, le cui parole o modi non fossero alla sua portata, o egli non potesse
capirli senza studiarvi sopra. E poca difficoltà, poca ricercatezza di parole o
di forme basta ad eccedere la capacità de' totalmente ignoranti, quali sono
allora quasi tutti, e degli a tutt'altro avvezzi che allo studio. Ho dunque
detto altrove p. 70
pp. 1808-11
pp. 2639-40 che i poeti e scrittori primitivi tutti o quasi tutti, e
sempre o per lo più, sì nella lingua sì nello stile, tirano al familiare. E
questo viene, sì per adattarsi alla capacità della nazione, sì perchè mancando
loro, come s'è detto, la principal materia dell'
2838
eleganza di lingua, sono costretti a pigliare una lingua domestica e rimessa, e
non volendo che questa ripugni e disconvenga allo stile, sono altresì costretti
di tenere anche questo, per così dire, a mezz'aria, e di familiarizzarlo. Onde
accade che questi tali poeti e scrittori sappiano di familiare anche ai posteri,
quando le loro parole e forme, già divenute abbastanza lontane dall'uso comune,
hanno pure acquistato quel che bisogna ad essere elegantissime, perlochè già
elle come tali s'adoprano dagli scrittori e poeti della nazione, ne' più alti
stili. Ma non essendo elle ancora eleganti a' tempi di que' poeti e scrittori,
questi dovettero assumere un tuono e uno stile adattato a parole non eleganti, e
un'aria, una maniera, nel totale, domestica e familiare, le quali cose ancora
restano, e queste qualità ancora si sentono, come nel Petrarca, benchè l'eleganza sia sopravvenuta alle loro
parole e a' loro modi che non l'avevano, com'è sopravvenuta, e somma, a quei del
Petrarca. Queste considerazioni si
possono fare, e questi effetti si scorgono, massimamente ne' poeti, non solo
perchè gli scrittori primitivi di una lingua e i fondatori di una letteratura
2839 sono per lo più poeti, ma perchè mancando ad
essi la detta materia dell'eleganza niente meno che a' prosatori, questa
mancanza e lo stile familiare che ne risulta è molto più sensibile in essi che
nella prosa, la quale non ha bisogno di voci o frasi molto rimote dall'uso
comune per esser elegante di quella eleganza che le conviene, e deve sempre
tener qualche poco del familiare. Quindi avviene che lo stile del Boccaccio, benchè familiare anch'esso,
massime ad ora ad ora, pur ci sa meno meno familiare, e ci rende più il senso
dell'eleganza e della squisitezza che quello del Petrarca, e dimostra meno sprezzatura, ch'è però nel
Petrarca bellissima. Così è: la
condizione del poeta e del prosatore in quel tempo, quanto ai materiali che si
trovano aver nella lingua, è la stessa (a differenza de' tempi nostri che
abbiamo appoco appoco acquistato un linguaggio poetico tutto distinto): il
prosatore si trova dunque aver poco meno del suo bisogno, e quasi anche tanto
che gli basti a una certa eleganza: il poeta che non si trova aver niente di
più, bisogna che si contenti di uno stile e di una maniera che si accosti alla
prosa. Ed infatti è benissimo definita
2840 la
familiarità che si sente ne' poeti primitivi, dicendo che il loro stile, senza
essere però basso, perchè tutto in loro è ben proporzionato e corrispondente,
tiene della prosa. Come fa l'Eneida del Caro, che quantunque non sia poema
primitivo, pure essendo stato {quasi} un primo tentame
di poema eroico in questa lingua, che ancora non n'era creduta capace, com'esso
medesimo scrive, può dirsi primitivo in certo modo nel genere e nello stile
eroico.
[2845,1] Vantano che la lingua tedesca è di tale e tanta
capacità e potenza, che non solo può, sempre che vuole, imitare lo stile e la
maniera di parlare o di scrivere usata da qualsivoglia nazione, da qualsivoglia
autore, in qualsivoglia possibile genere di discorso o di scrittura; non solo
può imitare qualsivoglia lingua; ma può effettivamente trasformarsi in
qualsivoglia lingua. Mi spiego. I tedeschi hanno traduzioni dal greco, dal
latino, dall'italiano, dall'inglese, dal francese, {dallo
spagnuolo,} d'Omero, dell'Ariosto, di Shakespeare, di Lope, di Calderon ec. le
quali non solamente conservano (secondo che si dice) il carattere dell'autore e
del suo stile tutto intero, non solamente imitano, esprimono, rappresentano il
genio e l'indole della rispettiva lingua, ma rispondono verso per verso, parola
per parola, sillaba per sillaba, ai versi, alle costruzioni, all'ordine preciso
2846 delle parole, {al numero
delle medesime, al metro, {al numero e} al ritmo di
ciascun verso, membro di periodo,} all'armonia {imitativa,} alle cadenze, a tutte le possibili qualità estrinseche
come intrinseche, che si ritrovano nell'originale; di cui per conseguenza elle
non sono imitazioni, ma copie così compagne com'è la copia d'un quadro di tela
fatta in tavola, o d'una pittura a fresco fatta a olio, o la copia d'una pittura
fatta in mosaico, o tutt'al più in rame {inciso,} colle
medesimissime dimensioni del quadro.
[2866,1] Ho detto sovente che ciascuno autor greco ha, per
così dire, il suo Vocabolarietto proprio pp. 244-45
pp. 2630-32
pp. 2716-17. Ciò vale non solamente in ordine all'usare ciascun
d'essi sempre o quasi sempre quelle tali parole per esprimere quelle tali cose,
laddove gli altri altre n'usano, o in ordine ai loro modi e frasi familiari e
consuete, ma eziandio in ordine al significato delle stesse parole o frasi che
anche gli altri usano, o che tutti usano. Perocchè chi sottilmente attende e
guarda negli scrittori greci, vedrà che le stesse parole e frasi presso un
autore hanno un senso, e presso un altro un altro, e ciò non solamente
trattandosi di autori {vissuti in} diverse epoche, il
che non sarebbe strano, ma eziandio di autori contemporanei, e compatriotti
ancora, come p. e. di Senofonte e
2867
Platone, i quali furono di più
condiscepoli, e trattarono in parte le stesse materie, e la stessa Socratica filosofia.
Dico che il significato delle parole o frasi in ciascuno autore è diverso: ora
più ora meno, secondo i termini della comparazione, e secondo la qualità d'esse
parole; e per lo più la differenza è tale che i poco accorti ed esercitati non
la veggono, ma ella pur v'è, benchè picciolissima. Un autore adoprerà sempre una
parola nel significato proprio, e non mai ne' metaforici. Un altro in un
significato simile al proprio, o forse proprio ancor esso, e non mai negli altri
sensi. Un altro l'adoprerà in un senso traslato, ma con tanta costanza, che
occorrendo di esprimere quella tal cosa, non adoprerà mai altra voce che quella,
e adoprando questa voce, non la piglierà mai in altro senso, onde si può dire
che presso lui questo significato è il proprio di quella voce: {+(come accade che i sensi metaforici de'
vocaboli pigliano spesse volte assolutamente il luogo del proprio, che si
dimentica)} e questo caso è molto frequente. Un altro adoprerà quella
voce colla stessa costanza, o con poco manco, in
2868
un altro senso traslato, più o meno diverso, e talvolta vicinissimo {e similissimo} ma che pur non è quel medesimo. E tutta
questa varietà (con altre molte differenze simili a queste) si troverà nell'uso
di uno stesso verbo, di uno stesso nome, di uno stesso avverbio in autori
contemporanei e compatriotti. Alla qual varietà, come ben sanno i dotti in
queste materie, è da por mente assai, e da notar sempre in ciascuno autore,
massime ne' classici, qual è il preciso senso in cui egli suole o sempre o per
lo più adoperare ciascuna parola o frase. Trovato e notato il quale, si rende
facile la intelligenza dell'autore, e se ne penetra la proprietà e
l'intendimento vero delle espressioni, e si spiegano molti suoi passi che senza
la cognizione del significato da lui solito d'attribuirsi a certe parole, non
s'intenderebbero; com'è avvenuto a molti interpreti e grammatici ec. che
spiegando {{questi passi}} secondo l'uso ordinario di
quelle tali parole o frasi, e non considerandole in quello particolare ch'esse
sogliono aver presso quello scrittore, o non hanno saputo
2869 strigarsi o si sono ingannati. E così accade anche ai ben dotti,
che però non abbiano pratica di quel tale autore, e vi sieno principianti, o che
ne leggano qualche passo spezzato. Certo non prima si arriva a pienamente e
propriamente intendere qualunque autor greco che si abbia presa pratica del suo
particolar Vocabolario, e de' significati di questo: e tal pratica è necessario
di farla in ciascuno autore che si prende nuovamente o dopo lungo intervallo a
leggere: benchè in alcuni costa più in altri meno, e in certi costa tanto, che
solo i lungamente esercitati e familiarizzati colla lezione e studio di quel
tale autore sono capaci di bene intenderne e spiegarne la proprietà delle voci e
frasi, e della espressione {sì} generalmente, sì in
ciascun passo. Insomma questi solo conoscono la sua grecità, la quale, {si può
dire,} in ciascuno autor {greco,} più o meno
è diversa. (1. Luglio 1823.).
[2906,2] In tutte le lingue tanto gran parte dello stile
appartiene ad essa lingua, che in veruno scrittore l'uno senza l'altra non si
può considerare. La magnificenza, la forza, la nobiltà, l'eleganza, la grazia,
la varietà, {la semplicità, la
naturalezza.} tutte o quasi tutte le qualità dello stile, sono così
legate alle corrispondenti qualità della
2907
{{lingua,}} che nel considerarle in qualsivoglia
scrittura è ben difficile il conoscere e distinguere e determinare quanta e qual
parte di esse (e così delle qualità contrarie) sia propria del solo stile, e
quanta e quale della sola lingua; o vogliamo piuttosto dire, quanta e qual parte
spetti e derivi dai soli sentimenti, e quanta e quale dalle sole parole; giacchè
rigorosamente parlando, l'idea dello stile abbraccia {così} quello che spetta ai sentimenti come ciò che appartiene ai
vocaboli. Ma tanta è la forza e l'autorità delle voci nello stile, che mutate
quelle, o le loro forme, il loro ordine ec. tutte o ciascuna delle predette
qualità si mutano, o si perdono, e lo stile di qualsivoglia autore o scritto,
cangia natura in modo che più non è quello nè si riconosce. {+1. Veggasi la p. 3397-9.}
[2939,1] Dalle lunghe considerazioni da me fatte circa quello
che voglia significare nella Genesi l'albero della scienza ec.
pp. 393. sgg. ,
dalla favola di Psiche della quale ho
parlato altrove pp. 637-68, e da altre o favole o dogmi ec.
antichissimi, che mi pare avere accennato in diversi luoghi pp.
63-64, si può raccogliere non solo quello che generalmente si dice,
che la corruzione e decadenza del genere umano da uno stato migliore, sia
comprovata da una remotissima, universale, costante e continua tradizione, ma
che eziandio sia comprovato da una tal tradizione e dai monumenti della più
antica storia e sapienza, che questa corruttela e decadimento del genere umano
da uno stato felice, sia nato dal sapere, e dal troppo conoscere, e che
l'origine della sua infelicità sia stata la scienza e di se stesso e del mondo,
e il troppo uso della ragione. E pare che questa verità fosse nota ai più
antichi sapienti, e una
2940 delle principali e
capitali fra quelle che essi, forse come pericolose a sapersi, enunziavano sotto
il velo dell'allegoria e coprivano di mistero e vestivano di finzioni, o si
contentavano di accennare confusamente al popolo; il quale era in quei tempi
assai più diviso per ogni rispetto dalla classe de' sapienti, che oggi non è:
onde nasceva l'arcano in cui dovevano restare quei dogmi ch'essendo sempre
proprii de' soli sapienti, non erano {allora} quasi per
niun modo communicati al popolo, separato affatto dai saggi. Oltrechè in quei
tempi l'immaginazione influiva e dominava così nel popolo, come anche nei
sapienti medesimi, onde nasceva che questi, eziandio senz'alcuna intenzione di
misteriosità, e senz'alcun secondo fine, vestissero le verità di {figure,} e le rappresentassero {altrui} con sembianza di favole. E infatti i primi sapienti furono i
poeti, o vogliamo dire i primi sapienti si servirono della poesia, e le prime
verità furono annunziate in versi, non, cred'io, con espressa intenzione di
velarle e farle poco intelligibili, ma perchè esse si presentavano
2941 alla mente stessa dei saggi in un abito lavorato
dall'immaginazione, e in gran parte erano trovate da questa anzi che dalla
ragione, {+anzi avevano eziandio gran
parte d'immaginario, specialmente riguardo alle cagioni ec., benchè di buona
fede creduto dai sapienti che le concepivano o annunziavano.} E
inoltre per propria inclinazione e per secondar quella degli uditori, cioè de'
popoli a cui parlavano, i saggi si servivano della poesia e della favola per
annunziar le verità, benchè niuna intenzione avessero di renderle méconnaissables. (11. Luglio 1823.).
[2944,1] Gridano che la poesia debba esserci contemporanea,
cioè adoperare il linguaggio e le idee e dipingere i costumi, e fors'anche gli
accidenti de' nostri tempi. Onde condannano l'uso delle antiche finzioni,
opinioni, costumi, avvenimenti. {Puoi vedere la
p. 3152.}
Ma io dico che tutt'altro potrà esser contemporaneo a questo secolo fuorchè la
poesia. Come può il poeta adoperare il linguaggio e seguir le idee e mostrare i
costumi d'una generazione d'uomini per cui la gloria è un fantasma, la libertà
la patria l'amor patrio non esistono, l'amor vero è una
2945 fanciullaggine, e insomma le illusioni son tutte svanite, le
passioni, non solo grandi e nobili e belle, ma tutte le passioni estinte? Come
può, dico, ciò fare, ed esser poeta? Un poeta, una poesia, senza illusioni senza
passioni, sono termini che reggano in logica? Un poeta in quanto poeta può egli
essere egoista e metafisico? e il nostro secolo non è tale caratteristicamente?
come dunque può il poeta essere caratteristicamente contemporaneo in quanto
poeta?
[2976,1] Benchè materiale, non sarà perciò vana
l'osservazione che i poemi d'Omero,
massime l'Iliade, avuto rispetto alla qualità della lingua greca,
la quale in un dato numero di parole o di versi dice molto più che le lingue
moderne naturalmente e ordinariamente non dicono, i poemi d'Omero, ripeto, sono i più lunghi di tutti i poemi Epici
conosciuti nelle letterature Europee. Paragonati all'Eneide, ch'è poema scritto nella lingua più di tutte vicina alla
detta facoltà della lingua greca, oltre ch'essi sono composti di 24 libri
ciascuno, laddove l'Eneide di soli dodici, si
trova che avendo l'Eneide 9896 versi, l'Odissea n'ha 12096, e l'Iliade 15703, il qual computo l'ho fatto io medesimo. Notisi che i
versi di Virgilio sono della stessa
misura che quelli di Omero. Questo
parallelo così esatto non si potrebbe fare coi poemi scritti nelle lingue
moderne, sì per la differente misura
2977 de' versi e
quantità delle sillabe che questi contengono, sì molto maggiormente perchè le
lingue moderne hanno bisogno d'assai più parole che non la lingua greca e latina
per significare una stessa cosa. Onde quando anche v'avesse qualche poema epico
moderno che di parole eccedesse quelli d'Omero, credo però che tutti debbano consentire che nel numero, per
così dire, o nella quantità delle cose niuno ve n'ha che non sia notabilmente
minore di questi, o certo dell'uno d'essi, cioè dell'iliade.
[3024,2]
Alla p. 2828.
fine. Notate che anche la vera pronunzia e la vera armonia della
lingua latina è da gran tempo e perduta e ignota. Contuttociò, quantunque sia
certissimo che questo rende assai difficile ai moderni di scrivere secondo la
vera indole della lingua, del giro, del periodo, della costruzione latina ec.,
nondimeno, siccome la lingua latina è morta, così lo scrittore che oggi vuole
scrivere in
3025 latino (e così quelli che scrissero in
latino dal 300. in poi) può trascurare affatto la pronunzia moderna, può anche
fino a un certo segno dimenticarsela, può astrarre affatto dall'armonia, e non
considerando negli antichi scrittori se non le pure costruzioni, i puri periodi
ec. indipendentemente sì dal ritmo che ne risultava sì da quello che oggi ne
risulta, seguirli e imitarli ciecamente tali quali sono essi, non facendo caso
della moderna pronunzia. Ma la lingua greca era ancor viva, benchè la pronunzia
fosse cambiata, e agli scrittori non era nè facile il dimenticare e astergersi
dagli orecchi il suono quotidiano e corrente della loro propria favella, nè
volendo ancora seguire (come molti vollero) strettamente e imitare esattamente
gli antichi, era loro possibile negare affatto ai loro periodi un numero che
fosse sentito dall'universale {{de' greci a}} quel
tempo. Poichè questi periodi avevano pure ad esser letti e pronunziati da
nazionali che quantunque non pronunziassero come una volta, intendevano però e
parlavano tuttavia quella lingua, come
3026 materna.
Onde non era quasi possibile dare {nelle scritture}
alla lingua, ch'era pur nazionale e volgare, un ritmo al tutto, si può dir,
forestiero, e ignoto a tutti, fino allo stesso scrittore; ch'è quanto dire non
darle in somma alcun ritmo, (24. Luglio. 1823.) cioè niun ritmo che
alla nazione a cui si scriveva, nè pure allo stesso scrittore, riuscisse tale.
(24. Luglio 1823.).
[3047,1] La forza, l'originalità, l'abbondanza, la sublimità,
ed anche la nobiltà dello stile possono, certo in gran parte, venire dalla
natura, dall'ingegno dall'educazione, o col favore di queste acquistarsene {{in breve}} l'abito, ed acquistato, senza grandissima
fatica metterlo in opera. La chiarezza e (massime a' dì nostri) la semplicità
(intendo quella ch'è quasi uno colla naturalezza {e il
contrario dell'affettazione sensibile,} di qualunque genere ella sia, ed in qualsivoglia
materia e stile e composizione, come ho spiegato altrove pp. 1411. sgg. ), la chiarezza e la
semplicità (e quindi eziandio la grazia che senza di queste non può stare, e che
in esse per gran parte e ben sovente consiste), la chiarezza, dico, e la
semplicità, quei pregi fondamentali d'ogni qualunque scrittura, quelle qualità
indispensabili anzi di primissima necessità, senza cui gli altri pregi a nulla
valgono, e colle quali niuna scrittura, benchè niun'altra dote abbia, è mai
dispregevole, sono tutta e per tutto opera {{dono ed
effetto}} dell'
3048 arte. Le qualità dove
l'arte dee meno apparire, che paiono le più naturali, che debbono infatti parere
le più spontanee, che paiono le più facili, che debbono altresì parer conseguite
con somma facilità, l'una delle quali si può dir che appunto consista nel
nascondere intieramente l'arte, e nella niuna apparenza d'artifizioso e di
travagliato; esse sono appunto le figlie dell'arte sola, quelle che non si
conseguono mai se non collo studio, le più difficili ad acquistarne l'abito, le
ultime che si conseguiscano, e tali che acquistatone l'abito, non si può
tuttavia mai senza grandissima fatica metterlo in atto. Ogni minima negligenza
dello scrittore nel comporre, toglie al suo scrivere, in quanto ella si estende,
la semplicità e la chiarezza, perchè queste non sono mai altro che il frutto
dell'arte, siccome abituale, così ancora attuale; perchè la natura non le
insegna mai, non le dona ad alcuno; perchè non è possibile
ch'ella[elle] vengano mai da se, chi non le
cerca, nè che veruna parte
3049 di veruna scrittura
riesca mai chiara nè semplice per altro che per espresso {artifizio} e diligenza posta dallo scrittore a farla riuscir tale. E
togliendo immancabilmente la chiarezza e la semplicità, ogni minima negligenza
dello scrittore inevitabilmente danneggia, e in quella tal parte distrugge sì la
bellezza sì la bontà di qualsivoglia scrittura. Perocchè la semplicità e la
chiarezza sono {{parti}} così fondamentali ed essenziali
della bellezza e bontà degli scritti, ch'elle debbono esser continue, nè mai per
niuna ragione (se non per ischerzo o cosa tale) elle non debbono essere
intermesse, nè mancare a veruna, benchè piccola, parte del componimento. La
forza, la sublimità, l'abbondanza o la brevità e rapidità, lo splendore, la
nobiltà medesima, si possono, anzi ben sovente si debbono intermettere nella
scrittura; elle possono, anzi debbono avere quando il più quando il meno, sì
dentro una medesima, come in diverse composizioni e generi; elle possono esser
differenti da se medesime, secondo le scritture, e le parti e circostanze
3050 e occasioni di queste, anzi elle {nè deggiono nè} possono altrimenti. Ma la chiarezza e la
semplicità non denno aver mai nè il più nè il meno; in qualsivoglia genere di
scrittura, in qualsivoglia stile, in qualsivoglia parte di qualsiasi
componimento, elle, non solo non hanno a mancar mai pur un attimo, ma denno
sempre e dovunque e appresso ogni scrittore esser le medesime in quanto a se
(benchè con diversi mezzi si possono proccurare, e dar loro diversi aspetti e
diverse circostanze), sempre della medesima quantità, per così dire, e sempre
uguali a se stesse nell'esser di chiarezza e semplicità, e nell'intensione di
questo essere. (26. Luglio. 1823. dì di Sant'Anna.).
[3050,1] È ben difficile scrivere in fretta con chiarezza e
semplicità; più difficile che con efficacia veemenza, copia, ed anche con
magnificenza di stile. Nondimeno la fretta può stare colla diligenza. La
semplicità e chiarezza {se} può star colla fretta, non
può certo star colla negligenza. È bellissima nelle scritture un'apparenza di
trascuratezza, di sprezzatura, un abbandono, una quasi noncuranza.
3051 Questa è una delle specie della semplicità. Anzi
la semplicità più o meno è sempre un'apparenza di sprezzatura (benchè per le
diverse qualità ch'ella può avere, non sempre ella produca nel lettore il
sentimento di questa sprezzatura come principale e caratteristico) perocch'ella
{sempre} consiste nel nascondere affatto l'arte, la
fatica, e la ricercatezza. Ma la detta apparenza non nasce mai dalla vera
trascuratezza, anzi per lo contrario da moltissima e continua cura e artifizio e
studio. Quando la negligenza è vera, il senso che si prova nel legger lo
scritto, è quello dello stento, della fatica, dell'arte, della ricercatezza,
della difficoltà. Perocchè la facilità che si dee sentir nelle scritture è la
qualità più difficile ad esser loro comunicata. Nè senza stento grandissimo si
consegue nè l'abito nè l'atto di comunicarla loro. (27. Luglio.
1823.).
[3066,1] Che la lingua italiana mediante la letteratura sia
stata per più secoli divulgatissima in europa, e più
divulgata che niun'altra moderna a quei tempi, o certo per più lungo spazio
(perchè la lingua spagnuola per un certo tempo lo fu forse altrettanto, e in
italia nel 600 trovo stampate le
Novelle di Cervantes
in ispagnuolo, mentre oggi in tanta diffusione della lingua francese, che niuno
è che non la intenda, è ben difficile che tra noi si ristampi un libro francese
di letteratura o divertimento in lingua francese), raccogliesi da parecchi
luoghi e notizie da me segnate qua e là p. 242
pp. 1581-83, e da molte altre che si possono facilmente raccorre.
Vedi in particolare
Andrès, Stor. della letterat. parte
2. l. 1. poesia inglese, ed. Ven. del Loschi, t. 4. p. 116. 117.
119., la Vita di Milton, l'Orazione di Alberto Lollio in lode della lingua toscana, nelle
prose
fiorentine, part. 2. vol. 6. ed. Ven.
1730-43. p. 38-39, dov'è un passo molto interessante a questo
proposito. Ma si noti che in altre edizioni come in quella
3067 della Raccolta di prose ad uso delle regie
scuole, ed. 3.a Torino, 1753. p. 309. questo
passo, siccome tutta l'orazione, è notabilissimamente mutato; e
veggasi la prefazione al citato vol. delle
prose fior. p. X-XI.
{#1. Veggasi ancora Speroni Oraz. in morte del Bembo nelle Orazioni stampate in
Ven. 1596. p. 44-5.}
La
Canzone de' Gigli del Caro, mandata in Francia, e fatta
apposta per colà, come anche il Commento alla medesima secondo che
dice il Caro in una delle sue lettere al Varchi, il conto fattone in
Francia ec. (v. la Vita del Caro); la
Canzone del Filicaia per la liberazione di
Vienna, mandata in
Germania, e credo anche in
Polonia, e colà molto lodata, come si vede nelle lettere del Redi; {#2. V. p.
3816.}
i poemi dell'Alamanni fatti in
Francia ad istanza di quei principi ec. e colà
stampati (v. Mazzucchelli, Vita
dell'Alamanni), siccome molti altri libri italiani
originali o tradotti si pubblicavano allora o si ristampavano fuor
d'Italia, nella quale certo niun libro francese,
inglese, tedesco si pubblicava o ristampava originale, e ben pochissimi tradotti
(francesi o spagnuoli); tutte queste cose, e cento altre simili {notizie e indizi} di cui son pieni
3068 i libri del 500, del 600, e anche de' principii del 700,
dimostrano quanto la lingua italiana fosse divulgata. Nondimeno ella ha lasciato
ben poche o niuna parola agli stranieri (eccetto alcune tecniche, militari, di
belle arti ec. che spettano ad altro discorso) mentre la lingua francese tanti
vocaboli e frasi e modi e forme ha comunicato e comunica a tutte le lingue colte
d'europa, e in esse le {ha}
radicate e naturalizzate per sempre, e continuamente ne radica e naturalizza.
Segno che la letteratura è debol fonte e cagione e soggetto di universalità per
una lingua, perocchè una lingua universale per la sola letteratura (e per questo
lato fu veramente universale l'italiana a que' tempi, quanto mai lo sia stato
alcun'altra fra le nazioni civili) non rende διγλώττους le nazioni in ch'ella si spande, e non è mai se non materia
di studio e di erudizione (παιδείας). Quindi poco profonde radici mettono
nell'altre lingue le sue parole: e terminata l'influenza della sua letteratura
3069 termina la sua universalità (non così,
terminata l'influenza della nazion francese è terminata nè terminerà
l'universalità della sua lingua, nè così della greca ec.), e si dimenticano e
disusano ben presto quelle parole e modi che lo studio e l'imitazione della sua
letteratura aveva forse introdotto nelle letterature straniere, ma non più oltre
che nelle letterature. Quando in Francia a tempo di Caterina de' Medici, la nostra lingua
si divulgò per altro che per la letteratura, allora l'italianismo nel francese
non appartenne alla letteratura sola, e in questa medesima {eziandio} fu maggiore assai che negli altri tempi o circostanze,
onde, non so qual degli Stefani,
scrisse quel dialogo satirico del quale ho detto altrove più volte.
[3070,1]
Benedetto Buommattei nell'Orazione delle lodi della lingua
toscana detta da lui l'anno 1623. nell'Accademia Fiorentina
(Vita del Buommatt. in fronte alla sua
Grammat. ed. Napoli 1733. p. 22.
princ.), verso il fine, cioè nella succitata Raccolta di
Torino p. 299. fine - 300. e appiè
della sua Gramatica, edizione cit. p. 273. fine, dice
della universal
3071 diffusione della lingua toscana a quel tempo ciò che ivi puoi vedere.
(30. Luglio. 1823.).
[3095,2] Riprendono {nell'iliade} la poca unità, l'interesse principale
che i lettori prendono per Ettore, il
doppio Eroe (Ettore ed Achille), e
conchiudono che {se Omero} nelle parti è superiore agli altri poeti, nel tutto
però preso insieme, nella condotta del poema, nella regolarità è inferiore agli
altri epici, particolarmente a Virgilio.
Certo se potessero esser vere regole {di poesia} quelle
che si oppongono al buono e grande effetto della medesima e alla natura
dell'uomo, io non disconverrei da queste sentenze. {In proposito delle cose contenute nel séguito di questo
pensiero, vedi la pag. 470. capoverso
2.}
[3191,2] All'amore che noi abbiamo della vita, e quindi delle
sensazioni vive, dee riferirsi il piacere che ci recano negli scritti o nel
discorso le parole chiamate espressive, cioè quelle che producono in quanto a
loro una idea vivace, o per la vivacità dell'azione o del soggetto qualunque
ch'elle significano (come spaccare), o perchè
vivamente rappresentano all'immaginativa questa
3192
medesima azione o soggetto, qualunque siasi la cagione perch'esse vivamente lo
rappresentino (come spaccare più vivamente rappresenta
l'azione significata, e desta un'idea più viva che fendere per varie ragioni che ora non accade specificare, e lungo
sarebbe il farlo), o perchè di un'azione o di un soggetto non vivace, ne destano
però una viva e presente idea. (18. Agosto. 1823.).
[3192,1] Per li nostri pedanti il prender noi dal francese o
dallo spagnuolo voci o frasi utili o necessarie, non è giustificato dall'esempio
de' latini classici che altrettanto
faceano dal greco, come Cicerone
massimamente e Lucrezio, nè
dall'autorità di questi due e di Orazio nella Poetica, che espressamente difendono e lodano il farlo.
Perocchè i nostri pedanti coll'universale dei dotti e degl'indotti tengono la
lingua greca per madre della latina. Ma hanno a sapere ch'ella non fu madre
della latina, ma sorella, nè più nè meno che la francese e la spagnuola sieno
sorelle dell'italiana. Ben è vero che la greca letteratura e
3193 filosofia fu, non sorella, ma propria madre della {+letteratura e filosofia} latina.
Altrettanto però deve accadere alla filosofia italiana, e a quelle parti
dell'italiana letteratura che dalla filosofia debbono dipendere o da essa
attingere, per rispetto {alla} letteratura e filosofia
francese. La quale dev'esser madre della nostra, perocchè noi non l'abbiamo del
proprio, stante la singolare inerzia d'italia nel secolo
in che le {altre} nazioni
d'europa sono state e sono più attive che in
alcun'altra. E voler creare di nuovo e di pianta la filosofia, e quella parte di
letteratura che affatto ci manca (ch'è la letteratura propriamente moderna);
oltre che dove sono gl'ingegni da questa creazione? ma quando anche vi fossero,
volerla creare dopo ch'ella è creata, e ritrovare dopo trovata ch'ell'è da più
che un secolo, e dopo cresciuta e matura, e dopo diffusa e abbracciata e
trattata continuamente da tutto il resto d'europa del
pari; sarebbe cosa, non sola[solo] inutile, ma
stolta e dannosa, mettersi a bella posta lunghissimo tratto addietro degli
3194 altri in una medesima carriera, volersi collocare
sul luogo delle mosse quando gli altri sono già corsi tanto spazio verso la
meta, ricominciare quello che gli altri stanno perfezionando; e sarebbe anche
impossibile, perchè nè i nazionali nè i forestieri c'intenderebbono se volessimo
trattare in modo affatto nuovo le cose a tutti già note e familiari, e noi non
ci cureremmo di noi stessi, e lasceremmo l'opera, vedendo nelle nostre mani
bambina e schizzata, quella che nelle altrui è universalmente matura e colorita;
e questo vano rinnovamento piuttosto ritarderebbe e impaccerebbe di quel che
accelerasse e favorisse gli avanzamenti della filosofia, e letteratura moderna e
filosofica. Erano ben altri ingegni tra' latini al tempo che s'introdussero e
crebbero gli studi nel Lazio; ben altri ingegni, dico,
che oggi in italia non sono. Nè però essi vollero
rinnovare nè la filosofia nè la letteratura (la quale essendo allora poco
filosofica, si potea pur variare passando a nuova nazione), ma trovando l'una e
l'altra in alto stato, e grandissimamente avanzate e mature appresso i
3195 greci, da questi le tolsero, e gli altrui
ritrovamenti abbracciarono e coltivarono; e ricevuti e coltivati che gli ebbero,
allora, secondo l'ingegno di ciascheduno e l'indole della nazione, de' costumi,
del governo, del clima, della lingua, delle opinioni romane, modificarono ed
ampliarono le cose da' greci trovate, e diedero loro abito e viso e attitudini
domestiche e nuove. Se vuol dunque l'italia avere una
filosofia ed una letteratura moderna e filosofica, le quali finora non ebbe mai,
le conviene di fuori pigliarle, non crearle da se; e di fuori pigliandole, le
verranno principalmente dalla Francia (ond'elle si sono
sparse anche nelle altre nazioni, a lei molto meno vicine e di luogo e di clima
{e di carattere} e di genio e di lingua ec. che
l'italiana), e vestite di modi, forme, frasi e parole francesi (da tutta
l'europa universalmente accettate, e da buon tempo
usate): dalla Francia, dico, le verrà la filosofia e la
moderna letteratura, come altrove ho ragionato pp. 1029-30, e
volendole ricevere, nol potrà altrimenti che ricevendo {altresì} assai parole e frasi {di là,} ad
esse intimamente e indivisibilmente spettanti e fatte proprie;
3196 siccome appunto convenne fare ai latini {delle voci e frasi greche} ricevendo la greca
letteratura e filosofia; e il fecero senza esitare. E noi colla stessa
giustificazione, ed anche col vantaggio della stessa facilità il faremo, essendo
la lingua lingua francese sorella dell'italiana siccome della latina il fu la
greca, e producendo la filosofia e la filosofica letteratura francese una
letteratura moderna ed una filosofia italiana, siccome già la greca nel
Lazio. E tanto più saremo fortunati degli altri
stranieri che dal francese attinsero voci e modi per la filosofia e letteratura,
quanto che noi nel francese avremo una lingua sorella, e non, com'essi, aliena e
di diversissima origine. (18. Agos. 1823.). {Noi sappiamo bene qual {e che
cosa} sia questa lingua latina madre dell'italiana, e possiamo
definitamente additarla, e mostrarla tutta intera. Ma dir che la teutonica o
la slava o simili è madre della tedesca o della russa ec., è quasi un dire
in aria, benchè sia vera, nè quelli possono definitamente additarci quale
individualmente sia questa lor lingua madre, nè, se non confusamente e per
laceri avanzi, mostrarcela.}
[3220,1] Certo è che la principale, anzi la vera arte
degl'inventori di musica, e il vero, proprio musicale, e grande effetto delle
loro invenzioni, allora solo si manifesta {ed ha luogo}
quando le loro melodie son tali che il popolo e generalmente tutti gli uditori
ne sieno colpiti e maravigliati come di
3221 melodia
nuova, e nel tempo medesimo, per essere in verità assuefatti a quelle tali
succcessioni di tuoni, sentano al primo tratto ch'ella è melodia. Il qual
effetto, proprio, anzi solo proprio della vera vera musica, e solo grande, solo
vivo, solo universale, non altrimenti si ottiene che coll'adornare, abbellire,
giudiziosamente e fino al debito segno variare, nobilitare per dir così,
nuovamente fra loro congiungere e disporre, presentare sotto un nuovo aspetto le
melodie assolutamente e formalmente popolari, e tolte dal volgo, e le varie e
sparse forme di successioni di note, che gli orecchi generalmente conoscono, e
vi sono assuefatti. Non altrimenti che il poeta, l'arte del quale non consiste
già principalmente nell'inventar cose affatto ignote e strane e a tutti
inaudite, o nello sceglier le cose meno divulgate, anzi ciò facendo egli più
tosto pecca e perde e toglie all'effetto della poesia, di quel che gli aggiunga;
ma l'arte sua è di scegliere tra le cose note le più belle, nuovamente e
armoniosamente, cioè fra loro convenientemente, disporre
3222 le cose divulgate e adattate alla capacità dei più, nuovamente
vestirle, adornarle, abbellirle, coll'armonia del verso, colle metafore, con
ogni altro splendore dello stile; dar lume e nobiltà alle cose oscure ed
ignobili; novità alle comuni; cambiar aspetto, quasi per magico incanto, a che
che sia che gli venga alle mani; pigliare v. g. i personaggi dalla natura, e
farli naturalmente parlare, e nondimeno in modo che il lettore riconoscendo in
quel linguaggio il linguaggio ch'egli è solito di sentire dalle simili persone
nelle simili circostanze, lo trovi pur nel medesimo tempo, nuovo e più bello,
{+senz'alcuna comparazione,
dell'ordinario, per} gli adornamenti poetici, e il nuovo stile, e
insomma la nuova forma e il nuovo corpo di ch'egli è vestito. Tale è l'officio
del poeta, e tale nè più nè meno del Musico. Ma siccome la poesia bene spesso,
lasciata la natura, si rivolse per amore di novità e per isfoggio di fantasia e
di facoltà creatrice, a sue proprie e stravaganti e inaudite invenzioni, e mirò
più alle regole e a' principii che l'erano stati assegnati, di quello che al suo
fondamento ed anima ch'
3223 è la natura; anzi lasciata
affatto questa, che aveva ad essere l'unico suo modello, non altro modello
riconobbe e adoperò che le sue proprie regole, e su d'esso modello gittò mille
assurde e mostruose o misere e grette opere; laonde abbandonato l'officio suo
ch'è il sopraddetto, sommamente stravolse e perdè, o per una o per altra parte,
di quell'effetto che a lei propriamente ed essenzialmente si convenia di
produrre e di proccurare; così l'arte musica nata per abbellire, innovare
decentemente e variare e per tal modo moltiplicare; ordinare, regolare,
simmetrizzare o proporzionare, adornare, nobilitare, perfezionare insomma le
melodie popolari e generalmente note e a tutti gli orecchi domestiche; com'ella
ebbe assai regole e principii, e d'altronde s'invaghì soverchiamente della
novità, e dell'ambiziosa creazione e invenzione, non mirò più che a se stessa, e
lasciando di pigliare in mano le melodie popolari per su di esse esercitarsi, e
farne sua materia, come doveva per proprio istituto; si rivolse alle sue regole,
e su questo modello, senz'altro, gittò le sue composizioni
3224 nuove veramente e strane: con che ella venne a perdere
quell'effetto che a lei essenzialmente appartiene, ch'ella doveva proporsi per
suo proprio fine, e ch'ella da principio otteneva, quando cioè lo cercava, o
quando coi debiti e appropriati mezzi lo proccurava.
[3224,1] Perocchè io non dubito che i mirabili effetti che si
leggono aver prodotto la musica e le melodie greche sì ne' popoli, ossia in
interi uditorii, sì negli eserciti, siccome quelle di Tirteo, sì ne' privati, come in
Alessandro;
effetti tanto superiori a quelli che l'odierna musica non solo produca, ma
sembri pure, assolutamente parlando, capace di mai poter produrre; effetti che
necessitavano i magistrati i governi i legislatori a pigliar provvidenze e fare
regolamenti e quando ordini, quando divieti, intorno alla musica, come a cosa di
Stato (v. il Viag.
d'Anacarsi, Cap. 27. trattenimento secondo); (e parlo qui
degli effetti della musica greca che si leggono nelle storie e
avvenute[avvenuti] fra' greci civili, non di
que' che s'hanno nelle favole, accaduti a' tempi salvatichi); non
3225 dubito, dico, che questi effetti, e la superiorità
della greca musica sulla moderna, che pur quanto a' principii ed alle regole,
dalla greca deriva, non venga da questo, ch'essendo fra' greci l'arte musicale,
sebbene adulta, pur tuttavia ancora scarsa, non offriva ancora abbastanza al
compositore da coniare o inventar di pianta nuove melodie che niun'altra ragione
avessero di esser tali se non le regole sole dell'arte; nè da {poter} gittarne sopra queste regole unicamente, o sopra
le forme e melodie musicali da altri inventate
di pianta, delle quali non poteva
ancora avervi così gran copia, come ve n'ha tra' moderni. Ma quel ch'è più,
l'arte, sebben cominciò anche tra' greci a corrompersi e declinare da' suoi
principii, e da' suoi propri obbietti o fini {e
instituti,} anzi molto avanzò nella corruzione (v. Viag. d'Anac. l.
c.), non giunse tuttavia di gran lunga ad allontanarsi tanto come tra
noi, e così decisamente e costantemente, dalla sua prima origine, dal primo
fondamento e ragione delle sue regole, dalla prima materia delle sue
composizioni, cioè le popolari melodie; nè a dimenticare,
3226 come oggi, impudentemente e totalmente il suo primo e proprio
fine, cioè di dilettare e muovere l'universale degli uditori ed il popolo; nè,
molto meno, giunse a rinunziar quasi interamente e formalmente a questo fine, e
scambiarlo apertamente in quello di dilettare, {o}
maravigliare, o costringere a lodare e applaudire una sola e sempre scarsissima
classe di persone, cioè quella degl'intendenti: il quale per verità è il fine
che realmente si propone la musica tedesca, inutile a tutti fuori che
agl'intendenti, e non già superficiali, ma ben profondi. Non fu così la Musica
greca. E in questo ravvicinamento della moderna musica al popolare,
ravvicinamento così biasimato dagl'intendenti, e che sarà forse cattivo per il
modo, ma in quanto ravvicinamento al popolare è non solo buono, ma necessario, e
primo debito della moderna musica; in questo ravvicinamento, dico, vediamo
quanto l'effetto della musica abbia guadagnato e in estensione, cioè nella
universalità, e in vivezza, cioè nel maggior diletto, ed anche talor maggior
commovimento degli animi.
3227 Che se in niuna parte, e
meno in quest'ultima, gli effetti della moderna musica sono per anche
paragonabili a quelli che si leggono della greca, è da considerarsi che l'uomo
oggidì è disposto in modo da non lasciarsi mai veementemente muovere a nessuna
parte; che analogamente a questa generale disposizione, neanche le melodie
assolutamente popolari d'oggidì, son tali {nè di tal
natura} che possano facilmente ricevere dal compositore una forma da
produrre in veruno animo un più che tanto effetto; e che in ultimo i compositori
non iscelgono nè quelle melodie popolari o parti di esse che meglio si
adatterebbero alla forza e profondità dell'effetto, nè in quelle che scelgono,
ci adoprano quei mezzi che si richieggono a produrre un effetto simile, nè così
le lavorano e {dispongono} come converrebbe per tal
uopo: e ciò non fanno perchè nol vogliono e perchè nol sanno. Nol sanno perchè
privi essi medesimi d'ispirazione veramente sublime e divina, e di sentimenti
forti e profondi nel comporre in qualsiasi genere, non possono nè scegliere nè
usar lo scelto in modo da
3228 produr negli uditori
queste siffatte sensazioni ch'essi mai non provarono nè proveranno. Nol
vogliono, perchè appunto non conoscendo tali sensazioni, nulla o ben poco le
stimano, nè altro fine si propongono che il diletto superficiale e il grattar
gli orecchi, al che di gran lunga pospongono le grandi e nobili e forti
emozioni, di cui mai non fecero esperimento. Ma che maraviglia? quando gli
antichi musici erano i poeti, quegli stessi che per la sublimità de' concetti,
per la eleganza e grandezza dello spirito brillano nelle carte che di loro ci
rimangono, o perdute queste coi ritmi da loro inventati e applicativi, vivono
immortali i loro nomi nella memoria degli uomini, e ciò talora eziandio per
egregi e magnanimi fatti? E quando all'incontro i moderni musici, stante le
circostanze della loro vita, e delle moderne costumanze a loro riguardo, sono
per corruzione, per delizie, per mollezza e bassezza d'animo il peggio del
peggior secolo che nelle storie si conti? la feccia della feccia delle
generazioni? Da vita, opinioni e costumi vili, adulatorii, dissipati,
3229 effeminati, infingardi, come può nascer concetto
alto, nobile, generoso, profondo, virile, energico? Ma questo discorso
porterebbe troppo innanzi, e condurrebbe necessariamente al parallelo della
musica e de' musici colle altre arti e loro professori, a quello della moderna
musica coll'antica, e delle moderne usanze colle antiche relative al proposito;
e finalmente a trattare della funesta separazione della musica dalla poesia e
della persona di musico da quello di poeta, attributi anticamente, e secondo la
primitiva natura di tali arti, indivise e indivisibili (v. il Viag. d'Anac. l.
c. {+particolarmente l'ult. nota al
c. 27.}). Il qual discorso da molti è stato fatto, e qui non
sarebbe che digressione. Però lo tralascio.
[3232,2] Del resto poi le assuefazioni che di sopra ho
chiamato αὐτόματοι del popolo, {+(voglio
dire dell'universale)} nascono ed hanno origine da varie cagioni, e
fra l'altre dalla natura, indipendentemente però da veruna naturale
3233 convenienza scambievole di quali si sieno tuoni,
ma solo in tanto in quanto p. e. certe passioni naturalmente e universalmente
amano certi tali tuoni e certi tali passaggi da un tal tuono a un tal altro. La
qual cosa che nulla ha che fare coll'assoluta convenienza di tal tuono a tal
tuono, (perocchè qui la ragione della convenienza de' tuoni non istà nella
natura loro, nè nei loro naturali rapporti, ma è relativa alla natura dell'uomo
che indipendentemente dalla convenienza, ama in quel tal caso quel tuono e quel
passaggio) fu l'origine delle melodie, le quali furono da principio, siccome
sempre avrebbero dovuto e dovrebbero essere, imitative; bensì tali che
abbellivano ed ornavano e variavano la natura, colla scelta, colla disposizione,
coll'atta mescolanza e congiungimento, e di più colla delicatezza, grazia,
mobilità ec. degli organi o naturali (coltivati ed esercitati), o artifiziali
inventati e perfezionati. Nè più nè manco di quello che le poesie debbano,
imitandola ornare, abbellire, variare e mostrar sotto nuovo abito la natura.
Veggasi a questo proposito la citata nota
ultima al Capo
3234 27. del Viag. d'Anac. e quello che {altrove ho detto}
pp.
79-80
pp. 155-59
pp.
1665-66
pp.
1871. sgg. sopra l'imitativo della musica, e {sopra} quella convenienza musicale che {ha}
nella imitazione {sola} la sua ragione ed origine.
[3289,3] Sogliono le opere umane servire di modello
successivamente l'une all'altre, e così appoco perfezionandosi il genere, e
ciascuna opera, o le più
3290 d'esse riuscendo migliori
de' loro modelli fino all'intero perfezionamento, il primo modello apparire ed
essere nel suo genere la più imperfetta opera di tutte l'altre, per infino alla
decadenza e corruzione d'esso genere, che suole altresì ordinariamente succedere
all'ultima sua perfezione. Non così nell'epopea; ma per lo contrario il primo
poema epico, cioè l'iliade che fu modello di tutti gli altri, si
trova essere il più perfetto di tutti. Più perfetto dico nel modo che ho
dimostrato parlando della vera idea del poema epico p. 3095- 3169. Secondo le quali osservazioni da me
fatte si può anzi dire che siccome l'ultima perfezione dell'epopea (almen quanto
all'insieme e all'idea della medesima) si trova nel primo poema epico che si
conosca, così la decadenza e corruzione di questo genere incominciò non più
tardi che subito dopo il primo poema epico a noi noto. Similmente negli altri
generi di poesia, per lo più, i migliori e più perfetti modelli ed opere sono le
più antiche, o assolutamente parlando, o relativamente alle nazioni {e letterature} particolari,
3291 come tra noi la Commedia di Dante
è nel suo genere, siccome la prima, così anche la migliore opera. (28.
Agosto. 1823.).
[3388,1] Molti presenti italiani che ripongono tutto il
pregio della poesia, anzi tutta la poesia nello stile, e disprezzano affatto,
anzi neppur concepiscono, la novità de' pensieri, delle immagini, de'
sentimenti; e non avendo nè pensieri, nè immagini, nè sentimenti, tuttavia per
riguardo del loro stile si credono poeti, e poeti perfetti e classici; questi
tali sarebbero forse ben sorpresi se loro si dicesse, non solamente che chi non
è buono alle immagini, ai sentimenti, ai pensieri non è poeta, il che lo
negherebbero schiettamente o implicitamente; {Puoi vedere le pagg. 2979-80. e 3717-20.} ma
che chiunque non sa immaginare, pensare, sentire, inventare, non può nè
possedere un buono stile poetico, nè tenerne l'arte, nè eseguirlo, nè giudicarlo
nelle opere proprie nè nelle altrui; che l'arte {e la facoltà
e l'uso} dell'immaginazione e dell'invenzione è tanto indispensabile
allo stile
3389 poetico, quanto e forse ancor più
ch'{al ritrovamento,} alla scelta, {e} alla disposizione della materia, alle sentenze e a
tutte l'altre parti della poesia ec. (Vedi a tal proposito la pp. 2978- 80.) Onde non possa mai
esser poeta per lo stile chi non è poeta per tutto il resto, nè possa aver mai
uno stile veramente poetico, chi non ha facoltà, o avendo facoltà non ha
abitudine, di sentimento di pensiero di fantasia d'invenzione, insomma
d'originalità nello scrivere. (9. Sett. 1823.).
[3389,1] La lingua spagnuola, secondo me, può essere agli
scrittori italiani una sorgente di buona e bella ed utile novità ond'essi
arricchiscano la nostra lingua, massimamente di locuzioni e di modi.
[3435,1] L'immaginazione e le grandi illusioni onde gli
antichi erano governati, e l'amor della gloria che in lor bolliva, li facea
sempre mirare alla posterità ed all'eternità, e {cercare} in ogni loro opera la perpetuità {+e proccurar sempre l'immortalità loro e delle opere
loro.} Volendo onorare un defonto[defunto] innalzavano un monumento che contrastasse coi secoli, e che
ancor dura forse, dopo migliaia d'anni. Noi spendiamo sovente nelle stesse
occasioni quasi altrettanto in un apparato funebre, che dopo il dì dell'esequie
si disfa, e non ne resta vestigio. La portentosa solidità delle antiche
fabbriche d'ogni genere, fabbriche che ancor vivono, mentre le nostre, {anche pubbliche,} non saranno certo vedute da posteri
molto lontani; le piramidi, gli obelischi, gli archi di trionfo,
3436 la profondissima impronta delle antiche {medaglie e} monete, che passate per tante mani, dopo
tante vicende, tanti secoli ec. ancor si veggono belle e fresche, e si leggono,
dove i coni delle nostre monete di cent'anni fa son già scancellati; tutte
queste e tant'altre simili cose sono opere, effetti, e segni delle antiche
illusioni e dell'antica forza e dominio d'immaginazione. Se fabbricavano per
fasto i monumenti del loro fasto dovevano durare in eterno, e il loro orgoglio
non si appagava dell'ammirazione di un secolo, ma tutti in perpetuo dovevano
esser testimoni della sua potenza e {contribuire a}
pascere la sua vanità: se per diletto, per bellezza, ornamento ec. tutto questo
s'aveva da propagare nel futuro in perpetuo; se per utile tutte le generazioni
avvenire avevano a partecipare di quella utilità; se il principe, se il comune,
se i privati, se per comodo, {per onore, per vantaggio}
particolare o pubblico; se in memoria di successi ricordevoli o privati o
pubblici; se in ricompensa di virtù, di belle azioni, di beneficii pubblici o
privati; se in onor privato o pubblico, di vivi o di morti; se in testimonianza
d'amore ec. ec. qualunque fine si proponessero, qualunque
3437 effetto dovesse seguitare a quell'opera, esso aveva ad essere
eterno, s'aveva a stendere in tutto l'avvenire, non aveva {a} cessar mai. Le grandi illusioni onde gli antichi erano animati non
permettevano loro di contentarsi di un effetto piccolo e passeggero, di
proccurare un effetto che avesse a durar poco, instabile, breve; di soddisfarsi
d'una idea ristretta a poco più che a quello ch'essi vedevano. L'immaginazione
spinge sempre verso quello che non cade sotto i sensi. Quindi verso il futuro e
la posterità, perocchè il presente è limitato e non può contentarla; è misero ed
arido, ed ella si pasce di speranza, e vive promettendo sempre a se stessa. Ma
il futuro per una immaginazione gagliardissima non debbe aver limiti; altrimenti
non la soddisfa. Dunque ella guarda e tira verso l'eternità.
[3441,1] Altrove ho rassomigliato il piacere che reca la
lettura di Anacreonte (ed è nel
principio di questi pensieri {#1. a pag. 30-1.}) a quello
d'un'aura odorifera ec. Aggiungo che siccome questa sensazione lascia gran
desiderio e scontentezza, e si vorrebbe richiamarla e non si può; così la
lettura di Anacreonte; la quale lascia
desiderosissimi, ma rinnovando la lettura, come per perfezionare il piacere
(ch'egli par veramente bisognoso d'esser perfezionato, {anche} più che ispirar desiderio d'esser continuato), niun piacere si
prova, anzi non si vede
3442 nè che cosa {l'}abbia prodotto da principio, nè che ragion ve ne
possa essere, nè in che cosa esso sia consistito; e più si cerca, più s'esamina,
più s'approfonda, men si trova e si scopre, anzi si perde di vista non pur la
causa, ma la qualità stessa del piacer provato, chè volendo rimembrarlo, la
memoria si confonde; e in somma pensando e cercando, sempre più si diviene
incapaci di provar piacere alcuno di quelle odi, e risentirne quell'effetto che
se n'è sentito; ed esse sempre più divengono quasi stoppa e s'inaridiscono e
istecchiscono fra le mani che le tastano e palpano per ispecularle. Di qui si
raccolga quanto sia possibile il tradurre in qualsiasi lingua Anacreonte (e così l'imitarlo appostatamente, e non a
caso nè per natura, senza cercarlo), quando il traduttore non potrebbe neanche
rileggerlo per ben conoscer la {qualità dell'}effetto
ch'egli avesse a produrre colla sua traduzione; e più che lo rileggesse e
considerasse, meno intenderebbe detta qualità, e più la perderebbe di vista;
perocchè lo studio di Anacreonte è non
pure inutile per imitarlo o per meglio
3443 gustarlo o
per ben comprendere e per definire la proprietà dell'effetto e de' sentimenti
ch'esso produce, ma è piuttosto dannoso che utile; nè la detta proprietà si può
definire altrimenti che chiamandola indefinibile, ed esprimendola nel modo ch'ho
fatto io con quella similitudine ec. Nè certo alla prima lettura si può essere
il traduttore, o l'imitatore, o verun altro, ben avveduto e chiarito e informato
del proprio ed intero carattere di Anacreonte; dico chiarito, e compresolo in modo ch'ei possa
esattamente e data opera esprimerlo, nè
pur significarlo distintamente a se stesso, nè concepirne e formarne idea chiara
e precisa; chè queste qualità {della idea} sono
contraddittorie e incompatibili colla natura di detto effetto e carattere.
(16. Sett. 1823.).
[3448,1] Tragedie {o drammi} di
lieto fine. - L'effetto loro totale, si è di lasciar gli affetti dell'uditore in
pieno equilibrio; cioè di esser nullo. - Il fine dei drammi non è, e non
dev'essere, d'insegnare a temere il delitto, cioè di far che gli uomini temano
di peccare. Meglio sarebbe una predica dell'inferno o del purgatorio; e meglio
ancora una
3449 lettura del codice penale, che si
facesse dalla scena. Il loro scopo si è d'ispirare odio verso il delitto. Questo
è ciò che le leggi non possono. Laddove l'ispirar timore è proprio uffizio di
esse, ed esse sole il possono, o certo più e meglio d'ogni altra cosa, eccetto
forse l'esempio vivo de' gastighi, cioè l'effettiva esecuzione delle leggi
penali. Ora la punizione del delitto non ispira odio. Anzi lo scema, perchè
sottentra {e con lui si mescola} la compassione. Anzi
lo distrugge, perchè la vendetta spegne tutti gli odi. Anzi produce un effetto a
lui contrario, perchè la compassione è contraria all'odio; e spesso avviene che
nel veder punito il delitto, questa superi ogni altro sentimento, e gli spenga,
e resti sola; e spesso la pena, benchè giusta ed equa, par più grave del
delitto; e spessissimo è odiosa, parte per la pietà, parte perchè alcuni per
viltà d'animo e poca stima di se stessi, altri per cognizione dell'uomo, si
sentono, più o meno, prossimamente o lontanamente, capaci di peccare; e niuno
ama di esser punito, anzi tutti abborrono il gastigo in se stessi. - Il dramma
3450 di lieto fine coll'effetto di una sua parte
distrugge quello dell'altra. {#
1. Veggasi la pag. 3122.}
Voglio dire la compassione. (Dell'odio verso la colpa, ch'è pur distrutto dalla
catastrofe, ho già detto pp.
3097. sgg. ). Il giusto {ec.} divenuto
felice, per infelice che sia stato, non è più compatito. Ognuno quasi si
contenterebbe di arrivare per la stessa strada alla stessa sorte. L'oppresso
vendicato non è compatito. Ora egli è cosa stoltissima il travagliare in un
dramma ec. ad eccitare un affetto che il dramma medesimo debba direttamente
spegnere, e che, non a caso, ma per intenzione dell'autore e per natura
dell'opera, finita la rappresentazione o la lettura, non debba lasciare alcun
vestigio di se; un affetto che non debba esser durabile, che durando si opponga
all'effetto voluto e cercato dall'autore e dalla qualità del dramma. E quando
l'eccitar questo affetto, come la compassione per gl'immeritevolmente infelici,
è il principale scopo che l'autore e il dramma si propongono (come
ordinariamente accade), il farlo non durevole, il distruggerlo nel suddetto
modo, è contraddizione ne' termini:
3451 principale e
non durevole, principale e da distruggersi appostatamente e volutamente col
dramma stesso, principale e non risultante dal totale del dramma, principale e
da non dover perseverare nè sino alla fine nè dopo la fine, e da non dover esser
prodotto dal dramma considerato nell'intero; dovere dal dramma considerato nell'intero esser prodotto un effetto
diverso, anzi contrario, a quello ch'ei si propone per iscopo principale. - La
naturalezza {#1. Veggasi la p. 3125. 3133.} e la verisimiglianza è maggiore
assai ne' drammi di tristo che in quelli di lieto fine, perchè così va il mondo:
il delitto e il vizio trionfa, i buoni sono oppressi, la felicità e l'infelicità
sono ambedue di chi non le merita. - Ma nel mondo il felice per lo più ha nome
di buono, e viceversa. Il dramma chiama la bontà e la malvagità col loro nome, e
mostra il carattere e la condotta {morale} de' felici e
degl'infelici qual ella è veramente. Quindi la sua grande utilità, quindi l'odio
e il disprezzo {originato dal dramma,} verso i malvagi
benchè felici, e viceversa. Non dall'alterar la natura e la verità delle cose,
facendo sfortunato il vizio e la virtù.
3452 E ben
grande utilità morale, e che ben di rado si proccura e si ottiene, e basta ben a
produr l'odio e l'indignazione, il far conoscere e recar sotto gli occhi le vere
qualità morali e i veri meriti de' felici e degl'infelici. E l'odio, {il disprezzo, il vitupero, l'infamia,} l'indignazione,
la pietà, {la stima, la lode} sono non piccoli, e certo
i soli, gastighi e compensi destinati in questo mondo al vizio e alla virtù. Non
è poco il far che l'una[uno] e l'altra gli
ottengano, che l'uno sia punito, l'altra premiata com'ambedue possono esserlo,
che la natura delle cose abbia luogo, che l'ordine stabilito alle cose umane e
il decreto della natura sia effettuato. Il qual ordine e decreto non è altro che
questo: sieno i malvagi felici ed infami, i buoni infelici e gloriosi o
compatiti. Ordine spesso turbato, e decreto ben sovente trasgredito, non quanto
alla felicità ed infelicità, ma quanto al biasimo e alla lode, all'odio ed
all'amore o compassione. - L'uditore vedendo il vizio e il delitto rappresentato
con vivi e odiosi colori nel dramma, desidera fortemente di vederlo punito. E
per lo contrario vedendo la
3453 virtù e il merito
oppressi e infelici, e rendutigli con bella e viva pittura ed artifizio amabili
e cari dal poeta, concepisce sensibile desiderio di vederli ristorati e
premiati. Or se nè l'uno nè l'altro fa il dramma stesso, {#1. Veggasi la p.
3109-10} cioè lascia il vizio impunito anzi premiato, e la
virtù non premiata anzi punita e sfortunata; ne seguono due bellissimi effetti,
l'uno morale e l'altro poetico. Il primo si è che l'uditore, appunto per lo
sfortunato esito della virtù e il contrario del vizio, che se gli è
rappresentato nel dramma, si crede obbligato verso se stesso a cangiare quanto è
in lui le sorti di que' malvagi e di que' virtuosi, punendo gli uni col maggior
possibile odio ed ira, e gli altri premiando col maggior affetto di amore, di
compassione e di lode. E con questa disposizione tutta di abborrimento e
detestazione verso i malvagi e di tenerezza e pietà verso i buoni, egli parte
dallo spettacolo. La qual disposizione quanto sia morale e buona e desiderabile
che si desti, chi nol vede? E questo
3454 è veramente
l'unico modo di far che l'uditore parta appassionato per la virtù, e
passionatamente nemico del vizio; l'unico modo di ridurre a passione l'amor
dell'una e l'odio dell'altro, cosa difficilissima a conseguirsi oggidì in
chicchessia, e stata sempre difficile ad ottenersi ne' cuori volgari e plebei
della moltitudine; ma cosa dall'altra parte così utile che più non può dirsi,
perchè nè quell'amore nè quell'odio saranno nè furono mai efficaci nell'uomo
essendo pura ragione, e s'ei non si convertano in passione, quali furono non di
rado anticamente. L'effetto poetico si è che un dramma così formato lascia nel
cuore degli uditori un affetto vivo, gli fa partire coll'animo agitato e
commosso, dico agitato e commosso ancora, non prima commosso e poi racchetato,
prima acceso e poi spento a furia d'acqua fredda, come fa il dramma di lieto
fine; insomma produce un effetto grande e forte, un'impressione e una passion
viva, nè la produce soltanto ma la lascia, il che non fa il dramma di lieto
fine; e l'effetto è durevole
3455 e saldo. Or che altro
si richiede {al totale di} una poesia, poeticamente
parlando, che produrre e lasciare un sentimento forte e durevole? quando anche
ei non fosse d'altronde utile e morale, come nel nostro caso. Certo ben
pochissime sono quelle poesie qualunque, che ottengano il detto scopo; e quelle
qualunque pochissime che l'ottengono, non sono e non possono esser altro che
grandi, insigni, famose e vere poesie. Or fate che il dramma dopo avervi mosso
all'odio verso il malvagio, ve lo dia, per così dir nelle mani, legato, punito,
giustiziato. Voi partite dallo spettacolo col cuore in pienissima calma. E come
no? qual vostro affetto resta superiore agli altri? non rimangon tutti in
pienissimo equilibrio? e una poesia che lascia gli affetti de' lettori o uditori
in pienissimo equilibrio, si chiama poesia? produce un effetto poetico? che
altro vuol dire essere in pieno equilibrio, se non esser quieti, e senza
tempesta nè commozione alcuna? e qual altro è il proprio {uffizio e} scopo della poesia se non il commuovere, così o così, ma
3456 sempre commuover gli affetti? E quanto
all'equilibrio, vedete: da una parte l'odio e l'ira che avevate concepita,
dall'altra la vendetta che placa e sfoga l'uno e l'altra; di qua il desiderio,
di là l'oggetto desiderato, cioè il castigo del malvagio. Le partite sono
uguali; l'affare è finito, il negozio è terminato, gl'interessi pareggiati: voi
chiudete il vostro libro de' conti e non ci pensate più. Infatti l'uditore si
parte dal dramma di lieto fine non altrimenti che chi abbia ricevuto un'offesa e
fattone piena e tranquilla vendetta, o ne sia stato pienamente soddisfatto, il
quale torna a casa e si corica colla stessa placidezza e coll'animo così
riposato, come se non gli fosse stata fatta alcuna offesa, e di questa non serba
pensiero alcuno. Bello effetto di un dramma, di una rappresentazione, di una
poesia; lasciare di se tal vestigio negli animi degli spettatori o uditori o
lettori, come s'e' non l'avessero nè veduta nè udita nè letta. Meglio varrebbe
essere stato a uno spettacolo di forze, di giuochi, equestre, {e} che so io, i quali pur lasciano
3457 nell'animo alcuna orma o di maraviglia o di diletto o d'altro.
{Ma} in verità in quella parte dell'anima in cui il
dramma e la poesia deve agire, quivi il dramma di lieto fine non lascia alcun
segno. Se lascia alcuna traccia in altra parte dell'anima, questo effetto o è
alieno dalla poesia, o l'è secondario, o estrinseco, accidentale, di
circostanza, parziale, cioè non prodotto dal totale della composizione, forse
proprio della decorazione, dell'azione ec. dello spettacolo più che del dramma,
non poetico ec. Or quanto all'effetto del dramma di lieto fine poeticamente
considerato, esso è tale qual si è mostrato, anzi non è, perch'esso è nullo, e
perciò che spetta al totale, il dramma di lieto fine non produce, poeticamente,
alcuno effetto. Quanto all'effetto morale, che odio, che ira verso il vizio può
rimanere in chi l'ha visto totalmente abbattuto, vinto, umiliato e punito?
Quella punizione che l'uditore gli avrebbe dato nel cuor suo, l'ha preoccupata
il poeta: questi ha fatto il tutto; l'uditore non ha a far più nulla, e nulla
fa. Quella passione ch'egli avrebbe concepita, l'ha sfogata il poeta da se: al
poeta
3458 dunque rimane. L'ira l'odio che l'uditore
avrebbe portato seco, il poeta l'ha soddisfatto. Odio ed ira e qualunque
passione soddisfatta, non resta. (Non resta, dico, quanto all'atto, di cui solo
è padrone il poeta, e non dell'abito). Dunque l'uditore parte dal dramma senza
nè odio nè ira nè altra passione alcuna contro i malvagi, il vizio, il delitto.
Tutto questo discorso circa la parte che spetta nel dramma ai malvagi, si faccia
altresì circa quella che spetta ai buoni. - Chiuderò queste osservazioni con un
esempio di fatto, narratomi da chi si trovò presente. Si rappresentò in
Bologna pochi anni fa l'Agamennone dell'Alfieri. Destò vivissimo
interesse negli uditori, e fra l'altro, tanto odio verso Egisto, che quando Clitennestra esce dalla stanza del marito col pugnale
insanguinato, e trova Egisto, la
platea gridava furiosamente all'attrice che l'ammazzasse. Ma come in quella
tragedia Egisto
riesce fortunato e gl'innocenti restano oppressi, quivi si vide quello che
possano le vere tragedie negli animi degli uditori, quando elle sono di
3459 tristo fine. Perchè promettendo gli attori che la
sera vegnente avrebbero rappresentato l'Oreste pur d'Alfieri, ove avrebbero veduto la morte di
Egisto, la gente uscì dal teatro
fremendo perchè il delitto fosse rimaso ancora impunito, e dicendo che per
qualunque prezzo erano risoluti l'indomani di trovarsi a veder la pena di questo
scellerato. E l'altro dì prima di sera il teatro era già pieno in modo che più
non ve ne capeva. O moralmente o poeticamente che si consideri un tanto odio
verso un ribaldo {di 3000 anni addietro,} potuto
ispirare e lasciare da quella tragedia, ed una passione così calda, un effetto
così vivo, potuto da lei produrre e lasciare; per l'una e per l'altra parte si
può vedere se le tragedie di lieto fine sieno poco o utili o dilettevoli. E
paragonando gli effetti di questa con quelli dell'Oreste, che certo furono molto
minori e men vivi (sebbene anche questa seconda tragedia sia bellissima), si
sarà potuto notare da qualunque mediocre osservatore se il dramma di tristo, o
quello di lieto fine, sia da preferirsi,
3460 e qual
de' due abbia maggior forza negli animi, e sia d'effetto più teatrale e poetico,
e più morale ed utile. - Si potrà applicare tutto il passato discorso, colle
debite modificazioni, a quei drammi ne' quali l'infelicità de' buoni o degli
immeritevoli, non vien da' cattivi, nè da altrui vizi o colpe, ma dal fato o da
circostanze, quali sono l'Edipo re di Sofocle, {+la Sofonisba d'Alfieri, e molte tragedie
di varie età e lingue,} e molti drammi sentimentali moderni, appresso
varie nazioni. E similmente a quei drammi in cui l'infelicità viene da colpa, ma
o involontaria o compassionevole ec. degli stessi infelici, come appunto si può
dire che sia l'Edipo
re, la Fedra, e molti drammi, {massimamente} moderni, o tragedie ec. E dalle stesse
predette osservazioni si potrà raccogliere se sia meglio che lo scioglimento di
tali drammi sia felice o infelice, che la sorte de' protagonisti si muti o si
conservi la stessa, che di felice divenga infelice, o che per lo contrario, ec.
(16-18. Settembre. 1823.).
[3461,1]
3461 I poeti latini (e proporzionatamente gli altri
scrittori secondo che lor conveniva) usarono la mitologia greca, non per lo aver
preso da' greci la loro letteratura e poesia, ma perchè, o da' greci o
d'altronde ch'e' ricevessero la loro religione, essa mitologia alla religion
latina apparteneva niente meno che alla greca, e nel
Lazio non meno che in grecia
era cosa popolare e creduta dal popolo. Laonde se questa o quella favola
adoperata, accennata ec. dagli scrittori o poeti latini, fu tolta da' greci, o
ch'ella fosse stata primieramente e di netto inventata da qualche greco poeta, o
che in grecia e non nel Lazio ella
fosse sparsa {ec.,} non perciò segue che la mitologia
dagli scrittori latini usata, non fosse, com'ella fu, altrettanto latina che
greca. Perocchè il fabbricare, per dir così, sul fondamento delle opinioni
popolari, fu sempre lecito ai poeti, anzi fu loro sempre prescritto. Laonde se i
poeti latini fabbricarono su tali opinioni popolari nazionali, o dell'altrui
fabbriche sì servirono, o rami stranieri innestarono sul tronco domestico, niuno
di ciò li dee riprendere. Nè perciò
3462 essi vollero
introdurre un nuovo genere di opinioni popolari nella nazione e farne materia di
lor poesia; nè supposero falsamente un genere {un
sistema} di opinioni popolari che nella nazione non esisteva, ma su di
quel ch'esisteva in effetto, innestarono, fabbricarono, lavorarono. Similmente i
greci, da qualunque luogo pigliassero la loro mitologia, certo è che di là
presero eziandio la {loro} religion popolare, e che
{tra' greci} il sistema greco religioso e
mitologico, quanto alla sostanza, alla natura, alla principal parte ed al
generale, non fu prima de' poeti che del popolo. E se i letterati greci si
giovarono, come si dice, delle letterature o dottrine ec. egizie, indiane o
d'altre genti, non adottarono perciò nelle loro finzioni ch'avessero ad esser
popolari, e nazionali ec. le mitologie d'esse nazioni. L'aver noi dunque
ereditato la letteratura greca e latina, l'esser la nostra letteratura modellata
su di quella, anzi pure una continuazione, per così dire, di quella, non vale
perch'ella possa ragionevolmente usare la mitologia greca nè latina al modo che
quegli antichi l'adoperavano. Giacchè non abbiamo già noi colla
3463 letteratura ereditato eziandio la religione greca
e latina, nè i latini, come ho detto, usarono la mitologia greca perciò ch'essi
avevano adottato la greca letteratura; nè se la letteratura ebbero i greci dalla
Fenicia o donde si voglia, perciò fu che i greci
poeti e scrittori si valsero della mitologia di quella tal gente; ma fu per le
ragioni dette di sopra, e che nel nostro caso non hanno alcun luogo. Tutt'altre
sono le nostre opinioni popolari nazionali e moderne da quelle de' greci e de'
latini. E gli scrittori italiani o moderni che usano le favole antiche alla
maniera degli antichi, eccedono tutte le qualità della giusta imitazione.
L'imitare non è copiare, nè ragionevolmente s'imita se non quando l'imitazione è
adattata e conformata alle circostanze del luogo, del tempo, delle persone ec.
in cui e fra cui si trova l'imitatore, e per li quali imita, e a' quali è
destinata e indirizzata l'imitazione. Questa può essere imitazione nobile, degna
di un uomo, e di un alto spirito e ingegno,
3464 degna
di una letteratura, degna di esser presentata a una nazione. E una letteratura
fondata comunque su tale imitazione può esser nazionale e contemporanea e
meritare il nome di letteratura. Altrimenti l'imitazione è da scimmie, e una
letteratura fondata su di essa è indegna di questo nome, sì per la troppa viltà,
essendo letteratura da scimmie, sì perchè una letteratura che tra' suoi è
forestiera, e a' suoi tempi antica, non può esser letteratura per se, ma al più
solo una parte d'altra letteratura o una copia da potersi guardare, se fosse
però perfetta (ch'è sempre l'opposto) collo stesso interesse con cui si guarda
una copia d'un quadro antico ec. e niente più. Veramente pare che i nostri poeti
usando le antiche favole (come già i più antichi italiani e forestieri scrivendo
in latino) affettino di non essere italiani ma forestieri, non moderni ma
antichi, e se ne pregino, e che questo sia il debito della nostra poesia e
letteratura, non esser nè moderna nè nostra ma antica ed altrui. Affettazione e
finzione barbara,
3465 ripugnante alla ragione, e colla
qual macchia una poesia non è vera poesia, una letteratura non è vera
letteratura. Come non è nè letteratura nè lingua nostra quella letteratura e
quella lingua che oggidì usano i nostri pedanti affettando e simulando di esser
antichi italiani, e dissimulando al possibile di essere italiani moderni, di
aver qualche idea che gl'italiani antichi non avessero perchè non poterono,
(così forse fece Cic. verso Catone antico ec. o Virgilio verso Ennio ec.?) ec. ec. Onde segue che noi oggi non abbiamo letteratura
nè lingua, perchè questa non essendo moderna, benchè italiana, non è nostra, ma
d'altri italiani, e perchè non si dà nè si diede mai {nè può
darsi} letteratura che a' suoi tempi non sia moderna; e dandosi, non è
letteratura.
[3479,1] Il poeta dee mostrar di avere un fine più serio che
quello di destar delle immagini e di far delle descrizioni. E quando pur questo
sia il suo intento principale, ei deve cercarlo in modo come s'e' non se ne
curasse, e far vista di non cercarlo, ma di mirare a cose più gravi; ma
descrivere fra tanto, e introdurre nel suo poema le immagini, come cose a lui
poco importanti che gli {scorrano} naturalmente dalla
peña[penna]; e, per dir così, descrivere e
introdurre immagini, con gravità, con serietà, senz'alcuna dimostrazione di
compiacenza e di studio apposito, {+e di
pensarci e badarci, nè di voler che il lettore ci si fermi.} Così
fanno Omero e Virgilio e
3480
Dante, i quali pienissimi di vivissime
immagini e descrizioni, non mostrano pur d'accorgersene, ma fanno vista di avere
un fine molto più serio che stia loro unicamente a cuore, ed al qual solo festinent continuamente, cioè il racconto dell'azioni
e l'evento o successo di esse. Al
contrario fa Ovidio, il quale non
dissimula, non che nasconda; ma dimostra e, per dir così, {confessa} quello che è; cioè a dir ch'ei non ha maggiore intento nè
più grave, anzi a null'altro mira, che descrivere, ed eccitare e seminare
immagini e pitturine, e figurare, e rappresentare continuamente. (20.
Sett. 1823.).
[3482,1] Ne' tragici greci (così negli altri poeti o
scrittori antichi) non s'incontrano quelle minutezze, quella particolare e
distinta descrizione e sviluppo delle passioni e de' caratteri che è propria de'
drammi (e così degli altri poemi e componimenti) moderni, non solo perchè gli
antichi erano molto inferiori a' moderni nella cognizione del cuore umano, il
che a tutti è noto, ma perchè gli antichi nè valevano gran fatto nel dettaglio,
nè lo curavano, anzi lo disprezzavano e fuggivano, e tanto era impropria degli
antichi l'esattezza e la minutezza quanto ella è propria e caratteristica de'
moderni. Ciò nel modo e per le ragioni da me spiegate altrove pp. 1482-83.
[3488,2] Molti sono timidi i quali sono insieme
coraggiosissimi. Voglio dire che molti si perdono d'animo nella società, i quali
nè fuggono nè temono ed anche volontariamente incontrano i pericoli
3489
{e i danni e le fatiche e le sofferenze ec.;} e non
sostengono gli sguardi o le parole amichevoli o indifferenti di tali di cui
sosterrebbero facilissimamente l'aspetto minaccioso e l'armi nemiche in
battaglia o in duello. La timidità spetta per così dire ai mali dell'animo, il
coraggio a quelli del corpo. L'una teme de' danni e delle pene interne, l'altro
brava i danni e le sofferenze esteriori. L'una s'aggira intorno allo spirituale,
l'altro al materiale. E tanto è lungi che la timidità escluda il coraggio, che
anzi ella piuttosto lo favorisce, e da essa si può dedurre {con verisimiglianza} che l'uomo che n'è affetto sia coraggioso.
Perocchè la timidità è abito di temer la vergogna, la quale assai facilmente e
spesso incontra chi teme e fugge i pericoli. Onde il temer la vergogna, ch'è
male, per così dire, interno e dell'animo, giacchè nulla nuoce al corpo nè alle
cose esteriori, ed opera sul pensiero solo, ed ai sensi non dà noia; fa che
l'uomo non tema i danni esteriori, e non fugga e, bisognando, affronti il
pericolo {+ed eziandio la certezza}
di soffrirli, preponendo i mali o i pericoli esterni e materiali agl'interni e
spirituali,
3490 e l'anima, per così dire, al corpo; e
volendo innanzi soffrire ne' sensi, nella roba ec. che nello spirito, e morire
piuttosto che patir la {pena della} vergogna. Chè {in} questo e non altro consiste quel coraggio che viene
da sentimento di onore, e gli effetti del medesimo. Il qual coraggio ha origine
e fondamento, anzi è esso stesso una spezie di timidità, o certo {una spezie} di qualità contraria alla sfrontatezza,
all'impudenza, all'inverecondia. (21. Sett. Festa della Beatissima Vergine
Addolorata. 1823.). {{V. la pag. seg. [p.
3491,3].}}
[3543,2] Nella Bibbia bisogna considerare
l'immaginazione orientale e l'immaginazione antichissima, (anzi di un popolo
quasi primitivo affatto ne' costumi ec. e certo la più antica immaginazione che
si conosca oggidì). Ben attese e pesate e valutate quanto si deve queste due
qualità che nella Scrittura si congiungono, {#1. Di un'altra qualità che sommamente contribuisce allo
stesso effetto vedi le pagg. 3564-8.} niuno più si farà maraviglia della
straordinaria forza ch'apparisce ne' Salmi, ne' cantici, nel Cantico, ne'
Profeti, nelle parti e nell'espressioni poetiche della Bibbia.
{#2. alla qual forza basterebbe forse
una sola di dette qualità. E veggansi le poesie orientali anche non
antichissime, le sascrite antichissime ma de' tempi civili
dell'india.}
(28. Sett. 1823. Domenica.).
[3548,2] Il fine del poeta epico (e simili, e in quanto gli
altri gli son simili), non dev'esser già di narrare, ma di descrivere, di
commuovere, di destare
3549 immagini e affetti, di
elevar l'animo, di riscaldarlo, di correggere i costumi, d'infiammare alla
virtù, alla gloria, all'amor della patria, di lodare, di riprendere, di accender
l'emulazione, di esaltare i pregi della propria nazione, de' propri avi, degli
eroi domestici ec. Tutti questi o parte di questi hanno da essere i veri e
proprii fini del poeta epico, non il narrare; ma il poeta epico dee però fare in
modo che apparisca il suo vero e proprio, o certo principal fine, non esser
altro che il narrare. Appena merita il nome di poesia un poema il quale in
verità non faccia altro che raccontare, cioè non produca altro effetto che di
{stuzzicare e} pascere la semplice curiosità del
lettore, ossia coll'intreccio bene intrigato e avviluppato, ossia con qualunque
mezzo. Queste sono piuttosto novelle che poesie, per quanto l'azione raccontata
potesse esser nobile {sublime} interessante ec. (Di
questa specie sono l'Orlando innamorato, il Ricciardetto e
simili). E possono ben essere di questa natura anche i poemi tessuti o sparsi
d'invenzioni capricciose e di favole ec. come i veri poemi. Anche favoleggiando
3550 sempre o quasi sempre, un poema può non far
veramente altro che raccontare. Questi tali non sono poemi perchè il poeta ha
veramente e principalmente per fine quel ch'ei non dee senon far vista di avere,
cioè il narrare. Ma per lo contrario i poemi pieni di lunghe descrizioni, di
dissertazioni e declamazioni morali, politiche ec., di sentenze, di elogi, di
biasimi, di esortazioni, di dissuasioni ec. in persona del poeta {ec.} e di simili cose, non sono poemi epici ec. perchè
il poeta mostra veramente di avere per principali fini, quei ch'e' non deve se
non avere senza mostrarlo. (29 Sett. 1823.). {{v. p.
3552.}}
[3625,1]
Alla p. 2821.
fine. Nótisi il significato continuativo di confuto nell'esempio di Titinnio appo il Forcell. dove questo verbo
sta nel senso proprio, e questo si è quello di confundo, ma continuato, come excepto in un
luogo di Virgilio da me altrove
esaminato p. 1107, per excipio. Nótisi
ancora che nell'improprio suo ma più comune significato, confuto è vero continuativo di confundo.
Anche noi diciamo (e così i francesi ec.) confondere uno
colle ragioni, confondere le ragioni di uno,
confondere l'avversario ec. e ciò vale confutare, ma questo esprime azione e quello è quasi
un atto, e quasi il termine e l'effetto del confutare
ec. Le quali osservazioni confermano la derivazione di confuto da noi e dagli etimologi stabilita. Così mi par di spiegare la
traslazione del suo significato da quel di mescere
insieme a quel di confutare, e così mi par di
doverlo intendere; non ispiegarlo per compescere e
derivar la metafora da questo lato, come fa il Vossio (ap. Forcell.) il quale anche
3626 par che derivi confuto da futum nome (dunque da questo anche futo?), per la solita ignoranza in materia de'
continuativi. E se tal derivazione egli dà (come è anche più naturale ch'ei
faccia) anche al confuto di Titinnio, e lo spiega pure per compesco, s'inganna assai. {V. p. 3635}
Significazioni analoghe a quella nostra metaforica di confondere gli avversari ec. vedile nel Forcell. in confundo, confusio, confusus, {#1. e nel
Gloss. in Confundere,} avvertendo che la lingua latina antichissima
aveva delle metafore e degli usi di parole molto più simili ai moderni che non
ebbe poi l'aurea latinità, o piuttosto il latino più illustre scritto; e n'ebbe
in grandissima copia; e che queste parole e questi usi, e generalmente le
proprietà del volgare o familiar latino, più si veggono negli scrittori de'
bassi tempi (or v. gli esempi di Sulpicio Severo nel Forc. in confundo e confusus), e ne'
volgari moderni che negli aurei scrittori, perchè questi seguivano più
l'illustre, e quelli il familiare, questi fuggivano il volgo, e quelli o per
ignoranza o
3627 per elezione, gli andavan dietro,
questi avevano una lingua illustre e una parlata, quelli non avevano già più una
lingua illustre che fosse per essere intesa quando anche l'avessero saputa
scrivere, ma lingua scritta e parlata era per loro una cosa sola, o tra se molto
meno diversa che non nell'aureo secolo e ne' prossimi a quello. Siccome eziandio
tra gli scrittori aurei, i più antichi e i più familiari, semplici e rimessi di
stile, più conservano dell'antico latino, più rappresentano della frase volgare
e parlata, {+più hanno delle voci e
locuzioni, e delle significazioni ed usi di voci, conformi ai volgari. Così
Cornelio, Fedro, Celso ec.} più somigliano quella degli scrittori bassi e
de' volgari moderni. I più antichi (coi quali vanno quelli che più si tennero
all'antico per loro instituto, come Varrone, Frontone ec.)
perchè il linguaggio illustre e scritto non era ancor ben formato e determinato,
nè molto nè ben distinto dal parlato e familiare. I più semplici e rimessi
perchè o per istituto o per un poco meno di abilità nello scrivere {e minore studio fatto della lingua, o minor diligenza posta
nel comporre,} non vollero o non seppero troppo scostarsi dal
linguaggio più noto e succhiato da loro col latte, cioè dal familiare e parlato.
Onde a noi
3628 paiono amabilissimi e pregevolissimi
per la loro semplicità ec. ma certo a' contemporanei dovettero riuscire poco
colti. Osservo infatti che fra gli scrittori dell'aureo secolo quelli che fra noi tengono le prime lodi per la
semplicità e dello stile e della lingua (la quale in loro è sempre notabilmente
affine alla frase italiana e moderna, ed anche a quella de' tempi bassi), o non
si trovano pur nominati dagli antichi, o appena, o in modo che la loro stima si
vede essere stata come di autori, al più, di second'ordine. Tali sono Corn. Nepote, Celso, Fedro, giudicato dal Le Fevre
il più vicino alla semplicità di Terenzio
(v. Desbillons
Disputat. II. de Phaedro, in fine), e
simili. De' quali gli stessi moderni, vedendo la diversità della loro frase da
quella degli altri aurei, e giudicandola non latina (perchè non molto illustre)
hanno disputato se appartenessero al secol d'oro, ed anche se fossero antichi,
ed hanno penato a riconoscerli per autori dell'aurea latinità; e le Vite di
Cornelio sono state
attribuite ad Emilio Probo
{+(autore assai basso)} per ben
lungo tempo e in molte edizioni ec., Celso è stato creduto più moderno di quello che è, ec. Fedro è stato attribuito al Perotti,
3629
e negato da molti che la sua latinità fosse latina ec. (v. la cit. Disput. del
Desbillons). Non così è
accaduto nè anticamente accadde agli scrittori greci più semplici. Effetto e
segno che il linguaggio illustre in Grecia era, come
altrove ho sostenuto pp. 844. sgg., assai men diviso dal volgare e parlato,
e che la lingua e lo stile greco per sua natura e per sua formazione e
circostanze è più semplice ec. Onde lo stile e la lingua p. e. di Senofonte fu subito acclamata, non men
che fosse quella di Platone ch'è
lavoratissima, ec. e gli scrittori greci più semplici e familiari non hanno
aspettato i tempi moderni a divenir famosi e lodati ec. Senofonte e Platone nel loro secolo sono i due estremi quello della semplicità e
bella sprezzatura, questo dell'eleganza, diligenza e artifizio. Pur l'uno e
l'altro furono sempre quanto allo stile quasi parimente stimati da' Greci e
contemporanei e posteri, e così da' latini e dagli altri in perpetuo ec.
(8. Ott. 1823.).
[3633,1] Scriveva Voltaire al Principe Reale di Prussia, poi Federico II. in proposito di una frase di Orazio e del modo in cui Federico l'aveva renduta traducendo in
francese l'ode in ch'ella si trova: Ces expressions sont bien plus nobles en français:
elles ne peignent pas comme le latin, et c'est-là le grand malheur
de notre langue qui n'est pas assez accoutumée aux
détails.
*
(Lettres du Prince Royal de Prusse et de M.
3634 de Voltaire, Lettre
118. le 6 avril 1740. Oeuvres complettes de Frédéric II, roi de Prusse. 1790.
tome 10, p. 500.) Aveva detto Voltaire che l'espressione latina serait très-basse en
français.
*
[3672,2] La impotenza e strettezza della lingua francese e la
sua inferiorità per rispetto all'altre di qui facilmente si può comprendere, che
l'altre lingue possono, sempre che vogliono,
3673
agevolmente vestire la forma {e lo stile} della
francese (com'effettivamente hanno fatto o fanno tutte le lingue colte
d'europa, o per un certo tempo massimamente, come
l'inglese e la tedesca, o anche oggidì, come l'italiana, la spagnuola, la russa,
la svedese, la olandese ec.; e bene avrebbero potuto farlo e potrebbero farlo
sufficientemente anche senza corrompersi e senza violentare dirittamente la loro
propria e caratteristica indole); laddove la francese non può per niun modo
prendere la forma {nè lo stile} dell'altre lingue, nè
altra forma alcuna che la sua propria. E non pur dell'altre lingue che da lei
sono aliene, per così dire, di famiglia e di sangue, come l'inglese, la tedesca,
la russa ec. le quali pur possono vestire ed hanno vestito o vestono la forma
della francese; ma neanche delle cognate, nè delle sorelle, come dell'italiana
{e} della spagnuola; nè della lingua stessa sua
madre, come della latina. (12. Ott. Domenica. 1823.).
[3673,1] Colla medesima proporzione che altri viene
perfettamente e veramente conoscendo e intendendo le difficoltà del bene
scrivere, egli impara
3674 a superarle. Nè prima si
conosce e intende compiutamente, intimamente, distintamente e a parte a parte
tutta la difficoltà dell'ottimo scrivere, che altri sappia già ottimamente
scrivere. E ciò per la stessa ragione per cui l'arte di bene scrivere, e il
modo, e che cosa sia il bene scrivere, non può essere compiutamente conosciuto e
inteso se non da chi compiutamente possegga la detta arte, cioè sappia
interamente metterla in opera. Sicchè in un tempo medesimo e si conosce la
difficoltà {del perfetto scrivere,} e s'impara il modo
di vincerla e se n'acquista la facoltà. E solo colui che sa perfettamente
scrivere ne comprende sino al fondo tutta la difficoltà, nè altrimenti può mai
bene scrivere, ancorch'ei {già} sappia compiutamente
farlo, che con grandissima difficoltà. Coloro che male scrivono, stimano che il
bene scrivere sia cosa facile, e scrivono al loro modo agevolmente, credendosi
di scriver bene. E peggio e' sogliono scrivere, più facile stimano {{che sia}} lo scriver bene, e più facilmente scrivono. Il
considerare il bene scrivere per cosa molto difficile, è certissimo segno di
esser già molto avanzato
3675 nel sapere scrivere,
purchè questo tale sia veramente ed intimamente persuaso della difficoltà ch'ei
dice, e non la affermi solamente a parole e mosso da quello ch'ei n'intende
dire, e dalla voce comune. (Perocchè anche chi non sa scrivere, dice che il bene
scrivere è molto difficile, ma e' nol dice per coscienza nè per prova nè con
vera persuasione, e s'egli è uno di quelli che s'intrigano di scrivere e che
presumono di saperlo fare, certo è ch'egli in verità non crede che ciò sia
difficile, come comunemente si dice, e com'ei pur dice cogli altri). Per lo
contrario lo stimare che il bene scrivere sia cosa facile o poco difficile, e il
confidarsi di poterlo e saperlo agevolmente fare, o poterlo apprender con poco,
e[è] certo segno di non saper far nulla, e
di esser sui principii nel possesso dell'arte, o molto indietro. {+(Così è
generalmente di tutte le arti, scienze ec.)} Da queste osservazioni si
dee raccogliere quanti possano esser quelli che perfettamente conoscano il
pregio, e stimino il travaglio, il sapere, l'arte e l'artifizio di una perfetta
scrittura e di un perfetto scrittore, del che a pagg. 2796-9. (12. Ott. 1823.
Domenica.).
[3717,1]
Alla p. 2980.
Immaginazione continuamente fresca ed operante si richiede a poter saisir i rapporti, le affinità, le somiglianze ec. ec.
o vere, o apparenti, poetiche ec. degli oggetti e delle cose tra loro, o a
scoprire questi rapporti, o ad
3718 inventarli ec. cose
che bisogna continuamente fare volendo parlar metaforico e figurato, e che
queste metafore e figure e questo parlare abbiano del nuovo e originale e del
proprio dell'autore. Lascio le similitudini: una metafora nuova che si contenga
pure in una parola sola, ha bisogno dell'immaginazione e invenzione che ho
detto. Or {di} queste metafore e figure ec. ne
dev'esser composto tutto lo stile e tutta l'espressione de' concetti del poeta.
Continua immaginazione, sempre viva, sempre rappresentante le cose agli occhi
del poeta, e mostrantegliele come presenti, si richiede a poter significare le
cose o le azioni o le idee ec. per mezzo di una o due circostanze o qualità o
parti di esse le più minute, le più sfuggevoli, le meno notate, le meno solite
ad essere espresse dagli altri poeti, o ad esser prese per rappresentare tutta
l'immagine, le più efficaci ed atte o per se, per questa stessa novità o
insolitezza di esser notate o espresse, o della loro applicazione
3719 ed uso ec., le più atte dico a significar l'idea
da esprimersi, a rappresentarla al vivo, a destarla con efficacia ec. {+Tali sono assai spesso le espressioni, o
vogliamo dire i mezzi d'espressione, e il modo di rappresentar le cose e
destar le immagini ec. nuove o novamente, e per virtù della novità del modo
ec. ec. usati da Virgilio, e
massime, anzi peculiarmente, e come caretteristici[caratteristici] del suo stile e poesia, da Dante ec. ec.} Tutte queste cose si
richiedono in uno stile come quel di Virgilio (e più o meno negli altri: ma quel di Virgilio, in quanto stile, è precisamente il più
poetico di quanti si conoscono, e forse il non plus ultra della poetichità); e
questi infatti sono i mezzi ch'egli adopera e gli effetti ch'egli consegue. Or
non si possono adoperar tali mezzi, nè produr tali effetti (che con altri mezzi,
nello stile, non si ottengono) senza una continua e non mai interrotta azione,
vivacità e freschezza d'immaginazione. E sempre ch'essa langue, langue lo stile,
sia pure immaginosissima e poetichissima l'invenzione e la qualità delle cose in
esso trattate ed espresse. Poetiche saranno le cose, lo stile no; e peggiore
sarà l'effetto, che se quelle ancora fossero impoetiche; per il contrasto e
sconvenienza ec. che sarà tanto maggiore quanto quelle e l'invenzione ec.
saranno più immaginose e poetiche.
3720 Del resto è da
vedere la p. 3388-9. (17.
Ott. 1823.).
[3816,5]
Alla p. 3067.
Non altrimenti, al tempo di Voltaire e
in quei contorni (quando l'unica letteratura d'europa
era, si può dir, la francese, benchè già ben decaduta; essendo spenta l'italiana
e la spagnuola; la tedesca non ancor nata, o bambina, o tutta francese;
l'inglese quasi interrotta, o francese anch'essa, ma già priva de' capi di
quella scuola anglo - gallica, cioè Pope, Addisson, ec.: e
parlo qui della letteratura non delle scienze e filosofia, dove gl'inglesi anche
allora fiorivano), le epistole e poesie indirizzate o da Voltaire medesimo o dagli altri poeti francesi ai
principi di Svezia, di Russia,
d'Alemagna ec. o composte in loro lode, o {su} di loro, o sui loro affari, o sugli avvenimenti ec.
si leggevano, si applaudivano, si ricercavano, si diffondevano, davano materia
di discorso nelle rispettive corti e capitali, e nell'altre corti
d'europa ec. e da' rispettivi principi ec. (lasciando
anche da parte il re e la corte
3817 e capitale, e
quasi tutto il regno, di Prussia, ch'era tutta francese
ec.). Così anche l'altre opere in versi o in prosa, di francesi o scritte in
francese, di letteratura e di poesia, non che di filosofia ec. Sicchè la lingua
italiana occupava nel sopraddetto tempo il grado che la francese non solo occupa
presentemente, ma quello ancora che occupò quando essa letteratura francese era
unica; sì per universalità e diffusione, sì per riputazione, dignità, gusto e
cura diffusane generalmente ec. come si vede anche per questa somiglianza
d'esser ella in quei tempi così {e sopra tutte} gradita
nelle corti, come lo fu nel 700, oltre la lingua, che ancor lo è sopra tutte,
anche la letteratura francese, che or non lo è più se non di pari coll'altre moderne (dal qual numero l'italiana
{d'oggidì} è fuori niente meno che la spagnuola).
(2. Nov. dì de' morti. 1823.).
[3829,1] Lo stato della letteratura spagnuola oggidì (e dal
principio del 600 in poi), è lo stesso affatto che quello dell'italiana, eccetto
alcuni vantaggi di questa, ed alcune diversità di circostanze, che non mutano la
sostanza del caso. Come noi (al paro di tutti gli altri stranieri) non dubitiamo
che la spagna non abbia nè lingua nè letteratura moderna
propria, e dal 600. in poi non l'abbia mai avuta, così non dobbiamo dubitare che
non sia altrettanto in italia, e ciò dal 600. in poi,
come gli stranieri, e forse tra questi anche gli spagnuoli (che del fatto loro
non converranno), punto non ne dubitano. Quello che noi vediamo chiaro in altrui
e nel lontano, ci serva di specchio e di esempio per ben vedere, per accorgerci,
per conoscere e concepire il fatto nostro, e quello ch'essendoci proprio e
troppo vicino, non suol vedersi nè conoscersi mai bene, sì per l'inganno
dell'amor proprio, sì perchè la stessa vicinanza nuoce alla vista, e l'abitudine
di continuamente vedere impedisce o difficulta l'osservare, il notare,
l'attendere, il por mente, l'avvedersi. L'opinione che abbiamo di quelli
stranieri c'istruisca
3830 di quella che dobbiamo avere
di noi, e le ragioni di quella si applichino al caso nostro, chè ben vi sono
applicabili ec.
[3855,1] Tra le cagioni del mancar noi (e così gli spagnuoli)
di lingua e letteratura moderna propria, si dee porre, e per prima di tutte, la
nullità politica e militare in cui è caduta l'italia non
men che la Spagna dal 600 in poi, epoca appunto da cui
incomincia la decadenza ed estinzione delle lingue e letterature proprie in
italia e in ispagna. Questa
nullità si può considerare e come una delle cagioni del detto effetto, e come la
cagione assoluta di esso. Come una delle cagioni, perocchè se noi manchiamo oggi
affatto di voci moderne proprie italiane e spagnuole, politiche e militari, ciò
viene perchè gl'italiani e spagnuoli non hanno più, dal 600 in poi, nè affari
politici propri, nè milizia propria. Fino dall'estinzione
dell'imperio romano, l'italia
è stata serva, perchè divisa; ma sino a tutto il 500 la milizia italiana propria
ha esistito, e le corti e repubbliche italiane hanno operato da se, benchè
piccole e deboli. Il governo era in mano d'italiani, le dinastie erano italiane
in assai maggior numero che poi non furono
3856 ed or
non sono. Influiti e dominati da' governi e dagli eserciti stranieri, i governi
e gli eserciti italiani, chè tali essi erano ancora, agivano tuttavia essi
medesimi, ed avevano affari. Essi erano che si davano agli stranieri, quando a
questo, quando a quello, che li chiamavano, che gli scacciavano, o contribuivano
a ciò fare, che si alleavano cogli stranieri, o contro di loro, con altri
stranieri, o con altri italiani, contro altri italiani, o a favore. L'amicizia
de' governi italiani, ancorchè piccolissimi, delle stesse singolari città, era
considerata e ricercata dagli stranieri, e la nemicizia temuta; e in qualunque
modo i governi e le città italiane erano allora nemiche o amiche di questa o
quella straniera potenza. Gl'italiani agivano per se presso o nelle corti
straniere, e gli stranieri presso gl'italiani. {+V. p.
3887.} Quindi è che noi avevamo allora a dovizia voci politiche
e militari; più a dovizia ancora delle altre nazioni, perchè la politica e il
militare, ridotti ad arte e scienza tra noi, non lo erano presso gli altri.
Negli storici, negli scrittori tecnici di politica o di milizia, o d'altre
materie appartenenti, e generalmente negli scrittori italiani avanti il
seicento, non troverete mai difficoltà veruna di esprimersi in checchessia che
spetti agli affari pubblici, economia pubblica, diplomatica, negoziazioni,
politica, e a qualsivoglia parte dell'arte militare; mai povertà; {e} mai li vedrete ricorrere a voci straniere, o che
possano pur sospettarsi tali: al contrario li vedrete franchissimi
3857 nell'espressione di tali materie, anzi ricchissimi
e abbondantissimi, esattissimi, provvisti di termini per ciascuna cosa e parte
di essa, ed anche di più termini per ciascuna, voci tutte italianissime e tanto
italiane quanto or sono francesi quelle di cui i francesi e noi ed anche altri
in tali materie si servono; e queste voci e questi termini ben si vede che non
erano inventati da quegli scrittori, nè debbonsi al loro ingegno, ma all'uso
della favella italiana d'allora, e che erano fra noi (come anche fuori non
poche[pochi]) comunissimi, notissimi, e di
significato ben certo e determinato. La più parte di questi, dal 600. in poi,
perduti nell'uso del favellare, {lo furono e lo sono}
conseguentemente nelle scritture, di modo che le stesse cose ancora, che noi a
que' tempi con parole italianissime, e con più parole eziandio, chiarissimamente
e notissimamente esprimevamo, or non le sappiamo esprimere che con voci
straniere affatto, o se queste ci mancano, e son troppo straniere per potersi
introdurre, o non furono ancora introdotte, non possiamo esprimer quelle cose in
verun modo. Moltissime di quelle voci, usandole, sarebbero intese fra noi anche
oggidì nel lor proprio e perfetto senso, come allora, e non farebbero oscurità.
Ma moltissime, sostituite alle straniere che or s'usano, riuscirebbero oscure,
parte per la nuova assuefazione fatta a queste altre voci,
perchè[parte] perchè il loro senso non
sarebbe più inteso così determinatamente come
3858
allora. E il simile dico di molte voci con cui potremmo esprimer cose per cui
non abbiamo nemmen voci straniere, o che a questi pur manchino, o che tra noi
non sieno state ancora introdotte. Moltissime voci militari, civili e politiche
sì del nostro 300, sì dello stesso 500, benchè significative di cose or
notissime e comunissime, son tali che noi ora, leggendole negli antichi, o non
le intendiamo, o non senza studio, o non avvertiamo, almen senza molta acutezza
e attenzione, {o imperfettamente} la loro
corrispondenza con quelle che oggi ne' medesimi casi comunemente usiamo. Altresì
ci accade {non di rado} tale incertezza nelle voci
significative di cose, or non più comuni, e spesso in queste ci accade più che
nell'altre. Ecco come, mancati gli affari politici e la milizia in
italia, la nostra nazione non ha nè può avere, nè
ebbe dal 600 in poi, lingua moderna propria per significar le cose politiche e
militari, non ch'ella mai non l'abbia avuta, anzi l'ebbe, ma l'ha perduta, o non
l'ha se non antica. E nello stesso modo proporzionatamente e ragguagliatamente
discorrasi della Spagna.
[3863,2] Accade nelle lingue come nella vita e ne' costumi; e
nel parlare come nell'operare, e trattare con gli uomini (e questa non è
similitudine, ma conseguenza.) Nei tempi e nelle nazioni dove la singolarità
dell'operare, de' costumi ec. non è tollerata, è ridicola ec. lo è similmente
anche quella del favellare. E a proporzione che la diversità dall'ordinario,
maggiore o minore, si tollera o piace, {ovvero} non
piace, non si tollera, è ridicola ec. più o meno; maggiore o minore o niuna
diversità piace, dispiace, si tollera o non si tollera nel favellare. Lasceremo
ora il comparare a questo proposito le lingue antiche colle moderne, e il
considerare come corrispondentemente
3864 alla diversa
natura dello stato e costume delle nazioni antiche e moderne, e dello spirito e
società umana antica e moderna, tutte le lingue antiche sieno o fossero più
ardite delle moderne, e sia proprio delle lingue antiche l'ardire, e quindi esse
sieno molto più delle moderne, per lor natura, atte alla poesia; perocchè tra
gli antichi, dove e quando più, dove e quando meno, ηὐδοκίμει la singolarità
dell'opere, delle maniere, de' costumi, de' caratteri, degl'istituti delle
persone, e quindi eziandio quella del lor favellare e scrivere. La nazion
francese, che di tutte l'altre sì antiche sì moderne, è quella che meno approva,
ammette e comporta, anzi che più riprende ed odia e rigetta e vieta, non pur la
singolarità, ma la nonconformità dell'operare e del conversare nella vita
civile, de' caratteri delle persone ec.; la nazion francese, dico, lasciando le
altre cose a ciò appartenenti, della sua lingua e del suo stile; manca affatto
di lingua poetica, e non può per sua natura averne, perocchè ella deve
naturalmente inimicare e odiare, ed odia infatti, come la singolarità delle
azioni ec. così la singolarità del favellare e scrivere. Ora il parlar poetico è
per sua natura diverso dal parlare ordinario. Dunque esso ripugna per sua natura
alla natura della società e della nazione francese. E di fatti la lingua
francese è incapace, non solo di quel peregrino che nasce dall'uso di voci,
modi, significati tratti da altre lingue,
3865 o dalla
sua medesima antichità, anche pochissimo remota, ma eziandio di quel peregrino e
quindi di quella eleganza che nasce dall'uso non ordinario delle voci e frasi
sue moderne e comuni, cioè di metafore non trite, di figure, sia di sentenza,
sia massimamente di dizione, di ardiri di ogni sorta, anche di quelli che non
pur nelle lingue antiche, ma in altre moderne, come p. e. nell'italiana,
sarebbero rispettivamente de' più leggeri, de' più comuni, e talvolta neppure
ardiri. Questa incapacità si attribuisce alla lingua; ella in verità è della
lingua, ma è acora della nazione, e non per altro è in quella, se non perch'ella
è in questa. Al contrario la nazion tedesca, che da una parte per la sua
divisione e costituzion politica, dall'altra pel carattere naturale de' suoi
individui, pe' lor costumi, usi ec. {+per
lo stato presente della lor civiltà, che siccome assai recente, non è in
generale così avanzata come in altri luoghi,} e finalmente per la
rigidità del clima che le rende naturalmente propria la vita casalinga, e
l'abitudine di questa, è forse di tutte le moderne nazioni civili la meno atta e
abituata alla società personale ed effettiva; sopportando perciò facilmente ed
anche approvando e celebrando, non pur la difformità, ma la singolarità delle
azioni, costumi, caratteri, modi ec. delle persone (la qual
singolata[singolarità] appo loro non ha
pochi nè leggeri esempi di fatto, anche in città e corpi interi, come in quello
de' fratelli moravi, e in altri molti istituti ec. ec. tedeschi, che per verità
non hanno
3866 punto del moderno, e parrebbero
impossibili a' tempi nostri, ed impropri affatto di essi), sopporta ancora, ed
ammette e loda ec. una grandissima singolarità d'ogni genere nel parlare e nello
scrivere, ed ha la lingua, non pur nel verso, ma nella prosa, più ardita {per sua natura} di tutte le moderne colte, e pari {in questo} eziandio alla più ardita delle antiche. La
qual lingua tedesca per conseguenza è poetichissima e {capace
e} ricca d'ogni varietà ec. (11. Nov. 1823.).
[3866,1] Il pellegrino e l'elegante che nasce dall'introdurre
nelle nostre lingue voci, modi, e significati tolti dal latino, è quasi della
stessa natura ed effetto con quello che nasce dall'uso delle nostre proprie
voci, modi e significati antichi, o passati dall'uso quotidiano, volgare,
parlato ec. Perocchè siccome queste, così quelle (e talor più delle seconde, che
siccome erano, così conservano talvolta del barbaro della {loro} origine o dell'incolto di que' tempi che le usarono {ec.}) hanno sempre (quando sieno convenientemente
scelte, ed atte alle lingue ove si vogliono introdurre) del proprio e del
nazionale, quando anche non sieno mai per l'addietro state parlate nè scritte in
quella tal lingua. E ciò è ben naturale, perocch'esse son proprie di una lingua
da cui le nostre sono nate ed uscite, e del cui sangue e delle cui ossa {queste} sono formate. Onde queste tali voci {ec.} spettano in certo modo all'antichità delle nostre
lingue, e riescono in queste quasi come lor {proprie}
voci antiche. Sicchè non è senza ragione verissima, se biasimando l'uso o
introduzione di voci ec. tolte dall'altre lingue, sieno antiche sieno moderne,
(eccetto le voci ec. già naturalizzate) lodiamo quella delle voci {ec.} latine. Perocchè quelle a differenza di queste,
sono come di sangue, così di {aspetto e di} effetto
straniero, e diverso
3867 da quello delle altre nostre
voci, e delle nostre lingue in genere, e del loro carattere ec. La novità tolta
{prudentemente} dal latino, benchè novità
assolutissima in fatto, è per le nostre lingue piuttosto restituzione
dell'antichità che novità, piuttosto peregrino che nuovo; e veramente (anche
quando non sia troppo prudente nè lodevole) ha più dell'arcaismo che del
neologismo. Al contrario dell'altre novità, e degli altri stranierismi ec. E per
queste ragioni, oltre l'altre, è ancor ragionevole e consentaneo che la lingua
francese sia, com'è, infinitamente men disposta ad arricchirsi di novità tolta
dal latino, che nol son le lingue sorelle. Perocchè essa lingua è molto più di
queste sformata e diversificata dalla sua origine, degenerata, allontanata ec.
Onde quel latinismo che a noi sarebbe convenientissimo e facilissimo perchè
consanguineo {e materno} ec. alla lingua francese,
tanto mutata dalla sua madre, riescirebbe affatto alieno e straniero e non
materno ec. Meglio infatti generalmente riesce e fa prova e si adatta e
s'immedesima e par naturale nella lingua francese la novità tolta dall'inglese e
dal tedesco (che agl'italiani e spagnuoli sarebbe insopportabile e barbara) che
quella dal latino. Questo può vedersi in certo modo anche ne' cognomi {e nomi propri} inglesi, tedeschi, ec. {che si} nominino nel francese. Paiono {sovente e gran parte di loro} molto men forestieri che
tra noi, e men diversi ed alieni da' nazionali.
[3884,1]
Les
Dames vous devront ce que la langue italienne devait au Tasse; cette
langue d'ailleurs molle et dépourvue de force, prenait un air mâle et de
l'énergie lorsqu'elle etait maniée par cet habile poëte.
*
Così scriveva il principe reale di Prussia poi Federico II alla Marchesa du Châtelet, da Rémusberg agli 9.
Nov. 1738. (Oeuvres complettes de Frédéric II. Roi de Prusse. 1790. tome 16.
Lettres du Roi de Prusse et de la Marquise du Châtelet. Lettre 5.e
p. 307.) E nóto queste parole perchè si veda l'esattezza del giudizio
degli stranieri sulla nostra letteratura, e la verità della material cognizione
ch'essi ne hanno. Lascio quello che Federico dice in generale sulla nostra lingua, ma il particolare del
Tasso, ch'è un fatto, e che poco
si richiedeva a essere istruito come stésse, non è egli tutto il contrario del
vero? Federico dice del Tasso quel ch'è vero di Dante, del quale il Tasso è tutto il contrario, anche più dell'Ariosto, e quasi dello stesso Petrarca ec. {+V. p.
3900.}
(14. Nov. 1823.). Eccetto se Federico non considera o non intende di parlare del Tasso in comparazione del Metastasio, e più se de' frugoniani, degli
arcadici de' nostri poeti e prosatori sia puristi sia barbaristi del
3885 passato secolo, insomma di quelli che nè scrissero
nè seppero l'italiano; nel qual caso il suo detto è certamente esente da ogni
rimprovero e controversia. (15. Nov. 1823.). {{V. p.
3949.}}
[3941,3] La facoltà d'imitazione non è che facoltà di
assuefazione; perocchè chi facilmente si avvezza, vedendo o sentendo o con
qualunque senso apprendendo, o finalmente leggendo, facilmente, ed anche in poco
tempo, riducesi ad abito quelle tali sensazioni
3942 o
apprensioni, di modo che presto, e ancor dopo una volta sola, e più o manco
perfettamente, gli divengono come proprie; il che fa ch'egli possa benissimo e
facilmente rappresentarle ed al naturale, esprimendole piuttosto che imitandole,
poichè il buono imitatore deve aver come raccolto e immedesimato in se stesso
quello che imita, sicchè la vera imitazione non sia propriamente imitazione,
facendosi d'appresso se medesimo, ma espressione. {#1. Giacchè l'espressione de' propri affetti o pensieri
{o} sentimenti o immaginazioni ec. comunque
fatta, io non la chiamo imitazione ma espressione.} Or come la facoltà
d'imitare sia qualità e parte principalissima e forse il tutto de' grandi
ingegni, e così degli altri talenti in proporzione, è cosa da molti osservata
è[e] spiegata. Dunque riconfermasi che
l'ingegno è facoltà di assuefazione. (6. Dec. 1823.). {{V. p. 3950.}}
[3946,2] La lingua greca appartiene veramente e propriamente
alla nostra famiglia di lingue (latina, italiana, francese, spagnuola, e
portoghese), non solo perch'ella non può appartenere ad alcun'altra, e farebbe
famiglia da se o solo colla greca moderna; non solamente neppure per esser
sorella o, come gli altri dicono, madre della latina (nel primo de' quali casi
ella dovrebbe esser messa almeno colla latina, e nel secondo è chiaro ch'ella va
posta nella nostra famiglia), ma specialmente e principalmente perchè la sua
letteratura è veramente madre della latina, la qual è madre delle nostre, e
quindi la letteratura greca è veramente l'origine delle nostre, le quali in
grandissima parte non sarebbero onninamente quelle che sono e quali sono (se non
se per un incontro affatto fortuito) s'elle non fossero venute di là. E come la
letteratura è quella che dà forma e determina la maniera di essere delle lingue,
e lingua formata e letteratura sono quasi la stessa cosa, o certo
3947 cose non separabili, e di qualità compagne e
corrispondenti; e come per conseguenza la letteratura greca (oltre le tante voci
e modi particolari) fu quella che diede veramente e principalmente forma alla
lingua latina, e ne determinò la maniera di essere, il carattere e lo spirito,
di modo che la lingua e letteratura latina, quando anche fossero nate, formate e
cresciute senza la greca, non sarebbero certamente state quelle che furono, ma
altre veramente, e in grandissima parte diverse per natura e per indole e forma,
e per qualità generali e particolari, e sì nel tutto, sì nelle parti maggiori o
minori, da quelle che furono; stante, dico, tutto questo, la letteratura greca
(oltre lo studio immediato fattone da' formatori delle nostre lingue, come da
quelli della latina) viene a esser veramente la madre e l'origine prima delle
nostre lingue, come la latina n'è la madre immediata; le quali lingue (anche la
francese che insieme colla sua letteratura è la più allontanata dalla sua
origine, e dalla forma latina, e dall'indole della latina, e quindi eziandio
della greca) non sarebbero assolutamente tali quali sono, ma altre e in
grandissima parte diverse sì nello spirito, sì in cento e mille cose
particolari, se non traessero primitivamente origine in grandissima parte dal
greco per mezzo del latino. E veramente la lingua greca mediante la sua
letteratura è prima (quanto si stende la nostra memoria dell'antichità) e vera
ed efficacissima causa dell'esser sì la lingua e letteratura latina, sì le
nostre lingue e letterature, anche la francese, tali quali elle sono,
3948 e non altre; chè per natura elle ben potrebbero
essere diversissime in molte e molte cose, anche essenziali ed appartenenti allo
spirito ed all'indole ec. e alquanto diverse più o meno in altre molte cose più
o meno essenziali o non essenziali. E forse non mancano esempi di altre
letterature e lingue antiche o moderne, anche meridionali ec., che non essendo
venute dal greco, sono diversissime, anche per indole ec. e nel generale ec. non
meno o poco meno che ne' particolari, dalla latina e dalle nostrali. E ne può
esser prova il vedere quanto la francese si è allontanata, anche di spirito,
dalla latina e dalla greca alle quali era pur conformissima nel 500 ec. (vedi la
p. 3937.), senz'aver mutato
clima ec. Certo i tempi nostri son diversissimi da quelli de' greci {e de' latini,} quando anche il clima sia conforme,
diversissime sono state e sono le nostre nazioni, {#1. loro governi, opinioni, costumi, avvenimenti e
condizioni qualunque,} sì tra loro, {#2. sì ciascuna di esse da se medesima in diversi
tempi,} sì dalla greca, e dalla latina eziandio. Nondimeno le loro
lingue e letterature sono state conformi, massime fino agli ultimi secoli, e tra
loro, e tra' vari lor tempi, e colla greca e latina ec. Sicchè tal conformità
non si deve attribuire nè solamente nè principalmente al clima, nè ad altre
circostanze naturali o accidentali, ma all'accidente di esser derivate
effettivamente dal greco e latino, chè ben potevano non derivar da nessuno, o
derivare d'altronde ec. ec.
[3952,1]
3952 Dal detto altrove pp. 109-11
pp. 1234-36
pp. 1701-706 circa le
idee concomitanti annesse alla significazione o anche al suono stesso e ad altre
qualità delle parole, le quali idee hanno tanta parte nell'effetto, massimamente
poetico ovvero oratorio ec., delle scritture, ne risulta che necessariamente
l'effetto d'una stessa poesia, orazione, verso, frase, espressione, parte
qualunque, maggiore o minore, di scrittura, è, massime quanto al poetico,
infinitamente vario, secondo gli uditori o lettori, e secondo le occasioni e
circostanze anche passeggere e mutabili in cui ciascuno di questi si trova.
Perocchè quelle idee concomitanti, indipendentemente ancora affatto dalla parola
o frase per se, sono differentissime per mille rispetti, secondo le dette
differenze appartenenti alle persone. Siccome anche gli effetti poetici {ec.} di mille altre cose, anzi forse di tutte le cose,
variano infinitamente secondo la varietà e delle persone e delle circostanze
loro, abituali o passeggere o qualunque. Per es. una medesima scena della natura
diversissime sorte d'impressioni può produrre e produce negli spettatori secondo
le dette differenze; come dire se quel luogo è natio, e quella scena collegata
colle reminiscenze dell'infanzia ec. ec. se lo spettatore si trova in istato di
tale o tal passione, ec. ec. E molte volte non produce impressione alcuna in un
tale, al tempo stesso che in un altro la fa grandissima. Così discorrasi delle
parole e dello stile che n'è composto e ne risulta, e sue qualità e differenze
ec. e questa similitudine è molto a proposito.
[3976,1] Non è propria de' tempi nostri altra poesia che la
malinconica, nè altro tuono di poesia che questo, sopra qualunque subbietto ella
possa essere. Se v'ha oggi qualche vero poeta, se questo sente mai veramente
qualche ispirazione di poesia, e va poetando seco stesso, o prende a scrivere
sopra qualunque soggetto, da qualunque causa nasca detta ispirazione, essa è
certamente malinconica, e il tuono che il poeta piglia naturalmente o seco
stesso o con gli altri nel seguir questa inspirazione (e senza inspirazione non
v'è poesia degna di questo nome) è il malinconico. Qualunque sia l'abito, la
natura, le circostanze ec. del poeta, pur ch'ei sia di nazione civile, così gli
accade, e come a lui così a un altro che non avrà di comune con lui se non
questo solo. ec. Fra gli antichi avveniva tutto il contrario. Il tuono naturale
che rendeva la loro cetra era quello della gioia o della forza {+della solennità} ec. La poesia loro
era tutta vestita a festa, anche, in certo modo, quando il subbietto l'obbligava
ad esser trista. Che vuol dir ciò? O che gli antichi avevano meno sventure reali
di noi, (e questo non è forse vero), o che meno le sentivano e meno le
conoscevano, il che viene a esser lo stesso, e a dare il medesimo risultato,
cioè che gli antichi erano dunque meno infelici de' moderni. E tra gli antichi
metto anche, proporzionatamente, l'Ariosto ec. (12. Dec. 1823.).
[4001,2] Delle colonie greche in
italia, sicilia ec. e antico
commercio ec. greco in italia, avanti il dominio de'
romani, la diffusione o formazione di quella lingua latina, che noi conosciamo,
cioè romana ec. e del grecismo che per tali cagioni può esser rimasto nel
volgare latino {in} quelle parti, e quindi ne' volgari
moderni {+in quelle parti,} e
quindi nel comune italiano eziandio, massime che la formazione e letteratura di
questo ebbe principio in Sicilia e nel
4002 regno, come mostra il Perticari nell'Apologia, ec. ec., discorrasene proporzionatamente nel
modo che altrove s'è discorso pp. 1014-16
p. 2655 delle Colonie greco - galliche, di
Marsiglia ec. in rispetto ai grecismi della lingua
francese non comuni al latino noto ec. (24. Dec. 1823. Vigil. del S.
Natale.).
[4021,5] Quanto allo stile e al bene scrivere, immensa fatica
è bisogno per saper fare, ed ottenuto questo, non meno grande si richiede sempre
per fare. E tanto è lungi che il saper fare tolga la fatica del fare, che anzi
quanto quello è maggiore, con maggior fatica si compone, perchè tanto meglio si
vuol fare e si fa, il che costa tanto di più a proporzione. Così nelle arti
belle e in altre faccende d'ingegno ec. (23. Gen. 1824.). {{Non così riguardo all'invenzione sì nello scrivere sì nelle
arti. ec. ec.}}
[4026,7] Dico altrove {+p.
2827.} che la mutata pronunzia della lingua greca, dovette di
necessità ne' secoli inferiori, alterandone l'armonia, alterarne la costruzione
l'ordine e l'indole ec. perchè da un medesimo periodo o costrutto diversamente
4027 pronunziato, non risultava più o niuna, o
certo non la stessa armonia di prima. Aggiungi che anche indipendentemente {da} questo, gli scrittori, ed anche i poeti greci de'
secoli inferiori (come pure i latini, gl'italiani, e tutti gli altri ne' tempi
di corrotto gusto e letteratura) amavano e volevano un'armonia diversa per se ed
assolutamente e in quanto armonia da quella degli antichi, cioè sonante, alta,
sfacciata, uniforme, cadenziosa ec. Questa dagli esperti si ravvisa a prima
vista in tutti o quasi tutti i prosatori e poeti greci di detti secoli, anche
de' migliori, ed anch'essi atticisti, formati sugli antichi, imitatori, ec.
Tanto che questo numero, diverso dall'antico e della qualità predetta, che quasi
in tutti, più o meno, e più o men frequente, vi si ravvisa, e[è] un certo e de' principali e più appariscenti segni,
almeno a un vero intendente, per discernere gl'imitatori e più recenti, che
spesso sono del resto curiosissimamente conformi agli antichi, da' classici
originali e de' buoni tempi della greca letteratura. Ora il diverso gusto
nell'armonia e numero di prosa e verso (nel quale aggiungi i nuovi metri,
occasionati da tal gusto e dalla mutata pronunzia della lingua) contribuì non
poco ad alterare, anche negli scrittori diligenti ed archeomani i costrutti e
l'ordine della lingua, come era necessario, e come si vede, guardandovi
sottilmente, per es. in Longino,
perchè vi trovi non di rado in parole antiche un costrutto non antico, e si
conosce ch'è fatto per il numero che ne risulta, e altrimenti non sarebbe
risultato, e il quale altresì non è antico. (Così dicasi dell'alterazione
cagionata ne' costrutti ec. dalla mutata pronunzia). Questa causa di corruzione
è da porsi fra quelle che produssero e producono universalmente l'alterazione e
corruttela di tutte le lingue, nelle quali tutte (o quasi tutte) i secoli di
gusto falso e declinato pigliarono un numero conforme al descritto di sopra e
diverso da quello de' loro antichi. Si
4028 conosce a
prima vista, {e indubbiamente, (almen da un intendente ed
esercitato)} per la differenza e per la detta qualità del numero, un
secentista da un cinquecentista, ancorchè quello sia de' migliori, ed anche
conforme in tutto il resto agli antichi. Il Pallavicini, ottimo per se in quasi tutto il restante, pecca
moltissimo nella sfacciataggine e uniformità (vera o apparente, come dico
altrove pp. 4026-28) del numero, alla quale subito si riconosce
il suo stile, diverso principalmente per questo (quanto all'estrinseco, cioè
astraendo dalle antitesi e concettuzzi che spettano piuttosto alle sentenze e ai
concetti, come appunto si chiamano) da' nostri antichi, da lui tanto studiati, e
tanto e così bene espressi e seguiti. Che dirò del numero di Apuleio, Petronio ec. rispetto a quello di Cic. e di Livio? non che di
Cesare, e de' più antichi e
semplici, che Cic. nell'Oratore dice mancar tutti del numero {+s'intende del colto, perchè senza un numero non possono
essere. V. p. seg. [p. 4029,1]..} Che dirò di Lucano, dell'autore del Moretum, Stazio ec. rispetto a Virgilio? Marziale a Catullo ec.? Or
questa mutazione e depravazione del numero dovette necessariamente essere una
delle maggiori cagioni dell'alterazione della lingua sì greca, sì latina e
italiana, sì ec., massime quanto ai costrutti e l'ordine, e quindi alla frase e
frasi, e quindi all'indole, insomma al principale. Anche si dovettero depravar
le {semplici} parole per servire al numero, {+e grattar l'orecchio avido di nuovi e
spiccati suoni,} o sformando le vecchie, o inducendone delle nuove e
strane, o componendone, come in greco, o troncandole come tra noi (l'uso de'
troncamenti è singolarmente proprio del Pallavicini, e de' secentisti e de' più moderni da loro in poi),
avendo riguardo sì al suono della parola in se, sì al suo effetto nella
composizione e nel periodo. (9. Feb. 1824.). Veggasi il detto
altrove pp. 848-49
{su d'alcuni} sforzati costrutti d'Isocrate per evitare il concorso {(conflitto)} delle vocali ec. ec. (9. Feb. 1824.).
(Riferiscasi ancora a questo proposito per quanto gli può toccare, il detto
altrove pp. 1157-60 sul
vario gusto de' greci, lat. e ital. in diversi tempi, circa il concorso,
l'abbondanza ec. delle vocali.) Ora se questo accadeva a Isocrate ottimo giudice, ed esposto
4029 migliaia d'altri tali, e scrivente per piacere a
essi, nel centro della lingua pel tempo e pel luogo, fiorente la lingua e la
letteratura, nel suo gran colmo ec. ec. che cosa doveva accadere ne' secoli
bassi ne' quali ec. fra gl'imitatori ec. la più parte, com'era allora non greci
di patria, ma dell'Asia, e questa anche alta, non la
minore ec. ec. molti ancora non greci neppur di genitori, come Gioseffo, Porfirio e tanti altri ec. ec.? (10. Feb.
1824.).
[4055,6] La lingua spagnuola è già conformissima all'italiana
per indole (oltre all'estrinseco) quanto possa esser lingua a lingua. Ma più
conforme sarebbe, se ella fosse stata egualmente coltivata, formata e
perfezionata, cioè avesse avuto ugual numero e varietà e capacità di
4056 scrittori che ebbe l'italiana. Dalla piega che
ella prese effettivamente si raccoglie che quando avesse progredito, la forma e
l'indole che avrebbe avuta in uno stato di perfezione non sarebbe stata punto
diversa dall'italiana, alla quale per conseguenza la lingua spagnuola sarebbe
stata tanta[tanto] più conforme che ora per la
maggior conformità di grado e di perfezione, perchè ora la maggiore, anzi forse
unica differenza che passi tra il genio {o piuttosto}
la forma intrinseca di queste due lingue, si è che l'una è molto meno formata e
perfezionata dell'altra, e anche men ricca, il che con la copia degli scrittori
e delle materie non sarebbe stato. (1. Aprile. 1824.).
[4066,1]
4066 La maniera familiare che come più volte ho detto
pp. 1808-10
pp. 2639-40
pp. 2836-41
pp. 3009. sgg.
pp. 3014-17
p. 3415, fu necessariamente scelta da' nostri classici antichi, o
necessariamente v'incorsero senz'avvedersene ed anche fuggendola, può ora in
parte o in tutto sfuggire massimamente alle persone di naso poco acuto, e a
quelle non molto esercitate e profonde nella cognizione, nel sentimento e nel
gusto dell'antica e buona lingua e stile italiano, che è quanto dire a quasi
tutti i presenti italiani. Ciò viene, fra l'altre cose, perchè quello che allora
fu familiare nella lingua, or non lo è più, anzi è antico ed elegante, ovvero è
arcaismo. Non per tanto è men vero quel che io altrove ho detto. Anzi è tanto
vero, che anche dopo che la lingua aveva acquistato la materia e i mezzi e la
capacità della eleganza e del parlar distinto da quello del volgo e dall'usuale,
si è pur seguitato sì nel 500 e 600 sì nel presente secolo da molti cultori e
amatori dello scriver classico, a usare una maniera familiare, sovente non
avvedendosene o non intendendo bene la proprietà e qualità della maniera che
sceglievano e usavano, e sovente anche {intendendo,}
credendo di usare una maniera elegante. E ciò si è fatto in due modi. O
adoperando le stesse forme antiche, le quali oggi non sono più familiari, anzi
eleganti, onde n'è risultata opinione di eleganza a tali stili ed opere
modellate sull'antico, ma veramente esse hanno del familiare, perchè il totale
dello stile antico da essi imitato, necessariamente ne aveva anche
indipendentemente dalle forme, bensì per cagion loro e per conformarsi e
corrispondere ad esse {forme} che allora erano
necessariamente familiari. Ovvero adoperando le forme familiari moderne a
esempio e imitazione degli antichi, e della familiarità che nelle forme e nello
stile loro si scorgeva, benchè non bene intendendola, e sovente confondendo sì
la familiarità imitata sì quella
4067 che adoperavano
ad imitarla, colla eleganza, dignità e nobiltà e col dir separato dall'usuale,
perciò appunto che la familiarità in genere non era {e non
è} più usuale, e l'uso della medesima è proprio degli antichi. Il
terzo modo, che sarebbe quello di usar l'antico e il moderno e tutte le risorse
della lingua, in vista e con intenzione di fare uno stile e una maniera nè
familiare nè antica, ma elegante in generale, nobile, maestosa, distinta affatto
dal dir comune, e proprio di una lingua che è già atta allo stile perfetto,
quale è appunto quello di Cicerone nella
prosa e di Virgilio nella poesia (stile
usato quando la lingua latina era appunto in {quelle
circostanze e} quello stato di capacità in cui è ora la lingua
nostra); questo terzo modo non è stato non che usato, ma concepito nè inteso da
quasi niuno, comechè egli è forse il solo conveniente, il solo perfetto, e
convenevole a una lingua {e letteratura già} perfetta.
(8. Aprile. 1824.).
[4074,1]
4074
{Alla p.
4043.} Qualunque poesia o scrittura, o qualunque parte di
esse esprime o collo stile o co' sentimenti, il piacere e la voluttà, esprime
ancora o collo stile o co' sentimenti formali o con ambedue un abbandono una
noncuranza una negligenza una specie di dimenticanza d'ogni cosa. E generalmente
non v'ha altro mezzo che questo ad esprimere la voluttà. Tant'è, il piacere non
è che un abbandono e un oblio della vita, e una specie di sonno e di morte. Il
piacere è piuttosto una privazione o una depressione di sentimento che un
sentimento, e molto meno un sentimento vivo. Egli è quasi un'imitazione della
insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario
alla vita ed alla privazione di essa, perchè la vita per sua natura è dolore.
Onde è piacevole l'esserne privato in quanta parte si può, senza dolore e
senz'altro patimento che nasca o sia annesso a questa privazione. Quindi il
piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che
privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario.
Tali almeno sono i maggiori e più veraci piaceri. I piaceri vivi sono anche
manco piaceri. Sempre portano seco qualche pena, qualche sensazione incomoda,
qualche turbamento, e ciò annesso {cagionato} e
dipendente essenzialmente da loro. (19. Aprile. Lunedì di Pasqua.
1824.) Dunque la vita è un male e un dispiacere per se, poichè la
privazione di essa in quanto si può è naturalmente piacere. Infatti la vita è
naturalmente uno stato violento, poichè {naturalmente}
priva del suo sommo e naturale
4075 bisogno, desiderio,
fine, e perfezione che è la felicità. E non cessando mai questa violenza, non
v'è un solo momento di vita sentita che sia senza positiva infelicità e positiva
pena e dispiacere. (20. Aprile. Martedì di Pasqua. 1824.). {{+ [p. 4057,2]}}
[4082,2]
Apprendre plusieurs
langues médiocrement, c'est le fruit du travail de quelques années;
parler purement et éloquemment la sienne c'est le travail de toute la
vie.
*
Così dice Voltaire,
la cui lingua pur non era che la francese, riputata la più facile delle
lingue antiche e moderne. Histoire
du Siècle de Louis XIV. chap. 36. Écrivains, art. de Longueruë. (à la Haye 1752-3. t. 3. dans les additions. p.
195-196.)
(26. Aprile. 1824.).
[4117,11] Delle idee concomitanti annesse a certe parole,
del che dico altrove pp. 109-11
pp. 1701-706
pp. 1234-36
pp. 3952-54 , v. Thomas, Essai sur les Éloges,
ch. 9. fin. p. 78. œuvres t. 1. Amst.
1774. Dell'influenza della letteratura e filosofia sulla lingua, e
della formazione della lingua latina. ib. p. 112-6. chap. 10. (25.
Agosto. Festa di S. Bartolomeo Apostolo. 1824.). e {{p. 214-15.}}
[4118,3] Delle vicende della lingua francese, v. Thomas l. c. chap. 28. p. 81-97. (26. Agosto.
1824.).
[4173,3] A voler che uno possa esser buon comico o buon
satirico, è di tutta necessità che {questo tale sia, o}
sia stato degno di satira e di commedia, e ciò per non poco tempo, e in quelle
cose medesime che egli ha da porre in riso.
(Bologna. Domenica in Albis. 2. Aprile.
1826.).
[4182,9]
Burchiellesco. Genere burchiellesco,
{Frottole,} in uso anche tra i greci. Demetr.
de elocut. sect. 153. Ἔστι δέ τις καὶ ἡ παρὰ τὴν προσδοκίαν χάρις∙ ὡς ἡ τοῦ
Κύκλωπος, ὅτι ὕστατον ἕδομαι Oὖτιν. οὐ γὰρ προσεδóκα τοιοῦτο ξένιον oὔτε
᾽Oδυσσεὺς oὔτε ὁ ἀναγινώσκων. καὶ ὁ ᾽Aριστοϕάνης ἐπὶ τοῦ Σωκράτους,
Κάμψας ὀβελίσκον, ϕησίν, εἶτα διαβήτην λαβών, ἐκ τῆς παλαίστρας
ϑoιμάτιον ὑϕείλετο.
*
sect. 154. Ἤδη μέν
τοι ἐκ δύο τóπων ἐνταῦϑα ἐγένετο ἡ χάρις. οὐ γὰρ παρὰ προσδοκίaν μóνον
ἐπηνέχϑη, ἄλλ᾽ οὐδ᾽ ἠκoλoύϑει τοῖς προτέροις. ἡ δὲ τοιαύτη ἀνακoλouϑία
καλεῖται γρῖϕος∙ ὥσπερ ὁ παρὰ Σώϕρονι ῥητορεύων Βουλίας∙ (οὐδὲν γὰρ
ἀκóλουϑoν αὑτῷ λέγει). καὶ παρὰ Mενάνδρῳ δὲ ὁ πρóλογος τῆς
Mεσσηνίας.
*
I versi di Aristofane sono i 53. 54.
della scena 2. atto 1. delle Nubi, edit. Aureliae Allobrogum 1608. Gli Scoli antichi però, dánno loro un
senso, e gli spiegano come il resto. {+Simili
ai commentatori della frottola del Petrarca.}
(Bologna. 5. Luglio. 1826.). {{Dei grifi
v. Casaub.
ad Athenae. indice delle materie.}}
[4191,4] Altro è che una lingua sia pieghevole, adattabile,
duttile; altro ch'ella sia molle come una pasta. Quello è un pregio, questo non
può essere senza informità, voglio dire, senza che la lingua manchi di una forma
e di un carattere determinato, di compimento, di perfezione. Questa informe
mollezza pare che si debba necessariamente attribuire alla presente lingua
tedesca, se è vero, come per modo di elogio predicano gli alemanni, che ella
possa nelle traduzioni prendere tutte le possibili forme delle lingue e degli
autori i più disparati tra se, senza ricevere alcuna violenza. Ciò vuol dire
ch'ella è una pasta informe e senza consistenza alcuna; per conseguente, priva
di tutte le bellezze e di tutti i pregi che risultano dalla determinata
proprietà, e dall'indole e forma compiuta, naturale, nativa, caratteristica di
una lingua. La pieghevolezza, la duttilità, la elasticità (per così dire), non
escludono nè la forma determinata e compiuta nè la consistenza; ma certo non
ammettono i vantati miracoli delle traduzioni tedesche. La lingua italiana
possiede questa pieghevolezza in sommo grado fra le moderne colte. La greca non
possedeva quella vantata facoltà della tedesca.
(Bologna 26. Agosto. 1826.).
[4202,1] La ricchezza della lingua greca, e la decisa
differenza di stili che ella ammetteva, differenza così grande, che faceva quasi
di ciascuno stile una lingua diversa, si può conoscere anche dal veder che gli
antichi ebbero dei lessici voluminosi dedicati a un qualche stile in
particolare, come noi potremmo far lessici a parte per la nostra lingua poetica
o prosaica (due divisioni che la nostra lingua ammette, ma la greca assai più).
Eccovi in Fozio
Bibliot. i capi o codici 146. 147. {Λεξικòν} τῆς καϑαρᾶς
ἰδέας
*
(cioè styli simplicis o cosa
simile). ᾽Aνεγνώσϑη λεξικὸν κατὰ στοιχεῖον καϑαρᾶς
ἰδέας. μέγα καὶ πολύστιχον τὸ βιβλίον· μᾶλλον δὲ πολύβιβλoς ἡ
πραγματεία. καὶ χρήσιμον, εἴπερ τι ἄλλο, τoῖς τòν χαρακτῆρα
μεταχειριζομένοις τῆς τοιαύτης ἰδέας. 147. Λεξικòν σεμνῆς ιδέας.
᾽Aνεγνώσϑη λεξικòν σεμνῆς ἰδέας. εἰς μέγεϑoς ἐξετείνετο τὸ τεῦχος, ὡς
ἄμεινον εἶναι δυσὶ μᾶλλον τεύχεσιν ἢ τρισὶ τoῖς ἀναγινώσκoυσι τὸ
ϕιλοπóνημα
*
(solemnis Photio vox hoc sensu) περιέχεσϑαι. κaτὰ
στοιχεῖον δὲ ἡ πραγματεία. καὶ δῆλον ὡς χρησίμη τoῖς εἰς μέγεϑoς καὶ
ὄγκoν ἐπαίρειν τoὺς λόγους αὐτῶν ἐν τῷ συγγράϕειν ἐϑέλουσιν.
*
146. Lexicon Purae Ideę. Lexicon legi
Ideę purę litterarum ordine. Magnus est hic liber, ut multi potius, quam
unus esse videatur. Utilis autem, si quis alius, iis est, qui hanc Ideam
tractant. 147. Lexicon Gravis styli. Legi Ideae gravioris Lexicon, quod
ipsum quoque in immensum crevit, ut legentibus aptius fore arbitrer, si
in duos opus illud, aut tres tomos distribuatur. Digestum item est
litterarum ordine, patetque utile esse iis, qui sublimi tumidoque
dicendi genere excellere studio habent
*
(Schotti versio.)
(Bologna. 22. Settembre. 1826.).
[4203,1]
4203 Ebbero i Greci, come i moderni, anche delle {voluminose} storie teatrali e drammatiche (come ne
ebbero delle filosofiche, geometriche, pittoriche, statuarie, e d'ogni genere di
discipline). Fozio nella Bibliot. cod. 161. dando conto dei 12. libri di
Ecloghe o Estratti di Sopatro sofista, dice che il quarto suo libro
contiene degli estratti, fra gli altri, ἐκ τοῦ ὀγδóoυ
λóγου τῆς τοῦ ῾Ρoύϕου
δραματικῆς ἱστορίας, oἷς παράδοξά τε καὶ ἀπίθανα ἐστὶν
εὑρεῖν, καὶ τραγωδῶν[τραγῳδῶν]
καὶ κωμωδῶν[κωμῳδῶν] πράξεις τε καὶ
λόγους καὶ ἐπιτηδεύματα, καὶ τοιαῦϑ᾽ ἕτερα.
*
E che il quinto
libro σύγκειται αὐτῷ ἔκ τε τῆς ῾Ρoύϕου
μουσικῆς ἱστορίας πρώτου καὶ δευτέρου καὶ τρίτου βιβλίoυ.
ἐν ᾧ τραγικῶν τε καὶ κωμικῶν ποικίλην ἱστορίαν εὑρήσεις.
*
(Tragicor. ac Comicor.
Schott.) οὐ
μὴν δὲ ἀλλὰ καὶ διϑυραμβοποιῶν τε καὶ αὐλητῶν καὶ
κιθαρωδῶν·[κιθαρῳδῶν] ἐπιθαλαμίων τε
ᾠδῶν καὶ ὑμεναίων καὶ ὑπορχημάτων ἀϕήγησιν
*
, (epithalamiorumq.
carminum et hymenaeorum atq. cantilenarum in chorea enumerationem. Schottus) περί τε ὀρχηστῶν καὶ τῶν ἄλλων τῶν ἐν τoῖς ῾Eλληνικoῖς ϑεάτροις
ἀγωνιζομένων∙ ὅϑέν τε καὶ ὅπως oἱ τoύτων ἐπὶ μέγα κλέoς {{παρ᾽ αὐτoῖς}} ἀναδραμóντες γεγóνασιν, εἴ τε
ἄῤῥενες εἴ τε καὶ τὴν ϑήλειαν ϕύσιν διεκληρώσαντο∙ τίνες τε τίνων
ἐπιτηδευμάτων ἀρχὴ διεγνώσϑησαν
*
(quinam etiam singulorum
auctores ac principes studiorum exstiterint. Schott.), καὶ τoύτων δὲ
τίνες τυράννων ἢ βασιλέων ἐρασταὶ καὶ ϕίλοι γεγóνασιν. οὐ μὴν {ἀλλὰ} καὶ τίνες {τε} oἱ
ὰγῶνες, καὶ ὅϑεν, ἐν oἷς ἕκαστος τὰ τῆς τέχνης ἐπεδείκνυτο. καὶ περὶ
ἑορτῶν δὲ ὅσαι πάνδημοι τoῖς ᾽Aϑηναίοις. ταῦτα δὴ πάντα καὶ εἴ τι ὅμοιον,
ὁ πέμπτoς
*
(τοῦ Σωπάτρου) ἀναγινώσκοντί σοι
παραστήσει λóγoς. ῾O δὲ ἕκτoς αὐτῷ συνελέγη λόγος ἔκ τε τῆς αὐτῆς
῾Ρoύϕoυ μουσικῆς
*
(ἱστορίας) βίβλου πέμπτης
καὶ τετάρτης. αὐλητῶν δὴ καὶ αὐλημάτων ἀϕήγησιν ἔχει, ἄνδρές τε ὅσα
ηὔλησαν καὶ δὴ καὶ γυναῖκες. καὶ ῞Oμηρος δὲ αὐτῷ καὶ ῾Hσίoδoς καὶ ᾽Aντίμαχoς
oἱ ποιηταὶ τῆς διηγήσεως μέρος
*
, (huius narrationis partem
4204 efficiunt. Schott.) καὶ τῶν ἄλλων
πλεῖστοι τῶν εἰς τοῦτο τὸ γένος τῶν ποιητῶν ἀναγoμένων
*
. E segue
dicendo di altri libri di altri scrittori dai quali era estratto il sesto
libro di Sopatro. E l'undecimo
dice essere estratto, fra gli altri, ἐκ τῆς τοῦ
Ἰώβα[Ἰόβα]
*
(Iubae) τοῦ βασιλέως ϑεατρικῆς ἱστορίας ἑπτακαιδεκάτoυ
λóγoυ
*
, della quale
opera fa menzione anche Ateneo, lib. 4.
(Bologna. 1826. 24. Sett. Domenica.). {{V. p.
4238.}}
[4213,7]
Οἱ γὰρ πάλαι ῥήτορες
ἱκανὸν αὐτοῖς ἐνόμιζον εὑρεῖν τε τὰ ἐνθυμήματα, καὶ τῇ φράσει περιττῶς
ἀπαγγεῖλα
*
(phrasi eximia). ἐσπoύδαζον γὰρ
τὸ ὅλον περί τε τὴν λέξιν καὶ τòν ταύτης κόσμον· πρῶτον μὲν ὅπως εἴη
σημαντικὴ καὶ εὐπρεπής
*
(significativa et venusta), εἶτα καὶ ἐναρμόνιoς ἡ τoύτων σύνϑεσις
*
(compositio). ἐν τoύτῳ γὰρ αὐτoῖς καὶ τὴν πρòς τoὺς
ἰδιώτας διαϕορὰν ἐπὶ τὸ κρεῖττoν περιγίνεσϑαι
*
(ex hoc enim se
praestituros vulgo loquentium). {Cecilio rettorico siciliano,} parlando
di Antifonte,
uno dei 10. Oratori Greci, ap. Phot. cod. 259. col. 1452. ed. gręc. lat.
[4214,3] I francesi non hanno lingua poetica perchè hanno
rigettata la lingua antica, perchè non sopportano l'antico nel verso niente più
che nella prosa: e senza l'antico non vi può esser lingua poetica. I Latini che ebbero pochissima antichità
di lingua, perchè il progresso della loro letteratura fu rapidissimo, e che
rigettarono, ad eccezione di pochissime {e
piccolissime} parti conservate nel verso, quella poca antichità che
avevano, non ebbero lingua poetica propriamente, nè avrebbero avuto dicitura e
stile poetico se non avessero usato nella poesia costruzioni ardite, e nuovi
significati e metafore di parole, che i francesi non sopportano nella loro.
{#(1) Notisi quindi che presso i latini
ciascun poeta era artefice della sua lingua poetica; la lingua poetica dei
latini era opera individuale del poeta, e se il poeta non se la facea, non
l'aveva: dove in italiano e in greco ella era cosa universale, e il poeta
l'avea già prima di porsi a comporre. E da ciò forse può nascere l'abuso e
la soverchia copia del verseggiare e dei verseggiatori ec. ec.} Del
resto l'avere i latini e i francesi a differenza dei greci e degl'italiani,
rigettata ne' loro buoni {e perfetti} secoli
l'antichità della lingua, venne, fra l'altre cose, dal non aver essi avuto nelle
loro lingue antiche scrittori veramente sommi, a differenza dei greci, che
ebbero Omero, Esiodo, Archiloco, Ippocrate, Erodoto ec. e degl'italiani, ch'ebbero
Dante, Petrarca, Boccaccio, insomma {(come i greci)} la
letteratura già stabilita, {fissata} e formata prima
della lingua e della maturità della civilizzazione.
(Bolog. 12. Ott. 1826.).
[4216,1] Rettorica. Citiamo qui un esempio di acutezza e di
filosofia de' rettorici. Demetrio (rettorico de' più
stimati) περὶ ἑρμηνείας, della
elocuzione, sezione 67. parlando delle figure
della {dizione} (σχήματα τῆς λέξεως {+opposte a σχήματα τῆς διανοίας
sententiarum o sententiae: λέξεως verborum.}), le quali non sono altro
che costrutti e frasi fuor di regola, di ragione, d'uso ec. sgrammaticature
*
, direbbe
l'Alfieri. Bisogna servirsi di tali figure non in troppa
abbondanza, chè ella è cosa poco elegante, e dà una certa
disuguaglianza al discorso, e fa il discorso disuguale. {Non bisogna tuttavolta usar le
figure a man piena: cosa goffa e che ec.} Gli antichi, i
quali usano però gran quantità di figure, riescono nel dir loro più
familiari e correnti che non fanno i moderni quando sono senza
figure. {La cagione è che} quelli le
adoperano con arte.
*
χρῆσϑαι μέν τοι τoῖς σχήμασι μὴ πυκνoῖς: ἀπειρόκαλον
γὰρ καὶ παρεμϕαῖνóν
4217 τινa τοῦ λóγου
ἀνωμαλίαν. Oἱ γοῦν ἀρχαῖοι, πολλὰ σχήματα ὲν τoῖς λóγοις τιϑέντες,
συνηϑέστεροι τῶν ἀσχηματίστων εἰσί, διὰ τὸ ἐντέχνως
τιϑέναι)
*
. L'osservazione è verissima in tutte le lingue; la
causa, proprio il contrario di quel che dice Demetrio. Gli antichi usavano le figure
naturalmente, senz'arte, e per non saper bene le regole generali della
grammatica: i moderni le pescano negli antichi, le usano a posta, sono
irregolari per arte. Perciò paiono, come sono, artifiziati, affettati, stentati,
diversi dal dir corrente. Caro Demetrio, non ogni buon {effetto o}
successo è da attribuirsi all'arte. Concedete qualche coserella alla natura,
{ed anche all'ignoranza,} benchè voi siate un
maestro di arte rettorica.
{{V. p.
4222.}}
[4234,5] La poesia, quanto a' generi, non ha in sostanza che
tre vere e grandi divisioni: lirico, epico e drammatico. Il lirico, primogenito
di tutti; proprio di ogni nazione anche selvaggia; più nobile e più poetico d'ogni altro; vera {e pura} poesia in tutta la sua estensione; proprio
d'ogni uomo anche incolto, che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto, e
colle parole misurate in qualunque modo, e coll'armonia; espressione libera e
schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell'uomo. L'epico nacque dopo
questo e da questo; non è in certo modo che un'amplificazione del lirico, o
vogliam dire il genere lirico che tra gli altri suoi mezzi e subbietti ha
assunta
4235 principalmente e scelta la narrazione,
poeticamente modificata. Il poema epico si cantava anch'esso sulla lira o con
musica, per le vie, al popolo, come i primi poemi lirici. Esso non è che un inno
in onor degli {eroi o delle nazioni o eserciti;}
solamente un inno prolungato. Però anch'esso è proprio d'ogni nazione anche
incolta e selvaggia, massime se guerriera. E veggonsi i canti di selvaggi in
gran parte, e quelli ancora de' bardi, partecipar tanto dell'epico e del lirico,
che non si saprebbe a qual de' due generi attribuirli. Ma essi son veramente
dell'uno e dell'altro insieme; sono inni lunghi e circostanziati, di materia
guerriera per lo più; sono poemi epici indicanti il primordio, la prima natività
dell'epica dalla lirica, individui del genere epico nascente, e separantesi, ma
non separato ancora dal lirico. Il drammatico è ultimo dei tre generi, di tempo
e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà,
non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più
che per la essenza sua. La natura insegna, è vero, a contraffar la voce, le
parole, i gesti, gli atti di qualche persona; e fa che tale imitazione, ben
fatta, rechi piacere: ma essa non insegna a farla in dialogo, molto meno con
regola e con misura, anzi n'esclude la misura affatto, n'esclude affatto
l'armonia; giacchè il pregio {e il diletto} di tali
imitazioni consiste tutto nella precisa rappresentazion della cosa imitata, di
modo ch'ella sia posta sotto i sensi, e paia vederla o udirla. Il che anzi è
amico della irregolarità e disarmonia, perchè appunto è amico della verità, che
non è armonica. Oltre che la natura propone per lo più a tali imitazioni i
soggetti più disusati, fuor di regola, le bizzarrie, i ridicoli, le stravaganze,
i difetti. E tali imitazioni {naturali} poi, non sono
mai d'un avvenimento, ma d'un'azione semplicissima, voglio dir d'un atto, senza
parti, senza cagioni, mezzo, conseguenze; considerato in se solo, e per suo solo
rispetto. Dalle quali cose è manifesto che la imitazion suggerita dalla natura,
è per essenza, del tutto differente dalla drammatica. Il dramma non è proprio
delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e
dell'ozio, un trovato
4236 di persone oziose, che
vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell'ozio, inventato, come
tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall'ingegno dell'uomo, non
ispirato dalla natura, ma diretto a procacciar sollazzo a se e agli altri, e
onor sociale o utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma
non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima
figlia, e l'epica, che è sua vera nepote. - Gli altri che si chiamano generi di
poesia, si possono tutti ridurre a questi tre capi, o non sono generi distinti
per poesia, ma per metro o cosa tale estrinseca. L'elegiaco è nome di metro.
Ogni suo soggetto usitato appartiene di sua natura alla lirica; come i subbietti
lugubri, che furono spessissimo trattati dai greci {lirici,} massime antichi, in versi lirici, nei componimenti al tutto
lirici, detti θρῆνοι, {+quali furon
quelli di Simonide, assai
celebrato in tal maniera di componimenti, e quelli di Pindaro: forse anche μονῳδίαι, come quelle che di
Saffo ricorda
Suida.} Il satirico è in parte lirico, se
passionato, come l'archilocheo; in parte comico. Il didascalico, per quel che ha di vera
poesia, è lirico o epico; dove è semplicemente precettivo, non ha di poesia che
il linguaggio, {il modo} e i gesti per dir così. {ec.}
(Recanati. 15. Dic. 1826.).
[4238,4] Differenza tra le antiche e le più recenti, le prime
e le ultime, mitologie. Gl'inventori delle prime mitologie (individui o popoli)
non cercavano l'oscuro per
4239 tutto, eziandio nel
chiaro; anzi cercavano il chiaro nell'oscuro; volevano spiegare e non
mistificare e scoprire; tendevano a dichiarar colle cose sensibili quelle che
non cadono sotto i sensi, a render ragione a lor modo e meglio che potevano, di
quelle cose che l'uomo non può comprendere, o che essi non comprendevano ancora.
Gl'inventori delle ultime mitologie, i platonici, e massime gli uomini dei primi
secoli della nostra era, decisamente cercavano l'oscuro nel chiaro, volevano
spiegare le cose sensibili e intelligibili, colle non intelligibili e non
sensibili; si compiacevano delle tenebre; rendevano ragione delle cose chiare e
manifeste, con dei misteri e dei secreti. Le prime mitologie non avevano
misteri, anzi erano trovate per ispiegare, e far chiari a tutti, i misteri della
natura; le ultime sono state trovate per farci creder mistero e superiore alla
intelligenza nostra anche quello che noi tocchiamo con mano, quello dove,
altrimenti, non avremmo sospettato nessuno arcano. Quindi il diverso carattere
delle due sorti di mitologie, corrispondente al diverso carattere sì dei tempi
in cui nacquero, sì dello spirito e del fine o tendenza con cui furono create.
Le une gaie, le altre tetre ec. (Recanati 29. Dic.
1826.).
[4240,2] Chi scrivendo oggi, cerca o consegue la perfezion
dello stile, e procede secondo le sottilissime avvertenze e considerazioni
dell'arte antica intorno a questa gran parte, e secondo gli esempi perfettissimi
degli antichi, si può dir con tutta verità, che scriva solamente e propriamente
ai morti, non meno di chi scrive in latino, o di chi usasse il greco antico.
Tanto è oggi (e sarà forse in futuro) cercare {con quanto si
sia successo,} la perfezion dello stile nelle lingue vive, quanto
cercarla {ed anco trovarla} nelle morte, come facevano
molti illustri italiani del cinquecento nella latina. (2.
1827.).
[4241,3] Non so s'io m'inganno, ma certo mi par di scorgere
nella maniera {sì} di pensare e sì di scrivere del Galilei un segno e un effetto del suo
esser nobile. Quella franchezza e libertà di pensare, placida, tranquilla,
sicura, e non forzata, la stessa non disaggradevole, e nel tempo stesso decorosa
sprezzatura del suo stile, scuoprono una certa magnanimità, una fiducia ed
estimazion lodevole di se stesso, una generosità d'animo, non acquisita col
tempo e la riflessione, ma quasi ingenita, perchè avuta fin dal principio della
vita, e nata dalla considerazione {altrui} riscossa fin
da' primi anni ed abituata. Io credo che questa tale magnanimità e di pensare e
di scrivere, dico questa tale, e che non sia nè feroce, nè satirica, o mista
dell'uno e dell'altro, non si troverà facilmente in iscrittori o uomini non nati
nobili o di buon grado; se egli si guarderà bene. Vi si troverà sempre una
differenza. Simili considerazioni si potrebbero fare intorno alla ricchezza, che
suol dare allo stile un certo splendore, abbondanza, e forse scialacquo. Simili
intorno alla potenza, dignità, fortuna. Simili intorno ai contrarii. Vedi Alfieri
Vita sua, capo 1. principio. Messala nitidus et
candidus, et quodammodo prae se ferens in dicendo nobilitatem
suam.
*
Quintiliano 10. 1. (6.
1827. Epifania.). {{Forse Galileo non riusciva, come fece, il primo
riformatore della filosofia e dello spirito umano, o almeno non così libero,
se la fortuna non lo facea nascere di famiglia nobile.}}
{{V. p.
4419.}}
[4246,1]
4246 Superstiziosa imitazione e venerazione del Petrarca nel 16. secolo del che altrove
ec. pp. 2533-36
V. nelle opp. del Tasso le Opposizioni al Sonetto Spino, leggiadre rime
*
ec. e la Risposta del Tasso. (ed.
del Mauro, t. 6.).
{{V. ancora il Guidiccioni nelle Lett.
di div. eccellentiss. uom.
Ven.
Giolito.
1554. p. 43-48.}}
[4250,3] Parrebbe che tutta quella infinita cura che pose
Isocrate circa la collocazione
delle parole e la struttura della dizione, non ad altro l'avesse egli posta,
4251 fuorchè a proccurare la più perfetta, la più
squisita, la maggior possibile, la più singolare chiarezza. Questa dote non si
osserva negli altri autori che l'hanno, se non in quanto nel leggerli non si
patisce, vale a dir non si sentono impedimenti e difficoltà. In Isocrate ella si osserva, perchè non
solo non si patisce leggendolo, ma per essa si prova un certo piacere. Negli
altri ella è qualità negativa, in questo è positiva; ha un certo senso, un
sapore proprio. Quel piacere che dà in molti autori una temperata difficoltà che
si prova leggendoli, e superando facilmente quella difficoltà
ad ogni passo, quel medesimo dà nel leggere Isocrate la somma e straordinaria facilità. Par di sentirvi quel
gusto che si prova quando in buona disposizione di corpo, e volontà di far moto,
si cammina speditamente per una strada, non pur piana, ma lastricata. Io non
credo che si trovi autor così chiaro e facile in alcuna altra lingua, come è
Isocrate (e certo senza compagni)
nella greca. Esso è facilissimo anche ai principianti in quella lingua, che è
pur la più difficile (se non prevale in ciò la tedesca) di tutte le lingue del
mondo. Tanto più mirabile in questo, quanto che si sa bene con quanto studio
Isocrate cercasse gli altri pregi
della dicitura, e soprattutto fuggisse il concorso delle vocali; + [p.
4251,3] difficoltà certo {grandissima,} ed inceppamento; {come ognun
vedrebbe provandovisi;} il quale però non ha punto impedito quella
maravigliosa facilità. (7. Marzo. Mercordì di quattro tempora.
1827.).
[4255,6] Dei nostri sommi poeti, due sono stati
sfortunatissimi, Dante e il Tasso. Di ambedue abbiamo e visitiamo i
sepolcri: fuori delle patrie loro ambedue. Ma io, che ho pianto sopra quello del
Tasso, non ho sentito alcun moto
di tenerezza a quello di Dante: e così
credo che avvenga generalmente. E nondimeno non mancava in me, nè manca negli
altri, un'altissima stima, anzi ammirazione, verso Dante; maggiore forse (e ragionevolmente) che verso
l'altro. Di più, le sventure di quello furono senza dubbio reali e grandi; di
questo appena siamo certi che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie:
tanta è la scarsezza e l'oscurità delle notizie che abbiamo in questo
particolare: tanto confuso, e pieno continuamente di contraddizioni, il modo di
scriverne del medesimo Tasso. Ma noi
veggiamo in Dante un uomo d'animo forte,
d'animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; oltracciò un uomo che
contrasta e combatte con essa, colla necessità col fato. Tanto più ammirabile
certo, ma tanto meno amabile e commiserabile. Nel Tasso veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria,
soccombente, atterrato, che ha ceduto all'avversità, che soffre continuamente e
patisce oltre modo. Sieno ancora immaginarie
4256 e
vane del tutto le sue calamità; la infelicità sua certamente è reale. Anzi senza
fallo, se ben sia meno sfortunato di Dante, egli è molto più infelice.
(Recanati. 14. Marzo. 1827.). {{(Si può applicare all'epopea, drammatica ec.)}}.
[4257,5] Osservate in qualunque letteratura, antica o
moderna, quali sieno le opere più insigni e più grandi, e troverete sempre che
sono quelle che furono fatte in tempo che la nazione non aveva ancora una
letteratura; quelle che furono dagli autori immaginate e composte con tutt'altra
mira, con tutt'altro spirito (almen principale) che il desiderio di fama
letteraria (non ancora in uso, nè desiderata), o pur di altre ricompense
letterarie; il desiderio di fare una bella opera di letteratura, di arte di
scrivere. (Recanati. 17. Marzo. 1827.).
[4267,3]
Τhe ancients (to
say the least of them) had as much genius as we; they constantly applied
themselves not only to that art, but to that single branch of an art, to
which their talent was most powerfully bent; and it was the business of
their lives to correct and finish their works for posterity. If we can
pretend to have used the same industry, let us expect the same
immortality: Though, if we took the same care, we should still lie under
a farther misfortune: Τhey writ in languages that became universal and
everlasting, while ours are extremely limited both in extent and {in} duration. A mighty foundation for our pride!
when the utmost we can hope, is but to be read in one island, and to be
thrown aside at the end of an age.
*
4268
Pope
Prefazione generale alla Collezione delle sue
Opere {giovanili (Collezione pubblicata nel
1717.)} data Nov. 10. 1716.
Pope era nato del 1688.
[4294,1]
4294 La differenza tra le voci di origine volgare, e
quelle di origine puramente letteraria nelle lingue figlie della latina, si può
vedere anche in questo, che spesso una stessissima voce latina, pronunziata e
scritta in un modo nelle nostre lingue, significa una cosa; in un altro modo,
un'altra, tutta differente, {+V. qui
sotto.} P. e. causa lat., corrotta
di forma e di significato dall'uso volgare, significa res (cosa: v. la pag. 4089.); usata incorrottamente nella letteratura
e scrittura, significa, come nel buon latino, cagione.
Ed è certo che causa ital. è voce, benchè ora
volgarmente intesa, (non però usata dal volgo), di origine letteraria; poichè
nel 300 non si trova, o è così rara, che i fanatici puristi de' passati secoli
dicevano ch'ella non è buona voce toscana, ma che dee dirsi cagione, voce pure storpiata di forma e di senso dalla lat. occasio, che pur si usa poi nella sua vera forma e
senso, come una tutt'altra (occasione), benchè in
origine sia la stessa. Franc. chose - cause, Spagn. cosa - causa ec. (Firenze. 21.
Sett. 1827.). {{Leale, loyal, leal (spagn.) -
legale, légal, legal.}}