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[465,1]  Velleio II. 76. sect. 3. Adventus deinde in Italiam Antonii praeparatusque * (cioè apparatusque substantive) Caesaris contra eum, habuit belli metum: sed pax contra Brundisium composita. * Che vuol dire contra Brundisium? Gl'interpreti si storcono, e chi legge circa, chi difende la volgata. Leggete: sed pax contra Brundisii composita. Contra è avverbio. Si temeva la guerra, ma all'incontro fu fatta la pace a Brindisi. * V. però gl'istorici, e le edizioni di Velleio posteriori a quella del Burmanno seconda e postuma, Lugd. Bat. 1744. ap. Sam. Luchtmans. (2. Gen. 1821.). {{Post Brundisinam pacem * . Vel. II. 87. sect. 3.}}

[466,2]  È cosa notata e famosa presso gli antichi (non credo però gli antichissimi, ma più secoli dopo Senofonte) che Senofonte non premise nessun preambolo alla Κύρου ἀναβάσει, sebbene dal secondo libro in poi, premetta libro per libro, il Laerzio dice un proemio, ma veramente un epilogo o riassunto brevissimo delle cose dette prima. V. il Laerz. in Xenoph. Luciano, de scribenda histor. ec. E Luciano dice che molti per imitarlo non ponevano alcun proemio alle loro istorie. Ed aggiunge: {οὐκ εἰδότες ὡς} δυνάμει * (potentiâ) τινὰ προοίμιά ἐστι λεληϑότα τοὺς πολλούς * . Io qui non vedo maraviglia nessuna. Esaminate bene quell'opera: non è una storia, ma un Diario o Giornale {(si può dire, e per la massima parte militare)} di quella Spedizione. Infatti procede giorno per giorno, segnando le marce, contando le parasanghe ec. ec. infatti l'opera si chiude con una lista effettiva {o somma} dei giorni, spazi percorsi, nazioni ec. lista indipendente dal resto, per la sintassi. E di queste enumerazioni ne  467 sono sparse per tutta l'opera. Non doveva dunque avere un proemio, non essendo propriamente in forma d'opera, ma di Commentario o Memoriale, ossiano ricordi, e materiali. Chi si vuol far maraviglia di Senofonte, perchè non se la fa di Cesare? Il quale comincia i suoi Commentari de bello G.[Gallico] e C.[Civili] ex abrupto, appunto come Senofonte. E questo perchè non erano Storia ma commentari. Nè pone alcun preambolo a nessuno de' libri in cui sono divisi. Così Irzio. Eccetto {una specie di} avvertimento indirizzato a Balbo e premesso al lib. 8. de b. G. (il quale era necessario non per l'opera in se, ma per la circostanza, ch'egli n'era il continuatore) nè quel libro, nè quello de b. Alexandrino, nè quello de b. Africano, nè quello d'autore incerto de b. Hispaniensi non hanno alcun preambolo, ed entrano subito in materia.

[467,1]  Da queste osservazioni deducete 1. un'altra prova che Senofonte è il vero autore della K. A.[Κύρου ἀναβάσει] non Temistogene ec. trattandosi di un giornale, che non poteva essere scritto {o almeno abbozzato} se non in pręsentia, e dallo stesso Generale (come i commentarii di Cesare), o almeno da qualche suo intimo confidente. Questa proprietà, di essere cioè scritta da un testimonio di  468 vista, anzi dal principale attore e centro degli avvenimenti non è comune a nessun'altra {opera} storica greca, che ci rimanga, anzi a nessun'antica, fuorchè ai commentarii di Cesare. Perciò ella {è} singolarmente preziosa anche per questo capo, e propria più delle altre a darci la vera idea de' costumi, pensieri, natura degli antichi, e de' loro fatti; come le lettere di Cicerone in altro genere di scrittura, sono la più recondita e intima sorgente della storia di quei tempi. {{V. p. 519. capoverso 2.}}

[470,1]  Quello che si è detto di sopra p. 466 intorno ai proemi particolari di ciascun libro Κ. Ας.[Κύρου ᾿Ανάβασις] eccetto il primo, non è vero nel 6.to il quale non ha proemio nessuno. Se non che il capo 3. cominciando con un breve epilogo, ho creduto lungo tempo che i due capi precedenti appartenessero al 5 libro, e il sesto cominciasse col 3zo capo. E però vero che il detto epilogo non rinchiude se non le cose dette ne' due capi antecedenti, e non tutto il detto nella parte superiore dell'opera, come ciascun altro proemio premesso ai diversi libri. (3. Gen. 1821.)

[472,1]  Velleio II. 98. sect. 2. Quippe legatus Caesaris triennio cum his bellavit; gentesque ferocissimas, plurimo cum earum excidio, nunc acie, nunc expugnationibus, in pristinum pacis redegit modum; ejusque patratione, Asiae securitatem, Macedoniae pacem reddidit. * Eiusque patratione a che si riporta? Spiegano eiusque pacis patratione (così l'indice Velleiano). Ottimamente: fatta la pace, o con quella pace, rendè la pace alla Macedonia. Leggo: eiusque belli patratione, (4. Gen. 1821.), {{ovvero eiusque patratione belli. V. p. 477. capoverso 2.}}

[477,3]  Velleio I. 2. sect. 2. di Codro: Immixtusque castris hostium, de industria, imprudenter, rixam ciens,  478 interemptus est. * È vero che, secondo la storia o la favola, Codro fu ucciso imprudenter, cioè senza sapere ch'egli fosse il Re degli Ateniesi e v. il passo di Val. Mas. citato nelle note a questo luogo. Ma che razza di costruzione è questa? De industria si riferisce al rixam ciens che vien dopo l'imprudenter; l'imprudenter all'interemptus est che vien dopo il rixam ciens. Chi traspone e legge, de ind. rix. ciens, impr. inter. est. Chi emenda oltracciò, de ind., ab imprudente, {rix. ciens}, inter. est. A me pare che il luogo sia chiarissimo, la costruzione piana e facile, togliendo la virgola dopo de industria e dopo imprudenter, e trasportandola dopo hostium. Giacchè il de industria, non ha nè deve aver niente che fare coll'immixtusq. castris host. il che già s'intende ch'era fatto de industria; ma solo col rixam ciens. Ma ille imprudenter? grida il Lipsio. Signor sì, de industria imprudenter, con istudiata imprudenza, pensatamente incauto. Ed è una delle solite antitesi e giuocherelli Velleiani. Imprudenter per imprudentemente, incaute, improvide si usa benissimo da ottimi scrittori. (come imprudens, imprudentia, e così prudenter ec.) Il Forcellini cita Terenzio,  479 Nepote, Cesare. (8. Gen. 1821.).

[489,2]  Floro I. 12. Veientium {quanta} res fuerit, indicat decennis obsidio. Tunc primum hiematum sub pellibus: taxata stipendio hiberna: adactus miles sua sponte iureiurando, "nisi capta urbe remeare". Spolia de Larte Tolumnio rege ad Feretrium reportata. Denique non scalis, nec irruptione, sed cuniculo, et subterraneis dolis peractum urbis excidium. *  490 Tutto questo fa un periodo solo, e non va distinto se non colle minori interpunzioni. L'hiematum sub pellibus, il taxata hiberna, l'adactus miles, lo spolia reportata, il peractum excidium, non istanno da se, ma dipendono dal Veientium quanta res fuerit, indicat; come apparisce sì dalle cose stesse, come quello che Floro soggiunge immediatamente: Ea denique visa est praedae magnitudo, cuius decimae Apollini Pythio mitterentur: universusque populus Romanus ad direptionem urbis vocaretur. Hoc tunc Veii fuere. * Le quali parole chiudono la dimostrazione dell'{antica} grandezza e forza di Veio. V. però le ult. edizioni di Floro. (11. Gen. 1821.).

[494,2]  Floro I. 13. {ed. Manhem.} Adeo tum quoque in ultimis religio publica privatis adfectibus antecellebat. * Perchè tum quoque? Forse ne' tempi seguenti, e massime in quelli di Floro, cioè di Traiano, la religione pubblica fu più a cuor de' Romani, che ne' primi tempi di Roma? O non più tosto ella venne indebolendo a proporzione del tempo, e all'età di Floro, era, si può dire, estinta nel fatto?  495 E non solo ai Romani, ma a tutti i popoli è sempre avvenuto e avviene lo stesso. Questa era cosa confessata da tutti anche allora, e la somma religiosità dell'antica Roma era notissima e famosissima. Leggi: Adeo tum in ultimis quoque: allora anche nell'infima plebe la religione pubblica prevaleva alle affezioni private * , laddove in seguito fu tutto l'opposto. Io credo però che in ultimis l'abbiano inteso per in ultimis rebus o casibus, negli estremi frangenti, e così abbiano spiegato: Tanto anche in quel tempo, cioè nell'ultima calamità. Male. In ultimis vuol dire negl'infimi, come apparisce dalle parole di Floro che precedono. V. il Forcellini, e le ult. edizioni di Floro. {{V. p. 510. capoverso 2.}}

[495,1]  Floro I. 13. {avendo detto} che i Romani distrussero la gente dei Galli Senoni in maniera che hodie nulla Senonum vestigia supersint, * soggiunge con breve intervallo: ne quis exstaret in ea gente, quae incensam a se Romam urbem gloriaretur. * Che vada letto qui per quae non par da dubitare, e sarà già osservato. Ma e così,  496 e in ogni modo, come avea da restare alcuno in quella gente, se questa era tutta distrutta? Leggo: ex ea gente: acciò non restasse nessuno di quella gente. Chiunque ha senso o di latinità o solamente di ragione, conoscerà che la preposizione in qui non ha luogo. (12. Gen. 1821.).

[502,2]  Floro II. 15. Sed huius caussa belli * (tertii Punici) (scil. fuit), quod contra foederis legem * {(Carthago)} adversus Numidas quidem semel parasset classem et exercitum, frequens autem Masinissae fines territabat. Sed huic bono socioque regi favebatur. * Questa enallage o transizione da parasset a territabat qui non conviene. Trovo però in altre edizioni territaret. Ma di più quel quidem e quell'autem sono particelle avversative{, o disgiuntive.} Ma come ora si legge, queste particelle non possono servire, ed effettivamente non servono ad altro, che a distinguere i Numidi da Massinissa.  503 Laddove erano la stessa cosa, e contro Massinissa era stato quel preparativo di Cartagine che Floro dice contro i Numidi. V. gli storici. Leggo: Masinissa {(v. però gli Storici, se ciò è vero di lui)} e volentieri ancora trasferirei il quidem dopo semel. La cagione di questa guerra fu che contro i patti Cartagine aveva una volta preparato esercito e flotta contro i Numidi. Massinissa però frequentemente * (vedete il frequens autem opposto al semel quidem, e così mi pare che debba essere in qualunque modo si voglia intendere questo luogo, perchè l'adversus Numidas quidem che opposizione {o forza} disgiuntiva ha con frequens autem?) infestava i di lei confini. Ma * (notate quel ma, che intendendo il luogo in altro senso, non ista[istà] convenientemente) i Romani favorivano questo buono e alleato principe. * (14. Gen. 1821.).

[509,1]  Il Petrarca nella canzone Italia mia.
Ed è questo del seme,
Per più dolor, del popol senza legge
Al qual, come si legge,
Mario aperse sì 'l fianco,
Che memoria de l'opra anco non langue,
Quando assetato e stanco,
Non più bevve del fiume acqua che sangue.
*

[511,2]  In questi luoghi di Floro: Postquam rogationis dies aderat, ingenti stipatus agmine * (Tib. Gracchus) rostra conscendit: nec deerat obvia manu tota inde * (e non ha detto, nè anche accennato da che luogo) nobilitas, et tribuni in partibus * (III. 14.): e: Quum se in Aventinum recepisset * {(C. Gracchus)}, inde quoque obvia Senatus manu, ab Opimio consule oppressus est * (III. 15.) l'inde non par che si possa intendere se non per ibi {o illuc, eo, ec.} E in questo senso si può paragonare l'uso di questa particella fatto da Floro, a quello che i nostri antichi fecero dell'onde, quinci, quindi V. la Crusca. {e allo spagnuolo donde che val sempre dove.} E bisogna notare che in questo senso Floro congiunge la particella inde col nome obvius. E non perciò pare che significhi, o possa significare moto da luogo, ma stato, o moto a luogo. (come gli antichi italiani, onde vai, per dove vai) Quo loco inter  512 se obvii fuissent. * Sallust. Cui mater media se se tulit obvia silvâ. * Virgil. Questi esempi recati dal Forcellini fanno per l'uso di obvius in luogo. Esempi di obvius unito a particelle o casi che indichino moto da luogo, non ne ha nè il Forcellini, nè l'Appendice, e in ogni modo qui non par che farebbero al caso. Neanche ne hanno di obvius con particelle o casi indicãti[indicanti] moto a luogo, come illuc obvius, ovvero eo obvius, ovvero ad eum obvius o simili. Solamente questo di Virgilio: Audeo Tyrrhenos equites ire obvia contra. * Del resto obvius negli esempi del Forcellini è assoluto, o unito al solito col dativo: obvius illi, mihi, ec. Nè alla voce inde nè alla voce unde, il Forcellini o l'Appendice non hanno questi luoghi di Floro, nè altro esempio o cenno veruno nè pur lontano di questo significato. (16. Gen. 1821.). {+V. pur nella Crusca altronde per altrove, ed aggiungi questo esempio di Bernardino Baldi egloga 10. Melibea, verso il fine, (Versi e prose di Mons. Bern. Baldi. Venetia 1590. p 204.) Fuggiam fuggiamo altronde, Ch'a noi sen vien a volo Di vespe horrido stuolo, E sotto aurato manto il ferro asconde. * V. nel Forc. aliunde in un esempio per alibi. V. pure il Dufresne in inde, unde, aliunde, alicunde ec. se ha nulla al caso. V. p. 1421.}

[523,2]  Floro IV. 6. Quid contra duos exercitus necesse fuit venire in cruentissimi foederis societatem? * Trasponete l'interrogativo dopo exercitus. Così vuole il contesto, e anche la semplice osservazione di questo passo, perch'io non so come il venire in foederis societatem con due eserciti (di Antonio e di Lepido), s'abbia da poter dire contra duos exercitus. V. le ult. edizioni di Floro. (18. Gen. 1821.).

[525,1]  Sane quod Poematis delectari se ait, id  526 non abhorret ab huius compendii scriptore, quando stylus eius est in historia declamatorius, ac Poetico propior, adeo ut etiam hemistichia Virgilii profundat * : dice G. G. Vossio di Floro. (de Historic. latt. l. 1.) Nel lib. 4. c. 11. dove Floro dice di Antonio il triumviro: patriae, nominis, togae, fascium oblitus, * pare che questa sia un'imitazione di Orazio: (Od. 5. l. 3. v. 10.)
Anciliorum, nominis et togae
oblitus aeternaeque Vestae.
*
(18. Gen. 1821). {{v. p. 723. fine.}}

[597,1]  Stupeo, o stupesco, stupefacio, stupefio, stupidus, ec. coi composti, non solo si sono conservati materialmente nel verbo stupire, stupefare, stupidire ec. ec. ma se ben questi sono restati nella nostra lingua seccamente e nudamente, e senza il significato etimologico (che vuol dire, diventar di stoppa), come infinite altre parole delle quali resta {quasi} il corpo e non l'anima, tuttavia la nostra lingua conserva ancora per altra parte quella prima metafora, diventar di stoppa, e l'usa familiarmente per istupire ec. sebbene non sia registrata nella Crusca. (1. Feb. 1821.).

[601,2]  Cic. Cato mai. seu de Senect. c. 23. Et ex vita ita discedo, tanquam ex hospitio, non tanquam ex domo. * Il contesto vuol che si legga: At ex vita.

[683,2]  Nardi ec. l. cit. qui sopra p. 83. di quelle doti e di quelle virtù che o per natura o per instituto e lezione tutte furono sue. * Che ha da far qui la lezione? oltre che lo stesso Nardi p. 102. dice ch'egli non aveva dato opera alle scienze. Leggi ed elezione, opposto a natura. Ma v. l'altra edizione del 1597. Firenze, Sermartelli. in 4o. (23. Feb. 1821.).

[684,1]   684 Lorenzo de' Medici, Apologia ec. nel fine: non mi sarebbe tanta fatica. * Leggi stata. L'errore è nell'edizione di Lucca per Francesco Bertini dietro il Nardi, Vita del Giacomini, p. ult. 136. Non so delle altre stampe.

[703,1]  Ivi, p. 37. Suavissima riputo e verissima la sentenza che c'insegna li costumi de' soggetti andar sempre dietro all'usanze de' dominatori. * Leggi savissima. (27. Feb. 1821.).

[1165,3]  Quante controversie sul significato di quelle parole di Orazio intorno a Cleopatra vinta nella battaglia Aziaca: (Od. 37. lib. 1. v. 23. seq.)
Nec latentes
Classe cita reparavit oras! *


 1166 V. il Forcellini e i comentatori. E nessuno l'ha bene inteso. Acrone: Nec latentes Classe cita reparavit oras: fines regni latentes: id est non colligit denuo exercitum ex intimis regni partibus. * Porfirione altro antico Scoliaste: Nec latentes C. c. r. oras: hoc est: Nec fugit in latentes, id est intimas Aegypti regiones ut vires inde repararet. * Nè mai s'intenderà e spiegherà perfettamente senza l'antico italiano, il quale c'insegna un significato del verbo reparare che non è conosciuto ai Lessicografi latini. Ed è quello di ricoverarsi, nel qual senso i nostri antichi dicevano, ed ancor noi possiamo dire, riparare o ripararsi a un luogo o in un luogo. Orazio dunque vuol dire, e dice espressamente: Non si ricoverò, non rifuggì alle recondite, alle riposte parti d'Egitto. Come se in luogo di reparavit avesse detto petiit, ma reparavit ha maggior forza di esprimere la fuga e il timore. (14. Giugno 1821.).

[1421,1]  {Alla p. 512. marg.} Ancor noi oltre ove ch'è ubi, abbiamo pur dove che vale il medesimo, ma è quasi de ubi, cioè unde. Siccome gli spagnuoli per ubi dicono donde {(e adonde)} che è quasi de unde. E noi pure oltre onde cioè unde, abbiamo donde, che per altro vale, non ubi, ma unde. (31. Luglio 1821.).

[1533,1]  Chi non crederebbe che il significato francese della parola genio non fosse al tutto  1534 moderno? Eppure nel seg. passo di Sidonio (Panegyr. ad Anthem. v. 190. seqq.) io non so in qual altro senso, che in questo o simile, si possa intendere.
Qua Crispus brevitate placet, quo pondere Varro,
Quo genio Plautus, quo fulmine
*
{#(a) altri meglio, flumine} Quintilianus,
Qua pompa Tacitus numquam sine laude loquendus. *

Se pur non volesse dire piacevolezza, e una cosa simile a quella che esprime talvolta l'italiano genio, e in questo senso pure non si troverebbe presso gli antichi scrittori. V. però il Forcell. e il Ducange. (20. Agos. 1821.).

[2470,1]  Proma voce latina, feminino {sustantivo} di promus, è da aggiungersi al Lessico e all'Appendice del Forcellini. {Il Forcellini dice: Promus i, m. * (cioè mascolino) semplicemente, e non ha esempi del feminino, se non uno in aggettivo.} Sta in un frammento del libro primo OEconomicorũ di Cicerone, portato da Columella, e nella mia edizione di Senofonte (Lipsiae 1804, cura Car. Aug. Thieme, ad recensionem Wellsianam) t. 4. p. 407. Vi si legge haec primo tradidimus. * Errore. Leggi promae. Corrisponde  2471 al τῇ ταμίᾳ di Senofonte Οἰκονομικοῦ c. 9. art. 10. ταῦτα δὲ τῇ ταμίᾳ παρεδώκαμεν. * E che anche Cicerone l'abbia detto in femminino, e non v. g. promo, apparisce da quel che segue: eamque admonuimus etc. * {{, cioè promam. Questo errore è anche nella mia edizione di Columella l. 12. c. 3. (forte al. 4.) dov'è portato il detto passo. (10. Giugno 1822.).}}

[2565,2]  Ho notato pp. 510-11, mi pare, in Floro, il quoque messo innanzi alla voce da cui dipende. Vedilo similmente nella Volgata Gen. 12. v. 8. confrontando questo versetto col precedente. (12. Luglio 1822.).

[2663,4]  In un luogo di Lucilio portato da Cic. nell'Oratore num. 149. leggi Aptae pavimento per Arte. Vero è che la sillaba seconda del verso precedente è breve. (10. Gen. 1823.).

[2775,1]  2. Molte radici {+(o primitive o secondarie)} di vocaboli greci che non si trovano nel greco, o non sono in uso, {quantunque lo fossero già,} si conservano nel latino, e sono usitate. Può servir d'esempio la voce do, radice del verbo δίδωμι, il quale non è nè anomalo nè difettivo come ho detto di sopra. Ma δίδωμι è veramente lo stesso do (non un suo derivato) alterato, {cioè} duplicato ed inflesso alla maniera greca. ῾Aρπάζω si è un vero derivato di ἅρπω, il quale però non si trova ne' greci, o è rarissimo e solamente poetico. Ben si trova il suo participio fem. sostantivato ἅρπυιαι, che nella 2.da iscrizione triopea, è  2776 adoperato in forma aggettiva. I latini hanno rapio, che per metatesi è appunto il tema ἅρπω. Nello Scapula trovo senza esempio ἁρπῶ ed ἁρπῶμαι. Questo sarebbe contrazione di ἁρπάω (v. Schrevel. in ἁρπω), del quale ἁρπάζω non sarebbe un derivato ma quasi un'inflessione, come da πειράω, πειράζω. Ma di ἁρπάω non può venire ἅρπυιαι, bensì ἁρπηκυῖαι o ἡρπηκυῖαι. {{V. p. 2786.}}

[2865,1]  Altronde per altrove (del che ho detto, se non erro, parlando {di un luogo di Floro p. 511, e} dello spagn. donde, cioè unde, detto, come ora si dice, per ubi) trovasi in Giusto de' Conti Son. 22. e Canz. 2. st. ult. in Angelo di Costanzo son. 44. e in molti altri, sì esso, come onde o donde per dove {ec.} massime ne' trecentisti, in alcuno de' quali espressamente mi ricordo di aver trovato uno o più di tali esempi ultimamente. E v. la Crusca in altronde §. 2. ec. (30. Giugno 1823.).

[2890,2]  Ho detto altrove che presso Omero il nome ἦμαρ serve a una perifrasi, come βία, in modo che per se stesso non vuol dir nulla, ma significa quello che occorre unitamente al nome col quale è congiunto; p. e. νόστιμον ἧμαρ, il dì del ritorno, vuol dire il ritorno e non  2891 altro. Più esempi di quest'uso d'Omero vedili nell'Index vocabulorum Homeri del Sebero, in ἧμαρ αἴσιμον. (5. Luglio 1823.). {{V. p. 2995, 2.}}

[2786,1]  Alla p. 2776. La voce ἁρπυῖαι properispómena può benissimo essere un {antico} participio di un verbo ἅρπω {+(v. la p. 2826, marg.)} come εἰκυῖα di εἴκω, εἰδυῖα di εἴδω per sincope di εἰδηκυῖα, da εἴδα sincope di εἴδηκα. Non così di ἁρπάω al quale non può in nessun modo appartenere. {Altri vogliono, ed è verisimile, che εἰδώς, ἑστώς, βεβώς {ec.} sieno participi preteriti perfetti medii. V. p. 2975. e lo Scapula in Mέλει.} Che se i grammatici fanno questa voce ἁρπυῖαι proparossítona, scrivendo ἅρπυιαι, 1. non tutti così fanno, e v. Schrevel. e Forcell. in Harpyiae: 2. può ben essere che questa voce sia proparossítona ne' due luoghi dell'odissea, e in quello della teogonia, {(v. 267.)} ne' quali è usurpata per antonomasia, come vuole il Visconti che sia nell'odissea, o per nome appellativo, come è nella Teogonia: perciocchè perduta la sua forma e significazione di participio, e ridotta a sostantivo,  2787 e mutato uso, condizione e significato, non è maraviglia ch'esso muti l'accentazione come accade in altre mille parole. Ma tale ancora, ella si riconosce per un participio femminino, il quale non può venire se non da ἅρπω parossítono, e non da ἁρπῶ, nè da ἁρπάω nè da ἁρπάζω, e il cui mascolino sarebbe ἁρπώς. E nel luogo delle iscrizioni triopee, dov'ella è aggettivo, io son d'opinione che vada scritta properispómena. Non so come la scriva il Visconti: {la lapide non ha accenti.} 3. Ognun sa che in queste materie degli accenti, come {in} tante altre, non è da prestar gran fede ai grammatici che abbiamo, benchè greci, e ch'essi sono stati corretti cento volte dagli eruditi moderni colla più accurata osservazione dell'antichità; delle origini, delle derivazioni, delle analogie, della ragion grammaticale della lingua greca. E se ciò accade anche nelle cose che appartengono alla lingua di Tucidide o di Platone, quanto minor forza avrà un'obbiezione  2788 fondata sull'autorità di sempre recenti e semibarbari e poco dotti grammatici in materie così antiche, come è questa; nella quale poi in particolare, i grammatici, secondo il Visconti, errarono nella stessa significazione della parola, pigliando per démoni alati, per tempeste, procelle, venti ec. (v. lo Scapula e il Tusano) quelle che, secondo il Visconti, non erano altro che le Parche.

[2918,1]  Da quello che ho detto p. 2789-90. si rileva che il nostro aggettivo ratto, non è se non il participio raptus, e che questo dovette essere usato dagli antichi latini e volgarmente, in senso di veloce, come ratto fra noi. Perocchè dire che questo sia nato dall'avverbio italiano ratto, e quest'avverbio da raptim, onde ratto per veloce venga da raptim è derivazione o formazione priva d'ogni esempio. E per lo contrario è certissimo che ratto avverbio viene da ratto aggettivo, anzi è lo stesso aggettivo neutralmente e avverbialmente posto, il che è proprietà ed uso della nostra lingua di fare, come alto, forte, (anche i francesi fort avverbio e aggettivo) presto, tosto, {piano} e mill'altri, per altamente ec. Anzi è in libertà dello scrittore o parlatore italiano di far così de' nuovi avverbi dagli aggettivi,  2919 non già viceversa. V. il Forcell. in Rapio col. 1. fine, Rapto fine, Raptus l'esempio di Claudiano. Gli spagnuoli similmente hanno p. e. demasiado avv. e aggett. ec. (8. Luglio 1823.).

[3262,3]  Movere neutro, o in forma ellittica per movere se o movere castra, come tra noi muovere  3263 neutro o ellittico (e così trarre), del che mi sembra avere altrove notato un esempio di Floro pp. 501-502, vedilo appo Svetonio, in Divo Iulio, Cap. 61 §. 1. e quivi le note degli eruditi. Vedi pure, se ti piace, a questo proposito il Poliziano Stanze I. 22. dove troverai muovere neutro, senza l'accompagnamento del sesto caso, come {ancora} in latino. (25. Agos. dì di S. Bartolomeo. 1823.)

[3430,1]   3430 Altronde per altrove, e indi fors'anche quasi ivi o colà, delle quali cose ho detto altrove pp. 511-12 p. 1421 p. 2865. Vedi Petrarca Son. Io sentia dentr'al cor già venir meno * . (15. Sett. 1823.)

[4009,3]  Diminutivi greci positivati. οἰκίον per οἶκος ed οἰκία. Notisi ch'egli è antichissimo, perchè proprio di Omero. O forse degl'ioni, massime antichi. Arriano imitatore di questi l'usa nell'Indica 29. 16, 30. 9. Lo Scap. non cita che Omero. È positivato anche presso Arriano. (7. Gen. 1824.). Lo stesso discorso o dell'antichità o del dialetto ionico, massime antico, si può fare intorno al diminutivo positivato προβάτιον, ch'è d'Ippocrate, o di chi altro è l'autore del libro ec., e di cui altrove p. 4002. La quale osservazione unita con questa della voce οἰκίον, e coll'altre che si potranno fare, può dar luogo a buone conghietture circa l'uso de' diminutivi positivati nell'antico greco o ionico ec. (7. Gen. 1824.) πλημμυρίς ίδος. ϕυκίον. (7. Gen. 1824.).

[4154,2]  Eschine, Dialogo 3. Assioco, sezione 8. parlando dei mali della vita nelle diverse età: καὶ τοῖς * (rispetto, appetto a) ὕστερον χαλεποῖς ἐϕάνη τὰ πρῶτα παιδικὰ, καὶ νηπίων ὡς ἀληϑῶς ϕόβητρα. * Il Wolfio stampò χαλεποῖς παραβαλλόμενα ἐϕάνη * , e disse che in vece di παραβαλλόμενα * si poteva anche supplire συγκρινόμενα * o ἀντεξεταζόμενα * . Il Fischer, not. 52. ed. Lips. (Aeschin. Socrat. Diall. tres) 1766. non approva il Wolfio, e dice nam Dativus ille quidni pendere a verbo ἐϕάνη possit * ? Fatto è che questo è un italianismo, cioè il dativo solo in vece di rispetto o appetto a. V. Forcell. in ad se ha nulla a proposito. (Bologna. 1825. 22. Nov.).

[4162,8]  Onde per dove, quo. Petr. Son. Occhi piangete * , v. 6. (Bologna 1. del 1826.).

[4122,17]  Altro per alcuna cosa o per nulla in senso di aliquid. V. la Crus. in Altro §. 1. e Bocc. 30. Nov. scelte Ven. 1770. p. 173. principio. (18. Dic. 1824.).

[4163,5]  Παραϕυλακτέον δὲ * (cavendum) καὶ τὸ παραλλήλους τιϑέναι τὰς πτώσεις * (pares casus) ἐπὶ διαϕόρων προσώπων∙ ἀμϕίβολον * (anceps, dubium) γὰρ γίνεται τὸ ἐπὶ τίνα ϕέρεσθαι, * a chi riferire i detti casi. Τheo sophist. Progymnasm. 2. hoc est de narrat. ed. Basileae 1541. p. 36. L'infinito usato in modo affatto italiano. (Bologna. 24. Gen. 1826.). {{V. p. seg. capoverso 3.}}

[4223,1]  Ora, benchè il nostro rettorico abbia appena osservata e accennata di scorcio la vera causa, non si può negare che questa non sia una bella osservazioncella. E questa è forse quanto di buono o di notabile v'ha nel suo libro. (Bolog. 17. Ott. 1826.). {{v. p. 4224.}}