[2525,1]
2525
Alla p. 2516. marg.
fine - e sempre scrisse (il Caro) nella propria lingua del suo secolo, non del trecento, e della
sua nazione, non di sola Firenze. Or vedasi nell'esempio
del Caro
{non Fiorentino,} come era bella {e
graziosa} questa lingua
nazionale del cinquecento,
ch'allora si disprezzava, e diceva il Salviati che bisognava scordarsene e lavarsene gli orecchi, nè più nè
meno di quello che ci dicano oggi della nostra moderna. Certo è che nessun
Fiorentino nè del trecento nè del 500 nè d'altro secolo scrisse mai così
leggiadramente e perfettamente come scrisse il Caro
{Marchegiano e di piccola terra,} tanto le cose
studiate, quanto le non istudiate; vero apice della prosa italiana, e che anche
oggidì, letto o bene imitato, è fresco e lontanissimo dall'affettazione la più
menoma, come s'oggi appunto scrivesse. E notate che il Caro, tutto quello che scrisse, ebbe poco tempo di
studiarlo, lasciando star le lettere, {familiari,} ch'egli scriveva anzi di malissima voglia,
come dice
2526 spessissimo, e dice ancora: E delle mie (lettere) private io n'ho fatto molto poche che mi sia
messo per farle
*
(cioè con istudio), e di pochissime ho tenuta
copia
*
(lett. 180.
vol. 2. al Varchi.) Dal che
si vede che quello stile e quella lingua gli erano naturali, e sue proprie, non
altrui, cioè {proprie} del suo secolo e della sua
nazione, benchè da lui modificate secondo il suo gusto, e benchè si professi
molto obbligato {nella lingua} a
Firenze
scrivendo al Fiorentino Salviati. (lett. ult. cioè 265. fine, vol.
2.).
Vedi ancora quel ch'egli dice del
poco studio e impegno con cui tradusse l'Eneide,
la
Rettor. d'Aristot.
le Oraz. del Nazianz. Tutte opere, che
siccome le lettere familiari (e forse queste anche più della
Rettor. e delle Oraz.) ci riescono {pur contuttociò} di squisita e quasi inimitabile
eleganza. (29. Giugno, dì di S. Pietro. 1822.)
[2533,1] 1. La maggior fama degli scrittori del 500 fu a quei
tempi, come verseggiatori, e specialmente lirici, e questi ognun sa ch'erano
servili imitatori del Petrarca, e quindi
del 300, e si veda nell'Apologia del Caro, la misera presunzione ch'avevano di scrivere
come il Petrarca, e che non s'avessero a
usar parole o modi non usati da lui, come anche nelle prose volevano restringer
la lingua a quella sola del Boccaccio, e
siamo pur lì. Certo è, nè per chiunque è pratico dello spirito che governava la
repubblica nostra letteraria nel 500, è bisogno di molte parole a dimostrargli,
che l'apice della letteratura, e quello a cui nondimeno aspiravano
2534 tanto gl'infimi quanto i sommi, era la lirica
Petrarchesca, cioè 300istica, e non 500istica. E gli scrittori più grandi in
ogni altro genere o prosaico o poetico, divenivano famosi principalmente pe'
loro sonetti e canzoni petrarchesche che si divulgavano come un lampo per
l'italia, si trascrivevano subito, si domandavano,
erano il trattenimento delle Dame, e queste ne chiedevano ai letterati, e i
letterati se ne chiedevano scambievolmente, e ne ricevevano e restituivano con
proposte e risposte ec. E senza questi versi difficilmente s'arrivava alla
riputazion di letterato. Osservate, per non allontanarmi dall'esempio più volte
addotto, il Caro, le cui rime sono la
sola cosa che di lui non si legga più. Aveva il Caro grandissima fama, ma dalle sue lettere vedrete
che questa riposava essenzialmente e soprattutto nell'opinion ch'egli avea di
poeta (che nol fu mai), e
2535 tutto il restante suo
merito letterario, s'aveva in lui, come in tutti gli altri, per mero accessorio.
E fu stimato gran poeta, non già per l'Eneide,
{+ch'oggi s'ammira, e si
ristampa,} ch'è scritta in istile e lingua propria del suo tempo,
benchè abbellita al suo modo, e arricchita di latinismi. Questa fu opera postuma
e non levò molto grido nel 500. Il Caro fu creduto un sommo letterato perchè sapeva rimare alla
Petrarchesca, e giudicar di tali pretese poesie. E la sua famosa
Canzone fu strabocchevolmente ammirata (ed oggi non s'arriva
a poterla legger tutta) perchè si disse che il Petrarca non l'avrebbe scritta altrimenti. (Caro, Apolog. p.
18.). E chi non sa l'inferno che cagionò in
italia, e come nella disputa di quell'impiccio
petrarchesco ci prese parte tutta la nazion letterata, considerandola come affar
di tutta la letteratura? Fatto sta che le maravigliose prose del Caro, benchè stimate,
2536 non furono già ammirate nel 500 (quanto alla
lingua). Ed è certo che la lingua del Caro, come l'immaginazione e l'ingegno di Dante, son venute principalmente in onore, e riposte
nel sommo luogo che meritano, in questo e sulla fine del passato secolo. Il che,
di Dante, si vede anche fra gli
stranieri. E quanto a lui, ciò si deve al perfezionamento de' lumi, e del gusto,
e della filosofia, e della teoria dell'arti, e del sentimento del vero bello.
Quanto al Caro, ciò viene in gran
parte da circostanze materiali.
[2836,2] Ho mostrato altrove p. 1808
p. 2640 che i poeti e gli scrittori primitivi {di
qualunque lingua} non potevano mai essere eleganti {quanto alla lingua,} mancando loro la {principal} materia di questa eleganza, che sono le parole e modi
rimoti dall'uso comune, i quali ancora non esistevano nella lingua, perchè
scrittori e poeti non v'erano stati, da' quali si potessero torre, e i quali
conservassero quelle parole e modi che già furono in uso. Onde {quando una lingua comincia}
{ad essere scritta,} tanto esiste della lingua quanto è
nell'uso comune: tutto quello che già fu in uso, e che poi ne cadde, è
dimenticato, non avendovi avuto chi lo conservasse, il che fanno gli scrittori,
che ancora non vi sono stati. Togliere più che tante parole o forme da quella
lingua la cui letteratura serve di modello alla nuova (come gl'italiani
avrebbero potuto fare dalla lingua latina), è pericoloso in quei principii molto
più che nel séguito (contro quello che si stimano i pedanti), anzi non si può,
perchè quando nasce la letteratura
2837 di una nazione,
questa nazione è naturalmente ignorante, e però lo scrittore o il poeta, così
facendo, non sarebbe inteso, e la letteratura non prenderebbe piede, non si
propagherebbe mai, non crescerebbe, non diverrebbe mai nazionale.
{Di più, il poeta sembrerebbe affettato. Vedi in
questo proposito la p.
3015.} Questo medesimo vale anche per le parole
della stessa lingua, rimote più che tanto dall'uso comune, sia per disuso
(seppur lo scrittore stesso o il poeta avesse modo di conoscerle, mancando {fin allora} gli scrittori), sia per qualsivoglia altra
cagione. Bisogna considerare che la nazione in quel tempo è ignorante, e non
istudia, e non leggerebbe quella scrittura o quel poema, benchè scritto in
volgare, le cui parole o modi non fossero alla sua portata, o egli non potesse
capirli senza studiarvi sopra. E poca difficoltà, poca ricercatezza di parole o
di forme basta ad eccedere la capacità de' totalmente ignoranti, quali sono
allora quasi tutti, e degli a tutt'altro avvezzi che allo studio. Ho dunque
detto altrove p. 70
pp. 1808-11
pp. 2639-40 che i poeti e scrittori primitivi tutti o quasi tutti, e
sempre o per lo più, sì nella lingua sì nello stile, tirano al familiare. E
questo viene, sì per adattarsi alla capacità della nazione, sì perchè mancando
loro, come s'è detto, la principal materia dell'
2838
eleganza di lingua, sono costretti a pigliare una lingua domestica e rimessa, e
non volendo che questa ripugni e disconvenga allo stile, sono altresì costretti
di tenere anche questo, per così dire, a mezz'aria, e di familiarizzarlo. Onde
accade che questi tali poeti e scrittori sappiano di familiare anche ai posteri,
quando le loro parole e forme, già divenute abbastanza lontane dall'uso comune,
hanno pure acquistato quel che bisogna ad essere elegantissime, perlochè già
elle come tali s'adoprano dagli scrittori e poeti della nazione, ne' più alti
stili. Ma non essendo elle ancora eleganti a' tempi di que' poeti e scrittori,
questi dovettero assumere un tuono e uno stile adattato a parole non eleganti, e
un'aria, una maniera, nel totale, domestica e familiare, le quali cose ancora
restano, e queste qualità ancora si sentono, come nel Petrarca, benchè l'eleganza sia sopravvenuta alle loro
parole e a' loro modi che non l'avevano, com'è sopravvenuta, e somma, a quei del
Petrarca. Queste considerazioni si
possono fare, e questi effetti si scorgono, massimamente ne' poeti, non solo
perchè gli scrittori primitivi di una lingua e i fondatori di una letteratura
2839 sono per lo più poeti, ma perchè mancando ad
essi la detta materia dell'eleganza niente meno che a' prosatori, questa
mancanza e lo stile familiare che ne risulta è molto più sensibile in essi che
nella prosa, la quale non ha bisogno di voci o frasi molto rimote dall'uso
comune per esser elegante di quella eleganza che le conviene, e deve sempre
tener qualche poco del familiare. Quindi avviene che lo stile del Boccaccio, benchè familiare anch'esso,
massime ad ora ad ora, pur ci sa meno meno familiare, e ci rende più il senso
dell'eleganza e della squisitezza che quello del Petrarca, e dimostra meno sprezzatura, ch'è però nel
Petrarca bellissima. Così è: la
condizione del poeta e del prosatore in quel tempo, quanto ai materiali che si
trovano aver nella lingua, è la stessa (a differenza de' tempi nostri che
abbiamo appoco appoco acquistato un linguaggio poetico tutto distinto): il
prosatore si trova dunque aver poco meno del suo bisogno, e quasi anche tanto
che gli basti a una certa eleganza: il poeta che non si trova aver niente di
più, bisogna che si contenti di uno stile e di una maniera che si accosti alla
prosa. Ed infatti è benissimo definita
2840 la
familiarità che si sente ne' poeti primitivi, dicendo che il loro stile, senza
essere però basso, perchè tutto in loro è ben proporzionato e corrispondente,
tiene della prosa. Come fa l'Eneida del Caro, che quantunque non sia poema
primitivo, pure essendo stato {quasi} un primo tentame
di poema eroico in questa lingua, che ancora non n'era creduta capace, com'esso
medesimo scrive, può dirsi primitivo in certo modo nel genere e nello stile
eroico.

[3062,3]
Altri due italianismi veggansi in Fedro II. 5. v. 25., e 6. v. 4. -
Desbillons loc. cit. p. LXIV
e LXV.
E notinsi i luoghi di Varrone il quale parla del latino illustre.
{+Altro eziandio III. 6. v. 5. - Desbill. p. LXXI.} Ma Fedro seguiva o s'appressava in molte cose al latino
volgare. Quindi è ch'ha delle frasi tutte sue, cioè che non si trovano negli
altri autori latini, e che sono sembrate non latino. Vedi il Desbillons p. XXII-VI. e gli altri che trattano della sua
latinità. Niuno de' quali, io credo, ha osservato la vera cagione della
differenza di questa latinità dalla più nota. Tutti gli scrittori latini {(anche antichi e veri classici)} che hanno del familiare
nello stile, come, oltre i Comici, Celso (che s'accosta molto a Fedro quanto può un prosatore a un poeta, e che fu pur creduto non
appartenere al secolo d'oro) e
3063 lo stesso Cesare, inclinando per conseg. più degli
altri al {linguaggio} volgare, (benchè moderatamente e
con grazia, come molti degl'italiani, p. e. il Caro), si accostano eziandio più degli altri
all'andamento, sapore ec. {e alle frasi, voci o
significazioni ec.} dell'italiano. Così pure fa Ovidio fino a un certo segno, ma per altra ragione,
cioè per la negligenza e fretta che non gli permetteva di ripulire bastantemente
il suo linguaggio, di dargli dovunque il debito splendore, nobiltà ec.; di
tenersi sempre lontano dalla favella usuale: insomma perchè non sapeva o non
curava di scrivere perfettamente bene, e si lasciava trasportare dalla sua vena
e copia, con poco uso della lima, siccome per lo stile, così per la lingua.
(29. Luglio. 1823.)
[3413,1]
3413
Alla p. 2841.
Sperone Speroni nell'Orazione in morte del Cardinal Bembo, quinta
delle Orazioni sue stampate in
Ven. 1596. pag. 144-5 poco innanzi il mezzo
dell'orazione suddetta.. I
medesimi verbi colla stessa construtione
*
(p. 145.)
usa il volgar
poeta,
*
(il poeta italiano) che suole usar l'oratore; onde non pur è lunge da
quell'errore, ove spesse fiate veggiamo incorrere i Greci, et
qualche volta i Latini, cioè a dire, che egli si paia di favellare
in un'altra lingua, che non è quella dell'oratore; anzi i più lodati
Toscani all'hora sperano di parlar bene nelle lor prose, et par quasi, che sene vantino, quando al modo, che
da' Poeti è tenuto hanno affettato di ragionare. Et chi questo non
crede, vada egli a leggere il Decameron del Boccaccio, terzo lume di questa
lingua, et troveravvi per entro cento versi di Dante così intieri, come li fece la sua
comedia.
*
{#1. V. p. 3561.} Non parrebbe da queste parole che
l'italia non avesse lingua propriamente
3414 poetica, o certo ben poco distinta dalla prosaica?
E non è d'altronde manifesto ch'ella ha una lingua poetica più distinta dalla
prosaica che non è quella di forse niun'altra lingua vivente, e certo più che
non è quella de' Latini, in quanto si vede che noi, imparato che abbiamo ad
intendere la prosa latina, intendiamo con poco più studio la poesia, {+(lo studio che ci vuole, e il divario tra
il linguaggio della poesia latina e
della prosa, consiste principalmente nella diversità di molta parte delle
trasposizioni, ossia nell'ordine e costruzione delle parole, ch'in parte è
diversa)} ma uno straniero non perciò ch'egli ottimamente intendesse
la nostra moderna lingua prosaica, intenderebbe senza molto apposito studio la
poetica? Tant'è. Nello stesso cinquecento, l'italia non
aveva ancora una lingua che fosse formalmente poetica, cioè la diversità del
linguaggio tra i poeti e gli oratori, non era per anche se non lieve, e male o
insufficientemente determinata. Gli scrittori prosaici che componevano con
istudio e con presunzione di bello stile, si accostavano alla lingua del Boccaccio e de' trecentisti, e questa era
similissima alla lingua poetica, perchè la lingua poetica del 300. era quasi una
colla prosaica. Gli scrittori poetici che scostandosi dalla lingua del 300,
volevano
3415 accostarsi a quella del loro secolo,
davano in uno stile familiare, bellissimo bensì, ma poco diverso da quel della
prosa. Testimonio l'Orlando dell'Ariosto e l'Eneide del Caro, i quali, a quello togliendo le
rime, a questa la misura {+(oltre le
immagini e la qualità de' concetti ec.)} in che eccedono o di che
mancano che non sieno una bellissima ed elegantissima prosa? E paragonando il
poema del Tasso (scritto nella {{propria}} lingua del suo tempo) colle prose eleganti di
quell'età, poco divario vi si potrà scoprire quanto alla lingua. Di più i poeti
italiani del 500. furono soliti (massime i lirici, che sono i più) di modellarsi
sullo stile di Petrarca e di Dante. Il carattere di questo stile {riuscì ed è} necessariamente familiare, come ho detto
altrove pp. 1808-10
pp.
2542-44
pp. 2639-42
pp. 2836-41. Seguendo
questo carattere, o che i poeti del 500 l'esprimessero nella stessa lingua di
que' due, come moltissimi faceano, o nella lingua del 500, come altri; doveano
necessariamente dare al loro stile un carattere di familiare e poco diverso da
quel della prosa. E così generalmente accadde. (Il linguaggio del Casa non è familiare, ed è molto
3416 più distinto dal prosaico, e così il suo stile.
Ciò perchè ne' suoi versi egli non si propose il carattere nè del Petrarca nè di Dante, ma un suo proprio. E quindi quanto il carattere
del suo linguaggio e stile poetico è distinto da quel della prosa, tanto egli è
ancora diverso da quello {+del linguaggio
e stile} sì di Dante e Petrarca, sì degli altri lirici, e poeti
quali si vogliano, del suo tempo.). La Coltivazione, le Api ec. sono {ben sovente}
bella prosa misurata {+quanto al
linguaggio, ed allo stile eziandio: e ciò quantunque l'uno e l'altro poema
sieno imitazioni, e l'Api nient'altro quasi che traduzione,
delle georgiche, il
capo d'opera dello stile il più poetico e il più separato dal familiare, dal
volgo, dal prosaico. Similmente si può discorrere dell'Eneide del Caro.}
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