Petrarca.
Petrarch.
23,5 24,1 70,1 112,45 700-2 727 1525,1 1579,3 1809 1810 2516,marg. 2533,1 2540 2715,2 2724 2838-9 3128 3176 3415 3561-2 3884,1 3979,1 4246,1 4249,1[23,5] Quell'affetto nella lirica che cagiona l'eloquenza, e
abbagliando meno persuade e muove più, e più dolcemente massime nel tenero, non
si trova in nessun lirico, nè antico nè moderno se non nel Petrarca, almeno almeno in quel grado: e Orazio quantunque forse sia superiore
nelle immagini e nelle sentenze, in questo affetto ed eloquenza e copia non può
pur venire al paragone col Petrarca: il
cui stile ha in oltre (io non parlo qui solo delle canzoni amorose ma anche
singolarmente e nominatamente delle tre liriche: O aspettata in ciel beata e
bella, Spirto gentil che quelle membra reggi,
Italia
mia ec.) ha una semplicità e candidezza sua propria, che
però si piega e si accomoda mirabilmente alla nobiltà e magnificenza del dire,
(come in quel: Pon mente
al temerario ardir di Serse
ec.
*
) così in tutto il corpo e continuatamente, come nelle
varie parti e in quelle dove egli si alza a maggior sublimità e nobiltà che per
l'ordinario: si piega alle sentenze (come in quel: Rade volte addivien che a l'alte
imprese
*
ec.) quantunque di quelle spiccate non n'abbia
gran fatto in quelle tre canzoni: si piega ottimamente alle immagini delle quali
le tre canzoni abbondano e sono innestate nello stile e formanti il sangue di
esso ec. (come: Al qual
come si legge, Mario aperse sì
'l fianco
*
ec. Di lor vene ove il nostro ferro mise
*
ec.
Le man le avess'io
avvolte entro i capegli
*
ec.)
[24,1] Son propri esclusivamente del Petrarca in quanto all'affetto, non solo la copia, ma
anche quei movimenti pieni τοῦ πάϑους e quelle immagini affettuose (come: E la povera gente
sbigottita
*
ec.) e tutto quello che forma la vera e animata
e calda eloquenza. E dall'influsso che ha il cuore nella poesia del Petrarca viene la mollezza e quasi
untuosità come d'olio soavissimo delle sue Canzoni, (anche
nominatamente quelle sull'italia) e che le odi degli
altri appetto alle sue paiano asciutte e dure e aride, non mancando a lui la
sublimità degli altri e di più avendo quella morbidezza e pastosità che è
cagionata dal cuore.
[70,1] La semplicità del Petrarca benchè naturalissima come quella dei greci, tuttavia
differisce da quella in un modo che si sente ma non si può spiegare. E forse ciò
consiste in una maggior familiarità, e più vicina alla prosa, di cui il Petrarca veste mirabilmente i suoi versi
così nobilissimi come sono. I greci poeti forse sono un poco più eleganti, come
Omero che cercava in ogni modo un
linguaggio diverso dal familiare come apparisce da[dai] suoi continui epiteti ec. quantunque sia rimasto semplicissimo.
Forse anche la lingua italiana, essendo la nostra fa che noi sentiamo questa
familiarità dello stile più che ne' greci, ma parmi pure che vi sia una qualche
differenza reale.
[112,5] La gran diversità fra il Petrarca e gli altri poeti d'amore, specialmente
stranieri, per cui tu senti in lui solo quella unzione e spontaneità e unisono
al tuo cuore che ti fa piangere, laddove forse niun altro in pari circostanze
del Petrarca ti farà lo stesso effetto,
è ch'egli versa il suo cuore, e gli altri l'anatomizzano (anche i più
113 eccellenti) ed egli lo fa parlare, e gli altri ne
parlano.
[700,1] Del resto quello ch'io dico della perfezione di stile
nei cinquecentisti si deve intendere dei prosatori, non dei poeti. Anzi io mi
maraviglio come quella tanta gravità e dignità che risplende ne' prosatori, si
cerchi invano in quasi tutti i poeti di quel secolo, e bene spesso anche negli
ottimi. I difetti dello stile poetico di quel secolo, anche negli ottimi, sono
infiniti, massime la ridondanza, gli epiteti, i sinonimi accumulati (al
contrario delle prose) ec. lasciando i più essenziali difetti di arguzie,
insipidezze ec. anche nell'Ariosto e
nel Tasso. E non è dubbio che Dante e Petrarca (sebbene non senza gran difetti di stile) furono nello stile
più vicini alla
701 perfezione che i cinquecentisti, e
così lo stile poetico del trecento (riguardo a questi due poeti) è superiore al
cinquecento: (tanto è vero che la poesia migliore è la più antica, all'opposto
della prosa, dove l'arte può aver più luogo). E dal trecento in poi lo stil
poetico {italiano} non è stato richiamato agli antichi
esemplari, massime latini, nè ridotto a una forma perfetta e finita, prima del
Parini e del Monti. V. gli altri miei pensieri in questo proposito
p.
10
pp.
59-60. Parlo però del stile poetico, perchè nel resto se si eccettuano
quanto agli affetti il Metastasio e
l'Alfieri (il quale però fu
piuttosto filosofo che poeta), quanto ad alcune (e di rado nuove) immagini il
Parini e il Monti (i quali sono piuttosto letterati di finissimo
giudizio, che poeti); l'italia dal cinquecento in poi non
solo non ha guadagnato in poesia, ma ha avuto solamente
702 versi senza poesia. Anzi la vera {poetica} facoltà creatrice, {sia quella del cuore
o quella della immaginativa,} si può dire che dal cinquecento in qua
non si sia più veduta in italia; e che un uomo degno del
nome di poeta (se non forse il Metastasio) non sia nato in italia dopo il
Tasso. (27. Feb.
1821.).
[725,1] La forza {creatrice}
dell'animo appartenente alla immaginazione, è esclusivamente propria degli
antichi. Dopo che l'uomo è divenuto stabilmente infelice, e, che peggio è, l'ha
conosciuto,
726 e così ha realizzata e confermata la sua
infelicità; inoltre dopo ch'egli ha conosciuto se stesso e le cose, tanto più
addentro che non doveva, e dopo che il mondo è divenuto filosofo,
l'immaginazione veramente forte, verde, feconda, creatrice, fruttuosa, non è più
propria se non de' fanciulli, o al più de' poco esperti e poco istruiti, che son
fuori del nostro caso. L'animo del poeta o scrittore ancorchè nato pieno di
entusiasmo di genio e di fantasia, non si piega più alla creazione delle
immagini, se non di mala voglia, e contro la sottentrata o vogliamo dire la
rinnuovata natura sua. Quando vi si pieghi, vi si piega ex
instituto, ἐπιτηδές, per forza di volontà, non d'inclinazione, per
forza estrinseca alla facoltà immaginativa, e non intima sua. La forza di un tal
animo ogni volta che si abbandona all'entusiasmo (il che non è più così
frequente) si rivolge all'affetto,
727 al sentimento,
alla malinconia, al dolore. Un Omero, un
Ariosto non sono per li nostri
tempi, nè, credo, per gli avvenire. Quindi molto e giudiziosamente e
naturalmente le altre nazioni hanno rivolto il nervo e il forte e il principale
della poesia dalla immaginazione all'affetto, cangiamento necessario, e
derivante per se stesso dal cangiamento dell'uomo. Così accadde
proporzionatamente anche {ai} latini, eccetto Ovidio. E anche
l'italia ne' principii della sua poesia, cioè quando
ebbe veri poeti, Dante, il Petrarca, il Tasso, (eccetto l'Ariosto) sentì e seguì questo cangiamento, anzi ne diede l'esempio
alle altre nazioni. Perchè dunque ora torna indietro? Vorrei che anche i tempi
ritornassero indietro. Ma la nostra infelicità, e la cognizione che abbiamo, e
non dovremmo aver, delle cose, in vece di scemare, si accresce. Che smania è
questa dunque di voler fare quello stesso che facevano i nostri avoli, quando
noi siamo così mutati? di ripugnare alla natura delle cose? di voler fingere una
728 facoltà che non abbiamo, o abbiamo perduta, cioè
l'andamento delle cose ce l'ha renduta infruttuosa e sterile, e inabile a
creare? di voler essere Omeri, in tanta
diversità di tempi? Facciamo dunque quello che si faceva ai tempi di Omero, viviamo in quello stesso modo,
ignoriamo quello che allora s'ignorava, proviamoci a quelle fatiche a quegli
esercizi corporali che si usavano in quei tempi. E se tutto questo ci è
impossibile, impariamo che insieme colla vita e col corpo, è cambiato anche
l'animo, e che la mutazione di questo è un effetto necessario, perpetuo, e
immancabile della mutazione di quelli. Diranno che gl'italiani sono per clima e
natura più immaginosi delle altre nazioni, e che perciò la facoltà creatrice
della immaginativa, ancorchè quasi spenta negli altri, vive in loro. Vorrei che
così fosse, come sento in me dalla fanciullezza e dalla prima giovanezza in poi,
e vedo negli
729 altri, anche ne' poeti più riputati,
che questo non è vero. Se anche gli stranieri l'affermano, o s'ingannano, come
in cose lontane, e come il lontano suol parere bellissimo o notabilissimo;
ovvero intendono solamente di parlare in proporzione degli altri popoli, non mai
nè assolutamente, nè in comparazione degli antichi, perchè anche l'immaginativa
italiana, in vigore dell'andamento universale delle cose umane, è illanguidita e
spossata in maniera, che per quel che spetta al creare, non ha quasi più se non
quella disposizione che gli deriva dalla volontà e dal comando dell'uomo, non da
sua propria ed intrinseca virtù, ed inclinazione.
[1525,1] Degli stessi tre soli scrittori letterati del
trecento, un solo, cioè Dante, ebbe
intenzione scrivendo, di applicar la lingua italiana alla letteratura. Il che si
fa manifesto sì dal poema sacro, ch'egli considerava, non come trastullo, ma
come impresa di gran momento, e dov'egli trattò le materie più gravi della
filosofia e teologia; sì dall'opera, tutta filosofica, teologica, e insomma
dottrinale e gravissima del Convito, simile agli antichi Dialoghi
scientifici ec. (vedilo); sì finalmente dalle opinioni ch'egli manifesta nel
Volgare
Eloquio. Ond'è che Dante fu propriamente, com'è stato sempre considerato, e per
intenzione e per effetto, il fondatore della lingua italiana.
1526 Ma gli altri due, non iscrissero italiano che per passatempo, e
tanto è lungi che volessero applicarlo alla letteratura, che anzi non
iscrivevano quelle materie in quella lingua, se non perchè le credevano indegne
della lingua letterata, cioè latina, in cui scrivevano tutto ciò con cui
miravano a farsi nome di letterati, e ad accrescer la letteratura. Siccome
giudicavano (ancor dopo Dante, ed
espressamente contro il parere e l'esempio suo, specialmente il Petr.) che la lingua italiana fosse
indegna e incapace delle materie gravi e della letteratura. Sicchè non pur non
vollero applicarvela, ma non credettero di potere, nè che veruno potesse mai
farlo. Opinione che durò fin dopo la metà del Cinquecento circa il poema eroico,
del quale pochi anni dopo la morte dell'Ariosto, e pochi prima che uscisse la Gerusalemme, si
credeva in italia che la lingua italiana non fosse
capace: onde il Caro prese a tradurre
l'Eneide ec. (v. il 3. tomo delle sue lett. se non fallo). Ed è
notissima l'opinione che portava il Petr. del suo canzoniere: ed egli lo scrisse
1527 in italiano, come anche il Boccaccio le sue novelle e romanzi, per divertimento
delle brigate, come ora si scriverebbe in un dialetto vernacolo, e per li
cavalieri e dame, e genti di mondo, che non si credevano capaci di letteratura.
ec. ec. Ed è pur noto come nel 500. si scrivessero poemi sudatissimi in latino,
e storie ec. (19. Agos. 1821.).
[1579,3] Per un esempio e in conferma di quanto ho detto
altrove p. 1420
pp.
1434. sgg.
pp. 1449-50
pp.
1456-57, che l'eleganza, la grazia ec. dello scrivere antico, la
semplicità de' concetti e de' modi, la purità ec. della lingua, sono o in tutto
o in parte piaceri artifiziali, dipendenti dall'assuefazione e dall'opinione,
relativi ec. e fanno maggior effetto in noi, e ci piacciono più che agli stessi
antichi, a quegli stessi scrittori che ci recano oggidì tali piaceri ec. ec. si
può addurre il Petrarca,
1580 e il disprezzo in che egli teneva i suoi scritti
volgari, apprezzando i latini che più non si curano. Egli certo non sentiva in
quella lingua illetterata e spregiata ch'egli maneggiava, in quello stile
ch'egli formava, la bellezza, il pregio e il piacere di quell'eleganza, di
quella grazia, naturalezza, semplicità, nobiltà, forza, purità che noi vi
sentiamo a prima giunta. Egli non si credeva nè puro (in una lingua tutta impura
e barbara come giudicavasi la italiana, corruzione della latina) nè nobile, nè
elegante ec. ec. L'opinione, l'assuefazione ec. o piuttosto la mancanza di esse
glielo impedivano. (28. Agos. 1821.).
[1809,1]
1809 Ma se noi non sentiamo perfettamente in essi il
familiare, qualità delle lingue la più difficile a ben sentirsi in una lingua
forestiera, e più in una lingua morta, lo sentiamo però ottimamente in Dante, nei prosatori trecentisti, escluso
il Boccaccio, che introdusse
nell'italiano tante voci, frasi, e forme latine, e nel Petrarca (v. un mio pensiero sulla familiarità del
Petrarca), eccetto dov'egli pure si
accosta ed imita (come fa, e felicemente, assai spesso) l'andamento latino.
Questi e tutti gli scrittori primitivi di ciascuna lingua, doverono
necessariamente dare un andamento, un insieme di familiarità al loro stile ed
alla maniera di esprimere il[i] loro pensieri,
{+sì per altre ragioni, sì}
perchè mancavano di uno de' principali fonti dell'eleganza, cioè le parole,
frasi forme rimosse dall'uso del volgo per una tal quale, non dirò antichità, ma
quasi maturità. {+(Infatti è notabile che
la vera imitazione degli antichi quanto alla lingua, dà subito un'aria di
familiarità allo stile).} E siccome altrove osservammo pp. 1482. sgg. che gli
scrittori primitivi sono sempre i più propri, così e per le stesse ragioni, essi
debbono
1810 cedere ai susseguenti nell'eleganza
(intendendo quella che ho dichiarato).
[1810,1] Da ciò segue 1. che noi bene spesso sentendo negli
antichi nostri, come nel Petrarca o nel
Boccaccio questa medesima eleganza,
vi sentiamo quello che non vi sentivano nè gli stessi autori nè i loro
contemporanei, in quanto quelle voci o modi sono oggi divenuti eleganti col
rimoversi, stante l'andar del tempo, dall'uso quotidiano, ma allora non lo
erano.
[2515,1] E quella ricchissima, {fecondissima,} potentissima, regolatissima, e al tempo stesso {variatissima, poetichissima e} naturalissima lingua del
cinquecento, ch'a noi (ne' suoi buoni scrittori) riesce così elegante, forse
ch'allora fu tenuta per tale? Signor no, ma per corrotta. E la buona lingua si
stimava solo quella del trecento, {+e se
ne deplorava la mutazione, chiamandola corruzione e scadimento totale della
lingua, (come noi facciamo rispetto al 500),} e gli scrittori tanto
più s'avevano eleganti, quanto meno scrivevano nella lingua loro per iscrivere
in quella di quell'altro secolo. Laddove a noi, a' quali l'una e l'altra è
divenuta pellegrina, tanto più piacciono i cinquecentisti quanto più seguono
l'uso
2516 del loro secolo, e meno imitano il trecento.
Ed è ben ragionevole perchè allora solo possono esser naturali e di vena, come è
il Caro che non fu mai imitatore.
{+(È notabile che di parecchi
cinquecentisti, le lettere dov'essi ponevano meno studio, e che stimavano
essi medesimi di lingua impurissima, mentr'era quella del loro secolo, sono
più grate a leggersi, e di migliore stile che l'altre opere, dove si
volevano accostare alla lingua del trecento, mentre nelle lettere usavano la
lingua loro, e riescono per noi elegantissimi e naturalissimi.). V. p. 2525.} Ma anche nel
cinquecento non si stimava veramente elegante se non il pellegrino, e lo
trovavano e cercavano nella lingua del trecento, che sola chiamavano pura,
quando per noi è purissima quella del cinquecento. V. Salviati, Avvertim.
della lingua, citati nelle op. del Casa, Venezia 1752. t. 3. p. 323. fine -
324. Nel trecento poi nemmen si parlava di purità, nè si poneva tra i
pregi della lingua o dello scrivere; e la lingua del loro secolo non si stimava
elegante (se non forse alcune smancerie fiorentine, di cui parla il Passavanti, e queste credo piuttosto che s'amassero nel
resto di Toscana o d'italia, che
in Firenze, come accade veramente anche oggi): e quelli
scrittori che più si stimavano eleganti, e che tali si credevano o pretendevano
essi medesimi, erano non quelli che oggi più s'ammirano per la naturalezza e la
semplicità, e che
2517 in somma usavano più puramente
la lingua nazionale o patria del tempo loro, ma quelli che oggi meno
s'apprezzano, cioè che la fornivano di parole e modi forestieri, e che si
studiavano di tirarla alle forme d'altre lingue, e d'altri stili, come fece il
Boccaccio rispetto al latino, e come
anche Dante, la cui lingua, s'è pura per
noi, che misuriamo la purità coll'autorità, niuno certamente avrebbe chiamato
pura a quei tempi, s'avessero pensato allora alla purità{{, e
gli stessi cinquecentisti non erano}}
{+molto inchinati a stimarlo tale, nè ad
accordargli un[un'] assoluta autorità e voto
decisivo in fatto di purità di lingua, restringendosi piuttosto al Petr. e al Boc.
V. Caro
Apolog. p. 28. fine ec. Lett. 172. t. 2. e se vuoi,
anche il Galateo del Casa circa la stima
ch'allora si faceva di tanto poeta.}
[2533,1] 1. La maggior fama degli scrittori del 500 fu a quei
tempi, come verseggiatori, e specialmente lirici, e questi ognun sa ch'erano
servili imitatori del Petrarca, e quindi
del 300, e si veda nell'Apologia del Caro, la misera presunzione ch'avevano di scrivere
come il Petrarca, e che non s'avessero a
usar parole o modi non usati da lui, come anche nelle prose volevano restringer
la lingua a quella sola del Boccaccio, e
siamo pur lì. Certo è, nè per chiunque è pratico dello spirito che governava la
repubblica nostra letteraria nel 500, è bisogno di molte parole a dimostrargli,
che l'apice della letteratura, e quello a cui nondimeno aspiravano
2534 tanto gl'infimi quanto i sommi, era la lirica
Petrarchesca, cioè 300istica, e non 500istica. E gli scrittori più grandi in
ogni altro genere o prosaico o poetico, divenivano famosi principalmente pe'
loro sonetti e canzoni petrarchesche che si divulgavano come un lampo per
l'italia, si trascrivevano subito, si domandavano,
erano il trattenimento delle Dame, e queste ne chiedevano ai letterati, e i
letterati se ne chiedevano scambievolmente, e ne ricevevano e restituivano con
proposte e risposte ec. E senza questi versi difficilmente s'arrivava alla
riputazion di letterato. Osservate, per non allontanarmi dall'esempio più volte
addotto, il Caro, le cui rime sono la
sola cosa che di lui non si legga più. Aveva il Caro grandissima fama, ma dalle sue lettere vedrete
che questa riposava essenzialmente e soprattutto nell'opinion ch'egli avea di
poeta (che nol fu mai), e
2535 tutto il restante suo
merito letterario, s'aveva in lui, come in tutti gli altri, per mero accessorio.
E fu stimato gran poeta, non già per l'Eneide,
{+ch'oggi s'ammira, e si
ristampa,} ch'è scritta in istile e lingua propria del suo tempo,
benchè abbellita al suo modo, e arricchita di latinismi. Questa fu opera postuma
e non levò molto grido nel 500. Il Caro fu creduto un sommo letterato perchè sapeva rimare alla
Petrarchesca, e giudicar di tali pretese poesie. E la sua famosa
Canzone fu strabocchevolmente ammirata (ed oggi non s'arriva
a poterla legger tutta) perchè si disse che il Petrarca non l'avrebbe scritta altrimenti. (Caro, Apolog. p.
18.). E chi non sa l'inferno che cagionò in
italia, e come nella disputa di quell'impiccio
petrarchesco ci prese parte tutta la nazion letterata, considerandola come affar
di tutta la letteratura? Fatto sta che le maravigliose prose del Caro, benchè stimate,
2536 non furono già ammirate nel 500 (quanto alla
lingua). Ed è certo che la lingua del Caro, come l'immaginazione e l'ingegno di Dante, son venute principalmente in onore, e riposte
nel sommo luogo che meritano, in questo e sulla fine del passato secolo. Il che,
di Dante, si vede anche fra gli
stranieri. E quanto a lui, ciò si deve al perfezionamento de' lumi, e del gusto,
e della filosofia, e della teoria dell'arti, e del sentimento del vero bello.
Quanto al Caro, ciò viene in gran
parte da circostanze materiali.
[2538,1] 3.° Perchè molti (e questo fu vero e principal
pregio del cinquecento, ed a cui fu dovuto il perfezionamento della nostra
lingua) si studiavano anche di accostare e di modellare non solo lo stile, ma
anche la lingua italiana, sulla latina e greca, in quanto lo potea comportare la
sua natura. Questo fu comune alla massima parte de' veri buoni scrittori del
cinquecento, {massime prosatori.} E questo li rendeva
eleganti anche presso i contemporanei.
2539 Ma questa
eleganza veniva non da altro che dal pellegrino, {+(cioè dal latino e dal greco)} benchè quegli
scrittori volessero piuttosto perfezionare, accostare al latino o al greco,
render classica la lingua del loro secolo, che quella del 300, parlassero, come
facevano, e bene, più da 500isti, che da 300isti, più da moderni che da antichi
italiani; usassero la lingua viva e non la morta, le parole moderne più che le
antiche, e insomma innestassero il latino e il greco nella lingua del 500, e non
del 300, e però l'eleganza loro non venisse dall'uso dell'antico italiano, nè
dalla così detta purità, quantunque oggi per noi sieno purissimi. Ma tali non
erano allora per li pedanti, i quali chiamavano corrotto e barbaro quel che non
era del 300, proibivano il latinismo anche più di quello che facciano i pedanti
oggidì, poichè s'ardivano di chiamar barbara ogni voce latina che non fosse
stata usata
2540 dagli antichi, anzi dal Bocc. o dal Petrarca, per convenientissima che fosse all'italiano,
e anche nello stile, e nella composizione della dicitura, volevano piuttosto o
quella del Bocc. o del Petr. o quella degl'ignoranti non
iscrittori ma scrivani del 300, che quella de' classici latini e greci. (V. le opposizioni del Castelvetro alla canzone
del Caro, e l'Apol. del Caro).
[2715,2] Di quelli che nel 500. volevano restringere la
lingua italiana della poesia a quella del Petrarca, e della prosa a quella del solo Boccaccio, vedi
Perticari
Degli Scritt. del 300. l. 2. c. 12. p.
178. colle similitudini che ivi pone de' greci e de' latini, e Apologia di Dante c. 41. p.
407-{10.}
(23. Maggio 1823.).
[2723,1] I pedanti che oggi ci contrastano la facoltà di
arricchir la lingua, pigliano per pretesto ch'essa è già perfetta. Ma lo stesso
contrasto facevano nei cinquecento quand'essa si stava perfezionando,
2724 anzi nel momento ch'ella cominciavasi a
perfezionare, come fece il Bembo, il
quale volea che questo cominciamento fosse il toglierle la facoltà di crescer
mai più, e 'l ristringerla al solo Petrarca e al solo Boccaccio.
Lo stesso contrasto fecero al tempo di Cicerone e d'Orazio, cioè nel
secolo d'oro della lingua latina, nel quale ella si perfezionava, e fino al
quale non fu certamente perfetta. Ma la pedanteria nasce presto, e gli uomini
impotenti presto, anzi subito credono {e vogliono} che
sia perfetto e che non si possa nè si debba oltrepassare nè accrescere quel
tanto, più o manco, di buono ch'è stato fatto, per dispensarsi
dall'oltrepassarlo ed accrescerlo, e perch'essi non si sentono capaci di farlo.
(25. Maggio 1823.). {{E come pochissimo ci
vuole a superare l'abilità degli uomini da nulla, così pochissimo artifizio,
e pochissima bontà basta a fare ch'essi la credano insuperabile, qual è
veramente per loro, ancorchè piccolissima. Oltre che
2725 al loro scarso e torto giudizio spesso e in buona fede il
mediocre pare ottimo, e l'ottimo mediocre, e il cattivo buono, e al
contrario. (27. Maggio. 1823.).}}
[2836,2] Ho mostrato altrove p. 1808
p. 2640 che i poeti e gli scrittori primitivi {di
qualunque lingua} non potevano mai essere eleganti {quanto alla lingua,} mancando loro la {principal} materia di questa eleganza, che sono le parole e modi
rimoti dall'uso comune, i quali ancora non esistevano nella lingua, perchè
scrittori e poeti non v'erano stati, da' quali si potessero torre, e i quali
conservassero quelle parole e modi che già furono in uso. Onde {quando una lingua comincia}
{ad essere scritta,} tanto esiste della lingua quanto è
nell'uso comune: tutto quello che già fu in uso, e che poi ne cadde, è
dimenticato, non avendovi avuto chi lo conservasse, il che fanno gli scrittori,
che ancora non vi sono stati. Togliere più che tante parole o forme da quella
lingua la cui letteratura serve di modello alla nuova (come gl'italiani
avrebbero potuto fare dalla lingua latina), è pericoloso in quei principii molto
più che nel séguito (contro quello che si stimano i pedanti), anzi non si può,
perchè quando nasce la letteratura
2837 di una nazione,
questa nazione è naturalmente ignorante, e però lo scrittore o il poeta, così
facendo, non sarebbe inteso, e la letteratura non prenderebbe piede, non si
propagherebbe mai, non crescerebbe, non diverrebbe mai nazionale. {Di più, il poeta sembrerebbe affettato. Vedi in
questo proposito la p.
3015.} Questo medesimo vale anche per le parole
della stessa lingua, rimote più che tanto dall'uso comune, sia per disuso
(seppur lo scrittore stesso o il poeta avesse modo di conoscerle, mancando {fin allora} gli scrittori), sia per qualsivoglia altra
cagione. Bisogna considerare che la nazione in quel tempo è ignorante, e non
istudia, e non leggerebbe quella scrittura o quel poema, benchè scritto in
volgare, le cui parole o modi non fossero alla sua portata, o egli non potesse
capirli senza studiarvi sopra. E poca difficoltà, poca ricercatezza di parole o
di forme basta ad eccedere la capacità de' totalmente ignoranti, quali sono
allora quasi tutti, e degli a tutt'altro avvezzi che allo studio. Ho dunque
detto altrove p. 70
pp. 1808-11
pp. 2639-40 che i poeti e scrittori primitivi tutti o quasi tutti, e
sempre o per lo più, sì nella lingua sì nello stile, tirano al familiare. E
questo viene, sì per adattarsi alla capacità della nazione, sì perchè mancando
loro, come s'è detto, la principal materia dell'
2838
eleganza di lingua, sono costretti a pigliare una lingua domestica e rimessa, e
non volendo che questa ripugni e disconvenga allo stile, sono altresì costretti
di tenere anche questo, per così dire, a mezz'aria, e di familiarizzarlo. Onde
accade che questi tali poeti e scrittori sappiano di familiare anche ai posteri,
quando le loro parole e forme, già divenute abbastanza lontane dall'uso comune,
hanno pure acquistato quel che bisogna ad essere elegantissime, perlochè già
elle come tali s'adoprano dagli scrittori e poeti della nazione, ne' più alti
stili. Ma non essendo elle ancora eleganti a' tempi di que' poeti e scrittori,
questi dovettero assumere un tuono e uno stile adattato a parole non eleganti, e
un'aria, una maniera, nel totale, domestica e familiare, le quali cose ancora
restano, e queste qualità ancora si sentono, come nel Petrarca, benchè l'eleganza sia sopravvenuta alle loro
parole e a' loro modi che non l'avevano, com'è sopravvenuta, e somma, a quei del
Petrarca. Queste considerazioni si
possono fare, e questi effetti si scorgono, massimamente ne' poeti, non solo
perchè gli scrittori primitivi di una lingua e i fondatori di una letteratura
2839 sono per lo più poeti, ma perchè mancando ad
essi la detta materia dell'eleganza niente meno che a' prosatori, questa
mancanza e lo stile familiare che ne risulta è molto più sensibile in essi che
nella prosa, la quale non ha bisogno di voci o frasi molto rimote dall'uso
comune per esser elegante di quella eleganza che le conviene, e deve sempre
tener qualche poco del familiare. Quindi avviene che lo stile del Boccaccio, benchè familiare anch'esso,
massime ad ora ad ora, pur ci sa meno meno familiare, e ci rende più il senso
dell'eleganza e della squisitezza che quello del Petrarca, e dimostra meno sprezzatura, ch'è però nel
Petrarca bellissima. Così è: la
condizione del poeta e del prosatore in quel tempo, quanto ai materiali che si
trovano aver nella lingua, è la stessa (a differenza de' tempi nostri che
abbiamo appoco appoco acquistato un linguaggio poetico tutto distinto): il
prosatore si trova dunque aver poco meno del suo bisogno, e quasi anche tanto
che gli basti a una certa eleganza: il poeta che non si trova aver niente di
più, bisogna che si contenti di uno stile e di una maniera che si accosti alla
prosa. Ed infatti è benissimo definita
2840 la
familiarità che si sente ne' poeti primitivi, dicendo che il loro stile, senza
essere però basso, perchè tutto in loro è ben proporzionato e corrispondente,
tiene della prosa. Come fa l'Eneida del Caro, che quantunque non sia poema
primitivo, pure essendo stato {quasi} un primo tentame
di poema eroico in questa lingua, che ancora non n'era creduta capace, com'esso
medesimo scrive, può dirsi primitivo in certo modo nel genere e nello stile
eroico.
[3125,1] Quindi è che ne' poemi epici posteriori ad Omero, l'Eroe e l'impresa felice nulla
avrebbero interessato i lettori, se desso eroe, dessa impresa, dessa felicità
non fossero in qualche modo appartenuti ai lettori medesimi, come Achille ec. ai greci. In verità un
3126 poema epico di lieto fine richiede necessariamente
la qualità di poema nazionale; e per ciò che spetta e mira a esso fine, un poema
epico non nazionale non può interessar niuno; nazionale, non può mai produrre un
interesse universale nè perpetuo, ma solo nella nazione e per certe circostanze.
L'Eneide fu dunque poema nazionale, e
lasciando star tutti gli episodi e tutte le parti e allusioni che spettano alla
storia ed alla gloria de' Romani, l'Eneide anche
pel suo proprio soggetto potè produr ne' Romani il primo di quegl'interessi che
abbiamo distinto in Omero, perocchè i
Romani si credevano troiani di origine, sicchè la vittoria d'Enea consideravasi {+o poteva
considerarsi} da essi come un successo e una gloria avita, e ad
essi appartenente, e da essi ereditata. Il
soggetto della Lusiade fu nazionale,
e di più moderno. Egli non poteva esser più felice quanto al produrre quel primo
interesse di cui ragioniamo. {+Il soggetto dell'Enriade è
affatto nazionale e la memoria di quell'Eroe era particolarmente cara ai
francesi, onde la scelta dell'argomento in genere fu molto giudiziosa,
massime ch'e' non era nè troppo antico nè troppo moderno, anzi quasi
forse a quella stessa o poco diversa distanza a cui fu la guerra troiana
da' tempi d'Omero.}
Il soggetto e l'
3127 eroe della Gerusalemme furono
anche più che nazionali, e quindi anche più degni; e furono attissimi ad
interessare. Dico più che nazionali, perchè non appartennero a una nazione sola,
ma a molte ridotte in una da una medesima opinione, da un medesimo spirito, da
una medesima professione, da un medesimo interesse circa quello che fu il
soggetto del Goffredo. Dico tanto
più degni, perchè essendo d'interesse più generale, rendevano il poema più che
nazionale, senza però renderlo d'interesse universale, il che, trattandosi di
quello interesse di cui ora discorriamo, tanto sarebbe a dire quanto di niuno
interesse. Dico attissimi a interessare perchè quantunque fosse spento in quel
secolo il fervore delle Crociate, durava però ancora generalmente ne' Cristiani
uno spirito di sensibile odio contro i Turchi, quasi contro nemici della propria
lor professione, perchè in quel tempo i Cristiani, ancorchè corrottissimi ne'
costumi e divisi tra loro nella fede, consideravano per anche la fede Cristiana
3128 come cosa propria, e i nemici di lei come
propri nemici ciascuno; e quindi non solo con odio spirituale e per amor di Dio,
ma con odio umano, con passione per così dir, carnale e sensibile, per proprio
rispetto, e per inclinazione odiavano i maomettani non che il maomettanesimo. E
la liberazione del sepolcro di Cristo era
cosa di che allora tutti s'interessavano, siccome in questi ultimi tempi, della
distruzione della pirateria Tunisina e Algerina, benchè questa e quella fossero
più nel desiderio che nella speranza, o certo più desiderate che probabili:
aggiunta però di più la differenza de' tempi, perocchè nel cinquecento le
inclinazioni e le opinioni e i desiderii pubblici erano molto più manifesti,
decisi, vivi, forti e costanti ch'e' non possono essere in questo secolo.
Siccome nel 300 il Petrarca (Canz. O
aspettata), così nel 500 tutti gli uomini dotti
esercitavano il loro ingegno nell'esortare o con orazioni o con lettere o con
poesie pubblicate per le stampe, le nazioni e i principi
d'europa
3129 a deporre le differenze scambievoli e collegarsi
insieme per liberar da' cani {#2. Petr.
Tr. della Fama cap. 2. terzina
48.} il Sepolcro, e distruggere il nemico de' Cristiani,
e vendicar le ingiurie e i danni ricevutine. Questo era in quel secolo il voto
generale così delle persone colte ancorchè non dotte, come ancora, se non de'
gabinetti, certo di tutti i privati politici, che in quel secolo di molta
libertà della voce e della stampa, massimamente in
italia, non eran pochi; {#1. Erano allora i politici privati più di numero in
italia che altrove, l'opposto appunto di
oggidì, perchè pure al contrario di oggidì, era in quel secolo maggiore
in italia che altrove e più comune e divulgata
nelle diverse classi, la coltura, e l'amor delle lettere e scienze ed
erudizione per una parte (le quali cose tra noi si trattavano in lingua
volgare, e tra gli altri per lo più in latino, fuorchè in
ispagna), e per l'altra una turbolenta
libertà fomentata dalla molteplicità e piccolezza degli Stati, che dava
luogo a poter facilmente trovar sicurezza e impunità, col passare i
confini e mutar soggiorno, chi aveva o violate le leggi, o troppo
liberamente parlato o scritto, o offeso alcun principe o repubblica
nello Stato italiano in ch'ei dapprima si trovava.} e di
questo voto si faceva continuamente materia alle scritture e allusioni {digressioni} ec. e di quel progetto o sogno che vogliam
dire si riscaldava l'immaginazione de' poeti e de' prosatori, e se ne traeva
l'ispirazione dello scrivere. Niente meno che fosse nell'ultimo secolo della
libertà della grecia fino ad Alessandro, il desiderio, il voto, il progetto di tutti
i savi greci la concordia di quelle repubbliche, l'alleanza loro e la guerra
contro il gran re, e contro il {barbaro}
impero persiano perpetuo nemico del nome greco. E come
Isocrate
3130 per conseguir questo fine s'indirizzava colle sue
studiatissime ed epidittiche, {+scritte e
non recitate} orazioni ora agli Ateniesi (nel Panegirico, e v. l'oraz. a
Filippo, edizione sopra cit. p. 260-1.) ora a Filippo, secondo ch'ei giudicava questo
o quelli più capaci di volerlo ascoltare, e più atti a concordare e pacificar la
grecia e capitanarla contro i Barbari, così nel 500.
lo Speroni s'indirizzava pel detto effetto con una
{lavoratissima}
orazione stampata {+e non recitata nè da
recitarsi,} a Filippo II. di
Spagna, ed altri ad altri, secondo i tempi e le occasioni.
Ma tutto indarno, non come accadde ai greci, il cui voto fu adempiuto da Alessandro, mosso fra l'altre cose, come
è fama (v. Eliano
Var. l. 13. e ὑπόϑεσ. τοῦ πρὸς
Φίλιπ. λόγου), dall'orazione appunto che Isocrate n' avea scritto a Filippo suo padre, l'uno e l'altro già morti.
[3173,1]
Alla p. 3132. marg.
principio. Da quello che si legge
nell'epistola di Antonio Eparco a Filippo Melantone (ch'era pur non cattolico, ma
famoso eretico e poco si doveva curare de' luoghi santi) la qual epistola è
riportata dal Fabricio nel citato
luogo; e dalle varie scritture ed anche storie di quei tempi, si
raccoglie che in verità il gabinetto ottomanno mirasse a soggettarsi
l'europa, non tanto per diffondere la religione di
Maometto
(sebbene anche questo, s'io non m'inganno, è precetto o consiglio dell'Alcorano, che
si proccuri di diffonderla coll'armi il più che si possa, promettendo premi
nell'altra vita a chi sostenga di morire combattendo per questa causa ec.)
quanto per propagare il proprio imperio, e non tanto odiando gli altri principi
e regni europei come Cristiani, quanto appetendoli come materia di conquista. O
certo pare che gli altri gabinetti europei riguardassero tutti la potenza
ottomana con maggior sospetto ch'ei non si guardavano l'un l'altro, temendone,
non {per la} religion Cristiana, ma {per} se
3174 stessi. E senza fallo la
potenza ottomana si manteneva ancora a quel tempo nell'opinione di
conquistatrice appresso gli altri, e il gabinetto ottomano conservava ancora le
intenzioni e i progetti di conquistatori. Nè poteva essere spenta la memoria e
il terrore di quando, non più che un secolo addietro, quella nazione tartara,
{dopo le tante imprese e conquiste e progressi fatti per
sì lungo tempo nell'Asia,} presa
Costantinopoli, antichissima sede del
greco impero, e distrutto l'ultimo avanzo della
potenza romana, aveva finalmente piantato nell'europa
risorgente alla civiltà, un trono barbaro, una lingua e un popolo Asiatico (cosa
fino allora, per quanto si stende la ricordanza delle storie, non più veduta),
{+{oltre}
una religione diversa dalla Cristiana (cosa pur non veduta in
europa da' tempi pagani in poi, eccetto i mori di
Spagna, i quali si debbono eccettuare anche sotto
i rispetti detti di sopra);} ed aveva imposto il giogo della schiavitù
orientale alla più colta nazione che fosse in quei tempi, come apparve dai tanti
esuli, secondo quel tempo, dottissimi, che fuggendo la turca tirannide, si erano
sparsi per le altre parti d'europa, portando i greci
codici, e la greca letteratura, e rendendo comune e proprio di quel secolo più
che d'ogni altro, lo studio ed anche l'uso della greca lingua nelle scuole e
fra' letterati d'italia, di
Francia e di Germania, {+ed aiutando universalmente il progresso
delle rinate lettere.} Spettacolo veramente terribile, la cui
impressione non poteva nel seguente secolo essere spenta, nè si poteva ancora
3175 aver cessato di temere e di odiare
generalmente il Turco sì nelle corti e sì nel popolo, non solo come
conquistatore, ma di più come conquistatore barbaro e crudele, minacciante le
nazioni civili; (quasi come i Goti e gli altri popoli settentrionali ne' bassi
secoli), anche astraendo affatto dalla religione. Quindi il voto de' politici e
degli scrittori di quel secolo {per la lega universale contro
i turchi,} prende un aspetto anche più grave, e non è solamente da
riguardarsi com'effetto di antiche opinioni e rimembranze religiose, e di
fanatismo e d'immaginazione, ma come dirittamente spettante alla politica, e
derivante dalla considerazione delle reali circostanze
d'europa in quel secolo. E tanto più importante
n'apparisce il soggetto, e più degno, {saggio} e nobile
il pensiero, la scelta e l'intenzione del Tasso, che nel suo poema fece servire la religione, e le opinioni e
lo spirito popolare del suo tempo, e le altre cose che si prestano alla poesia
(perocchè le speculazioni politiche non possono esser materia da ciò) a
promuovere quello scopo ch'era allora de' più importanti per la conservazione
della civiltà, della libertà, dello stato, del ben essere di tutta
europa, cioè la concordia de' principi europei per
essere in grado e di respingere e di distruggere il
3176
{Barbaro} che minacciava o era creduto minacciare di
schiavitù tutte le nazioni civili, il comune nemico che macchinava o era creduto
macchinare la conquista di tutta europa dopo quella di
gran parte dell'Asia, e insidiare perpetuamente ai regni
europei, come anticamente i persiani alle greche repubbliche. Nè certo minor
gravità ed importanza dovranno sotto tale aspetto essere riputati avere il poema del
Tasso,
la
Canzone del Petrarca e l'altre poesie e prose italiane o forestiere
appartenenti a tal materia, di quella che avessero le orazioni d'Isocrate
contro il Persiano, o di Demostene
contro il Macedone; anzi, per
ciò che spetta alla materia, tanto maggiore di queste, quanto queste toccavano
l'interesse della grecia sola, piccola parte
d'europa, e quelle miravano alla salvezza
dell'europa intera e di tutte le sue nazioni e
lingue. (15. Agosto. Assunzione di Maria Vergine Santissima. 1823.). Nè la
nimicizia degli europei verso i maomettani, e di questi verso quelli si
restringeva alle sole opinioni e discorsi, ma consisteva anche ne' fatti, {#1. V. Tasso, Gerus. 17. 93.-4, dove parla d'Alfonso II.
di Mod.a e confrontalo coi luoghi dello Speroni da me notati p. 3132. marg.
princip.
V. p.
4017.} come apparisce dalle imprese de' Cavalieri Ospitalieri di S. Giovanni di
Gerusalemme
3177 che in quel medesimo secolo, dopo 212 anni di
possedimento (1310.) perdettero Rodi (1522.) ed ebbero
prima Viterbo dal Papa, e poi Malta
(1530.) da Carlo
V, e con prodigioso valore la difesero (1566.) quattro mesi con morte di
15 mila soldati barbari e ottomila marinai; dalle imprese di Carlo V contra i Maomettani d'Europa
e d'Affrica; da quelle de' Veneziani nel
detto secolo; dalla famosa vittoria di Lepanto riportata
dalle flotte spagnuola, veneziana e del Papa sopra i turchi dieci anni avanti (1571.) che
fosse pubblicata la Gerusalemme (1581.), e certo in tempo che il
Tasso la stava componendo e
meditando, poichè fin dieci anni avanti (1561.), egli n'aveva già scritto o
abbozzato 6. canti. (V. Tirabos. t. 7. par. 3. p.
118.). (16. Agosto. 1823.). {{V. p. 4236. e l'Oraz. del Giacomini in lode del Tasso nelle Prose fior. la qual
finisce con un'esortazione alla guerra contro i
turchi.}}
[3413,1]
3413
Alla p. 2841.
Sperone Speroni nell'Orazione in morte del Cardinal Bembo, quinta
delle Orazioni sue stampate in
Ven. 1596. pag. 144-5 poco innanzi il mezzo
dell'orazione suddetta.. I
medesimi verbi colla stessa construtione
*
(p. 145.)
usa il volgar
poeta,
*
(il poeta italiano) che suole usar l'oratore; onde non pur è lunge da
quell'errore, ove spesse fiate veggiamo incorrere i Greci, et
qualche volta i Latini, cioè a dire, che egli si paia di favellare
in un'altra lingua, che non è quella dell'oratore; anzi i più lodati
Toscani all'hora sperano di parlar bene nelle lor prose, et par quasi, che sene vantino, quando al modo, che
da' Poeti è tenuto hanno affettato di ragionare. Et chi questo non
crede, vada egli a leggere il Decameron del Boccaccio, terzo lume di questa
lingua, et troveravvi per entro cento versi di Dante così intieri, come li fece la sua
comedia.
*
{#1. V. p. 3561.} Non parrebbe da queste parole che
l'italia non avesse lingua propriamente
3414 poetica, o certo ben poco distinta dalla prosaica?
E non è d'altronde manifesto ch'ella ha una lingua poetica più distinta dalla
prosaica che non è quella di forse niun'altra lingua vivente, e certo più che
non è quella de' Latini, in quanto si vede che noi, imparato che abbiamo ad
intendere la prosa latina, intendiamo con poco più studio la poesia, {+(lo studio che ci vuole, e il divario tra
il linguaggio della poesia latina e
della prosa, consiste principalmente nella diversità di molta parte delle
trasposizioni, ossia nell'ordine e costruzione delle parole, ch'in parte è
diversa)} ma uno straniero non perciò ch'egli ottimamente intendesse
la nostra moderna lingua prosaica, intenderebbe senza molto apposito studio la
poetica? Tant'è. Nello stesso cinquecento, l'italia non
aveva ancora una lingua che fosse formalmente poetica, cioè la diversità del
linguaggio tra i poeti e gli oratori, non era per anche se non lieve, e male o
insufficientemente determinata. Gli scrittori prosaici che componevano con
istudio e con presunzione di bello stile, si accostavano alla lingua del Boccaccio e de' trecentisti, e questa era
similissima alla lingua poetica, perchè la lingua poetica del 300. era quasi una
colla prosaica. Gli scrittori poetici che scostandosi dalla lingua del 300,
volevano
3415 accostarsi a quella del loro secolo,
davano in uno stile familiare, bellissimo bensì, ma poco diverso da quel della
prosa. Testimonio l'Orlando dell'Ariosto e l'Eneide del Caro, i quali, a quello togliendo le
rime, a questa la misura {+(oltre le
immagini e la qualità de' concetti ec.)} in che eccedono o di che
mancano che non sieno una bellissima ed elegantissima prosa? E paragonando il
poema del Tasso (scritto nella {{propria}} lingua del suo tempo) colle prose eleganti di
quell'età, poco divario vi si potrà scoprire quanto alla lingua. Di più i poeti
italiani del 500. furono soliti (massime i lirici, che sono i più) di modellarsi
sullo stile di Petrarca e di Dante. Il carattere di questo stile {riuscì ed è} necessariamente familiare, come ho detto
altrove pp. 1808-10
pp.
2542-44
pp. 2639-42
pp. 2836-41. Seguendo
questo carattere, o che i poeti del 500 l'esprimessero nella stessa lingua di
que' due, come moltissimi faceano, o nella lingua del 500, come altri; doveano
necessariamente dare al loro stile un carattere di familiare e poco diverso da
quel della prosa. E così generalmente accadde. (Il linguaggio del Casa non è familiare, ed è molto
3416 più distinto dal prosaico, e così il suo stile.
Ciò perchè ne' suoi versi egli non si propose il carattere nè del Petrarca nè di Dante, ma un suo proprio. E quindi quanto il carattere
del suo linguaggio e stile poetico è distinto da quel della prosa, tanto egli è
ancora diverso da quello {+del linguaggio
e stile} sì di Dante e Petrarca, sì degli altri lirici, e poeti
quali si vogliano, del suo tempo.). La Coltivazione, le Api ec. sono {ben sovente}
bella prosa misurata {+quanto al
linguaggio, ed allo stile eziandio: e ciò quantunque l'uno e l'altro poema
sieno imitazioni, e l'Api nient'altro quasi che traduzione,
delle georgiche, il
capo d'opera dello stile il più poetico e il più separato dal familiare, dal
volgo, dal prosaico. Similmente si può discorrere dell'Eneide del Caro.}
[3561,1]
Alla p. 3413.
Infatti la scrittura dello Speroni è
tutta sparsa e talor quasi tessuta, non pur di vocaboli, o d'usi metaforici ec.
di parole, tutti propri di Dante e di
Petrarca, ma di frasi intere e
d'interi emistichi di questi poeti, dall'autore dissimulatamente appropriatisi e
convertiti all'uso della sua prosa. Nè tali voci, frasi ec. riescono in lui
punto poetiche, ma convenientissimamente prosaiche. Altrettanto fanno più o meno
molti altri autori del cinquecento, massime i più eleganti, ma lo Speroni singolarmente. Or andate e
ditemi che altrettanto potessero fare, non pur i prosatori greci con Omero, o altro lor poeta, ma i latini con
Virgilio ec. benchè il latino non
abbia linguaggio poetico distinto. Che
vuol dir ciò dunque, se non che il linguaggio di Dante e Petrarca era poco o nulla distinto da quel della prosa? Onde i
prosatori potevano farne lor pro, anche a sazietà, senza dar nel poetico. {#1. Le voci e frasi {e
significati più poetici ed eleganti} di Petr.
Dante ec. tengono come un luogo di
mezzo tra il prosaico e il poetico, onde in una prosa alta, com'è quella
dello Speroni, ci stanno
naturalissimamente. P. e. talento in quel
significato Che la ragion sommettono al
talento.
*
Non si sa ben dire se sia più del verso
che della prosa. Vedilo benissimo usato dallo Speroni
ne' Diall.
Ven. 1596. p. 69. fine.} Altri, e non
pochi, prosatori del 500, siccome nel 300 il Boccaccio, davano nel poetico sconveniente
3562 alla prosa, adoperando a ribocco e senza giudizio le voci, le
significazioni, le metafore, le frasi, gli ornamenti, l'epitetare ec. sì di Dante e Petrarca sì de' poeti del 500. stesso. E ciò per la medesima ragione
per cui i detti poeti adoperavano le frasi e voci ec. della prosa, come a pagg. 3414. segg. Ciò era perchè i
termini fra il linguaggio della poesia e della prosa non erano ancora ben
stabiliti nella nostra lingua. Onde come noi non avevamo ancora un linguaggio
propriamente poetico bene stabilito e determinato, (p. 3414.
3416.), così nè anche un linguaggio
prosaico. Nella stessa guisa (ma però molto meno) che i francesi non hanno quasi
altra prosa che poetica, perchè appunto non hanno lingua propriamente poetica,
distinta e determinata, e assegnata senza controversia alla poesia
(veggãsi[veggansi] le p. 3404-5. 3420-1. 3429. e il pensiero
seguente ). Nessun buon autore del seicento, del sette e
dell'ottocento dà nel poetico come molti buoni
{{e classici
del}} 500 (non ostante nel 600 la gran peste dello stile derivata
appunto dal cercare il florido, il sublime, il metaforico, lo straordinario modo
di parlare e di esprimere checchessia, il fantastico, l'immaginoso, l'ingegnoso;
e consistente in queste qualità ec. peste
3563 che nel
500 ancor non regnava; eppur tanto regnava il florido e il poetico nella prosa,
quanto non mai nelle buone e classiche prose del 600: segno che quel vizio nel
500. veniva da altra cagione, e ciò era quella che si è detta). Nessuno oggi (nè
nei due ultimi secoli) per poco che abbia, non pur di giudizio, ma sol di
pratica nelle buone lettere sarebbe capace di peccare, scrivendo in prosa, per
poeticità di stile e linguaggio, altrettanto quanto nell'ottimo ed aureo secolo
del 500 (mentre il nostro è ferreo) peccavano gli ottimi ingegni nelle classiche
prose, sì nel linguaggio, sì nello stile, che quello si tira dietro (p. 3429. fine). E come ho detto a
pagg. 3417-9. che il linguaggio
{propriamente} poetico in
italia non fu pienamente determinato, stabilito, e
distinto e separato dal prosaico, se non dopo il cinquecento, e massime in
questo e nella fine dell'ultimo secolo; così si deve dire del linguaggio
prosaico, quanto all'essere così esattamente determinato ch'ei non possa mai
confondersi col poetico, nè dar nel poetico senza biasimo ec. Il che non ha
potuto perfettamente essere finchè i termini fra questi due linguaggi non sono
stati fermamente posti, e chiaramente precisamente
3564
incontrovertibilmente segnati, tirati, descritti. Onde il linguaggio
perfettamente proprio e particolare della prosa, e il perfettamente proprio e
particolare della poesia sono dovuti venire in essere a un medesimo tempo, e non
prima l'uno che l'altro (o non prima esser perfetto ec. ec. l'uno che l'altro, e
crescer del pari quanto alla loro prosaicità e poeticità); perchè ciascun de'
due è rispettivo all'altro ec. ec. (30. Sett. 1823.).
[3884,1]
Les
Dames vous devront ce que la langue italienne devait au Tasse; cette
langue d'ailleurs molle et dépourvue de force, prenait un air mâle et de
l'énergie lorsqu'elle etait maniée par cet habile poëte.
*
Così scriveva il principe reale di Prussia poi Federico II alla Marchesa du Châtelet, da Rémusberg agli 9.
Nov. 1738. (Oeuvres complettes de Frédéric II. Roi de Prusse. 1790. tome 16.
Lettres du Roi de Prusse et de la Marquise du Châtelet. Lettre 5.e
p. 307.) E nóto queste parole perchè si veda l'esattezza del giudizio
degli stranieri sulla nostra letteratura, e la verità della material cognizione
ch'essi ne hanno. Lascio quello che Federico dice in generale sulla nostra lingua, ma il particolare del
Tasso, ch'è un fatto, e che poco
si richiedeva a essere istruito come stésse, non è egli tutto il contrario del
vero? Federico dice del Tasso quel ch'è vero di Dante, del quale il Tasso è tutto il contrario, anche più dell'Ariosto, e quasi dello stesso Petrarca ec. {+V. p.
3900.}
(14. Nov. 1823.). Eccetto se Federico non considera o non intende di parlare del Tasso in comparazione del Metastasio, e più se de' frugoniani, degli
arcadici de' nostri poeti e prosatori sia puristi sia barbaristi del
3885 passato secolo, insomma di quelli che nè scrissero
nè seppero l'italiano; nel qual caso il suo detto è certamente esente da ogni
rimprovero e controversia. (15. Nov. 1823.). {{V. p.
3949.}}
[3979,1] Come la lingua e letteratura italiana si stimassero
nel 500 da molti {+anche dotti e gravi
uomini} non dovere {nè potere} uscire de'
termini in che le posero i 3. famosi trecentisti, anzi solamente il Petrarca e il Boccaccio, nè delle lor parole e modi e artifizi e
stili, e dell'abito ch'essi avevan dato all'una e all'altra ec. del che altrove
pp. 2515-17
pp. 2533-40
pp. 2723-24
pp.
3561-62, vedi il Dial. della Rettorica dello Speroni, Diall.
Ven. 1596. p. 147.-150. p. 157. fine. - 158.
principio, p. 162. verso il fine. (14. Dec. 1823.).
[4246,1]
4246 Superstiziosa imitazione e venerazione del Petrarca nel 16. secolo del che altrove
ec. pp. 2533-36
V. nelle opp. del Tasso le Opposizioni al Sonetto Spino, leggiadre rime
*
ec. e la Risposta del Tasso. (ed.
del Mauro, t. 6.).
{{V. ancora il Guidiccioni nelle Lett.
di div. eccellentiss. uom.
Ven.
Giolito.
1554. p. 43-48.}}
[4249,1]
4249
Giuoco di mano, giuoco di
villano, is a very true saying, among the few true sayings of the
Italians.
*
Chesterfield
Letters to his son, lett. 259.
Il conte di Chesterfield era veramente
molto pratico e della lingua, ed anche dei particolari e minuti detti usuali nel
nostro parlar familiare. Nè io disapproverei molti de' suoi giudizi circa la
letteratura e le cose nostre, come p. e. quello circa il Petrarca
(lett.
217.), simile al parer del Sismondi: Petrarca
is, in my mind, a sing-song love-sick Poet; much
admired, however, by the Italians: but an Italian, who should think
no better of him than I do, would certainly say, that he deserved
his Laura better than his Lauro
*
(alludendo alla
coronazione del Poeta in Roma); and that wretched quibble would be reckoned an
excellent piece of Italian wit.
*
{+V. qui sotto [p.
4249,4].} Il qual giudizio troverà pochi approvatori in
Italia fuori di me. Ma quello dei nostri detti e
proverbi, è certamente falso ec. (Può servire per un articolo sopra i proverbi).
(Recanati 27. Feb. ult. di Carnovale.
1827.).
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Uniformità delle nazioni moderne ec. (1827) (1)
Piacere dell'eleganza. (1827) (1)
Toscano (Volgare). (1827) (1)
Purismo. Setta purista appresso i Latini. (1827) (1)
Familiarità nella scrittura. (1827) (1)
. Suo stato, costumi ec. antichi e moderni. (1827) (1)
Politica. (1827) (1)
. Sua lirica. (1827) (1)
Lingua poetica, in che consista ec. ec. (1827) (1)
Francesi. (1827) (1)
Carattere, lingua ec. ec. (1827) (1)
Francese (poesia). (1827) (1)
. Assai perito della lingua e delle cose italiane. Suoi giudizi intorno ad esse, intorno al , ec. (1827) (1)
Purità della lingua. (1827) (1)
Eloquenza nella Lirica. (1827) (1)