30. Sett. 1821.
[1806,3] Una parola {o frase}
difficilmente è elegante se non si apparta in qualche modo dall'uso volgare.
Intendo che difficilmente le converrà l'attributo di elegante, non già ch'ella
debba perciò essere inelegante, e che una
1807
scrittura elegante, si debba comporre di sole voci e frasi segregate dal volgo.
Le parole antiche (non anticate) sogliono riuscire eleganti, perchè tanto rimote
dall'uso quotidiano, quanto basta perchè abbiano quello straordinario e
peregrino che non pregiudica nè alla chiarezza, nè alla disinvoltura, e
convenienza loro colle parole e frasi moderne.
[1807,1] Quindi è che infinite parole e frasi che oggi sono
eleganti, non lo furono anticamente, perchè non ancora rimosse o diradate
nell'uso; giacchè tutto ciò ch'è antico fu moderno, e tutte le parole o frasi
proprie di una lingua, furono un tempo volgari e quotidiane.
[1807,2] Quindi si argomenti quanto sia giovevole
all'eleganza dello scrivere italiano (del quale è veramente e assolutamente
propria l'eleganza più che di qualunque altra lingua moderna) il non aver la
nostra lingua rinunziato mai al suo antico fondo, in quanto le può ancora
convenire.
[1808,1]
1808 Da queste ragioni deriva in parte un effetto che
si osserva in tutti i primitivi scrittori di qualsivoglia lingua. Essi non sono
mai eleganti, bensì ordinariamente familiari. La familiarità essendo anch'essa
bellissima, si confonde molte volte coll'eleganza, e può considerarsi come una
delle sue specie (massime quando la stessa familiarità cagiona il pellegrino
nella scrittura, per non esser solita a venirvi applicata). Ma io qui non
intendo parlare di quella eleganza di cui il Caro in verso e in prosa può essere un modello, bensì di quella di
cui saranno eterni modelli a tutte le nazioni e le lingue, Virg. e Cic..
[1808,2] Or in luogo di questa che non è mai propria di
nessuna lingua ne' suoi principii, e ne' cominciamenti della sua letteratura, si
trova ne' primitivi scrittori di ciascuna lingua molta familiarità. Noi non
abbiamo i primitivi scrittori greci. I latini Ennio, (ne' suoi frammenti) Lucrezio, ec. possono
dimostrare questa verità, massime confrontandoli co' seguenti.
[1809,1]
1809 Ma se noi non sentiamo perfettamente in essi il
familiare, qualità delle lingue la più difficile a ben sentirsi in una lingua
forestiera, e più in una lingua morta, lo sentiamo però ottimamente in Dante, nei prosatori trecentisti, escluso
il Boccaccio, che introdusse
nell'italiano tante voci, frasi, e forme latine, e nel Petrarca (v. [un mio pensiero] sulla familiarità del
Petrarca), eccetto dov'egli pure si
accosta ed imita (come fa, e felicemente, assai spesso) l'andamento latino.
Questi e tutti gli scrittori primitivi di ciascuna lingua, doverono
necessariamente dare un andamento, un insieme di familiarità al loro stile ed
alla maniera di esprimere il[i] loro pensieri,
{+sì per altre ragioni, sì}
perchè mancavano di uno de' principali fonti dell'eleganza, cioè le parole,
frasi forme rimosse dall'uso del volgo per una tal quale, non dirò antichità, ma
quasi maturità. {+(Infatti è notabile che
la vera imitazione degli antichi quanto alla lingua, dà subito un'aria di
familiarità allo stile).} E siccome altrove osservammo pp. 1482. sgg. che gli
scrittori primitivi sono sempre i più propri, così e per le stesse ragioni, essi
debbono
1810 cedere ai susseguenti nell'eleganza
(intendendo quella che ho dichiarato).
[1810,1] Da ciò segue 1. che noi bene spesso sentendo negli
antichi nostri, come nel Petrarca o nel
Boccaccio questa medesima eleganza,
vi sentiamo quello che non vi sentivano nè gli stessi autori nè i loro
contemporanei, in quanto quelle voci o modi sono oggi divenuti eleganti col
rimoversi, stante l'andar del tempo, dall'uso quotidiano, ma allora non lo
erano.
[1810,2] 2. Che le lingue nel nascere delle loro letterature
non sono capaci più che tanto di eleganza, e i lettori di allora neppur ve la
cercano, non considerandola appena come un pregio, ovvero sentendo ch'ella è in
molte parti impossibile.
[1810,3] 3. Che anche e notabilmente per questa ragione, le
lingue nuove stentano moltissime[moltissimo] ad
essere apprezzate in punto di letteratura, da coloro stessi che
la[le] parlano e scrivono, e ad esser
considerate come capaci del bello e squisito stile ec.
[1811,1]
1811 4. Che però i primitivi scrittori sono obbligati
volendo dare a' loro scritti quell'eleganza che deriva dal pellegrino ec. di
accostare spessissimo la loro lingua alla sua madre, siccome fecero i nostri, e
siccome si fa ancora, non bastando l'antico fondo della nostra lingua (in buona
parte anticato e brutto e rozzo) a quella peregrinità di voci, frasi, e forme
che si ricerca all'eleganza. Ottimo partito è questo di avvicinarla ad una
lingua, già formatissima, le cui ricchezze essendo la fonte delle nostre, tutto
ciò che se ne attinge con giudizio, è come un'antica appartenenza della nostra
lingua, che ha tanto di peregrino quanto può trovarsi nel mezzo fra l'elegante e
il brutto che è cagionato parimente dallo straordinario, quando questo passa
certi termini; e però il pellegrino che deriva dalle parole forestiere è
ordinariamente brutto, o per lo manco non elegante. Nondimeno i primi scrittori
furono talvolta forzati di attingere anche dalle lingue forestiere, come fecero
i nostri, ma
1812 poco felicemente, dal provenzale, e
come con eguale e maggiore infelicità hanno fatto {e
fanno} altri scrittori primitivi in quasi tutte le lingue; i russi dal
francese; gli svedesi prima dal latino (che oltre l'esser morto, è anche
forestiere per loro), e poi, come oggi, dal francese ec. ec.
[1812,1] 5. Che la lingua italiana, sebbene mirabilmente
ricca, dovette essa pure soggiacere primitivamente a questi bisogni, giacchè la
ricchezza vera e contante di una lingua
non è mai anteriore alla sua piena formazione, cioè completa applicazione alla
letteratura. E la nostra lingua ancora fu per lungo tempo, cioè sino a tutto il
500. almeno, considerata prima da tutti, poi da molti come incapace
dell'eleganza, della perfetta nobiltà ec. e quindi posposta lunghissimamente al
latino nell'uso dello scrivere più importante, ancorchè già formata, e
stupendamente arricchita ed ornata ec. {+V. i diversi miei pensieri in tal proposito [pp.
1579-80.]}
[1812,2] Tutto ciò dimostra che la lingua francese, la quale
ha dalla sua prima formazione rinunziato alle sue ricchezze antiche,
1813 e a tutto ciò che fosse rimoto dall'uso volgare, e
segue a rinunziarvi tutto giorno, onde oggi non possiede neppur quello che
possedevano gli scrittori del primo tempo dell'Accademia, e del secolo di Luigi 14. deve necessariamente esser poco
suscettibile di eleganza, e soprattutto priva di lingua poetica, non avendo
quasi parola, frase, forma che non sia necessaria all'uso quotidiano del
discorso, o della scrittura in prosa, {o che non abbia luogo
frequentemente in detto uso;} e quindi non potendo assolutamente
elevarsi al disopra del parlar comune. Quindi lo stile della poesia francese non
si diversifica (eccetto alcune poche, {uniformi, rare,}
e timide inversioni, {+e l'uso della
misura (ben plebea e pedestre) e delle rime,)} dal discorso
giornaliero e dalla prosa; e talvolta è propriamente ridicolo a vedere imagini e
sentenze e affetti sublimi, e rimoti o dall'opinione o dall'uso volgare, e
superiori al comune modo ec. di pensare, espressi ne' versi francesi al modo che
si esprimerebbe una dimostrazione geometrica, o si direbbe una facezia in
conversazione; giacchè in ambedue queste occasioni,
1814 come in tutte le altre, la lingua francese è appresso a poco la stessa.
[1814,1] Parrebbe da ciò che nella scrittura francese dovesse
molto e sempre sentirsi il familiare. Non nego che non vi si senta, ma se non vi
si sente, quanto parrebbe che dovesse, ciò deriva da questo, che detta lingua
essendo povera, non è propria, non essendo propria, non può aver molto sapore di
familiarità, al contrario delle lingue primitive, della nostra, e della francese
stessa ne' suoi principii, dove il familiare sempre si sente, perchè è somma in
quei tempi la proprietà della favella, come ho detto p. 1809. fine. Dal che segue che il discorso e la
scrittura francese si confondano nel loro spirito in modo, che la stessa
uniformità distrugge il senso della familiarità. Giacchè se leggendo un libro
francese ti par di sentire uno che parli, sentendo uno che parli, ti par di
leggere, e così tu non sai bene da qual parte stia la familiarità. Così
necessariamente deve accadere in una lingua unica, come la francese, e così
1815 pure
accade rispetto a' suoi stili. Oltrechè l'eccessivo spirito sociale de'
francesi, raffinando sempre più il linguaggio quotidiano (anche quello del volgo
proporzionatamente), l'avvicina sempre più allo scritto, e quindi sempre più gli
toglie del familiare; e l'eccessiva inclinazione della letteratura francese
{+ad esser volgare,} a imitare,
trattare, nutrirsi, formarsi quasi esclusivamente di ciò che spetta alla
conversazione de' suoi nazionali, l'avvicina sempre più al parlato, e
proccurandole l'eleganza dell'epigramma, sempre più le toglie quella della
poesia, dell'eloquenza ec. divisa dal volgo. Questa inclinazione reciproca dello
scritto verso il parlato, e viceversa, è quello che ha reso la lingua francese
qual ella è, geometrica, unica, assolutamente moderna, ed universale quasi per
natura. (30. Sett. 1821.)