Dante.
Dante.
Vedi Tasso e Dante. See Tasso and Dante. 21,2 152,2 231,2 700-2 727 762 1028,4 1228 1317,1 1366,1 1403 1525,1 1688,2 1809 1993,2 2041,1 2126,1 2396,1 2504 2505-6 2517 2523,1 2536 2573,1 2791 3011-4 3291 3479,1 3507-8 3552,marg. 3561,21 3719,marg. 3884,1 3964-5 4214,3Dante. Benefizio da lui fatto all'Europa e allo spirito umano coll'applicare il volgare alla letteratura.
Dante. Service he did to Europe and the human spirit by using the vernacular in literature.
3338,1 4214,3[21,2] In Ovidio si
vede in somma che vuol dipingere, e far quello che colle parole è così
difficile, mostrar la figura ec. e si vede che ci si mette; in Dante nò: pare che voglia raccontare e
far quello che colle parole è facile ed è l'uso ordinario delle parole, e
dipinge squisitamente, e tuttavia non si vede che ci si metta, non indica questa
circostanziola e quell'altra, e alzava la mano e la
stringeva e si voltava un tantino e che so io, (come fanno i romantici
descrittori, e in genere questi poeti descrittivi francesi o inglesi, così anche
prose ec. tanto in voga ultimamente) insomma in lui c'è la negligenza, in Ovidio no.
[152,2] Altro è la forza altro la fecondità dell'immaginazione
e l'una può stare senza l'altra. Forte era l'immaginazione di Omero e di Dante, feconda quella di Ovidio e dell'Ariosto. Cosa
che bisogna ben distinguere quando si sente lodare un poeta o chicchessia per
l'immaginazione. Quella facilmente rende l'uomo infelice per la profondità delle
sensazioni, questa al contrario lo rallegra colla varietà e colla facilità di
fermarsi sopra tutti gli oggetti e di abbandonarli, {e
conseguentemente colla copia delle distrazioni.} E ne seguono
diversissimi caratteri. Il primo grave, passionato, ordinariamente (ai nostri
tempi) malinconico, profondo nel sentimento e nelle passioni, e tutto proprio a
soffrir grandemente della vita. L'altro scherzevole, {leggiero,} vagabondo, incostante nell'amore, bello spirito, incapace
di forti e durevoli passioni e dolori d'animo, facile a consolarsi anche nelle
più grandi sventure ec. Riconoscete in questi due caratteri i verissimi ritratti
di Dante e di Ovidio, e vedete come la differenza della loro poesia
153 corrisponda appuntino alla differenza della
vita. Osservate ancora in che diverso modo Dante ed Ovidio sentissero e
portassero il loro esilio. Così una stessa facoltà dell'animo umano è madre di
effetti contrarii, secondo le sue qualità che quasi la distinguono in due
facoltà diverse. L'immaginazione profonda non credo che sia molto adattata al
coraggio, rappresentando al vivo il pericolo, il dolore, ec. e tanto più al vivo
della riflessione, quanto questa racconta e quella dipinge. E io credo che
l'immaginazione degli uomini valorosi (che non debbono esserne privi, perchè
l'entusiasmo è sempre compagno dell'immaginazione e deriva da lei) appartenga
più all'altro genere. (5. Luglio. 1820.).
[231,2]
Omero e Dante per l'età loro seppero moltissime cose, e più di
quelle che sappiano la massima parte degli uomini colti d'oggidì, non solo in
proporzione dei tempi, ma anche assolutamente. Bisogna distinguere la cognizione
materiale dalla filosofica, la cognizione fisica dalla matematica, la cognizione
degli effetti dalla cognizione delle cause. Quella è necessaria alla fecondità e
varietà dell'immaginativa, alla proprietà verità evidenza ed efficacia
dell'imitazione. Questa non può fare che non pregiudichi al poeta. Allora giova
sommamente al poeta l'erudizione, quando l'ignoranza delle cause, concede al
poeta, non solamente rispetto agli altri ma anche a se stesso, l'attribuire gli
effetti che vede o conosce, alle cagioni che si figura la sua fantasia.
(5. Settembre 1820.).
[700,1] Del resto quello ch'io dico della perfezione di stile
nei cinquecentisti si deve intendere dei prosatori, non dei poeti. Anzi io mi
maraviglio come quella tanta gravità e dignità che risplende ne' prosatori, si
cerchi invano in quasi tutti i poeti di quel secolo, e bene spesso anche negli
ottimi. I difetti dello stile poetico di quel secolo, anche negli ottimi, sono
infiniti, massime la ridondanza, gli epiteti, i sinonimi accumulati (al
contrario delle prose) ec. lasciando i più essenziali difetti di arguzie,
insipidezze ec. anche nell'Ariosto e
nel Tasso. E non è dubbio che Dante e Petrarca (sebbene non senza gran difetti di stile) furono nello stile
più vicini alla
701 perfezione che i cinquecentisti, e
così lo stile poetico del trecento (riguardo a questi due poeti) è superiore al
cinquecento: (tanto è vero che la poesia migliore è la più antica, all'opposto
della prosa, dove l'arte può aver più luogo). E dal trecento in poi lo stil
poetico {italiano} non è stato richiamato agli antichi
esemplari, massime latini, nè ridotto a una forma perfetta e finita, prima del
Parini e del Monti. V. gli altri miei pensieri in questo proposito
p.
10
pp.
59-60. Parlo però del stile poetico, perchè nel resto se si eccettuano
quanto agli affetti il Metastasio e
l'Alfieri (il quale però fu
piuttosto filosofo che poeta), quanto ad alcune (e di rado nuove) immagini il
Parini e il Monti (i quali sono piuttosto letterati di finissimo
giudizio, che poeti); l'italia dal cinquecento in poi non
solo non ha guadagnato in poesia, ma ha avuto solamente
702 versi senza poesia. Anzi la vera {poetica} facoltà creatrice, {sia quella del cuore
o quella della immaginativa,} si può dire che dal cinquecento in qua
non si sia più veduta in italia; e che un uomo degno del
nome di poeta (se non forse il Metastasio) non sia nato in italia dopo il
Tasso. (27. Feb.
1821.).
[725,1] La forza {creatrice}
dell'animo appartenente alla immaginazione, è esclusivamente propria degli
antichi. Dopo che l'uomo è divenuto stabilmente infelice, e, che peggio è, l'ha
conosciuto,
726 e così ha realizzata e confermata la sua
infelicità; inoltre dopo ch'egli ha conosciuto se stesso e le cose, tanto più
addentro che non doveva, e dopo che il mondo è divenuto filosofo,
l'immaginazione veramente forte, verde, feconda, creatrice, fruttuosa, non è più
propria se non de' fanciulli, o al più de' poco esperti e poco istruiti, che son
fuori del nostro caso. L'animo del poeta o scrittore ancorchè nato pieno di
entusiasmo di genio e di fantasia, non si piega più alla creazione delle
immagini, se non di mala voglia, e contro la sottentrata o vogliamo dire la
rinnuovata natura sua. Quando vi si pieghi, vi si piega ex
instituto, ἐπιτηδές, per forza di volontà, non d'inclinazione, per
forza estrinseca alla facoltà immaginativa, e non intima sua. La forza di un tal
animo ogni volta che si abbandona all'entusiasmo (il che non è più così
frequente) si rivolge all'affetto,
727 al sentimento,
alla malinconia, al dolore. Un Omero, un
Ariosto non sono per li nostri
tempi, nè, credo, per gli avvenire. Quindi molto e giudiziosamente e
naturalmente le altre nazioni hanno rivolto il nervo e il forte e il principale
della poesia dalla immaginazione all'affetto, cangiamento necessario, e
derivante per se stesso dal cangiamento dell'uomo. Così accadde
proporzionatamente anche {ai} latini, eccetto Ovidio. E anche
l'italia ne' principii della sua poesia, cioè quando
ebbe veri poeti, Dante, il Petrarca, il Tasso, (eccetto l'Ariosto) sentì e seguì questo cangiamento, anzi ne diede l'esempio
alle altre nazioni. Perchè dunque ora torna indietro? Vorrei che anche i tempi
ritornassero indietro. Ma la nostra infelicità, e la cognizione che abbiamo, e
non dovremmo aver, delle cose, in vece di scemare, si accresce. Che smania è
questa dunque di voler fare quello stesso che facevano i nostri avoli, quando
noi siamo così mutati? di ripugnare alla natura delle cose? di voler fingere una
728 facoltà che non abbiamo, o abbiamo perduta, cioè
l'andamento delle cose ce l'ha renduta infruttuosa e sterile, e inabile a
creare? di voler essere Omeri, in tanta
diversità di tempi? Facciamo dunque quello che si faceva ai tempi di Omero, viviamo in quello stesso modo,
ignoriamo quello che allora s'ignorava, proviamoci a quelle fatiche a quegli
esercizi corporali che si usavano in quei tempi. E se tutto questo ci è
impossibile, impariamo che insieme colla vita e col corpo, è cambiato anche
l'animo, e che la mutazione di questo è un effetto necessario, perpetuo, e
immancabile della mutazione di quelli. Diranno che gl'italiani sono per clima e
natura più immaginosi delle altre nazioni, e che perciò la facoltà creatrice
della immaginativa, ancorchè quasi spenta negli altri, vive in loro. Vorrei che
così fosse, come sento in me dalla fanciullezza e dalla prima giovanezza in poi,
e vedo negli
729 altri, anche ne' poeti più riputati,
che questo non è vero. Se anche gli stranieri l'affermano, o s'ingannano, come
in cose lontane, e come il lontano suol parere bellissimo o notabilissimo;
ovvero intendono solamente di parlare in proporzione degli altri popoli, non mai
nè assolutamente, nè in comparazione degli antichi, perchè anche l'immaginativa
italiana, in vigore dell'andamento universale delle cose umane, è illanguidita e
spossata in maniera, che per quel che spetta al creare, non ha quasi più se non
quella disposizione che gli deriva dalla volontà e dal comando dell'uomo, non da
sua propria ed intrinseca virtù, ed inclinazione.
[760,1] Così deve tenersi per fermissimo, ch'è indispensabile
di fare a tutte le lingue finch'elle vivono. La facoltà de' composti pur troppo
non è propria delle nostre lingue. Colpa non già di esse lingue, ma
principalmente dell'uso che non li sopporta, non riconosce nelle nostre lingue
meridionali
761 (delle settentrionali non so) questa
facoltà, delle orecchie o non mai assuefatteci, o dissuefattene da lungo tempo.
Perchè del resto 1. le nostre preposizioni, massimamente {nella lingua} italiana, sarebbero per la più parte, appresso a poco
non meno atte alla composizione di quello che fossero le greche e latine, e
{noi} non manchiamo di particelle attissime allo
stesso uso, anzi molte ritrovate espressamente per esso (come ri, o re, {tra o stra, arci,}
dis, o s, in negativo {o privativo,} e affermativo {mis, di, de
ec.}
{+E di queste
abbondiamo anzi più de' latini, e forse anche dei greci stessi, e credo
certo anche de' francesi e degli spagnuoli.)}
{V. il Monti,
Proposta alla voce Nonuso, e se vuoi p. 2078.} 2. anche ai composti
di più parole la lingua massimamente italiana, sarebbe dispostissima, come già
si può vedere in alcuni ch'ella usa comunemente ({valentuomo, passatempo,
tuttavolta, tagliaborse,}
capomorto, capogatto,
{beccafico, falegname,
granciporro,} e molti e molti altri) {v. p. 1076. e Monti
Proposta ec. v. guardamacchie.} ed
anche la lingua francese (emportepièce, {gobemouche,
fainéant coi derivati} ec.). 3. non manchiamo
neppure di avverbi atti a servire alla composizione. 4. la nostra lingua benchè
non si pieghi e non ami in questo genere la novità, ha però non poco in questo
genere, come i composti colla preposizione {in,}
tra, fra, oltra,
762
sopra, su, sotto, contra, anzi ec. ec. e Dante fra gli altri antichi aveva introdotto subito nel quasi creare
la nostra lingua, la facoltà, il coraggio, ed anche l'ardire de' composti, de'
quali egli abbonda (come indiare, intuare, immiare, disguardare ec. ec.) massime con preposizioni avverbi, e particelle. E
così gli altri antichi nostri. Ma a noi pure è avvenuto, come ai latini, che
questa onnipotente facoltà, propria della primitiva natura della nostra lingua,
{+(sebbene allora pure in minor grado
che, non solo della greca, ma anche della latina)} s'è lasciata
malamente e sfortunatamente perdere quasi del tutto, ancorchè si conservino
{buona parte di} quelli che si sono trovati in uso,
e si adoprino come recentissimi, {attestando continuamente la
primiera facoltà e natura della nostra lingua;} ma de' veramente nuovi
e recenti non si gradiscono. E tutto questo appresso a poco è avvenuto anche
alla lingua francese. {V. p. 805.} Dei
composti dunque, gli scrittori di oggidì non hanno gran facoltà, ma non però
nessuna (tanto in italiano che in francese): anzi ce ne resta ancor tanta da
potere, senza
763 la menoma affettazione formare e
introdurre molti nuovi composti chiarissimi, facilissimi, naturalissimi,
mollissimi per l'una parte; e per l'altra utilissimi; specialmente con
preposizioni e particelle ec. Quanto poi ai derivati d'ogni specie (purchè sieno
secondo l'indole e le regole della lingua, e non riescano nè oscuri nè
affettati) e a qualunque parola nuova che si possa cavare dalle esistenti nella
nostra lingua, che stoltezza è questa di presumere che una parola di origine e
d'indole italianissima, di significazione chiarissima, di uso non affettata nè
strana ma naturalissima, {di suono finalmente non disgrata
all'orecchio,} non sia italiana ma barbara, e non si possa nè
pronunziare ne scrivere, per questo solo, che non è registrata nel
Vocabolario? {+(E
quello che dico delle parole dico anche delle locuzioni e modi, e dei nuovi
usi qualunque delle parole o frasi ec. già correnti, purchè questi abbiano
le dette condizioni.)} Quasi che la lingua italiana sola, a differenza
di tutte le altre esistenti, e di qualunque ha mai esistito, si debba, mentre
ancor vive nell'uso quotidiano della nazione, considerar come morta {e morire vivendo, ed essere a un tempo viva e morta.}
Converrebbe che anche questa nazione vivesse come morta, cioè che nella sua
esistenza non
764 accadesse mai novità, divario,
mutazione veruna, nè di opinioni, nè di usi, nè di cognizioni (come, e più di
quello che si dice della China, la cui lingua in tal caso
potrà essere immobile): e di più che sia in tutto e per tutto conforme alla vita
e alle condizioni de' nostri antichi, {e di que'
secoli} dopo i quali non vogliono che sia più lecita la novità delle
parole.
[1028,4] La Bibbia ed Omero sono i due gran fonti dello scrivere, dice l'Alfieri nella sua Vita.
{Così Dante nell'italiano,
ec.} Non per altro se non perch'essendo i più antichi libri,
sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita,
della varietà. Introdotta la ragione nel mondo tutto a poco a poco, e in
proporzione de' suoi progressi, divien brutto, piccolo, morto, monotono.
(11. Maggio 1821.).
[1226,1] Con ciò non vengo mica a dire ch'ella debba, anzi
{pur} possa adoperare, e molto meno profondere
siffatte voci nella bella letteratura e massime nella poesia. Non v'è bontà dove
non è convenienza. Alle scienze son buone e convengono le voci precise, alla
bella letteratura le proprie. Ho già distinto in altro luogo pp. 109-11
p. 808
pp. 951-52 le parole dai termini, e mostrata la differenza che è
dalla proprietà delle voci alla nudità e precisione. {+È proprio ufficio de' poeti e degli scrittori ameni il
coprire quanto si possa le nudità delle cose, come è ufficio degli
scienziati e de' filosofi il rivelarla. Quindi le parole precise convengono
a questi, e sconvengono per lo più a quelli; a dirittura l'uno a l'altro.
Allo scienziato le parole più convenienti sono le più precise, ed esprimenti
un'idea più nuda. Al poeta e al letterato per lo contrario le parole più
vaghe, ed esprimenti idee più incerte, o un maggior numero d'idee ec. Queste
almeno gli denno esser le più care, e quelle altre che sono l'estremo
opposto, le più odiose. V. p. 1234.
capoverso 1. e p. 1312.
capoverso 2.} Ho detto p. 110 e ripeto che
i termini in letteratura e massime in poesia faranno sempre pessimo e
bruttissimo effetto. Qui peccano {assai} gli stranieri,
e non dobbiamo imitarli. Ho detto che la lingua francese (e intendo quella della
letteratura e della poesia) si corrompe per la profusione de' termini, ossia
delle voci di nudo e secco significato, perch'ella si compone oramai tutta
quanta di termini, abbandonando e dimenticando le parole: che noi non dobbiamo
mai nè
1227 dimenticare nè perdere {nè dismettere,} perchè perderemmo la letteratura e la poesia,
riducendo tutti i generi di scrivere al genere matematico. Le dette voci ch'io
raccomando alla lingua italiana, sono ottime e necessarie, non sono ignobili, ma
non sono eleganti. La bella letteratura {+alla quale è debito quello che si chiama eleganza,} non le deve
adoperare, se non come voci aliene, e come si adoprano talvolta le voci
forestiere, notando ch'elle son tali, e come gli ottimi latini scrivevano alcune
voci in greco, così per incidenza. I diversi stili domandano diverse parole, e
come quello ch'è nobile per la prosa, è ignobile bene spesso per la poesia, così
quello ch'è nobile ed ottimo per un genere di prosa, è ignobilissimo per un
altro. I latini ai quali in prosa non era punto ignobile il dire p. e. tribunus militum o plebis, o
centurio, o triumvir ec.
non l'avrebbero mai detto in poesia, perchè queste parole d'un significato
troppo nudo e preciso, non convengono al verso, benchè gli convengano le parole
proprie, e benchè l'idea rappresentata sia non solo non ignobile, ma anche
nobilissima. I termini della filosofia scolastica, riconosciuti dalla nostra
lingua per purissimi, sarebbero stati barbari nell'antica {nostra} poesia, come nella moderna, ed anche nella prosa elegante,
s'ella gli avesse adoperati come parole sue proprie.
1228 E se Dante le profuse nel suo poema,
e così pur fecero altri poeti, e parecchi scrittori di prosa letteraria in quei
tempi, ciò si condona alla mezza barbarie, o vogliamo dire alla civiltà bambina
di quella letteratura e di que' secoli, ch'erano però purissimi quanto alla
lingua. Ma altro è la purità, altro l'eleganza di una voce, e la sua
convenienza, bellezza, e nobiltà, rispettiva alle diverse materie, o anche solo
ai diversi stili: giacchè anche volendo trattar materie filosofiche in uno stile
elegante, e in una bella prosa, ci converrebbe fuggir tali termini, perchè
allora la natura dello stile domanda più l'eleganza e bellezza che la
precisione, e questa va posposta. {+(Del
resto in tal caso, la filosofia è l'uno de' principali pregi della
letteratura e poesia, sì antica che moderna, atteso però quello che ho detto
p. 1313. la quale
vedi.)} Io dico che l'italia dee riconoscere i
detti termini ec. per puri, cioè propri della sua lingua, come delle altre, ma
non già per eleganti. La bella letteratura, e massime la poesia, non hanno che
fare colla filosofia sottile, severa ed accurata; avendo per oggetto in bello,
ch'è quanto dire il falso, perchè il vero (così volendo il tristo fato
dell'uomo) non fu mai bello. Ora oggetto della filosofia qualunque, come di
tutte le scienze, è il vero: e perciò dove regna la filosofia, quivi non è vera
poesia. La qual cosa
1229 molti famosi stranieri o non
la vedono, o adoprano (o si conducono) in modo come non la vedessero o non
volessero vederla. E forse anche così porta la loro natura fatta piuttosto alle
scienze che alle arti ec. Ma la poesia quanto è più filosofica, tanto meno è
poesia. (26. Giugno 1821.). {{V. p. 1231.}}
[1317,1] I termini della filosofia scolastica possono in gran
parte servire assaissimo alla moderna, o presi nel medesimo loro significato
(quantunque la moderna avesse altri equivalenti), il che non farebbe danno alla
precisione, essendo termini conosciuti nel loro preciso valore; o torcendolo un
poco senz'alcun danno della chiarezza ec. E questi termini si confarebbero
benissimo all'indole della lingua italiana, la quale ne ha già tanti, {e} i cui scrittori antichi, cominciando da Dante, hanno tanto adoperato detta
filosofia, ed introdottala nelle scritture più colte ec. oltre che derivano
tutti o quasi tutti dal latino,
1318 o dal greco
mediante il latino ec. Anche per questa parte ci può essere utilissimo lo studio
del latino-barbaro, ed io so per istudio postoci, quanti di detti termini,
andati in disuso, rispondano precisamente ad altri termini della filosofia
moderna, che a noi suonano forestieri e barbari; e possano essere precisamente
intesi da tutti nel senso de' detti termini recenti: e così quanti altri ve ne
sarebbero adattatissimi, {e utilissimi,} ancorchè non
abbiano oggi gli equivalenti ec. ec. {anzi tanto più.}
Aggiungete che benchè andati in disuso negli scrittori filosofi moderni, gran
parte di detti termini è ancora in uso nelle scuole, o in parte di esse, e per
questa e per altre ragioni, sono di universale e precisa e chiara intelligenza.
(13. Luglio 1821.)
{{v. p.
1402.}}
[1366,1] Non basta che Dante, Petr.
Bocc. siano stati tre sommi scrittori.
Nè la letteratura nè la lingua è perfetta e perfettamente formata in essi, nè
quando pur
1367 fosse ciò basterebbe a porre nel 300 il
secol d'oro della lingua. Qual poeta, anzi quale scrittore, anzi quale ingegno
maggiore di Omero ebbe {mai, non dirò} la Grecia,
ancorchè sì feconda per sì gran tempo, {ma il mondo?} E
tuttavia nessuno può riporre la perfetta formazione e il secol d'oro della
lingua greca, nel tempo, e neppur nella lingua d'Omero: {+(v. se vuoi, la lettera al Monti
sulla Grecità del Frullone, in fine.
Proposta ec. vol. 2. par. 1. appendice.)}
quantunque la lingua greca sia molto più formata in Omero, che non è l'italiana massime in Dante; perchè Dante fu quasi il primo scrittore italiano, Omero non fu nè il primo scrittore nè il
primo poeta greco. E la lingua greca architettata (siccome lingua veramente
antica) sopra un piano assai più naturale ec. del nostro, era capace di arrivare
alla perfezione sua propria in molto meno tempo dell'italiana, ch'è pur lingua
moderna, e spetta (necessariamente) al genere moderno. (22. Luglio
1821.). {{V. p. 1384. fine.}}
[1402,1]
Alla p. 1318.
capoverso 1. Si può osservare che la lingua italiana ha coltivata
l'antica filosofia, ed abbonda di scrittori (anche classici) che la trattino o
exprofesso o incidentemente e per solo uso, più di qualunque altra lingua
moderna. Le cagioni son queste. La detta filosofia col progresso delle scienze
si spense. Non vale dunque che altre lingue moderne possano avere avuti più
filosofi e più scrittori ancora dell'italiana. Bisogna vedere in qual tempo. Ora
tutte le lingue moderne sono state applicate alla letteratura ec. assai più
tardi dell'italiana. Quindi pochissimo hanno potuto dar opera all'antica
filosofia. Laddove l'italiana dal 300 al 600, da Dante a Galileo,
vale a dire dal risorgimento degli studi, alla rinnovazione della filosofia,
coltivò sempre la filosofia antica, si arricchì delle sue voci ec. ec. Oltrechè
avendo posto gl'italiani in detto spazio di tempo assai più amore ec. in ogni
genere di studi che qualunque altra nazione, seguita che la filosofia
1403 antica che dopo quei tempi si spense, fiorisse in
italia più che altrove, {dopo il
risorgimento degli studi,} coincidendo coll'epoca d'oro della
letteratura italiana. Quindi anche i letterati puri n'erano studiosissimi, e ne
solevano far grand'uso, mossi fors'anche dall'esempio di Dante, loro comune maestro, e dall'indole di tutti i
tempi colti, che hanno sempre dato gran peso alla filosofia ec. Aggiungete che
quelli stessi che nelle altre nazioni trattarono l'antica filosofia, non la
trattarono nelle lingue volgari ma in latino, perchè le altre lingue volgari,
eccetto l'italiana, non si stimavano e non erano allora capaci delle cose gravi
e serie ec. Onde anche la storia fu scritta dal francese
de-Thou in
latino, nè si ha, cred'io, storia francese, almeno passabile prima di Luigi 14. (28. Luglio
1821.).
[1525,1] Degli stessi tre soli scrittori letterati del
trecento, un solo, cioè Dante, ebbe
intenzione scrivendo, di applicar la lingua italiana alla letteratura. Il che si
fa manifesto sì dal poema sacro, ch'egli considerava, non come trastullo, ma
come impresa di gran momento, e dov'egli trattò le materie più gravi della
filosofia e teologia; sì dall'opera, tutta filosofica, teologica, e insomma
dottrinale e gravissima del Convito, simile agli antichi Dialoghi
scientifici ec. (vedilo); sì finalmente dalle opinioni ch'egli manifesta nel
Volgare
Eloquio. Ond'è che Dante fu propriamente, com'è stato sempre considerato, e per
intenzione e per effetto, il fondatore della lingua italiana.
1526 Ma gli altri due, non iscrissero italiano che per passatempo, e
tanto è lungi che volessero applicarlo alla letteratura, che anzi non
iscrivevano quelle materie in quella lingua, se non perchè le credevano indegne
della lingua letterata, cioè latina, in cui scrivevano tutto ciò con cui
miravano a farsi nome di letterati, e ad accrescer la letteratura. Siccome
giudicavano (ancor dopo Dante, ed
espressamente contro il parere e l'esempio suo, specialmente il Petr.) che la lingua italiana fosse
indegna e incapace delle materie gravi e della letteratura. Sicchè non pur non
vollero applicarvela, ma non credettero di potere, nè che veruno potesse mai
farlo. Opinione che durò fin dopo la metà del Cinquecento circa il poema eroico,
del quale pochi anni dopo la morte dell'Ariosto, e pochi prima che uscisse la Gerusalemme, si
credeva in italia che la lingua italiana non fosse
capace: onde il Caro prese a tradurre
l'Eneide ec. (v. il 3. tomo delle sue lett. se non fallo). Ed è
notissima l'opinione che portava il Petr. del suo canzoniere: ed egli lo scrisse
1527 in italiano, come anche il Boccaccio le sue novelle e romanzi, per divertimento
delle brigate, come ora si scriverebbe in un dialetto vernacolo, e per li
cavalieri e dame, e genti di mondo, che non si credevano capaci di letteratura.
ec. ec. Ed è pur noto come nel 500. si scrivessero poemi sudatissimi in latino,
e storie ec. (19. Agos. 1821.).
[1688,2] Si parla tuttogiorno di convenienze. E si crede
ch'elle sieno fisse, universali, invariabili, e su di loro si fonda tutto il
buon gusto. Or quante cose che sono convenienti, e quindi belle, e quindi di
buon gusto in italia, non lo sono in
Francia, ne' costumi, nel tratto, nello scrivere, nel
teatro, nell'eloquenza, nella poesia ec. Dante non è egli un
1689 mostro per li
francesi nelle sue più belle parti; un Dio per noi? Così discorrete, e su questo
esempio ragionate di tutte le possibili convenienze in ordine al confronto delle
idee che noi o altre nazioni ne hanno, con quelle che ne hanno i francesi.
(13. Sett. 1821.).
[1809,1]
1809 Ma se noi non sentiamo perfettamente in essi il
familiare, qualità delle lingue la più difficile a ben sentirsi in una lingua
forestiera, e più in una lingua morta, lo sentiamo però ottimamente in Dante, nei prosatori trecentisti, escluso
il Boccaccio, che introdusse
nell'italiano tante voci, frasi, e forme latine, e nel Petrarca (v. un mio pensiero sulla familiarità del
Petrarca), eccetto dov'egli pure si
accosta ed imita (come fa, e felicemente, assai spesso) l'andamento latino.
Questi e tutti gli scrittori primitivi di ciascuna lingua, doverono
necessariamente dare un andamento, un insieme di familiarità al loro stile ed
alla maniera di esprimere il[i] loro pensieri,
{+sì per altre ragioni, sì}
perchè mancavano di uno de' principali fonti dell'eleganza, cioè le parole,
frasi forme rimosse dall'uso del volgo per una tal quale, non dirò antichità, ma
quasi maturità. {+(Infatti è notabile che
la vera imitazione degli antichi quanto alla lingua, dà subito un'aria di
familiarità allo stile).} E siccome altrove osservammo pp. 1482. sgg. che gli
scrittori primitivi sono sempre i più propri, così e per le stesse ragioni, essi
debbono
1810 cedere ai susseguenti nell'eleganza
(intendendo quella che ho dichiarato).
[1993,2] La lingua francese ricevette una certa forma, e
venne in onore prima dell'italiana, e forse anche della spagnuola, mercè de'
poeti provenzali che la scrivevano ec. Onde sulla fine stessa del ducento, e
principio di quel trecento che innalzò la lingua italiana su tutte le vive
d'allora, si stimava in italia
la
parlatura francesca
*
esser la più dilettevole e comuna di tutti gli altri
linguaggi parlati
*
;
1994
si scriveva in quella piuttosto che nella nostra, stimandola più bella e
migliore
*
ec. v. Perticari, del 300. p.
14-15. Ma la buona fortuna dell'italia volle
che nel 300, cioè prima {assai} che in nessun'altra
nazione, sorgessero in essa tre grandi scrittori, giudicati grandi anche poscia,
indipendentemente dall'età in cui vissero, i quali applicarono la nostra lingua
alla letteratura, togliendola dalle bocche della plebe, le diedero stabilità,
regole, andamento, indole, tutte le modificazioni necessarie per farne una
lingua non del tutto formata, ch'era impossibile a tre soli, ma pur tale che già
bastasse ad esser grande scrittore adoperandola; la modellarono sulla già
esistente letteratura latina ec. Questa circostanza, indipendente affatto dalla
natura della lingua italiana, ha fatto e dovuto far sì che l'epoca di essa
lingua si pigli necessariamente
1995 d'allora in poi,
cioè da quando ell'ebbe tre sommi scrittori, che l'applicarono decisamente alla
letteratura, {all'altissima poesia,} alle grandi e
nobili cose, alla filosofia, alla teologia (ch'era allora il non plus ultra, e
perciò Dante col suo magnanimo ardire,
pigliando quella linguaccia greggia ed informe dalle bocche plebee, e volendo
innalzarla fin dove si può mai giungere, si compiacque, anche in onta della
convenienza e buon gusto poetico, di applicarla a ciò che allora si stimava la
più sublime materia, cioè la teologia). Questa circostanza ha fatto che la
lingua italiana contando oggi, a differenza di tutte le altre, cinque interi
secoli di letteratura, sia la più ricca
di tutte; questa che la sua formazione e la sua indole sia decisamente antica,
cioè bellissima e liberissima, con gli altri infiniti vantaggi delle lingue
antiche (giacchè i cinquecentisti che poi decisamente la formarono, oltre
1996 che sono antichi essi stessi, e che si modellarono
sugli antichi classici latini e greci seguirono ed in ciò, e in ogni altra cosa
il disegno e le parti di quella tal forma che la nostra lingua ricevette nel
300. e ch'essi solamente perfezionarono, compirono, e per ogni parte regolarono,
uniformarono, ed armonizzarono); questa circostanza ha fatto che la
nr̃a[nostra] lingua non abbia mai
rinunziato alle parole, modi, forme antiche, ed all'autorità degli antichi dal
300 in poi, non potendo rinunziarvi se non rinunziando a se stessa, perchè
d'allora in poi ell'assunse l'indole che la caratterizza, e fu splendidamente
applicata alla vera letteratura. Questa circostanza è unica nella lingua
italiana. La spagnuola le tenne dietro più presto che qualunqu'altra, ma solo
due secoli dopo. Dal 500. dunque ella prende la sua epoca, ed ella è la più
antica di fatto e d'indole, dopo
1997 l'italiana. La
lingua francese non ebbe uno scrittore assolutamente grande e da riconoscersi
per tale in tutti i secoli, prima del secolo di Luigi 14. o in quel torno. (Montagne nel 500. o non fu tale, o non bastò, o non
era tale da formare e fissare bastantemente una lingua.) Quindi la sua epoca non
va più in là, ella conta un secolo e mezzo al più, l'autorità degli antichi è e
dev'esser nulla per lei. Dove comincia la vera e propria letteratura di una
nazione quivi comincia l'autorità de' suoi scrittori in punto di lingua.
[2041,1] La rapidità e la concisione dello stile, piace
perchè presenta all'anima una folla d'idee simultanee, o così rapidamente
succedentisi, che paiono simultanee, e fanno ondeggiar l'anima in una tale
abbondanza di pensieri, o d'immagini e sensazioni spirituali, ch'ella o non è
capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare
in ozio, e priva di sensazioni.
2042 La forza dello
stile poetico, che in gran parte è tutt'uno colla rapidità, non è piacevole per
altro che per questi effetti, e non consiste in altro. L'eccitamento d'idee
simultanee, può derivare e da ciascuna parola isolata, o propria o metaforica, e
dalla loro collocazione, e dal giro della frase, e dalla soppressione stessa di
altre parole o frasi ec. Perchè è debole lo stile di Ovidio, e però non molto piacevole, quantunque egli sia
un fedelissimo pittore degli oggetti, ed un ostinatissimo e acutissimo
cacciatore d'immagini? Perchè queste immagini risultano in lui da una copia di
parole e di versi, che non destano l'immagine senza lungo circuito, e così poco
o nulla v'ha di simultaneo, giacchè anzi lo spirito è condotto a veder gli
oggetti appoco appoco per le loro parti. Perchè lo stile di Dante è il più forte che mai si possa concepire, e per
questa parte il più bello e dilettevole possibile? Perchè ogni
2043 parola presso lui è un'immagine ec. ec. V. il mio discorso sui romantici. Qua
si possono riferire la debolezza essenziale, e la ingenita sazietà della poesia
descrittiva, (assurda in stessa) e quell'antico precetto che il poeta (o lo
scrittore) non si fermi troppo in una descrizione. Qua la bellezza dello stile
di Orazio (rapidissimo, e pieno
d'immagini per ciascuna parola, o costruzione, o inversione, o traslazione di
significato ec.), {V. p. 2049.} e quanto al pensiero, quella dello
stile di Tacito. ec.
(3. Nov. 1821.). {{V. p. 2239.}}
[2126,1] La gran libertà, varietà, ricchezza della lingua
greca, ed italiana, (siccome oggi della tedesca) qualità proprie del loro
carattere, oltre le altre cagioni assegnatene altrove pp. 2060-65 , riconosce come una delle
principali cause la circostanza contraria a quella che produsse le qualità
contrarie nella lingua latina e francese; cioè la mancanza di capitale, di
società nazionale, di unità politica, e di un centro di costumi, opinioni,
2127 spirito, letteratura e lingua nazionale. Omero e Dante (massime Dante) fecero
espressa professione di non volere restringere la lingua a veruna o città o
provincia d'italia, e per lingua cortigiana l'Alighieri, dichiarandosi di adottarla,
intese una lingua altrettanto varia, quante erano le corti e le repubbliche e
governi d'italia in que' tempi. Simile fu il caso d'Omero e della
Grecia a' suoi tempi e poi. Simile è quello
dell'italia anche oggi, e simile è stato da Dante in qua. Simile pertanto dev'essere
assolutamente la massima fondamentale d'ogni vero filosofo linguista italiano,
come lo è fra' tedeschi. (19. Nov. 1821.).
[2396,1] Il P. Dan.
Bartoli è il Dante della prosa
italiana. Il suo stile in ciò che spetta alla lingua, è tutto a risalti e
rilievi. (22. Marzo 1822.).
[2503,1] I primi scrittori e formatori di qualsivoglia
lingua, e fondatori di qualsivoglia letteratura, non solo non fuggirono il
barbarismo, ma lo cercarono. {+V. Caro, Apologia, p. 23-40. cioè
l'introduzione del Predella.} Tolsero voci e modi {e
forme e metafore e maniere di stile e costruzioni ec.} (e questo in
gran copia) dalle lingue madri, dalle sorelle, e anche dalle affatto aliene,
2504 massimamente se a queste, benchè aliene,
apparteneva quella letteratura sulla quale essi si modellavano, e dalla quale
venivano derivando e imparavano a fabbricar la loro. Dante è pieno di barbarismi, cioè di maniere e voci
tolte non solo dal latino, ma dall'altre lingue o dialetti ch'avevano una tal
qual dimestichezza o commercio colla nostra nazione, e in particolare di
provenzalismi (che vengono ad essere appunto {presso a
poco} i gallicismi, tanto abominevoli oggidì); de' quali abbondano
parimente gli altri trecentisti, e i ducentisti ec. Di barbarismi abbonda Omero, com'è bene osservato dagli
eruditi: di barbarismi Erodoto: di
barbarismi i primi scrittori francesi ec.
[2504,1] E non è mica da credere nè che questi barbarismi de'
primi e classici scrittori, fossero, a quei tempi, comuni nella loro nazione, ed
essi scrittori si lasciassero strascinar dall'uso corrente; ne che gli usassero
e introducessero per solo bisogno, o per arricchir
2505
la {loro} lingua di parole e modi economicamente utili. Gli usarono, come si può
facilmente scoprire, per espresso fine di essere eleganti col mezzo di un parlar
pellegrino, e ritirato dal volgare. E sebben furono costretti, volendo essere
intesi, a usar gran parte delle voci e modi correnti, e formarne il corpo della
loro scrittura, pur molto volentieri e con predilezione s'appigliarono quando
poterono alle voci e modi forestieri, per parlare alla peregrina, e per dare al
loro modo di dire un non so che di raro, ch'è insomma l'eleganza. E p. e. di
Dante, si vede chiaramente ch'egli
si studiò di parlare a' suoi compatrioti co' modi e vocaboli provenzali, a
cagione che la nazion provenzale era allora la più colta, ed aveva una specie di
letteratura, abbastanza nota in italia, e che rendeva la
lingua provenzale così domestica agl'italiani colti, che le sue parole o frasi,
italianizzandole, non erano enigmi
2506 per loro, e
così poco volgare che le dette voci e frasi non erano ordinariamente nella loro
bocca (come non lo sono ora le latine che p. e. i poeti derivano di nuovo
nell'italiano, e che tutti intendono), nè in quella del popolo: il quale però
eziandio era sufficientemente disposto ad intenderle (senza perdere il piacere
del pellegrino) a causa delle canzoni provenzali, amorose ec. ch'andavano molto
in giro, e si cantavano ec. Or dunque da queste canzoni, e dalla letteratura e
dalla lingua provenzale tirò Dante molte
voci e modi per essere elegante: e ci riuscì {allora;}
e con tutti questi che oggi si chiamerebbero barbarismi, sì egli, come Omero, e tali altri scrittori primitivi,
s'hanno da per tutto per classici, e taluni per eleganti; o se s'hanno per
ineleganti, viene piuttosto dall'arcaismo che dal barbarismo.
[2515,1] E quella ricchissima, {fecondissima,} potentissima, regolatissima, e al tempo stesso {variatissima, poetichissima e} naturalissima lingua del
cinquecento, ch'a noi (ne' suoi buoni scrittori) riesce così elegante, forse
ch'allora fu tenuta per tale? Signor no, ma per corrotta. E la buona lingua si
stimava solo quella del trecento, {+e se
ne deplorava la mutazione, chiamandola corruzione e scadimento totale della
lingua, (come noi facciamo rispetto al 500),} e gli scrittori tanto
più s'avevano eleganti, quanto meno scrivevano nella lingua loro per iscrivere
in quella di quell'altro secolo. Laddove a noi, a' quali l'una e l'altra è
divenuta pellegrina, tanto più piacciono i cinquecentisti quanto più seguono
l'uso
2516 del loro secolo, e meno imitano il trecento.
Ed è ben ragionevole perchè allora solo possono esser naturali e di vena, come è
il Caro che non fu mai imitatore.
{+(È notabile che di parecchi
cinquecentisti, le lettere dov'essi ponevano meno studio, e che stimavano
essi medesimi di lingua impurissima, mentr'era quella del loro secolo, sono
più grate a leggersi, e di migliore stile che l'altre opere, dove si
volevano accostare alla lingua del trecento, mentre nelle lettere usavano la
lingua loro, e riescono per noi elegantissimi e naturalissimi.). V. p. 2525.} Ma anche nel
cinquecento non si stimava veramente elegante se non il pellegrino, e lo
trovavano e cercavano nella lingua del trecento, che sola chiamavano pura,
quando per noi è purissima quella del cinquecento. V. Salviati, Avvertim.
della lingua, citati nelle op. del Casa, Venezia 1752. t. 3. p. 323. fine -
324. Nel trecento poi nemmen si parlava di purità, nè si poneva tra i
pregi della lingua o dello scrivere; e la lingua del loro secolo non si stimava
elegante (se non forse alcune smancerie fiorentine, di cui parla il Passavanti, e queste credo piuttosto che s'amassero nel
resto di Toscana o d'italia, che
in Firenze, come accade veramente anche oggi): e quelli
scrittori che più si stimavano eleganti, e che tali si credevano o pretendevano
essi medesimi, erano non quelli che oggi più s'ammirano per la naturalezza e la
semplicità, e che
2517 in somma usavano più puramente
la lingua nazionale o patria del tempo loro, ma quelli che oggi meno
s'apprezzano, cioè che la fornivano di parole e modi forestieri, e che si
studiavano di tirarla alle forme d'altre lingue, e d'altri stili, come fece il
Boccaccio rispetto al latino, e come
anche Dante, la cui lingua, s'è pura per
noi, che misuriamo la purità coll'autorità, niuno certamente avrebbe chiamato
pura a quei tempi, s'avessero pensato allora alla purità{{, e
gli stessi cinquecentisti non erano}}
{+molto inchinati a stimarlo tale, nè ad
accordargli un[un'] assoluta autorità e voto
decisivo in fatto di purità di lingua, restringendosi piuttosto al Petr. e al Boc.
V. Caro
Apolog. p. 28. fine ec. Lett. 172. t. 2. e se vuoi,
anche il Galateo del Casa circa la stima
ch'allora si faceva di tanto poeta.}
[2523,1]
Ovidio descrive, Virgilio dipinge, Dante (e così proporzionatamente nella prosa il nostro Bartoli) a parlar con proprietà, non
solo dipinge da maestro in due colpi, e vi fa una figura con un tratto di
pennello; non solo dipinge senza descrivere, (come fa anche Virgilio ed Omero), ma intaglia e scolpisce dinanzi agli occhi del lettore le
proprie idee, concetti, immagini, sentimenti. (29. Giugno, 1822. dì di
S.
Pietro.).
[2533,1] 1. La maggior fama degli scrittori del 500 fu a quei
tempi, come verseggiatori, e specialmente lirici, e questi ognun sa ch'erano
servili imitatori del Petrarca, e quindi
del 300, e si veda nell'Apologia del Caro, la misera presunzione ch'avevano di scrivere
come il Petrarca, e che non s'avessero a
usar parole o modi non usati da lui, come anche nelle prose volevano restringer
la lingua a quella sola del Boccaccio, e
siamo pur lì. Certo è, nè per chiunque è pratico dello spirito che governava la
repubblica nostra letteraria nel 500, è bisogno di molte parole a dimostrargli,
che l'apice della letteratura, e quello a cui nondimeno aspiravano
2534 tanto gl'infimi quanto i sommi, era la lirica
Petrarchesca, cioè 300istica, e non 500istica. E gli scrittori più grandi in
ogni altro genere o prosaico o poetico, divenivano famosi principalmente pe'
loro sonetti e canzoni petrarchesche che si divulgavano come un lampo per
l'italia, si trascrivevano subito, si domandavano,
erano il trattenimento delle Dame, e queste ne chiedevano ai letterati, e i
letterati se ne chiedevano scambievolmente, e ne ricevevano e restituivano con
proposte e risposte ec. E senza questi versi difficilmente s'arrivava alla
riputazion di letterato. Osservate, per non allontanarmi dall'esempio più volte
addotto, il Caro, le cui rime sono la
sola cosa che di lui non si legga più. Aveva il Caro grandissima fama, ma dalle sue lettere vedrete
che questa riposava essenzialmente e soprattutto nell'opinion ch'egli avea di
poeta (che nol fu mai), e
2535 tutto il restante suo
merito letterario, s'aveva in lui, come in tutti gli altri, per mero accessorio.
E fu stimato gran poeta, non già per l'Eneide,
{+ch'oggi s'ammira, e si
ristampa,} ch'è scritta in istile e lingua propria del suo tempo,
benchè abbellita al suo modo, e arricchita di latinismi. Questa fu opera postuma
e non levò molto grido nel 500. Il Caro fu creduto un sommo letterato perchè sapeva rimare alla
Petrarchesca, e giudicar di tali pretese poesie. E la sua famosa
Canzone fu strabocchevolmente ammirata (ed oggi non s'arriva
a poterla legger tutta) perchè si disse che il Petrarca non l'avrebbe scritta altrimenti. (Caro, Apolog. p.
18.). E chi non sa l'inferno che cagionò in
italia, e come nella disputa di quell'impiccio
petrarchesco ci prese parte tutta la nazion letterata, considerandola come affar
di tutta la letteratura? Fatto sta che le maravigliose prose del Caro, benchè stimate,
2536 non furono già ammirate nel 500 (quanto alla
lingua). Ed è certo che la lingua del Caro, come l'immaginazione e l'ingegno di Dante, son venute principalmente in onore, e riposte
nel sommo luogo che meritano, in questo e sulla fine del passato secolo. Il che,
di Dante, si vede anche fra gli
stranieri. E quanto a lui, ciò si deve al perfezionamento de' lumi, e del gusto,
e della filosofia, e della teoria dell'arti, e del sentimento del vero bello.
Quanto al Caro, ciò viene in gran
parte da circostanze materiali.
[2573,1]
Omero è il padre e il perpetuo principe
di tutti i poeti del mondo. Queste due qualità di padre e principe non si
riuniscono in verun altro uomo rispetto a verun'altra arte o scienza umana. Di
più, nessuno riconosciuto per principe in qualunque altra arte o scienza, se ne
può con questa sicurezza, cagionata dall'esperienza di tanti secoli, chiamar
principe
2574 perpetuo. Tale è la natura della poesia
ch'ella sia somma nel cominciare. Dico somma e inarrivabile in appresso in
quanto puramente poesia, ed in quanto vera poesia, non in quanto allo stile ec.
ec. Esempio ripetuto in Dante, che in
quanto poeta, non ebbe nè avrà mai pari fra gl'italiani. (21. Luglio
1822.).
[2790,1]
2790 Il nome di Arpalice (della quale v. Forcell. in Harpalice) non credo che sia
nato, nè si debba cercare altronde che dalla velocità ec. Io poi son d'opinione
che nel citato luogo della Teogonia, 265-9, la voce ἁρπυίας non sia
punto un appellativo, come hanno creduto i grammatici, gl'interpreti e i
Lessicografi, ma un puro aggettivo significante ratte,
veloci, il che mi persuadono sì il confronto del
citato luogo dell'Iliade, sì le addotte osservazioni in
proposito, sì tutto il contesto del luogo d'Esiodo.
Θαύμας * (figlio di Nereo e della Terra) δ' ᾽Ωκεανοῖο βαϑυῤῥείταο ϑύγατρα.
Ἠγαγετ' Ἠλέκτρην. ἡ δ' ὠκεῖαν τέκεν Ἶριν[Ιριν]
᾽Ηϋκόμους ϑ' Ἁρπυίας * (così scrivono con lettera maiuscola) ῾Aελλώ τ᾽ ᾽Ωκυπέτην τε, * (nomi propri, e simboleggiano le procelle e i venti, come indica la loro etimologia, e come pur dicono i grammatici e gli interpreti). 2791
Aἵ ῥ' ἀνέμων πνοιῇσι καί οἰωνοῖς ἅμ᾽ ἕπονται
᾽Ωκείῃς πτερύγεσσι∙ μεταχρόνιαι γὰρ ἴαλλον. *
Io tengo per fermo che ἁρπυίας sia un secondo epiteto compagno di ἠϋκόμους. Il duplicare o moltiplicare gli epiteti senza congiungerli fra loro con alcuna particella congiuntiva, poco usitato dai poeti latini, è familiarissimo ai poeti greci; e proprissimo di Omero, e dietro lui, degli altri: siccome di Dante (secondochè osserva Monti nella Proposta) e degli altri poeti italiani. Vedi fra gli altri infiniti luoghi, odiss. α, 96-100, il qual luogo è ripetuto più d'una volta nell'Iliade, e s'io non fallo, anche nell'odissea.
Θαύμας * (figlio di Nereo e della Terra) δ' ᾽Ωκεανοῖο βαϑυῤῥείταο ϑύγατρα.
Ἠγαγετ' Ἠλέκτρην. ἡ δ' ὠκεῖαν τέκεν Ἶριν[Ιριν]
᾽Ηϋκόμους ϑ' Ἁρπυίας * (così scrivono con lettera maiuscola) ῾Aελλώ τ᾽ ᾽Ωκυπέτην τε, * (nomi propri, e simboleggiano le procelle e i venti, come indica la loro etimologia, e come pur dicono i grammatici e gli interpreti). 2791
Aἵ ῥ' ἀνέμων πνοιῇσι καί οἰωνοῖς ἅμ᾽ ἕπονται
᾽Ωκείῃς πτερύγεσσι∙ μεταχρόνιαι γὰρ ἴαλλον. *
Io tengo per fermo che ἁρπυίας sia un secondo epiteto compagno di ἠϋκόμους. Il duplicare o moltiplicare gli epiteti senza congiungerli fra loro con alcuna particella congiuntiva, poco usitato dai poeti latini, è familiarissimo ai poeti greci; e proprissimo di Omero, e dietro lui, degli altri: siccome di Dante (secondochè osserva Monti nella Proposta) e degli altri poeti italiani. Vedi fra gli altri infiniti luoghi, odiss. α, 96-100, il qual luogo è ripetuto più d'una volta nell'Iliade, e s'io non fallo, anche nell'odissea.
[3010,1] Or questa diversa e poetica inflessione e pronunzia
de' vocaboli correnti, che altro è per l'ordinario, se non inflessione e
pronunzia antica, usitata dagli antichi prosatori, nell'antico discorso, ed ora
andata in disuso nella prosa e nel parlar familiare? di modo che quelle parole
così pronunziate e scritte non altro sono veramente che parole antiche e
arcaismi, in quanto così sono scritte e pronunziate? nè altro è ordinariamente
dire inflessioni, licenze, voci poetiche se non arcaismi? Vedi in questo proposito una bella
riflessione di Perticari, Apologia, Capo 14. fine p.
131-2. Certo questa diversità d'inflessione per la più parte non è se
3011 non quello ch'io dico: così ne' poeti greci,
così ne' latini (più schivi però dell'antico, e quindi il loro linguaggio
poetico è assai meno distinto dalla lor prosa quanto a' vocaboli, che il greco),
così negl'italiani. Perocchè non è da credere che {la
inflession d'}una voce sia stimata, e quindi veramente sia, più
elegante o per la prosa o pel verso, perchè e quanto ella è più conforme
all'etimologia, ma solamente perchè e quanto ella è meno trita dall'uso
familiare, essendo però bene intesa e non riuscendo ricercata. (Anzi bene spesso
è trivialissima l'inflessione regolare ed etimologica, ed elegantissima e tutta
poetica la medesima voce storpiata, come dichiaro in altro luogo pp.
2075-76). E questo non esser trita, nè anche ricercata, ma pur bene
intesa, come può accadere a una voce, o ad una cotale inflessione della
medesima? Il pigliarla da un particolar dialetto {o
l'infletterla secondo questo} fa ch'ella non riesca trita
all'universale, ma difficilmente può far ch'ella e non paia ricercata e sia bene
intesa da tutti. {+Oltre ch'ella riesce
anche trita a quella parte della nazione di cui quel dialetto è
proprio.} In verità i dialetti particolari sono scarso sussidio e
fonte al linguaggio poetico, e all'eleganza qualunque. Lo vediamo noi italiani
in Dante, dove le
3012 le voci e inflessioni veramente proprie di dialetti particolari
d'italia fanno molto mala riuscita, nè la poesia
nostra, nè verun savio tra' nostri o poeti o prosatori ha mai voluto imitar Dante nell'uso de' dialetti, non solo
generalmente, ma neppure in ordine a quelle medesime voci e pronunzie o
inflessioni da lui adoperate. Circa l'uso e mescolanza de' dialetti greci nella
inflessione delle parole appresso Omero,
non volendo rinnovare le infinite discussioni già fatte da tanti e tanti in
questo proposito, solamente dirò che o le circostanze della
Grecia e d'Omero erano diverse da quelle che noi possiamo considerare, e quindi
per l'antichità ed oscurità della materia non potendo nulla giudicarne di certo
e di chiaro, niuno argomento ne possiamo dedurre; ovvero (e così penso) quelle
inflessioni che in Omero s'attribuiscono
a' dialetti, e da' dialetti si stima che Omero le prendesse, {o tutte o gran parte}
erano in verità proprie della lingua greca comune del suo tempo, o d'una lingua,
o vogliamo dir d'un uso più
3013 antico ancora di lui;
dalla qual lingua comune, o {{fosse}} più antica, o
allora usitata, Omero tolse quelle
inflessioni ch'egli si stima aver pigliato da questo e da quel dialetto
indifferentemente e confusamente. Non volendo ammetter nulla di questo, dirò che
in Omero la mescolanza de' dialetti dovè
riuscir così male come in Dante. Circa i
poeti greci posteriori, i quali tutti (fuor di quelli che scrissero in dialetti
privati, come Saffo, Teocrito ec.) seguirono interamente Omero, come in ogni altra cosa, così
nella lingua, e da lui tolsero quanto il loro linguaggio ha di poetico, cioè della sua lingua
formarono quella che si chiama dialetto poetico greco, ossia linguaggio poetico
comune, la questione non è difficile a sciogliere. Perocchè quelle inflessioni
ch'essi adoperavano, benchè proprie di particolari dialetti, essi non le
toglievano da' dialetti ma dal dialetto o linguaggio Omerico, di modo ch'elle
riuscivano eleganti e poetiche, non in quanto proprie di privati dialetti, ma in
quanto antiche ed Omeriche; ed erano bene intese
3014
dall'universale della nazione, nè parevano ricercate perchè tutta la nazione
benchè non usasse familiarmente nè in iscrittura prosaica le inflessioni e voci
Omeriche, le conosceva però e v'aveva l'orecchio assuefatto per lo gran
divulgamento de' versi d'Omero cantati
da' rapsodi per le piazze e le taverne, e saputi a memoria fino da' fanciulli.
{#1. V. p. 3041.}
Il che non accadde a' poemi di Dante, il
quale non fu mai in italia neppur poeta di scuola, come
Omero in
grecia presso i grammatisti medesimi, o certo presso i grammatici
(vedi il Laerz. del Wetstenio, tom. 2. p. 583. not. 5.); nè il dialetto o
linguaggio poetico italiano è o fu mai quello di Dante. Dico generalmente parlando, e non d'alcuni pochi
e particolari poeti, suoi decisi imitatori, come Fazio degli
Uberti, l'autore del Quadriregio
Federico Frezzi, ed alcuni
dell'ultimo secolo, come il Varano.
Neppur la lingua del Petrarca è quella
di Dante, nè da lui fu presa, nè punto
si serve de' particolari dialetti.
[3289,3] Sogliono le opere umane servire di modello
successivamente l'une all'altre, e così appoco perfezionandosi il genere, e
ciascuna opera, o le più
3290 d'esse riuscendo migliori
de' loro modelli fino all'intero perfezionamento, il primo modello apparire ed
essere nel suo genere la più imperfetta opera di tutte l'altre, per infino alla
decadenza e corruzione d'esso genere, che suole altresì ordinariamente succedere
all'ultima sua perfezione. Non così nell'epopea; ma per lo contrario il primo
poema epico, cioè l'iliade che fu modello di tutti gli altri, si
trova essere il più perfetto di tutti. Più perfetto dico nel modo che ho
dimostrato parlando della vera idea del poema epico p. 3095- 3169. Secondo le quali osservazioni da me
fatte si può anzi dire che siccome l'ultima perfezione dell'epopea (almen quanto
all'insieme e all'idea della medesima) si trova nel primo poema epico che si
conosca, così la decadenza e corruzione di questo genere incominciò non più
tardi che subito dopo il primo poema epico a noi noto. Similmente negli altri
generi di poesia, per lo più, i migliori e più perfetti modelli ed opere sono le
più antiche, o assolutamente parlando, o relativamente alle nazioni {e letterature} particolari,
3291 come tra noi la Commedia di Dante
è nel suo genere, siccome la prima, così anche la migliore opera. (28.
Agosto. 1823.).
[3479,1] Il poeta dee mostrar di avere un fine più serio che
quello di destar delle immagini e di far delle descrizioni. E quando pur questo
sia il suo intento principale, ei deve cercarlo in modo come s'e' non se ne
curasse, e far vista di non cercarlo, ma di mirare a cose più gravi; ma
descrivere fra tanto, e introdurre nel suo poema le immagini, come cose a lui
poco importanti che gli {scorrano} naturalmente dalla
peña[penna]; e, per dir così, descrivere e
introdurre immagini, con gravità, con serietà, senz'alcuna dimostrazione di
compiacenza e di studio apposito, {+e di
pensarci e badarci, nè di voler che il lettore ci si fermi.} Così
fanno Omero e Virgilio e
3480
Dante, i quali pienissimi di vivissime
immagini e descrizioni, non mostrano pur d'accorgersene, ma fanno vista di avere
un fine molto più serio che stia loro unicamente a cuore, ed al qual solo festinent continuamente, cioè il racconto dell'azioni
e l'evento o successo di esse. Al
contrario fa Ovidio, il quale non
dissimula, non che nasconda; ma dimostra e, per dir così, {confessa} quello che è; cioè a dir ch'ei non ha maggiore intento nè
più grave, anzi a null'altro mira, che descrivere, ed eccitare e seminare
immagini e pitturine, e figurare, e rappresentare continuamente. (20.
Sett. 1823.).
[3507,1] E perciò può dirsi con verità che il Cristianesimo è
più atto ad atterrire che a consolare, {+o a rallegrare, a dilettare, a pascere colla speranza.} Ed è
certissimo infatti che l'influenza da {lui} esercitata
sulle azioni degli uomini, {è sempre stata ed è tuttavia
come} di religion minacciante assai più che come di religion
promettente; ch'egli ha indotto al bene e allontanato dal male, e giovato alla
società ed alla morale assai più col timore che colla speranza; che i Cristiani
osservarono e osservano i precetti della religion loro più per rispetto
dell'inferno e del Purgatorio che del Paradiso. E Dante che riesce a spaventar dell'inferno, non riesce
{#1. nè anche poeticamente
parlando,} a invogliar punto del Paradiso;
3508 e ciò non per mancanza d'arte nè d'invenzione, ec. {+(anzi ambo in lui son somme ec.)} ma per natura
de' suoi subbietti e degli uomini. (Similmente, con proporzione, si può
discorrere dell'Eliso e dell'inferno degli antichi, {+questo molto più terribile che quello non
è amabile;} dello stato de' reprobi e della felicità de' buoni di Platone ec.).
[3552,1]
Alla p. 3550.
Il narrare non dev'essere al poeta epico che un pretesto, la persona di
narratore non dev'essere a lui che una maschera, {#1. come al didascalico la
persona d'insegnatore.} Ma questo pretesto, questa maschera ei deve
sempre perfettamente conservarlo, ed esattamente (quanto all'apparenza e come al
di fuori) rappresentarla {+in modo ch'ei
sembri sempre essere narratore e non altro. E così fecero tutti i grandi,
incluso Dante che non è epico, ma il
cui soggetto è narrativo, sebben ei dà forse troppo talvolta in
dissertazioni e declamazioni ma torno a dire, il suo poema non è epico, ed è
misto di narrativo e di dottrinale, morale ec.}
(29. Sett. dì di S.
Mich. Arcang. 1823.)
[3561,1]
Alla p. 3413.
Infatti la scrittura dello Speroni è
tutta sparsa e talor quasi tessuta, non pur di vocaboli, o d'usi metaforici ec.
di parole, tutti propri di Dante e di
Petrarca, ma di frasi intere e
d'interi emistichi di questi poeti, dall'autore dissimulatamente appropriatisi e
convertiti all'uso della sua prosa. Nè tali voci, frasi ec. riescono in lui
punto poetiche, ma convenientissimamente prosaiche. Altrettanto fanno più o meno
molti altri autori del cinquecento, massime i più eleganti, ma lo Speroni singolarmente. Or andate e
ditemi che altrettanto potessero fare, non pur i prosatori greci con Omero, o altro lor poeta, ma i latini con
Virgilio ec. benchè il latino non
abbia linguaggio poetico distinto. Che
vuol dir ciò dunque, se non che il linguaggio di Dante e Petrarca era poco o nulla distinto da quel della prosa? Onde i
prosatori potevano farne lor pro, anche a sazietà, senza dar nel poetico. {#1. Le voci e frasi {e
significati più poetici ed eleganti} di Petr.
Dante ec. tengono come un luogo di
mezzo tra il prosaico e il poetico, onde in una prosa alta, com'è quella
dello Speroni, ci stanno
naturalissimamente. P. e. talento in quel
significato Che la ragion sommettono al
talento.
*
Non si sa ben dire se sia più del verso
che della prosa. Vedilo benissimo usato dallo Speroni
ne' Diall.
Ven. 1596. p. 69. fine.} Altri, e non
pochi, prosatori del 500, siccome nel 300 il Boccaccio, davano nel poetico sconveniente
3562 alla prosa, adoperando a ribocco e senza giudizio le voci, le
significazioni, le metafore, le frasi, gli ornamenti, l'epitetare ec. sì di Dante e Petrarca sì de' poeti del 500. stesso. E ciò per la medesima ragione
per cui i detti poeti adoperavano le frasi e voci ec. della prosa, come a pagg. 3414. segg. Ciò era perchè i
termini fra il linguaggio della poesia e della prosa non erano ancora ben
stabiliti nella nostra lingua. Onde come noi non avevamo ancora un linguaggio
propriamente poetico bene stabilito e determinato, (p. 3414.
3416.), così nè anche un linguaggio
prosaico. Nella stessa guisa (ma però molto meno) che i francesi non hanno quasi
altra prosa che poetica, perchè appunto non hanno lingua propriamente poetica,
distinta e determinata, e assegnata senza controversia alla poesia
(veggãsi[veggansi] le p. 3404-5. 3420-1. 3429. e il pensiero
seguente ). Nessun buon autore del seicento, del sette e
dell'ottocento dà nel poetico come molti buoni
{{e classici
del}} 500 (non ostante nel 600 la gran peste dello stile derivata
appunto dal cercare il florido, il sublime, il metaforico, lo straordinario modo
di parlare e di esprimere checchessia, il fantastico, l'immaginoso, l'ingegnoso;
e consistente in queste qualità ec. peste
3563 che nel
500 ancor non regnava; eppur tanto regnava il florido e il poetico nella prosa,
quanto non mai nelle buone e classiche prose del 600: segno che quel vizio nel
500. veniva da altra cagione, e ciò era quella che si è detta). Nessuno oggi (nè
nei due ultimi secoli) per poco che abbia, non pur di giudizio, ma sol di
pratica nelle buone lettere sarebbe capace di peccare, scrivendo in prosa, per
poeticità di stile e linguaggio, altrettanto quanto nell'ottimo ed aureo secolo
del 500 (mentre il nostro è ferreo) peccavano gli ottimi ingegni nelle classiche
prose, sì nel linguaggio, sì nello stile, che quello si tira dietro (p. 3429. fine). E come ho detto a
pagg. 3417-9. che il linguaggio
{propriamente} poetico in
italia non fu pienamente determinato, stabilito, e
distinto e separato dal prosaico, se non dopo il cinquecento, e massime in
questo e nella fine dell'ultimo secolo; così si deve dire del linguaggio
prosaico, quanto all'essere così esattamente determinato ch'ei non possa mai
confondersi col poetico, nè dar nel poetico senza biasimo ec. Il che non ha
potuto perfettamente essere finchè i termini fra questi due linguaggi non sono
stati fermamente posti, e chiaramente precisamente
3564
incontrovertibilmente segnati, tirati, descritti. Onde il linguaggio
perfettamente proprio e particolare della prosa, e il perfettamente proprio e
particolare della poesia sono dovuti venire in essere a un medesimo tempo, e non
prima l'uno che l'altro (o non prima esser perfetto ec. ec. l'uno che l'altro, e
crescer del pari quanto alla loro prosaicità e poeticità); perchè ciascun de'
due è rispettivo all'altro ec. ec. (30. Sett. 1823.).
[3717,1]
Alla p. 2980.
Immaginazione continuamente fresca ed operante si richiede a poter saisir i rapporti, le affinità, le somiglianze ec. ec.
o vere, o apparenti, poetiche ec. degli oggetti e delle cose tra loro, o a
scoprire questi rapporti, o ad
3718 inventarli ec. cose
che bisogna continuamente fare volendo parlar metaforico e figurato, e che
queste metafore e figure e questo parlare abbiano del nuovo e originale e del
proprio dell'autore. Lascio le similitudini: una metafora nuova che si contenga
pure in una parola sola, ha bisogno dell'immaginazione e invenzione che ho
detto. Or {di} queste metafore e figure ec. ne
dev'esser composto tutto lo stile e tutta l'espressione de' concetti del poeta.
Continua immaginazione, sempre viva, sempre rappresentante le cose agli occhi
del poeta, e mostrantegliele come presenti, si richiede a poter significare le
cose o le azioni o le idee ec. per mezzo di una o due circostanze o qualità o
parti di esse le più minute, le più sfuggevoli, le meno notate, le meno solite
ad essere espresse dagli altri poeti, o ad esser prese per rappresentare tutta
l'immagine, le più efficaci ed atte o per se, per questa stessa novità o
insolitezza di esser notate o espresse, o della loro applicazione
3719 ed uso ec., le più atte dico a significar l'idea
da esprimersi, a rappresentarla al vivo, a destarla con efficacia ec. {+Tali sono assai spesso le espressioni, o
vogliamo dire i mezzi d'espressione, e il modo di rappresentar le cose e
destar le immagini ec. nuove o novamente, e per virtù della novità del modo
ec. ec. usati da Virgilio, e
massime, anzi peculiarmente, e come caretteristici[caratteristici] del suo stile e poesia, da Dante ec. ec.} Tutte queste cose si
richiedono in uno stile come quel di Virgilio (e più o meno negli altri: ma quel di Virgilio, in quanto stile, è precisamente il più
poetico di quanti si conoscono, e forse il non plus ultra della poetichità); e
questi infatti sono i mezzi ch'egli adopera e gli effetti ch'egli consegue. Or
non si possono adoperar tali mezzi, nè produr tali effetti (che con altri mezzi,
nello stile, non si ottengono) senza una continua e non mai interrotta azione,
vivacità e freschezza d'immaginazione. E sempre ch'essa langue, langue lo stile,
sia pure immaginosissima e poetichissima l'invenzione e la qualità delle cose in
esso trattate ed espresse. Poetiche saranno le cose, lo stile no; e peggiore
sarà l'effetto, che se quelle ancora fossero impoetiche; per il contrasto e
sconvenienza ec. che sarà tanto maggiore quanto quelle e l'invenzione ec.
saranno più immaginose e poetiche.
3720 Del resto è da
vedere la p. 3388-9. (17.
Ott. 1823.).
[3884,1]
Les
Dames vous devront ce que la langue italienne devait au Tasse; cette
langue d'ailleurs molle et dépourvue de force, prenait un air mâle et de
l'énergie lorsqu'elle etait maniée par cet habile poëte.
*
Così scriveva il principe reale di Prussia poi Federico II alla Marchesa du Châtelet, da Rémusberg agli 9.
Nov. 1738. (Oeuvres complettes de Frédéric II. Roi de Prusse. 1790. tome 16.
Lettres du Roi de Prusse et de la Marquise du Châtelet. Lettre 5.e
p. 307.) E nóto queste parole perchè si veda l'esattezza del giudizio
degli stranieri sulla nostra letteratura, e la verità della material cognizione
ch'essi ne hanno. Lascio quello che Federico dice in generale sulla nostra lingua, ma il particolare del
Tasso, ch'è un fatto, e che poco
si richiedeva a essere istruito come stésse, non è egli tutto il contrario del
vero? Federico dice del Tasso quel ch'è vero di Dante, del quale il Tasso è tutto il contrario, anche più dell'Ariosto, e quasi dello stesso Petrarca ec. {+V. p.
3900.}
(14. Nov. 1823.). Eccetto se Federico non considera o non intende di parlare del Tasso in comparazione del Metastasio, e più se de' frugoniani, degli
arcadici de' nostri poeti e prosatori sia puristi sia barbaristi del
3885 passato secolo, insomma di quelli che nè scrissero
nè seppero l'italiano; nel qual caso il suo detto è certamente esente da ogni
rimprovero e controversia. (15. Nov. 1823.). {{V. p.
3949.}}
[3964,3] Parlo altrove p. 961
pp. 3012-14
pp. 3041-47 de' dialetti
d'Omero. Posto che il dialetto
Ionico non fosse il comune o il più comune, e perciò prescelto, l'avere Omero scritto in un dialetto piuttosto
che nella lingua comune, non prova altro se non che questa a' suoi tempi non
v'era; e il non esservi prova che non v'era ancora letteratura greca formata,
perchè nè questa poteva esservi senza quella, e la mancanza di lingua comune è
segno certo ed effetto non d'altro che della mancanza di letteratura nazionale o
della sua infanzia, poca diffusione ec. Similmente dico di {#2. Democrito
ec. Ctesia è più moderno, ma forse
anteriore al pieno della letteratura ateniese ec}
Erodoto
{#1. V. p. 3982.} e degli altri che ne' più antichi tempi
scrissero ne' dialetti loro nativi e non in lingua comune. Del resto se Omero usò {e
mescolò} anche gli altri dialetti più di quello che poi fosse fatto
dagli altri scrittori greci, anche poeti, prevalendo però in lui l'ionico; il
simile fece Dante, che
3965 usò e mescolò i dialetti
d'italia molto più che poi gli altri, anche poeti, e
a lui vicini, non fecero, e che oggi niuno farebbe, perchè v'è lingua comune, e
questa certa e formata e determinata, e tutto ciò principalmente a causa della
letteratura. Se poi alcuni, come Empedocle e Ippocrate, non
essendo ioni ec., scrissero nell'ionico, {V. p. 3982.} ciò fu
perchè Omero l'aveva usato e fatto
famoso e atto alla scrittura, e creduto solo o principalmente capace di essere
scritto, nel modo stesso che poi l'abbondanza degli scrittori ateniesi, maggiore
che quella degli altri, rese comune, e per sempre, il dialetto attico, o una
lingua partecipante massimamente dell'attico, e lo ridusse ad essere il greco
propriamente detto sì nell'uso dello scrivere, sì in quello del parlare, massime
delle persone colte; e nel modo stesso che in italia per
simil cagione è avvenuto rispetto al toscano, mentre prima, come in
grecia l'ionico invece dell'attico, così in
italia si era fatto comune ec. non il toscano, ma il
siculo ec. per la coltura di quella corte e poeti ec. e loro abbondanza
preponderante ec. {Del resto l'uso
dell'ionico fatto anticamente dagli non ionici prova con certezza che il
ionico o era il greco comune, o il più comune, o il solo o il più applicato
e quindi atto alla letteratura e al dir colto ec. o il più famoso ec. v. p. 3991.} Onde molto
s'ingannano, secondo me, quelli sì antichi (v. i luoghi citati alla pagina 3931.) sì moderni (che sono,
io credo, non pochi) i quali riconoscono l'uso o preponderanza del dialetto
ionico in Omero, in Ippocrate ec. e nelle scritture dell'antica
grecia da questo, che il dialetto ionico, secondo
loro, o almen quello di detti scrittori {+quale egli si è} ec. era l'antico dialetto attico, e usato dagli
ateniesi. Il che, se non hanno altri argomenti per provarlo, certamente non è
provato dall'uso di quegli scrittori, poichè che diritto e che mezzo aveva
allora il dialetto ateniese per esser preferito agli altri nelle scritture? Essi
cadono nel solito errore,
3966 sì comune per sì lungo
tempo (e fin oggi) in italia, anche fra' più dotti e
imparziali, circa il dialetto toscano, cioè di credere che l'attico prevalesse
agli altri dialetti per se (mentre niun dialetto prevale per se, giacchè quanto
all'ordine, forma ec. esso non l'ha prima della letteratura, quanto alla
bellezza del suono materiale ec. questo è un sogno, perchè a tutti i popoli
{+e parti di essi} è più bello
degli altri suoni quello che gli è dettato dalla natura, e quindi quello del
dialetto nativo, e imparato nella fanciullezza ec.), e non per causa della
preponderante letteratura e scrittori attici, la qual causa a' tempi d'Omero ec. non esisteva, anzi
Atene non aveva, che si sappia, scrittore alcuno, non
che n'abbondasse particolarmente ec. Neanche era potente, nè commerciante, nè
che si sappia, assai culta, o più culta degli altri, seppure aveva coltura
alcuna notabile. Bensì lo erano gl'ioni ec. e questo appunto produsse o fece
possibile un Omero ec. Se poi hanno
altre prove della detta proposizione, certo ragionano a rovescio pigliando per
effetto la causa, e per causa l'effetto. Poichè se quello fu allora il dialetto
attico, ciò venne appunto perch'esso aveva avuto scrittori e letteratura, e così
fattosi comune ec., ovvero a causa del commercio {+e potenza} e della coltura degl'ioni, alla qual
coltura non avrà poco contribuito la stessa letteratura che n'aveva avuto
origine ec. Del resto gli attici erano molto facili ad adottare le voci e modi
greci stranieri, e anche i barbari, almeno ne' tempi susseguenti; e lo dice Senofonte in un luogo da me citato e discusso altrove
p.
741
pp.
785-86
pp. 793. (9. Dec. 1823. Vigilia della Venuta della Santa Casa
di Loreto.)
[4214,3] I francesi non hanno lingua poetica perchè hanno
rigettata la lingua antica, perchè non sopportano l'antico nel verso niente più
che nella prosa: e senza l'antico non vi può esser lingua poetica. I Latini che ebbero pochissima antichità
di lingua, perchè il progresso della loro letteratura fu rapidissimo, e che
rigettarono, ad eccezione di pochissime {e
piccolissime} parti conservate nel verso, quella poca antichità che
avevano, non ebbero lingua poetica propriamente, nè avrebbero avuto dicitura e
stile poetico se non avessero usato nella poesia costruzioni ardite, e nuovi
significati e metafore di parole, che i francesi non sopportano nella loro.
{#(1) Notisi quindi che presso i latini
ciascun poeta era artefice della sua lingua poetica; la lingua poetica dei
latini era opera individuale del poeta, e se il poeta non se la facea, non
l'aveva: dove in italiano e in greco ella era cosa universale, e il poeta
l'avea già prima di porsi a comporre. E da ciò forse può nascere l'abuso e
la soverchia copia del verseggiare e dei verseggiatori ec. ec.} Del
resto l'avere i latini e i francesi a differenza dei greci e degl'italiani,
rigettata ne' loro buoni {e perfetti} secoli
l'antichità della lingua, venne, fra l'altre cose, dal non aver essi avuto nelle
loro lingue antiche scrittori veramente sommi, a differenza dei greci, che
ebbero Omero, Esiodo, Archiloco, Ippocrate, Erodoto ec. e degl'italiani, ch'ebbero
Dante, Petrarca, Boccaccio, insomma {(come i greci)} la
letteratura già stabilita, {fissata} e formata prima
della lingua e della maturità della civilizzazione.
(Bolog. 12. Ott. 1826.).
[3338,1] Del resto, dalle considerazioni qui dietro fatte
sulla necessità che l'europa
{e lo spirito umano} avevano di nuove lingue {illustri} a potersi avanzare e nè costumi e nelle
scienze e nelle lettere e nella filosofia, dopo il risorgimento degli studi; e
sul grandissimo detrimento e ritardo che portò alla rinata civiltà la
rinnovazione dell'uso esclusivo del latino come lingua illustre; e sul maggior
danno e indugio che le avrebbe apportato la continuazione di tale uso, apparisce
più visibilmente che mai quanto debbano a Dante, non pur la lingua italiana, come si suol predicare, ma la
nazione istessa, e l'europa tutta e lo spirito umano.
Perocchè Dante fu il primo assolutamente
in europa, che (contro {l'uso e}
il sentimento di tutti i suoi contemporanei, {e di molti
posteri,} che di ciò lo biasimarono: v. Perticari
Apologia cap. 34.)
ardì concepire
3339 e scrisse un'opera classica {e di letteratura} in lingua volgare e moderna, inalzando
una lingua moderna al grado di lingua illustre, in vece o almeno insieme colla
latina che fino allora {da tutti,} e ancor molto dopo
da non pochi, era stata e fu stimata unica capace di tal grado. E quest'opera
classica non fu solo poetica, ma come i poemi d'Omero, abbracciò espressamente tutto il sapere di
quella età, in teologia, filosofia, politica, storia, mitologia ec. E riuscì
classica non rispetto solamente a quel tempo, ma a tutti i tempi, e tra le {{primarie;}} nè solo rispetto
all'italia ma a tutte le nazioni e letterature. Senza
un tale esempio ed ardire, o s'ei fosse riuscito men fortunato e splendido, e se
quell'opera pel suo soggetto fosse stata meno universale, e meno appartenente,
per così dire, a ogni genere di letteratura e di dottrina; si può, se non altro,
indubitatamente credere che sì l'italia sì l'altre
nazioni avrebbero tardato assai più che non fecero a inalzare le lingue proprie
e moderne al grado di lingue illustri, e quindi a formarsi delle letterature
proprie e
3340 e moderne e conformi ai tempi, e quindi
lo spirito e il carattere nazionale, moderno, distinto, determinato ec. Dante diede l'esempio, aprì e spianò la
strada, mostrò lo scopo, fece coraggio e col suo ardire e colla {{sua}} riuscita agl'italiani:
l'italia alle altre nazioni. Questo è
incontrastabile. Nè il fatto di Dante fu
casuale e non derivato da ragione e riflessione, e profonda riflessione. Egli
volle espressamente sostituire una lingua moderna illustre alla lingua latina,
perchè così giudicò richiedere le circostanze de' tempi e la natura delle cose;
e volle espressamente bandita la lingua latina dall'uso de' letterati, de'
dotti, de' legislatori, notari ec., come non più convenevole ai tempi. Il fatto
di Dante venne da proposito e istituto,
e mirò ad uno scopo; e il proposito, l'istituto e lo scopo (quanto spetta al
nostro discorso {#1. Perocchè anche altri
istituti egli seguì, ed altri fini si propose, tutti bellissimi e savissimi,
ma che non appartengono al nostro proposito.}) {+(siccome eziandio la scelta e l'uso de' mezzi)} fu
da acutissimo, profondissimo e sapientissimo filosofo. Veggasi il Perticari nel luogo citato.
(2. Sett. 1823.).
[4214,3] I francesi non hanno lingua poetica perchè hanno
rigettata la lingua antica, perchè non sopportano l'antico nel verso niente più
che nella prosa: e senza l'antico non vi può esser lingua poetica. I Latini che ebbero pochissima antichità
di lingua, perchè il progresso della loro letteratura fu rapidissimo, e che
rigettarono, ad eccezione di pochissime {e
piccolissime} parti conservate nel verso, quella poca antichità che
avevano, non ebbero lingua poetica propriamente, nè avrebbero avuto dicitura e
stile poetico se non avessero usato nella poesia costruzioni ardite, e nuovi
significati e metafore di parole, che i francesi non sopportano nella loro.
{#(1) Notisi quindi che presso i latini
ciascun poeta era artefice della sua lingua poetica; la lingua poetica dei
latini era opera individuale del poeta, e se il poeta non se la facea, non
l'aveva: dove in italiano e in greco ella era cosa universale, e il poeta
l'avea già prima di porsi a comporre. E da ciò forse può nascere l'abuso e
la soverchia copia del verseggiare e dei verseggiatori ec. ec.} Del
resto l'avere i latini e i francesi a differenza dei greci e degl'italiani,
rigettata ne' loro buoni {e perfetti} secoli
l'antichità della lingua, venne, fra l'altre cose, dal non aver essi avuto nelle
loro lingue antiche scrittori veramente sommi, a differenza dei greci, che
ebbero Omero, Esiodo, Archiloco, Ippocrate, Erodoto ec. e degl'italiani, ch'ebbero
Dante, Petrarca, Boccaccio, insomma {(come i greci)} la
letteratura già stabilita, {fissata} e formata prima
della lingua e della maturità della civilizzazione.
(Bolog. 12. Ott. 1826.).
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