23. Sett. 1823.
[3497,1] Le speranze che dà all'uomo il Cristianesimo sono
pur troppo poco atte a consolare l'infelice e il travagliato in questo mondo, a
dar riposo all'animo di chi si trova impediti quaggiù i suoi desiderii,
ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l'adito ai
piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla
fortuna. La {promessa e l'aspettativa}
{di} una felicità grandissima e somma ed intiera bensì,
ma 1.o che l'uomo non può comprendere nè immaginare nè pur concepire o
congetturare in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione, 2.o
ch'egli sa bene di non poter mai nè concepire nè immaginare nè averne veruna
idea finchè gli durerà questa vita, 3.o ch'egli sa espressamente esser di natura
affatto diversa ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da quella
che quaggiù gli è negata, da quella il cui desiderio e la cui privazione forma
il soggetto e la causa della sua infelicità; una tal promessa, dico, e una tale
3498 espettativa è ben poco atta a consolare in
questa vita l'infelice e lo sfortunato, a placare {e
sospendere} i suoi desiderii, a compensare quaggiù le sue privazioni.
La felicità che l'uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una
felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo
tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di
questa vita e di questa esistenza, non di un'altra vita e di una esistenza che
noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo
concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la perfezione e il fine
dell'esistenza. Noi desideriamo di esser felici perocchè esistiamo. Così
chiunque vive. È chiaro adunque che noi desideriamo di esser felici, non
comunque si voglia, ma felici secondo il modo nel quale infatti esistiamo. {#1. L'uomo non desidera la felicità
assolutamente, ma la felicità umana (così gli altri animali), nè la felicità
qualch'ella sia, ma una tale, benchè non definibile, felicità. Ei la
desidera somma e infinita, ma nel suo genere, non infinita in questo senso
ch'ella comprenda la felicità del bue, della pianta, dell'Angelo e tutti i
generi di felicità ad uno ad uno. Infinita è realmente la sola felicità di
Dio. Quanto all'infinità, l'uomo desidera una felicità come la divina, ma
quanto all'altre qualità ed al genere di essa felicità, l'uomo non potrebbe
già veramente desiderare la felicità di Dio. L'uomo che invidia al suo
simile un vestito, una vivanda, un palagio, non è propriamente mai tocco nè
da invidia nè da desiderio dell'immensa e piena felicità di Dio, se non solo
in quanto immensa, e più in quanto piena e perfetta. Veggasi la p. 3509. massime in
margine.} È chiaro che la nostra esistenza desidera la
perfezione e il fin suo, non già di un'altra esistenza, e questa a lei
inconcepibile. La nostra esistenza desidera dunque la sua propria felicità; chè
desiderando quella di un'altra esistenza, ancorch'ella in questa s'avesse poi a
tramutare, desidererebbe, si può dire, una felicità non propria ma altrui,
3499 ed avrebbe per ultimo e vero fine non se stessa,
ma altrui, il che è essenzialmente impossibile a qualsivoglia Essere in
qualsivoglia operazione o inclinazione o pensiero ec. Laonde la felicità che
l'uomo desidera è necessariamente una felicità conveniente e propria al suo
presente modo di esistere, e della quale sia capace la sua presente esistenza.
Nè egli può mai lasciare di desiderar questa felicità per niuna ragione, nè per
niuna ragione può mai desiderare altra felicità che questa. E non è più
possibile che l'uomo mortale desideri veramente la felicità de' Beati, di quello
che il cavallo la felicità dell'uomo, o la pianta quella dell'animale; di quel
che l'animale erbivoro invidii al carnivoro o la sua natura, o la carne di cui
lo vegga cibarsi, all'uomo il piacere degli studi e delle cognizioni, piacere
che l'animale non può concepire nè che possa esser piacere, nè come, nè qual
piacere sia; e così discorrendo. E ben vero che nè l'uomo, nè forse l'animale nè
verun altro essere, può esattamente definire {+nè a se stesso nè agli altri,} qual sia
assolutamente e in generale la felicità ch'ei desidera; perocchè
3500 niuno forse l'ha mai provata, nè proveralla, e
perchè infiniti altri nostri concetti, ancorchè ordinarissimi e giornalieri,
sono per noi indefinibili. Massime quelli che tengono più della sensazione che
dell'idea; che nascono più dall'inclinazione e dall'appetito, che
dall'intelletto, dalla ragione, dalla scienza; che sono più materiali che
spirituali. Le idee sono per lo più definibili, ma i sentimenti quasi mai;
quelle si possono bene e chiaramente e distintamente comprendere ed abbracciare
e precisar col pensiero, questi assai di rado o non mai. Ma ciò non ostante, sì
l'animale che l'uomo sa bene e comprende, o certo sente, che la felicità ch'ei
desidera è cosa terrena. Quell'infinito medesimo a cui tende il nostro spirito
(e in qual modo e perchè, s'è dichiarato altrove pp. 165. sgg.
[pp.
179-81]
[pp.
3027-29]), quel medesimo è un infinito terreno, bench'ei non possa aver
luogo quaggiù, altro che confusamente nell'immaginazione e nel pensiero, o nel
semplice desiderio ed appetito de' viventi. Oltre di ciò niuno è che viva
senz'alcun desiderio determinato e chiaro e definibilissimo, negativo o
positivo, nel conseguimento
3501 del quale o di più
d'uno di loro, ei ripone sempre o espressamente o confusamente, benchè pur
sempre per errore, la sua felicità e 'l suo ben essere. Quel trovarsi senz'alcun
desiderio al mondo, se non quello di un non so che, {#1. quell'essere infelice senza mancare di niun bene nè
patire assolutamente niun male,} è impossibile; e se Augusto diceva d'essere in questo caso,
poteva parergli che così fosse, ma s'ingannava; e niuno mai si trovò veramente
in tal caso nè è per trovarvisi, perchè a niuno mai mancò nè è per mancar
materia di qualche desiderio determinato, più o men vivo, o ch'esso miri a cosa
che ci manchi, o a cosa che noi abbiamo e ci dispiaccia. {#2. Anzi a nessuno è per mancar mai materia di molti e
vivi desiderii determinati di questa specie.} Or tutti questi
desiderii determinati che noi abbiamo, ed avremo sempre, e che non soddisfatti,
ci fanno infelici, sono tutti di cose terrene. Promettere all'uomo, promettere
all'infelice una felicità celeste, benchè intera e infinita, {e superiore senza paragone alla terrena, e a' piccoli beni ch'egli
desidera,} si è come a un che si muor di fame e non può ottenere un
tozzo di pane, preparargli un letto morbidissimo, o promettergli degli
squisitissimi e beatissimi odori. Con questo divario che l'affamato concepirebbe
pure il piacer che fosse per provare il suo odorato da quella sensazione,
3502 e questo piacere sarebbe della medesima natura di
quello ch'ei desidera e non ottiene, cioè materiale e sensibile come l'altro.
Non così possiamo dire de' piaceri celesti promessi a chi desidera e non ottiene
i terreni, nel qual caso l'uomo si trova naturalmente e necessariamente sempre,
e l'infelice massimamente, benchè tutti a rigore sono infelici, e lo sono perchè
tutti e sempre si trovano nel detto caso. Ora i piaceri celesti, al contrario di
ciò che s'è detto qui sopra, son di natura affatto diversi da quelli che noi
desideriamo e non ottenghiamo, e non ottenendo siamo infelici; e questa lor
natura non può da noi per verun modo mai essere conceputa. Onde segue che la
consolazione che può derivare dallo sperarli, sia nulla in effetto; perchè a chi
desidera una cosa si promette un'altra ch'è diversissima da quella; a chi è
misero per un desiderio non soddisfatto, si promette di soddisfare un desiderio
ch'ei non ha e non può per sua natura avere nè formare; a chi brama un piacer
noto, e si duole di un male noto, si promette un piacere e un bene ch'ei non
conosce nè può conoscere, {e} ch'ei non vede nè può
vedere come sia per esser bene, {e} come possa
piacergli;
3503 a chi è misero in questa vita, e
desidera necessariamente la felicità di questa esistenza, ed altra esistenza non
può concepire nè desiderarne la felicità, si promette la beatitudine di una
tutt'altra esistenza e vita, di cui questo solo gli si dice, ch'ella è
sommamente e totalmente e più ch'ei non può immaginare diversa dalla sua
presente, e ch'ei non può figurarsi per niun conto qual ella sia. Come l'uomo
non può nè collo intelletto nè colla immaginazione nè con veruna facoltà nè
veruna sorta d'idee oltrepassare d'un sol punto la materia, e s'egli crede
oltrepassarla, e concepire o avere un'idea qualunque di cosa non materiale,
s'inganna del tutto; così egli non può col desiderio passare d'un sol punto i
limiti della materia, nè desiderar bene alcuno che non sia di questa vita e di
questa sorta di esistenza ch'ei prova; e s'ei crede desiderar cosa d'altra
natura, s'inganna, e non la desidera, ma gli pare di desiderarla. Come dunque ei
non può desiderar bene alcuno d'altra natura, così la promessa e la speranza di
tali beni, non può per modo alcuno
3504 consolarlo
realmente nè de' mali di questa vita nè della mancanza de' di lei beni, {+nè (quando e' non fosse infelice)
rallegrarlo e dilettarlo e compiacerlo colla dolcezza dell'aspettativa, e
intrattenerlo e contribuire quaggiù al suo contento.} Di più, l'uomo
si pasce per verità e si sostiene e vive grandissima parte della sua vita, anzi
pur tutta la vita sua, della speranza, ancorchè lontana, la qual è un piacere,
ma come e perchè? Perchè l'uomo va immaginando e contemplando seco stesso {a parte} a parte il godimento ch'egli attende o spera, e
prova diletto nel considerare e rappresentarsi il modo in che egli ne godrà,
{+e le sue qualità e condizioni e
circostanze,} anticipando ed {anzi}
assaporando {effettivamente} colla immaginazione mille
volte il piacer futuro. Ma questa contemplazione, questa rappresentazione,
quest'anticipazione, questo gusto o assaggio, questo deliro o sogno che ci fa
parere e ci rende infatti presente il piacer futuro, ancor più ch'ei nol sarà
quando si troverà presente in effetto (se egli si troverà mai presente), come
può aver luogo intorno a un piacere assolutamente inconcepibile, non solo nel
più e nel meno, o nella specie, ma nel genere, di modo che le nostre idee non
hanno alcun potere di abbracciarne o di avvicinarne nè pure una menoma parte?
Come ci può per verun deliro {o veruno sforzo}
dell'immaginazione {o dell'intelletto} parer presente
3505 quello a cui nè l'immaginazione nè
l'intelletto non si possono {neppure} a grandissimo
tratto avvicinare; quello che non è fatto nè per questa immaginazione nè per
questo intelletto; quello ch'è di natura affatto diversa da ciò che
l'immaginazione o l'intelletto può concepire o congetturare; quello che non
sarebbe ciò ch'egli è, s'a noi fosse possibile pure il congetturarlo; quello che
spetta a tutt'altra natura che la nostra presente? Come può per alcun modo o in
alcuna parte entrar nella mente nostra {una tutt'}altra
natura?
[3505,1] Certo l'uomo desidererà sempre di esser liberato dai
dolori e dai mali ch'egli effettivamente prova, e di conseguire quelli ch'ei
crederà beni in questa vita, e di esser felice in questo mõdo[mondo] in ch'egli vive. E non potendo mai lasciare di
desiderarlo niente più ch'ei possa ottenerlo, e la religion cristiana non
soddisfacendo a questo suo unico e
perpetuo desiderio, nè promettendogli di soddisfarlo mai per niun modo,
anzi non dandogliene speranza alcuna, segue che le speranze cristiane non sieno
atte a consolare effettivamente
3506 il mortale, nè ad
alleviare i suoi mali nè i suoi desiderii. E la felicità promessa dal
Cristianesimo non può al mortale parer mai desiderabile, se non in quanto
infinita, anzi in quanto perfetta (chè infinita e non perfetta nol
contenterebbe), {e in quanto felicità, astrattamente
considerata,} ma non già in quanto tale qual ella è, e di quella
natura di ch'ella è. Ed oso dire che la felicità promessa dal paganesimo (e così
da altre religioni), così misera e scarsa com'ella è pure, doveva parere molto
più desiderabile, massime a un uomo affatto infelice e sfortunato, e la speranza
di essa doveva essere molto più atta a consolare e ad acquietare, perchè
felicità concepibile e materiale, e della natura di quella che necessariamente
si desidera in terra.
[3506,1] Osservisi che di due future vite, l'una promessa
l'altra minacciata dal Cristianesimo, questa fa sul mortale molto maggior
effetto di quella. E perchè? perchè ci s'insegna che nell'inferno (e così nel
Purgatorio) avrà luogo la pena del
senso. Onde ci si rende concepibile nel genere, benchè non concepibile
nell'estensione, la pena che dee aver luogo in una vita e in un modo di essere
3507 a noi d'altronde inconcepibile non meno che
quello de' Beati nel Paradiso. E sebbene noi non possiamo concepire il modo in
cui questa pena possa aver luogo nell'altra vita e nell'anime ignude, pur ci si
dice ch'ella ha luogo miris sed veris
modis
*
(S.
Agostino), restando fermo ch'ella è pena sensibile e materiale;
onde noi non sapendo nè immaginando il come, sappiamo però bene e concepiamo il
quale sia quella pena.
[3507,1] E perciò può dirsi con verità che il Cristianesimo è
più atto ad atterrire che a consolare, {+o a rallegrare, a dilettare, a pascere colla speranza.} Ed è
certissimo infatti che l'influenza da {lui} esercitata
sulle azioni degli uomini, {è sempre stata ed è tuttavia
come} di religion minacciante assai più che come di religion
promettente; ch'egli ha indotto al bene e allontanato dal male, e giovato alla
società ed alla morale assai più col timore che colla speranza; che i Cristiani
osservarono e osservano i precetti della religion loro più per rispetto
dell'inferno e del Purgatorio che del Paradiso. E Dante che riesce a spaventar dell'inferno, non riesce
{#1. nè anche poeticamente
parlando,} a invogliar punto del Paradiso;
3508 e ciò non per mancanza d'arte nè d'invenzione, ec. {+(anzi ambo in lui son somme ec.)} ma per natura
de' suoi subbietti e degli uomini. (Similmente, con proporzione, si può
discorrere dell'Eliso e dell'inferno degli antichi, {+questo molto più terribile che quello non è
amabile;} dello stato de' reprobi e della felicità de' buoni di Platone ec.).
[3508,1] È anche certo che siccome il Cristianesimo senza il
suo inferno e il suo Purgatorio e {col solo suo
Paradiso,} non avrebbe avuta e non avrebbe sulla condotta e sui
costumi degli uomini quella influenza ch'egli ebbe ed ha, così non {l'}avrebbe avuta, o minore assai, se e' non avesse
minacciato nell'inferno e nel Purgatorio una pena di qualità concepibile, e
s'egli avesse solo minacciata la pena del danno ch'è {di
qualità} inconcepibile, e di natura diversa dalle pene di questo
mondo; benchè non tanto, quanto la beatitudine celeste dalle terrene; perchè noi
concepiamo pure e sentiamo per esperienza come ci possa fare infelici la
privazione e il desiderio di beni non mai provati, mal conosciuti, ed anche non
definibili; dei desiderii vaghi ec. Onde anche non concependo il bene del
Paradiso, possiamo in qualche modo concepire come la privazione irreparabile e
il desiderio continuo {ed eterno} di esso, possa fare
infelici, massime chi sa di non poter esser mai soddisfatto,
3509 e pur sempre desidera, e sa d'aver sempre a desiderare, e chi è
certo di penar sempre allo stesso modo, e di essere eternamente infelice senza
riparo, e senza sollievo alcuno ec. Tutto ciò noi possiamo ben concepire, quasi
secondariamente, come possa esser causa di somma infelicità, benchè non possiamo
concepirlo primariamente, cioè la qualità di quel bene che nell'inferno ec. si
desidera, e la cui privazione e desiderio fa infelici i dannati ec. (23.
Sett. 1823.).