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Purità della lingua.

Purity of language.

1435,1 1579,3 1936,1 2012,2 2061-2 2357 2449,1 2455,2 2500,2 2640,1 3398-9

[1435,1]  Il piacere che si prova della purità della lingua in uno scrittore, è un piacere fattizio, che non nasce se non dopo le regole, e quando è più difficile il conservare detta purità, ed essa meno spontanea e naturale. I trecentisti ne se doutoient point di questo piacere ne' loro scrittori, che sono il nostro modello a quello riguardo. E quegli scrittori non pensavano nè di aver questo pregio, nè che questo fosse un pregio ec. come si può vedere dalle molte parole provenzali, Lombarde, genovesi, arabe, greche storpiate, {latine} ec. che adoperavano in mezzo alle più pure italiane. Gl'inglesi la cui lingua non è stata mai soggettata a più che tanta regola, ed ha mancato e manca di un Vocabolario autorizzato, forse non sanno che cosa sia purità di lingua inglese. Questo piacere deriva dal confronto, e finchè non vi sono  1436 scrittori o parlatori impuri (riconosciuti per tali, e disgustosi), non si gusta la purità della lingua, anzi neppur si nomina nè si prescrive, nè si cerca, benchè senza cercarla, si ottenga. Ho già detto altrove pp. 1325-26 che i toscani sono meno suscettibili di noi alla purità della lingua toscana, e infatti se ne intendono assai meno di noi, oggi che vi sono regole, {e che la purità dipende da esse,} e fin da quando esse nacquero; perch'essi non le sanno, non le curano, e fin d'allora, generalmente parlando, non le curarono. (Varchi, e Speroni. V. Monti Proposta ec. alla v. Becco, nel Dialogo del Capro.) Tutto ciò accade presso a poco anche in ordine alla purità dello stile {ec. ec.} {{(2. Agos. 1821.)}}

[1579,3]  Per un esempio e in conferma di quanto ho detto altrove p. 1420 pp. 1434. sgg. pp. 1449-50 pp. 1456-57, che l'eleganza, la grazia ec. dello scrivere antico, la semplicità de' concetti e de' modi, la purità ec. della lingua, sono o in tutto o in parte piaceri artifiziali, dipendenti dall'assuefazione e dall'opinione, relativi ec. e fanno maggior effetto in noi, e ci piacciono più che agli stessi antichi, a quegli stessi scrittori che ci recano oggidì tali piaceri ec. ec. si può addurre il Petrarca,  1580 e il disprezzo in che egli teneva i suoi scritti volgari, apprezzando i latini che più non si curano. Egli certo non sentiva in quella lingua illetterata e spregiata ch'egli maneggiava, in quello stile ch'egli formava, la bellezza, il pregio e il piacere di quell'eleganza, di quella grazia, naturalezza, semplicità, nobiltà, forza, purità che noi vi sentiamo a prima giunta. Egli non si credeva nè puro (in una lingua tutta impura e barbara come giudicavasi la italiana, corruzione della latina) nè nobile, nè elegante ec. ec. L'opinione, l'assuefazione ec. o piuttosto la mancanza di esse glielo impedivano. (28. Agos. 1821.).

[1936,1]  Tutto può degenerare e degenera, fuorchè le parole e le lingue astrattamente considerate. Quella parola mutata di significazione e di forma in modo che appena o non più si ravvisi la sua origine e la sua qualità primitiva, non è men buona (in tutta l'estensione del termine) di quella ch'era nel suo primissimo nascere. Così una lingua. Non v'è dunque propriamente nè degenerazione nè corruzione per le parole o per le lingue. E ciò che s'intende per corruzione di esse non è altro che allontanamento dal loro stato e forma primitiva, o da quello che presero quando furono  1937 stabilite e formate. Altrimenti le lingue {e le voci} non si corromperebbero mai. Purità di lingua non può dunque essere, e non è altro che uniformità colla sua indole primitiva. (17. Ott. 1821.). {{v. p. 1984.}}

[2012,2]  Non bisogna confondere la purità {della lingua} la quale è di debito in tutte le scritture di qualunque nazione, coll'eleganza, la quale non è di debito se non in alcune  2013 scritture, ed in altre non solo non necessaria ma impossibile; nè perchè la lingua italiana è capacissima di eleganza, e perchè ne sentiamo un grandissimo sapore nella più parte de' nostri buoni scrittori, credere che gli scritti didascalici ec. se e dove non ci riescono eleganti, non sieno italiani. Torno a dire che la precisione moderna ch'è estrema, e che in tali scritti e generi è di prima necessità, e che oggi si ricerca sopra tutte le qualità ec. è assolutamente di sua natura incompatibile colla eleganza: ed infatti il nostro secolo che è quello della precisione, non è certo quello della eleganza in nessun genere. Bensì ell'è compatibilissima colla purità, come si può vedere in Galileo, che dovunque è preciso e matematico quivi non è mai elegante, ma sempre purissimo italiano. Perocchè la nostra lingua, come qualunque altra è incapace di uno stile  2014 che abbia due qualità ripugnanti e contrarie essenzialmente, ma è capacissima dello stile preciso, non meno che dell'elegante, a somiglianza della greca, e al contrario della francese, ch'essendo capacissima di precisione è incapace di eleganza (quella che noi, i latini i greci intendevano per eleganza), e della latina, capacissima di eleganza e incapace di precisione, e però corrotta appena fu applicata alle sottigliezze teologiche, scolastiche ec. (fra le quali fu allevata per lo contrario la nostra, e crebbe la greca) ed anche a quelle della filosofia greca, dopo Cicerone; e quindi affatto inadattabile alle cose moderne, ed alle traduzioni di cose moderne. (30. Ott. 1821.)

[2060,1]  La lingua greca {a' suoi buoni tempi} fu anch'ella molto usata nel foro, nelle concioni, ne' consigli degli ottimati, ma oltrechè le circostanze de' tempi, e lo spirito, era ben diverso da quello de' tempi moderni, e di quei medesimi in cui fu formata la latina, e perciò le stesse cagioni non producevano allora gli stessi effetti; la lingua greca dovea necessariamente anche rispetto a questi usi esser tanto varia, quanto moltiplici erano le repubbliche in cui la grecia era divisa, e moltiplici le patrie degli oratori. La grecia era composta come di moltissimi reggimenti, {+(giacchè ogni città era una repubblica)} così di moltissime lingue, e l'uso {pubblico} di queste non poteva nuocere alla varietà nè introdurre l'uniformità e la schiavitù, essendo esso stesso necessariamente vario, e non potendo essere uniforme. La grecia non aveva una capitale. Non aveva neppure  2061 molto stretto uso di società, se non in Atene. E in Atene infatti per quel tal uso che v'era di polita società, per innalzarsi quella città sopra le altre in materia di gusto, di coltura, di arti, ec. la lingua greca fu più formata, più stabilita, meno libera che altrove, nonostante la diversità de' forestieri che accorrevano a quella città, la sua situazione marittima, il suo commercio, la sua ϑαλασσοκρατία. E quando i gramatici cominciarono a ridurre ad arte la lingua greca, e quando nella lingua greca si cominciò a sentire il non si può, e gli scrupoli ec. tutto questo fu in relazione alla lingua attica. Ma i diversi dialetti greci, tutti riconosciuti per legittimi, dopo essere stati adoperati o interamente o in parte da grandi scrittori; lo stesso costume della lingua attica notato da Senofonte; il carattere sostanziale finalmente  2062 della lingua greca, già da tanto tempo formata ed anteriore assai alla superiorità di Atene, preservarono la lingua greca dalla servitù. Ed in quanto la lingua attica prevalse, in quanto i filologi incominciarono a notare e a condannare negli scritti contemporanei quello che non era attico, in tanto la lingua greca perdette senza fallo della sua libertà. Ma ciò fu fatto assai lassamente, e mancò ben assai perchè i più caldi fautori dell'atticismo, {o gli stessi ateniesi (che si servivano volentierissimo delle parole ec. forestiere, quando avevano bisogno, e anche senza ciò)} arrivassero alla superstizione, o alla {minuta} tirannia de' nostri fautori del toscanismo. {+(Bisogna notare che il purismo era appunto allora nascente nel mondo per la prima volta)}

[2355,2]  Noi diciamo leccare, i francesi lécher, (gli spagnuoli vedilo), i greci λείχειν, i latini nulla di simile. A primissima giunta è manifesto che il greco λείχω, cioè lecho, o licho è tuttuno col nostro lecco, che anche, volgarmente, si dice licco. E notate pure che il francese non dice léquer o lecquer, ma lécher, conservando il χ greco. Queste parole sono antichissimamente e primitivamente proprie delle nostre lingue. Sono volgarissime, anzi plebee; nè s'usa altra voce nel linguaggio familiare per dinotare la stessa azione.  2356 Antichissima e proprissima della lingua greca è la voce λείχω. Come dunque questa conformità fra l'antichissimo greco, e il modernissimo, vivente, ed usualissimo italiano, francese ec? Non è egli evidente che leccare, lécher ec. ci viene dal volgare latino? E da qual altra fonte che da un volgare ci può esser venuta una parola sì volgare, e propria del nostro più familiare discorso? E qual altro volgare che il latino può ed avere avuta questa parola greca, usandola volgarmente, ed averla comunicata a queste due lingue moderne, nate l'una separatamente dall'altra? Ma come potè nel volgare latino divenire sì familiare, e conservarsi poi sino all'ultimo, un'[un] antichissimo verbo greco? Certo il volgo latino non istudiava il greco, e più grecizzanti erano i nobili che la plebe. È dunque manifesto che tal verbo deriva niente meno che da quella primitiva sorgente da cui vennero il greco e il latino (volgari tutti due quando nacquero, come son tutte le lingue); e che perduto poi, o escluso dalle polite scritture, e dal linguaggio nobile, come tante altre,  2357 (e come accade appunto nell'italiano che parecchie voci volgari benchè derivate dalla purissima latinità, cioè dalla nostra madre, si escludono dalle polite scritture o discorsi, perchè appunto fatte troppo familiari dall'uso quotidiano della plebe, ec. e si antepongono altre d'origine o di forma corrottissima) si conservò perpetuamente nel popolare. Ed appunto qui possiamo osservare un esempio di ciò che ho detto nella parentesi, poichè lingo (v. il Forcell.) non è che corruzione di λείχω, o lecho, o licho; pur quello fu adottato nelle scritture, questo escluso, benchè certo esistesse nella lingua latina, come abbiamo veduto. V. il Ducange in Lecator, e nota anche Licator sì quivi in un esempio, come al suo luogo. (23. Gen. 1822.).

[2449,1]  Perocchè tali son tutte ne' loro principii. Ma perfezionandosi, e però civilizzandosi, e pigliando commercio con lingue e letterature e nazioni straniere, e così impinguandosi di parole forestiere che per lei divengono radicali, dismette l'uso della composizione ec: e per pochi momenti supplisce bene a' suoi bisogni colle radici pigliate in prestito, ma di lì a poco, o diviene una stalla d'Augia a forza di stranierismi moltiplicati in infinito, o volendosi conservar pura, non può più parlare, perchè s'è lasciato cadere il solo istrumento che avesse per supplire alla novità delle idee conservandosi pura, cioè il coltivare e far fruttare le sue proprie radici. E forse perciò conservarono sempre i greci questa facoltà, perchè poco pigliarono da' forestieri, o non volendo prenderne per la nota loro superbia nazionale, o perchè realmente non si trovavano intorno altra nazione letterata e  2450 civile, dalla quale potessero prendere, sebbene con molte commerciarono, ma la letteratura le scienze e la civiltà de' greci, da' tempi noti in poi, furono sempre puramente greche.

[2455,2]  {Alla p. 2451.} L'Alfieri fu arditissimo e frequentissimo formatore di parole derivate o composte nuovamente dalle nostrali, e sebbene io non credo ch'egli, facendo questo avesse l'occhio alla lingua greca, nondimeno questo suo costume dava alla lingua italiana una facoltà e una forma similissima (materialmente) all'una delle principalissime e più utili facoltà e potenze della lingua greca. Io non cercherò s'egli si servisse di questo mezzo d'espressione colla misura e moderatezza e discrezione che si richiede, nè se guardasse sempre alla necessità o alla molta utilità, nè anche se tutti i suoi derivati e composti, o se la maggior parte di loro sieno ben fatti. Ma li porto per esempio acciocchè, considerandoli, si veda più distintamente e per prova, {+quante idee sottili o rare o non mai ancora precisamente significate,} quante cose difficilissime e quasi impossibili ad esprimersi in altro modo (anche con voci forestiere), si esprimano chiarissimamente e precisamente e facilmente con questo mezzo, senza punto uscire della lingua nostra, e senza quindi nuocere alla purità. Certo  2456 è che quando l'Alfieri chiama il Voltaire Disinventore od inventor del nulla, * {+(vere {principali} e proprie qualità ed attributi della sapienza moderna)} quel disinventore dice tanto e tal cosa, quanto e quale appena si potrebbe dire per via d'una lunga circollocuzione, o spiegare e sminuzzare pazientemente, {stemperatamente} e languidamente in un periodo. (3. Giugno. 1822.).

[2500,2]  Per qual cagione il barbarismo reca inevitabilmente agli scritti tanta trivialità di sapore, e ripugna sì dirittamente all'eleganza? Intendo per barbarismo l'uso di parole o modi stranieri, che non sieno affatto alieni e discordi dall'indole della propria lingua, e degli orecchi nazionali, e delle abitudini ec. Perocchè  2501 se noi usassimo p. e. delle costruzioni tedesche, o delle parole con terminazioni arabiche o indiane, o delle congiugazioni ebraiche o cose simili, non ci sarebbe bisogno di cercare perchè questi barbarismi ripugnassero all'eleganza, quando sarebbero in contraddizione e sconvenienza col resto della favella, e cogli abiti nazionali. Ma intendo di quei barbarismi quali sono p. e. nell'italiano i gallicismi (cioè parole o modi francesi italianizzati, e non già trasportati p. e. colle stesse forme e terminazioni e pronunziazioni francesi, chè questo pure sarebbe fuor del caso e della quistione). E domando perchè il barbarismo così definito e inteso, distrugga affatto l'eleganza delle scritture.

[2640,1]  Aggiungo ora che in fatti la poesia, appresso quelle nazioni ch'hanno lingua propriamente poetica, {cioè distinta dalla prosaica} (e ciò fu tra le antiche la greca, e sono tra le moderne l'italiana e la tedesca, e un poco fors'anche la spagnuola) è conservatrice  2641 dell'antichità della lingua, e quindi della sua purità, le quali due qualità sono quasi il medesimo, se non che la prima di queste due voci dice qualcosa di più. Dell'antichità, dico, è conservatrice la lingua poetica, sì ne' vocaboli, sì nelle frasi, sì nelle forme, sì eziandio nelle inflessioni, o coniugazioni de' verbi, e in altre particolarità grammaticali. Nelle quali tutte essa conserva {+(o segue di tratto in tratto a suo arbitrio)} l'antico uso, stato comune ai primi prosatori, e quindi sbandito dalle prose. Ed ha notato il Perticari nel Trattato degli Scrittori del Trecento che in tanta corruzione ultimamente accaduta della nostra lingua parlata e scritta, lo scriver poetico s'era pur conservato e si conserva puro; il che fino a un certo segno, e massime ne' versificatori  2642 che non hanno molto preteso all'originalità (come gli arcadici, i frugoniani ec. a differenza de' Cesarottiani ec.) si trova esser verissimo. Così fu nella lingua greca, che la poesia fu gran conservatrice delle parole, modi, frasi, inflessioni, e regole {e pratiche} grammaticali antiche. Ond'ella ha una lingua tutta diversa dalla sua contemporanea prosaica. E ciò accade (parlo del conservar l'antichità e purità della lingua), accade, dico, proporzionatamente anche nelle poesie che non hanno lingua appartata, come la francese, e forse l'inglese. Se non altro, queste poesie sono sempre più pure dello scriver prosaico appresso tali nazioni, rispetto alla lingua. (15. Ottobre 1822.).

[3396,1]  5.o Nè tale sarebbe se la letteratura spagnuola, benchè cedendo d'assai all'italiana per la quantità, non le fosse pari del tutto nella qualità, salvo la minore perfezione di ciascun suo attributo. Le stesse cagioni, sì naturali, sì accidentali, che ci resero gli spagnuoli così conformi di lingua, ce li fecero altrettanto conformi  3397 nella letteratura. Nè poteva essere altrimenti, perchè l'una e l'altra vanno sempre del pari. Certo è che nel cinquecento, secolo aureo e principale {{non meno}} della lingua e letteratura spagnuola che della italiana, il commercio tra queste due letterature fu strettissimo, e l'influenza reciproca; bensì maggiore d'assai quella dell'italiana sulla spagnuola che viceversa, perchè l'italiana era di gran lunga maggiore, e portata ad un alto grado già molto prima, cioè nel 300. Laonde, se imitazione vi fu, non è dubbio che gli spagnuoli imitarono, e gli scrittori italiani furono loro modelli. Ma senza più stendersi in questo, egli è certissimo ed evidente che {il} buono e classico stile spagnuolo e lo stile italiano buono e classico, salvo che quello è meno perfetto, non sono onninamente che uno solo. Ora quanta parte abbia la lingua nello stile, {#1. Veggasi fra l'altre, la p. 2906. segg.} quanta influenza lo stile nella lingua, come sovente sia difficile e quasi impossibile il distinguere questa da quello, e le proprietà dell'una da quelle dell'altro, o si parli di uno scrittore e di una scrittura particolarmente,  3398 o di un genere, o di una letteratura in universale; sono cose da me altrove accennate più volte pp. 2796-98 pp. 2906. sgg.. Basti ora il dire che non si è mai per ancora veduto in alcun secolo, appo nazione alcuna, stile corrotto o barbaro e rozzo, e lingua pura o delicata, nè viceversa, ma sempre {+e in ogni luogo} la rozzezza, la {purità, la} perfezione, la decadenza, la corruttela della lingua e dello stile si sono trovate in compagnia. {#1. Massime ne' prosatori: quanto a' poeti vedi la p. 3419.} Chè se ne' nostri trecentisti la lingua è pura e lo stile sciocco, 1.o lo stile non pecca se non per difetto {di virtù, per inartifizio, e mancanza d'arte e di coltura,} ma niun vizio ha e niuna qualità malvagia; sicchè non può chiamarsi corrotto: 2.o lo stile {+de' trecentisti} è semplice e nella semplicità energico, come porta la natura, e tale nè più nè meno è la lingua loro, la quale generalmente non ha pregio nessuno se non questi, che sono pur pregi dello stile, ma {non sempre, e} che non bastano: 3.o che che ne dicano i pedanti, ogni volta che lo stile de' trecentisti pecca di rozzo, anche la lor lingua è rozza; ogni volta che di barbaro, anche la lingua è barbara; ogni volta che di eccessiva semplicità {ed inartifizio,} anche la semplicità della  3399 lingua passa i termini, com'è stato ben provato in questi ultimi tempi; e finalmente se talvolta il loro stile è tumido, falso, o insomma corrotto comunque, (benchè tal corruzione in loro sia piuttosto fanciullesca {e d'ignoranza,} che manifestante il cattivo gusto, e la depravazione, che in essi non poteva aver luogo), allora anche la lingua non è da noi chiamata pura, se non perchè ed in quanto antica, secondo le osservazioni da me fatte altrove pp. 2520-21 pp. 2529. sgg. circa quello che si chiama purità di lingua.