Toscano (Volgare).
Tuscan (Vernacular).
1245,2 1436 2062 2063,1 2122,1 2126,1 2180,2 2516 2525,1 2542,1 2699-700 2721,1 2811,2 3011,segg. 3041,1 3921,13920,1 3964,3 4030,10 4147,6[1245,2] 3. Il moltissimo che la nostra lingua scritta,
(giacchè della ricchezza e varietà di questa intendiamo parlare, e questa
intendiamo paragonare colle straniere) ha preso dalla lingua parlata e popolare.
Or come ciò, se io dico, che la principale, anzi necessaria fonte della
ricchezza e perfezione di una lingua, sono gli scrittori, e questi, letterati?
Ecco il come.
[1435,1] Il piacere che si prova della purità della lingua in
uno scrittore, è un piacere fattizio, che non nasce se non dopo le regole, e
quando è più difficile il conservare detta purità, ed essa meno spontanea e
naturale. I trecentisti ne se doutoient point di
questo piacere ne' loro scrittori, che sono il nostro modello a quello riguardo.
E quegli scrittori non pensavano nè di aver questo pregio, nè che questo fosse
un pregio ec. come si può vedere dalle molte parole provenzali, Lombarde,
genovesi, arabe, greche storpiate, {latine} ec. che
adoperavano in mezzo alle più pure italiane. Gl'inglesi la cui lingua non è
stata mai soggettata a più che tanta regola, ed ha mancato e manca di un
Vocabolario autorizzato, forse non
sanno che cosa sia purità di lingua inglese. Questo piacere deriva dal
confronto, e finchè non vi sono
1436 scrittori o
parlatori impuri (riconosciuti per tali, e disgustosi), non si gusta la purità
della lingua, anzi neppur si nomina nè si prescrive, nè si cerca, benchè senza
cercarla, si ottenga. Ho già detto altrove pp. 1325-26 che i
toscani sono meno suscettibili di noi alla purità della lingua toscana, e
infatti se ne intendono assai meno di noi, oggi che vi sono regole, {e che la purità dipende da esse,} e fin da quando esse
nacquero; perch'essi non le sanno, non le curano, e fin d'allora, generalmente
parlando, non le curarono. (Varchi, e
Speroni. V. Monti
Proposta ec. alla v. Becco, nel
Dialogo del Capro.) Tutto ciò accade presso a poco
anche in ordine alla purità dello stile {ec. ec.}
{{(2. Agos. 1821.)}}
[2060,1] La lingua greca {a' suoi buoni
tempi} fu anch'ella molto usata nel foro, nelle concioni, ne' consigli
degli ottimati, ma oltrechè le circostanze de' tempi, e lo spirito, era ben
diverso da quello de' tempi moderni, e di quei medesimi in cui fu formata la
latina, e perciò le stesse cagioni non producevano allora gli stessi effetti; la
lingua greca dovea necessariamente anche rispetto a questi usi esser tanto
varia, quanto moltiplici erano le repubbliche in cui la
grecia era divisa, e moltiplici le patrie degli
oratori. La grecia era composta come di moltissimi
reggimenti, {+(giacchè ogni città era una
repubblica)} così di moltissime lingue, e l'uso {pubblico} di queste non poteva nuocere alla varietà nè introdurre
l'uniformità e la schiavitù, essendo esso stesso necessariamente vario, e non
potendo essere uniforme. La grecia non aveva una
capitale. Non aveva neppure
2061 molto stretto uso di
società, se non in Atene. E in
Atene infatti per quel tal uso che v'era di polita
società, per innalzarsi quella città sopra le altre in materia di gusto, di
coltura, di arti, ec. la lingua greca fu più formata, più stabilita, meno libera
che altrove, nonostante la diversità de' forestieri che accorrevano a quella
città, la sua situazione marittima, il suo commercio, la sua ϑαλασσοκρατία. E
quando i gramatici cominciarono a ridurre ad arte la lingua greca, e quando
nella lingua greca si cominciò a sentire il non si può, e gli scrupoli ec. tutto questo fu in relazione alla
lingua attica. Ma i diversi dialetti greci, tutti riconosciuti per legittimi,
dopo essere stati adoperati o interamente o in parte da grandi scrittori; lo
stesso costume della lingua attica notato da Senofonte; il carattere sostanziale finalmente
2062 della lingua greca, già da tanto tempo formata ed anteriore assai
alla superiorità di Atene, preservarono la lingua greca
dalla servitù. Ed in quanto la lingua attica prevalse, in quanto i filologi
incominciarono a notare e a condannare negli scritti contemporanei quello che
non era attico, in tanto la lingua greca perdette senza fallo della sua libertà.
Ma ciò fu fatto assai lassamente, e mancò ben assai perchè i più caldi fautori
dell'atticismo, {o gli stessi ateniesi (che si servivano
volentierissimo delle parole ec. forestiere, quando avevano bisogno, e anche
senza ciò)} arrivassero alla superstizione, o alla {minuta} tirannia de' nostri fautori del toscanismo. {+(Bisogna notare che il purismo era appunto allora
nascente nel mondo per la prima volta)}
[2063,1] La circostanza dell'Italia e
della Germania è appunto quella della
grecia in questo particolare (eccetto solamente che i
nostri vernacoli non sono stati parzialmente adoperati da buoni scrittori, come
quelli delle {{provincie o città}} greche). La
Germania ne profitta per la libertà della sua lingua.
Noi non potremo, se prevarranno coloro che ci vogliono ristringere al toscano,
anzi al fiorentino. Cosa ridicola che in un paese privo affatto di unità, e dove
nessuna città, nessuna provincia sovrasta all'altra, si voglia introdurre questa
tirannia
2064 nella lingua, la quale essenzialmente non
può sussistere senza una simile uniformità di costumi ec. nella nazione, e senza
la tirannia della società, di cui l'italia manca affatto.
E che Firenze che non è stata mai il centro
dell'italia (e che ora è inferiore a molte altre
città negli studi, scrittori ec. e fino nella cognizione della colta favella)
debba esserlo della lingua, e della letteratura. E che si voglia imporre ad un
paese privo non solo di vasta capitale, non solo di capitale qualunque, e quindi
di società una e conforme, e d'ogni norma e modello di essa, ma privo affatto di
società, una soggezione (in fatto di lingua ch'è l'immagine d'ogni cosa umana)
più scrupolosa di quella stessa che una vastissima capitale, un deciso centro
{ed immagine e modello e tipo} di tutta la nazione,
ed una strettissima e uniformissima società, impone alla lingua e letteratura
francese. (6. Nov. 1821.). Certo se v'è nazione in
europa
2065 colla cui costituzione politica e morale e sociale
convenga meno una tal soggezione in fatto di lingua (e la lingua dipende in
tutto dalle condizioni sociali ec.), ell'è appunto
l'Italia, che pur troppo, a differenza della
Germania, non è neppure una nazione, nè una patria.
(7. Nov. 1821.).
[2122,1] L'italia non ha capitale.
Quindi il centro della lingua italiana si considera
Firenze, come già si considerò la
Sicilia. In tutte le monarchie la buona e vera lingua
nazionale risiede nella Capitale, (Parigi,
Madrid, o Castiglia,
Londra; {ec.}) più o meno
notabilmente secondo la grandezza, l'influenza, la società di essa capitale, e
lo spirito e gli ordini politici e sociali della nazione.
[2126,1] La gran libertà, varietà, ricchezza della lingua
greca, ed italiana, (siccome oggi della tedesca) qualità proprie del loro
carattere, oltre le altre cagioni assegnatene altrove pp. 2060-65 , riconosce come una delle
principali cause la circostanza contraria a quella che produsse le qualità
contrarie nella lingua latina e francese; cioè la mancanza di capitale, di
società nazionale, di unità politica, e di un centro di costumi, opinioni,
2127 spirito, letteratura e lingua nazionale. Omero e Dante (massime Dante) fecero
espressa professione di non volere restringere la lingua a veruna o città o
provincia d'italia, e per lingua cortigiana l'Alighieri, dichiarandosi di adottarla,
intese una lingua altrettanto varia, quante erano le corti e le repubbliche e
governi d'italia in que' tempi. Simile fu il caso d'Omero e della
Grecia a' suoi tempi e poi. Simile è quello
dell'italia anche oggi, e simile è stato da Dante in qua. Simile pertanto dev'essere
assolutamente la massima fondamentale d'ogni vero filosofo linguista italiano,
come lo è fra' tedeschi. (19. Nov. 1821.).
[2180,2] Anche dopo introdotto in
Grecia lo studio dell'atticismo ec. l'essere o non
essere ateniese di nascita o allevato in Atene, non fu
mai prevenzione per giudicare favorevolmente o sfavorevolmente di uno scrittore
neppur quanto alla purità della lingua; almeno non lo fu tanto quanto rispetto
alla toscaneria o fiorentineria nel 500 (e anche oggi), e nell'opinione degli
2181 Accademici della Crusca circa il giudicar
classici o non classici di lingua gli scrittori altronde esimi e famosi (anche
in genere di stile); siccome neppure fu stimato vizio lo scrivere espressamente
in altro dialetto (non solo il mescolare all'atticismo parole o modi ec.
forestieri, o il ridurre l'atticismo a nient'altro che dialetto comune, e
formato di tutto ciò ch'era proprio de' diversi paesi greci), come fece Arriano nell'indica, {+e forse anche in altre opere, v. p. 2231.}
Ecateo Milesio (ma
molto prima) ec. Anzi Atene dopo prevaluto nella
grecia l'atticismo, ebbe appresso a poco la sorte di
Firenze, cioè non produsse nulla di buono, nel che
v. un passo di Cicerone
in una nota al Dial. del Capro, nella Proposta del Monti, voce Becco.- ec. ec. (28. Nov.
1821.).
[2515,1] E quella ricchissima, {fecondissima,} potentissima, regolatissima, e al tempo stesso {variatissima, poetichissima e} naturalissima lingua del
cinquecento, ch'a noi (ne' suoi buoni scrittori) riesce così elegante, forse
ch'allora fu tenuta per tale? Signor no, ma per corrotta. E la buona lingua si
stimava solo quella del trecento, {+e se
ne deplorava la mutazione, chiamandola corruzione e scadimento totale della
lingua, (come noi facciamo rispetto al 500),} e gli scrittori tanto
più s'avevano eleganti, quanto meno scrivevano nella lingua loro per iscrivere
in quella di quell'altro secolo. Laddove a noi, a' quali l'una e l'altra è
divenuta pellegrina, tanto più piacciono i cinquecentisti quanto più seguono
l'uso
2516 del loro secolo, e meno imitano il trecento.
Ed è ben ragionevole perchè allora solo possono esser naturali e di vena, come è
il Caro che non fu mai imitatore.
{+(È notabile che di parecchi
cinquecentisti, le lettere dov'essi ponevano meno studio, e che stimavano
essi medesimi di lingua impurissima, mentr'era quella del loro secolo, sono
più grate a leggersi, e di migliore stile che l'altre opere, dove si
volevano accostare alla lingua del trecento, mentre nelle lettere usavano la
lingua loro, e riescono per noi elegantissimi e naturalissimi.). V. p. 2525.} Ma anche nel
cinquecento non si stimava veramente elegante se non il pellegrino, e lo
trovavano e cercavano nella lingua del trecento, che sola chiamavano pura,
quando per noi è purissima quella del cinquecento. V. Salviati, Avvertim.
della lingua, citati nelle op. del Casa, Venezia 1752. t. 3. p. 323. fine -
324. Nel trecento poi nemmen si parlava di purità, nè si poneva tra i
pregi della lingua o dello scrivere; e la lingua del loro secolo non si stimava
elegante (se non forse alcune smancerie fiorentine, di cui parla il Passavanti, e queste credo piuttosto che s'amassero nel
resto di Toscana o d'italia, che
in Firenze, come accade veramente anche oggi): e quelli
scrittori che più si stimavano eleganti, e che tali si credevano o pretendevano
essi medesimi, erano non quelli che oggi più s'ammirano per la naturalezza e la
semplicità, e che
2517 in somma usavano più puramente
la lingua nazionale o patria del tempo loro, ma quelli che oggi meno
s'apprezzano, cioè che la fornivano di parole e modi forestieri, e che si
studiavano di tirarla alle forme d'altre lingue, e d'altri stili, come fece il
Boccaccio rispetto al latino, e come
anche Dante, la cui lingua, s'è pura per
noi, che misuriamo la purità coll'autorità, niuno certamente avrebbe chiamato
pura a quei tempi, s'avessero pensato allora alla purità{{, e
gli stessi cinquecentisti non erano}}
{+molto inchinati a stimarlo tale, nè ad
accordargli un[un'] assoluta autorità e voto
decisivo in fatto di purità di lingua, restringendosi piuttosto al Petr. e al Boc.
V. Caro
Apolog. p. 28. fine ec. Lett. 172. t. 2. e se vuoi,
anche il Galateo del Casa circa la stima
ch'allora si faceva di tanto poeta.}
[2525,1]
2525
Alla p. 2516. marg.
fine - e sempre scrisse (il Caro) nella propria lingua del suo secolo, non del trecento, e della
sua nazione, non di sola Firenze. Or vedasi nell'esempio
del Caro
{non Fiorentino,} come era bella {e
graziosa} questa lingua
nazionale del cinquecento,
ch'allora si disprezzava, e diceva il Salviati che bisognava scordarsene e lavarsene gli orecchi, nè più nè
meno di quello che ci dicano oggi della nostra moderna. Certo è che nessun
Fiorentino nè del trecento nè del 500 nè d'altro secolo scrisse mai così
leggiadramente e perfettamente come scrisse il Caro
{Marchegiano e di piccola terra,} tanto le cose
studiate, quanto le non istudiate; vero apice della prosa italiana, e che anche
oggidì, letto o bene imitato, è fresco e lontanissimo dall'affettazione la più
menoma, come s'oggi appunto scrivesse. E notate che il Caro, tutto quello che scrisse, ebbe poco tempo di
studiarlo, lasciando star le lettere, {familiari,} ch'egli scriveva anzi di malissima voglia,
come dice
2526 spessissimo, e dice ancora: E delle mie (lettere) private io n'ho fatto molto poche che mi sia
messo per farle
*
(cioè con istudio), e di pochissime ho tenuta
copia
*
(lett. 180.
vol. 2. al Varchi.) Dal che
si vede che quello stile e quella lingua gli erano naturali, e sue proprie, non
altrui, cioè {proprie} del suo secolo e della sua
nazione, benchè da lui modificate secondo il suo gusto, e benchè si professi
molto obbligato {nella lingua} a
Firenze
scrivendo al Fiorentino Salviati. (lett. ult. cioè 265. fine, vol.
2.).
Vedi ancora quel ch'egli dice del
poco studio e impegno con cui tradusse l'Eneide,
la
Rettor. d'Aristot.
le Oraz. del Nazianz. Tutte opere, che
siccome le lettere familiari (e forse queste anche più della
Rettor. e delle Oraz.) ci riescono {pur contuttociò} di squisita e quasi inimitabile
eleganza. (29. Giugno, dì di S. Pietro. 1822.)
[2542,1] 5.° Ognuno {de'} dialetti
nazionali, fuori del suo distretto, è forestiero nella stessa nazione. Gran
parte de' cinquecentisti, toscani o no, {+prosatori o poeti,} scrivevano, com'è noto, nel dialetto toscano, o
se non altro n'infioravano i loro scritti. Con ciò erano stimati eleganti. Ma
benchè scrivessero nel dialetto toscano del
tempo loro, quest'eleganza, presso tutti i lettori non toscani, veniva
anch'essa dal pellegrino. Ed anche presso i toscani veniva dal pellegrino, a
causa che trasportandosi nelle scritture voci e modi popolari e perciò insoliti
ad essere scritti, questi riuscivano straordinarii anche per li toscani, non in
se ma nelle scritture. Ed ho spiegato altrove pp. 1806-12 come anche la familiarità
nello scrivere, e le voci e modi ordinari, riescano eleganti,
2543 non come ordinarii, anzi come straordinarii e pellegrini nella
scrittura ordinata {studiata, civile (πολιτική),} e
colta. E ciò massimamente nella poesia, dove molti adoperavano il volgare
toscano, anche in poesia non burlesca, come fa il Firenzuola ec. In somma lo stesso linguaggio popolare
molte volte dà eleganza agli scritti, perciò appunto ch'essendo popolare, non è
domestico collo scriver de' letterati, e vi riesce pellegrino. Aggiungi che a
gran parte degli stessi {lettori} toscani {+(naturalmente non plebei)}
riuscivano e riescono nuove o poco familiari molte voci de' loro o d'altri
scrittori, tolte dalla lingua del loro popolo. Del resto l'eleganza derivante
dall'uso del dialetto toscano nel colto scrivere, talvolta è minore per li
toscani come poco pellegrina, {+o come
triviale;} talvolta maggiore, come non troppo pellegrina, nè tanto
straordinaria che degeneri in disconveniente, {affettato ec.} siccome
spesso fa per gli altri italiani. {I
toscani accusano il Botta
fiorentinizzante nella sua storia, come troppo triviale e pedestre, e
insomma inelegante.} E in genere l'eleganza ch'essi ne sentono, e
2544 quella che deriva dal familiare, dal popolare ec.
nel colto scrivere, è d'un altro sapore e d'un'altra qualità dall'eleganza ch'è
prodotta dall'assoluto pellegrino: non essendo pellegrino per chi legge, il
familiare e il popolare, se non relativamente, cioè rispetto alla colta
scrittura. (30. Giugno - 2. Luglio. 1822.).
[2699,1] Al contrario le lingue non bene o sufficientemente
organizzate e regolate, variano continuamente e in breve si spengono quasi
affatto, e fanno luogo a lingue quasi nuove, anche durando il medesimo stato
della nazione, sia di civiltà (se pur vi fu mai civiltà non accompagnata da
lingua illustre), sia di maggiore o minore barbarie. La lingua provenzale benchè
scritta da tanti in poesia ed in prosa, pure perchè non ordinata sufficentemente
nè ridotta a grammatica, è tutta morta dopo brevissima vita. E degli stessi
trecentisti italiani, quelli che più s'accostarono al dir plebeo e provinciale,
fosse fiorentino o qualunque, siccome tanti scrittori fiorentini o toscani di
cronichette o d'altro, sono già da gran tempo scrittori di lingua per
grandissima
2700 parte morta; giacchè infinite delle
loro voci, frasi, forme e costruzioni più non s'intendono nelle stesse loro
provincie, o vi riescono strane, insolite, affettate, antiquate e invecchiate.
Vedi Perticari
Apologia di Dante, capo 35,
e specialmente p. 338-45. (17. Maggio. 1823.).
[2721,1] Anche il Gelli confessava (ap. Perticari
Degli Scritt. del Trecento l. 2. c.
13. p. 183.) che la lingua toscana non era stata applicata alle
scienze. (24. Maggio 1823.).
[2811,2]
Institutum autem
eius
*
(Moeridis in ᾽Aττικιστῇ) est annotare
et inter se conferre voces quibus Attici, et quibus Graeci in aliis
dialectis, maxime illa κοινῇ utebantur: interdum notat et κοινὸν vulgi,
illudque diversum facit non modo ab Attico sed etiam ἑλληνικῷ, ut in
ἐξίλλειν, εὐϕήμει, κάϑησο, λέμμα, οἰδίπουν, οἶσε, σχέατον.
*
Fabric.
B. G. edit. vet. l. 5. c. 38. §. 9. num.
157. vol. 9 p. 420. (23. Giugno. 1823.).
[3009,1]
{Alla p.
2841.} Lo stile e il linguaggio poetico in una
letteratura già formata, e che n'abbia uno, non si distingue solamente dal
prosaico nè si divide e allontana solamente dal volgo per l'uso di voci e frasi
che sebbene intese, non sono però adoperate nel discorso familiare nè nella
prosa, le quali voci e frasi non sono per lo più altro che dizioni e locuzioni
antiche, andate, fuor che ne' poemi, in disuso; ma esso linguaggio si distingue
eziandio grandemente dal prosaico e volgare per la diversa inflessione materiale
di quelle stesse voci e frasi che il volgo e la prosa adoprano ancora. Ond'è che
spessissimo una tal voce o frase è poetica pronunziata o scritta in un tal modo,
e prosaica, anzi talora affatto impoetica, anzi pure ignobilissima e
volgarissima in un altro modo. E in quello è tutta elegante, in questo affatto
triviale, eziandio talvolta per li prosatori. Questo mezzo di distinguere e
separare il linguaggio d'un poema da quello della prosa e del volgo inflettendo
o condizionando diversamente
3010 dall'uso la forma
estrinseca d'una voce o frase prosaica e familiare, è frequentissimamente
adoperato in ogni lingua che ha linguaggio poetico distinto, lo fu da' greci
sempre, lo è dagl'italiani: anzi parlando puramente del linguaggio, e non dello
stile, poetico, il detto mezzo è l'uno de' più frequenti che s'adoprino a
conseguire il detto fine, e più frequente forse di quello delle voci o frasi
inusitate.
[3041,1]
3041
Alla p. 3014.
Io credo per certo che in qualunque modo, quelle inflessioni, voci, frasi ec.
che in Omero si credono proprie di tale
o tal altro dialetto, fossero al suo tempo per qualsivoglia cagione conosciute
ed intese da tutte le nazioni greche, o se non altro, da una tal nazione (come
forse la ionica), alla qual sola, in questo caso, egli avrà avuto in animo di
cantare e di scrivere, e avrà probabilmente cantato e scritto. Quanto agli altri
poeti, se le ragioni che ho addotte per ispiegare come, malgrado l'uso de'
dialetti, essi fossero universalmente intesi, non paressero bastanti, si osservi
che effettivamente in grecia, siccome altrove, i poeti
cessarono ben presto di cantare al popolo, (e così pur gli altri scrittori), e
il linguaggio poetico greco divenne certo inintelligibile al volgo, dal cui
idioma esso era anche più separato che non è la lingua poetica italiana dalla
volgare e familiare. Scrissero dunque i poeti per le persone colte, le quali
intendendo e studiando tuttodì e sapendo a memoria i versi d'Omero, e citandoli, parodiandoli, alludendovi a ogni
tratto
3042 nella colta conversazione e nella
scrittura, intendevano anche facilmente gli altri poeti, e il linguaggio poetico
greco, benchè composto delle proprietà di vari dialetti. Perocchè esso era tutto
Omerico, come ho detto, sia in ispecie sia in genere; cioè le inflessioni, le
frasi, le voci che lo componevano, o erano le identiche Omeriche (e tali erano
in fatti forse la più gran parte), o erano di quel tenore, di quella origine,
derivate o formate da quelle di Omero, o
tolte dai fonti e dai luoghi ond'egli le trasse, e ciò secondo i modi e le leggi
da lui seguite. Quei poeti che scrissero dopo Omero al popolo, e per il popolo composero, come i drammatici, poco o
nulla mescolarono i dialetti, e ne segue effettivamente che se talvolta il loro
stile è Omerico, come quello di Sofocle,
il loro linguaggio però non è tale. Esso è attico veramente, {+siccome fatto per gli Ateniesi,} se
non forse nei pezzi lirici, i quali anche per la natura del soggetto e del
genere, sarebbero stati poco alla portata degl'ignoranti. In effetto Frinico appresso Fozio (cod.
158.) conta fra' modelli, regole
3043 norme del puro e schietto sermone attico i tragici Eschilo, Sofocle, Euripide, e i Comici in quanto sono attici, perocchè questi talora
per ischerzo o per contraffazione mescolarono qualche cosa d'altri dialetti, e
ciò non appartiene al nostro proposito, ed alcuni tragici, forse, avendo
rispetto al gran concorso de' forestieri che d'ogni parte della
grecia accorrevano alla rappresentazione dei drammi
in Atene, non avranno avuto riguardo di usare alcuna cosa
d'altri dialetti. Ma generalmente si vede che il dialetto de' drammatici greci è
un solo. E del resto, siccome tra noi e ne' teatri di tutte le colte nazioni,
benchè la più parte dell'uditorio sia popolo, nondimeno i drammi che
s'espongono, non sono scritti nè in istile nè in lingua popolare, ma sempre
colta, e bene spesso anzi poetichissima e diversissima dalla corrente e
familiare ed eziandio dalla prosaica colta; così si deve stimare che accadesse
appresso a poco più o meno anche in grecia e in
Atene, dove i giudici de' drammi che concorrevano al
premio,
3044 non era finalmente il popolo, ma uno
scelto {e piccol} numero d'intelligenti, e dove le
persone colte fra quelle che componevano l'uditorio, erano per lo meno in tanto
numero come fra noi. {V. il Viaggio
d'Anacar. cap. 70.}
[3920,1] Ortografia italiana peccante per latinismo. Machiavelli in una dell'edizioni della
testina (che sono le originali, e dove l'ortografia non è rimodernata, come poi,
per altre mani) scrive mille voci difformemente per latinismo, benchè certo al
suo tempo non si pronunziassero così, ma come oggi ec., per esempio Pontifice (par. 2.
p. 73. principio
{+e in tutta la storia, ec.}) e
simili. (26. Nov. 1823.).
[3964,3] Parlo altrove p. 961
pp. 3012-14
pp. 3041-47 de' dialetti
d'Omero. Posto che il dialetto
Ionico non fosse il comune o il più comune, e perciò prescelto, l'avere Omero scritto in un dialetto piuttosto
che nella lingua comune, non prova altro se non che questa a' suoi tempi non
v'era; e il non esservi prova che non v'era ancora letteratura greca formata,
perchè nè questa poteva esservi senza quella, e la mancanza di lingua comune è
segno certo ed effetto non d'altro che della mancanza di letteratura nazionale o
della sua infanzia, poca diffusione ec. Similmente dico di {#2. Democrito
ec. Ctesia è più moderno, ma forse
anteriore al pieno della letteratura ateniese ec}
Erodoto
{#1. V. p. 3982.} e degli altri che ne' più antichi tempi
scrissero ne' dialetti loro nativi e non in lingua comune. Del resto se Omero usò {e
mescolò} anche gli altri dialetti più di quello che poi fosse fatto
dagli altri scrittori greci, anche poeti, prevalendo però in lui l'ionico; il
simile fece Dante, che
3965 usò e mescolò i dialetti
d'italia molto più che poi gli altri, anche poeti, e
a lui vicini, non fecero, e che oggi niuno farebbe, perchè v'è lingua comune, e
questa certa e formata e determinata, e tutto ciò principalmente a causa della
letteratura. Se poi alcuni, come Empedocle e Ippocrate, non
essendo ioni ec., scrissero nell'ionico, {V. p. 3982.} ciò fu
perchè Omero l'aveva usato e fatto
famoso e atto alla scrittura, e creduto solo o principalmente capace di essere
scritto, nel modo stesso che poi l'abbondanza degli scrittori ateniesi, maggiore
che quella degli altri, rese comune, e per sempre, il dialetto attico, o una
lingua partecipante massimamente dell'attico, e lo ridusse ad essere il greco
propriamente detto sì nell'uso dello scrivere, sì in quello del parlare, massime
delle persone colte; e nel modo stesso che in italia per
simil cagione è avvenuto rispetto al toscano, mentre prima, come in
grecia l'ionico invece dell'attico, così in
italia si era fatto comune ec. non il toscano, ma il
siculo ec. per la coltura di quella corte e poeti ec. e loro abbondanza
preponderante ec. {Del resto l'uso
dell'ionico fatto anticamente dagli non ionici prova con certezza che il
ionico o era il greco comune, o il più comune, o il solo o il più applicato
e quindi atto alla letteratura e al dir colto ec. o il più famoso ec. v. p. 3991.} Onde molto
s'ingannano, secondo me, quelli sì antichi (v. i luoghi citati alla pagina 3931.) sì moderni (che sono,
io credo, non pochi) i quali riconoscono l'uso o preponderanza del dialetto
ionico in Omero, in Ippocrate ec. e nelle scritture dell'antica
grecia da questo, che il dialetto ionico, secondo
loro, o almen quello di detti scrittori {+quale egli si è} ec. era l'antico dialetto attico, e usato dagli
ateniesi. Il che, se non hanno altri argomenti per provarlo, certamente non è
provato dall'uso di quegli scrittori, poichè che diritto e che mezzo aveva
allora il dialetto ateniese per esser preferito agli altri nelle scritture? Essi
cadono nel solito errore,
3966 sì comune per sì lungo
tempo (e fin oggi) in italia, anche fra' più dotti e
imparziali, circa il dialetto toscano, cioè di credere che l'attico prevalesse
agli altri dialetti per se (mentre niun dialetto prevale per se, giacchè quanto
all'ordine, forma ec. esso non l'ha prima della letteratura, quanto alla
bellezza del suono materiale ec. questo è un sogno, perchè a tutti i popoli
{+e parti di essi} è più bello
degli altri suoni quello che gli è dettato dalla natura, e quindi quello del
dialetto nativo, e imparato nella fanciullezza ec.), e non per causa della
preponderante letteratura e scrittori attici, la qual causa a' tempi d'Omero ec. non esisteva, anzi
Atene non aveva, che si sappia, scrittore alcuno, non
che n'abbondasse particolarmente ec. Neanche era potente, nè commerciante, nè
che si sappia, assai culta, o più culta degli altri, seppure aveva coltura
alcuna notabile. Bensì lo erano gl'ioni ec. e questo appunto produsse o fece
possibile un Omero ec. Se poi hanno
altre prove della detta proposizione, certo ragionano a rovescio pigliando per
effetto la causa, e per causa l'effetto. Poichè se quello fu allora il dialetto
attico, ciò venne appunto perch'esso aveva avuto scrittori e letteratura, e così
fattosi comune ec., ovvero a causa del commercio {+e potenza} e della coltura degl'ioni, alla qual
coltura non avrà poco contribuito la stessa letteratura che n'aveva avuto
origine ec. Del resto gli attici erano molto facili ad adottare le voci e modi
greci stranieri, e anche i barbari, almeno ne' tempi susseguenti; e lo dice Senofonte in un luogo da me citato e discusso altrove
p.
741
pp.
785-86
pp. 793. (9. Dec. 1823. Vigilia della Venuta della Santa Casa
di Loreto.)
[4030,10] Neanche ad Erodoto par che fosse nativo il dialetto ionico (a proposito del
detto altrove pp. 961-62), a quanto osservo nella nota del Palmerio al principio dell'Herodotus sive Aetion di Luciano.
(15. Febbraio. 1824.).
[4147,6]
Posidippe, rival de Ménandre, reproche aux Athéniens comme une
grande incivilité leur affectation de considérer l'accent et le langage
d'Athènes comme le seul qu'il soit permis
d'avoir et de parler, et de reprendre ou de tourner en ridicule les
étrangers qui y manquoient. L'atticisme, dit-il à cette occasion, dans
un fragment cité par ce Dicéarque, ami de Théophraste, dont j'ai parlé plus haut
*
(credo, nei
Geografi greci minori si trova il pezzo di Dicearco), {V. Creuzer,
Meletemata, dov'è il framm. di Dicearco.}
est le
langage d'une des villes de la Grèce;
l'hellénisme celui des autres.
*
I. G. Schweighæuser, note 24.
sur le Discours de La Bruyere sur
Théophraste. Les Caractères de Théophraste,
traduits par La Bruyere,
avec des additions et des notes nouvelles par I. G. Schweighæuser.
ParisRenouard. 1816. tome 3.e des œuvres
de La Bruyere, p.
LIII-IV.
(Bologna. 26. Ottob. 1825.).
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