Drammatica.
Drama.
Vedi Commedia. Comici. Coro. Tragedie. Teatri ec. See Comedy. Comic writers. Chorus. Tragedies. Theaters, etc. 810,1 2313,1 2361,1 2804,1 3042-4 3120 3122 3163-6 3448,1 3482,1 3548,2 3095,2 3604,1 4234,5 4255,6[810,1]
Alla p. 804.
Bisogna osservare che quanto agli autori drammatici la cosa va diversamente, sì
perchè infinite e diversissime sono le circostanze che decidono de' successi del
teatro, massime in certe nazioni, e secondo la differenza di queste; sì
massimamente perchè il teatro di qualunque nazione benchè abbia già il suo sommo
drammatico, vuol sempre novità, anzi non domanda tanto la perfezione quanto la
novità degli scritti; questa richiede sopra ogni altra cosa, a questa fa bene
spesso più plauso che ai ai capi d'opera dei sommi autori già conosciuti. Così
che ad un drammatico resta sempre
811 il suo posto da
guadagnarsi, la sua parte di lode di[da]
proccurarsi, il suo eccitamento all'impresa, e il suo premio proposto al buon
successo, e tutte queste cose son tali, che anche un autore di grande ingegno ne
può essere soddisfatto e stimolato: oltre ai piccoli incidenti di società che
eccitano a composizioni teatrali, oltre coloro che per mestiere ed interesse
ricercano e stimolano scrittori di tal genere, oltre gl'interessi o i bisogni
degli autori, gl'impegni, il desiderio di certe lodi di certi successi diremo
così cittadineschi, o di partito, o di conversazione, e di amici ec. oltre
massimamente la varietà successiva de' costumi e delle usanze non meno teatrali
e appartenenti alle rappresentazioni quanto di quelle che occorrono nella vita e
nelle cose da rappresentarsi. Così che allo scrittore drammatico, resta sempre
un campo sufficiente. E la gran fama di Sofocle non impedì che gli succedesse un Euripide. La differenza tra questo e gli altri generi
di componimenti, consiste che gli effetti, l'uso, la destinazione di questo è
come viva,
812 e sempre viva, e cammina, laddove degli
altri è come morta ed immobile. Non sarebbe così se esistessero come anticamente
quelle radunanze del popolo, dove Erodoto leggeva la sua storia, e se le poesie fossero scritte come i
poemi d'Omero per esser cantati alla
nazione, e se i tempi de' Tirtei e de' Bardi non fossero svaniti. Perchè tali
componimenti non essendo più di uso, ci contentiamo di quello che in quel tal
genere è già perfetto, e appena desideriamo altro {nuovo} modello di perfezione. Altrimenti accade di quello che è
sempre di uso vivo, e se tale avesse continuato ad essere l'eloquenza latina
dopo Cic. ella avrebbe forse avuto nuovi
sommi oratori. (18. Marzo 1821.).
[2313,1] Il grande intreccio in un'azione drammatica, la
complicazione dei nodi ec. distoglie affatto l'animo dell'uditore o lettore
dalla considerazione della naturalezza, verità, forza della imitazione, del
dialogo, delle passioni ec. e di tutte quelle bellezze di dettaglio nelle quali
principalmente consiste il pregio d'ogni genere di poesia. Anzi per l'ordinario
dispensa l'autore da queste bellezze, lo dispensa dall'osservanza, e
dall'efficace e viva ἐκτύπωσις dei caratteri ec. In questo modo l'unico
2314 o certo il principale effetto ed affetto ed
interesse che i drammi di grande intreccio producono, si è la curiosità; e
questa sola spinge l'uditore a interessarsi e fare attenzione a ciò che si
rappresenta, questa sola trova pascolo, e questa sola è soddisfatta nello
scioglimento. Nessun'altra passione o interesse è prodotta in lui da tali
drammi, per caldi e passionati che l'autore abbia inteso di farli. Or questo è
del tutto alieno dall'essenza della drammatica: esso appartiene all'essenza del
racconto: la drammatica essendo una rappresentazion viva e quasi vera delle cose
umane, deve destar ben altro interesse che quello della curiosità, come può fare
la storia: in questo caso, l'azione drammatica viene ad esser come quella di una
novella, il dramma produce lo stesso effetto di una novella, ed è indifferente
per l'uditore o lettore che quell'azione accada sotto gli occhi suoi, o gli
venga fatta sapere per mezzo di parlate, ovvero che se gli racconti
semplicemente il caso come in un romanzo, o in una storia curiosa e complicata.
2315 Quindi la necessità e il pregio degl'intrecci
semplici in ogni genere di drammi, ma proporzionatamente più in quelli dove
l'interesse della passione, e la commozione dell'uditore dev'esser più viva,
come nella tragedia: a cui la semplicità dell'azione è più necessaria che alla
commedia. A questa poi ancora è proporzionatamente necessaria per il pieno
sviluppo, e la perfetta pittura dei caratteri, e lo spicco dei medesimi, i quali
si perdono affatto (per vivi e ben imitati che sieno) quando la curiosità
dell'intreccio assorbe tutto l'interesse e l'attenzione dell'uditore. In somma
l'uditore non deve tanto interessarsi del successo, e anelare allo scioglimento
del nodo, ch'egli perda l'interesse e la commozione ec. successiva, e continua,
ed applicata individualmente a ciascuna parte del dramma, e a tutto il processo
dell'azione ugualmente. (31. Dic. 1821.). {{V. p.
2326.}}
[2361,1] Che vuol dire che l'uomo ama tanto l'imitazione e
l'espressione ec. delle passioni? e più delle più vive? e più l'imitazione la
più viva ed efficace? Laonde o pittura, o scultura, o poesia, {ec.} per bella, efficace, elegante, e pienissimamente
imitativa ch'ella sia, se non esprime passione, {+se non ha per soggetto veruna passione, (o solamente
qualcuna troppo poco viva)} è sempre posposta a quelle che
l'esprimono, ancorchè con minor perfezione nel loro soggetto. E le arti che non
possono esprimere passione, come l'architettura, sono tenute le infime fra le
belle, e le meno dilettevoli. E la drammatica e la lirica son tenute fra le
prime per la ragione
2362 contraria. Che vuol dir ciò?
non è dunque la sola verità dell'imitazione, nè la sola bellezza e dei soggetti,
e di essa, che l'uomo desidera, ma la forza, l'energia, che lo metta in
attività, e lo faccia sentire gagliardamente. L'uomo odia l'inattività, e di
questa vuol esser liberato dalle arti belle. {{Però le
pitture di paesi, gl'idilli ec. ec. saranno sempre d'assai poco effetto; e
così anche le pitture di pastorelle, di scherzi ec. di esseri insomma senza
passione: e lo stesso dico della scrittura, della scultura, e
proporzionatamente della musica. (26. Gen. 1822.).}}
[2804,1] Si sa che negli antichi drammi aveva gran parte il
coro. Del qual uso molto si è detto a favore e contro. {Vedi
il Viaggio d'Anacarsi
cap. 70.} Il dramma moderno l'ha sbandito, e bene
stava di sbandirlo a tutto ciò ch'è moderno. Io considero quest'uso come parte
di quel vago, di quell'indefinito ch'è la principal cagione dello charme dell'antica poesia e bella letteratura.
L'individuo è sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile. Il bello
e il grande ha bisogno dell'indefinito, e questo {indefinito} non si poteva introdurre sulla scena, se non
introducendovi la moltitudine. Tutto quello che vien dalla moltitudine è
rispettabile, bench'ella sia composta d'individui tutti disprezzabili. Il
pubblico,
2805 il popolo, l'antichità, gli antenati, la
posterità: nomi grandi e belli, perchè rappresentano un'idea indefinita.
Analizziamo questo pubblico, questa posterità. Uomini la più parte da nulla,
tutti pieni di difetti. Le massime di giustizia, di virtù, di eroismo, di
compassione, d'amor patrio sonavano negli antichi drammi sulle bocche del coro,
cioè di una moltitudine indefinita, e spesso innominata, giacchè il poeta non
dichiarava in alcun modo di quali persone s'intendesse composto il suo coro.
Esse erano espresse in versi lirici, questi si cantavano, ed erano accompagnati
dalla musica degl'istrumenti. Tutte queste circostanze, che noi possiamo
condannare quanto ci piace come contrarie alla verisimiglianza, come assurde,
ec. quale altra impressione potevano produrre, se non un'impressione vaga e
indeterminata, e quindi tutta {grande,} tutta bella,
tutta poetica? Quelle massime non erano poste in bocca di un individuo, che le
recitasse in tuono ordinario e naturale.
2806 Per
grande e perfetto che il poeta avesse finto questo individuo, la idea medesima
d'individuo è troppo determinata e ristretta, per produrre una sensazione o
concezione indeterminata ed immensa. Queste qualità contrastano con quelle, e
quelle avrebbero direttamente impedita questa concezione, non che potessero
produrla. Gli uditori avrebbero conosciuto il nome, le azioni, le qualità, le
avventure di quell'individuo. Egli sarebbe stato sempre quel tal Teseo, quel tal Edipo, re di Tebe, uccisore
del padre, marito della madre, e cose simili. La nazione intera, la stessa
posterità compariva sulla scena. Ella non parlava come ciascuno de' mortali che
rappresentavano l'azione: ella s'esprimeva in versi lirici e pieni di poesia. Il
suono della sua voce non era quello degl'individui umani: egli era una musica
un'armonia. Negl'intervalli della rappresentazione questo attore ignoto,
innominato, questa moltitudine di mortali, prendeva a far delle profonde o
sublimi riflessioni
2807 sugli avvenimenti ch'erano
passati o dovevano passare sotto gli occhi dello spettatore, piangeva le miserie
dell'umanità, sospirava, malediceva il vizio, eseguiva la vendetta
dell'innocenza e della virtù, la sola vendetta che sia loro concessa in questo
mondo, cioè l'esecrare che fa il pubblico e la posterità gli oppressori delle
medesime; esaltava l'eroismo, rendeva merito di lodi ai benefattori degli
uomini, al sangue dato per la patria. (V. Oraz.
art. poet. v. 193-201.) Questo era
quasi lo stesso che legare sulla scena il mondo reale col mondo ideale e morale,
come essi sono legati nella vita: e legarli drammaticamente, cioè recando questo
legame sotto i sensi dello spettatore, secondo l'uffizio e il costume del poeta
drammatico, e quanto è possibile al dramma di rappresentare quello che è. Questo era personificare le immaginazioni del poeta,
e i sentimenti degli uditori e della nazione a cui lo spettacolo si
rappresentava. Gli avvenimenti erano
2808 rappresentati
dagl'individui; i sentimenti, le riflessioni, le passioni, gli effetti ch'essi
producevano o dovevano produrre nelle persone poste fuori di essi avvenimenti
erano rappresentati dalla moltitudine, da una specie di essere ideale. Questo
s'incaricava di raccogliere ed esprimere l'utilità che si cava dall'esempio di
quelli avvenimenti. E per certo modo gli uditori venivano ad udire gli stessi
sentimenti che la rappresentazione ispirava loro, rappresentati altresì sulla
scena, e si vedevano quasi trasportati essi medesimi sul palco a fare la loro
parte; o imitati {{dal coro,}} non meno che si fossero
gli eroi imitati e rappresentati dagli attori individui. Anche quando il coro
prendeva parte diretta all'azione, questo fare agir nel dramma la moltitudine,
era più poetico, e doveva produrre maggiore e più vivo effetto, che {il} divider tutta l'azione fra pochi individui, come noi
facciamo.
[3041,1]
3041
Alla p. 3014.
Io credo per certo che in qualunque modo, quelle inflessioni, voci, frasi ec.
che in Omero si credono proprie di tale
o tal altro dialetto, fossero al suo tempo per qualsivoglia cagione conosciute
ed intese da tutte le nazioni greche, o se non altro, da una tal nazione (come
forse la ionica), alla qual sola, in questo caso, egli avrà avuto in animo di
cantare e di scrivere, e avrà probabilmente cantato e scritto. Quanto agli altri
poeti, se le ragioni che ho addotte per ispiegare come, malgrado l'uso de'
dialetti, essi fossero universalmente intesi, non paressero bastanti, si osservi
che effettivamente in grecia, siccome altrove, i poeti
cessarono ben presto di cantare al popolo, (e così pur gli altri scrittori), e
il linguaggio poetico greco divenne certo inintelligibile al volgo, dal cui
idioma esso era anche più separato che non è la lingua poetica italiana dalla
volgare e familiare. Scrissero dunque i poeti per le persone colte, le quali
intendendo e studiando tuttodì e sapendo a memoria i versi d'Omero, e citandoli, parodiandoli, alludendovi a ogni
tratto
3042 nella colta conversazione e nella
scrittura, intendevano anche facilmente gli altri poeti, e il linguaggio poetico
greco, benchè composto delle proprietà di vari dialetti. Perocchè esso era tutto
Omerico, come ho detto, sia in ispecie sia in genere; cioè le inflessioni, le
frasi, le voci che lo componevano, o erano le identiche Omeriche (e tali erano
in fatti forse la più gran parte), o erano di quel tenore, di quella origine,
derivate o formate da quelle di Omero, o
tolte dai fonti e dai luoghi ond'egli le trasse, e ciò secondo i modi e le leggi
da lui seguite. Quei poeti che scrissero dopo Omero al popolo, e per il popolo composero, come i drammatici, poco o
nulla mescolarono i dialetti, e ne segue effettivamente che se talvolta il loro
stile è Omerico, come quello di Sofocle,
il loro linguaggio però non è tale. Esso è attico veramente, {+siccome fatto per gli Ateniesi,} se
non forse nei pezzi lirici, i quali anche per la natura del soggetto e del
genere, sarebbero stati poco alla portata degl'ignoranti. In effetto Frinico appresso Fozio (cod.
158.) conta fra' modelli, regole
3043 norme del puro e schietto sermone attico i tragici Eschilo, Sofocle, Euripide, e i Comici in quanto sono attici, perocchè questi talora
per ischerzo o per contraffazione mescolarono qualche cosa d'altri dialetti, e
ciò non appartiene al nostro proposito, ed alcuni tragici, forse, avendo
rispetto al gran concorso de' forestieri che d'ogni parte della
grecia accorrevano alla rappresentazione dei drammi
in Atene, non avranno avuto riguardo di usare alcuna cosa
d'altri dialetti. Ma generalmente si vede che il dialetto de' drammatici greci è
un solo. E del resto, siccome tra noi e ne' teatri di tutte le colte nazioni,
benchè la più parte dell'uditorio sia popolo, nondimeno i drammi che
s'espongono, non sono scritti nè in istile nè in lingua popolare, ma sempre
colta, e bene spesso anzi poetichissima e diversissima dalla corrente e
familiare ed eziandio dalla prosaica colta; così si deve stimare che accadesse
appresso a poco più o meno anche in grecia e in
Atene, dove i giudici de' drammi che concorrevano al
premio,
3044 non era finalmente il popolo, ma uno
scelto {e piccol} numero d'intelligenti, e dove le
persone colte fra quelle che componevano l'uditorio, erano per lo meno in tanto
numero come fra noi. {V. il Viaggio
d'Anacar. cap. 70.}
[3117,1] Come la stima, così la compassione verso il nimico,
ancorchè vinto e virtuoso era impropria di quei tempi. (Vedi quello che altrove
ho detto p. 2760
pp.
3108-109 in proposito d'un'azione d'Enea appo Virgilio, dopo
morto Pallante). Gli animi naturali
non provano nella vittoria altro piacere che quello della vendetta. La
compassione, anche generalmente parlando (cioè quella ancora che cade sulle
persone non inimiche) nasce bensì, come di sopra ho detto,
3118 dall'egoismo, ed è un piacere, ma non è già propria nè degli
animali nè degli uomini in natura, nè anche, se non di rado e scarsamente, degli
animi ancora quasi incolti (quali erano i più a' tempi eroici). Questo piacere
ha bisogno di una delicatezza e mobilità di sentimento o facoltà sensitiva, di
una raffinatezza e pieghevolezza di egoismo, per cui egli possa come un serpente
ripiegarsi fino ad applicarsi ad altri oggetti e persuadersi che tutta la sua
azione sia rivolta sopra di loro, benchè realmente essa riverberi tutta ed operi
in se stesso e a fine di se stesso, cioè nell'individuo che compatisce. Quindi è
che anche nei tempi moderni e civili la compassione non è propria se non degli
animi colti e dei naturalmente delicati e sensibili, cioè fini e vivi. Nelle
campagne dove gli uomini sono pur meno corrotti che nelle città, rara, e poco
intima e viva, e di poca efficacia e durata è la compassione. Ma lo spirito di
Omero era certamente
3119 vivissimo e mobilissimo, e il sentimento
delicatissimo e pieghevolissimo. Quindi egli provò il piacere della compassione,
lo trovò, qual egli è, sommamente poetico, perocch'egli, oltre alla dolcezza,
induce nell'animo un sentimento di propria nobiltà e singolarità che l'innalza e
l'aggrandisce a' suoi occhi, vero e proprio effetto della poesia. {Veggasi la p. 3167-8. e pagg. 3291-7.
} Volle dunque introdurlo nel suo poema, anzi farne l'uno de'
principali fini del medesimo, l'uno de' principali piaceri prodotti dalla sua
poesia. Volle accompagnar questo piacere e questo affetto con quello della
maraviglia, affetto appartenente all'immaginazione e non al cuore, che fino a
quel tempo era forse stato l'unico {+o il
principal} effetto della poesia. Volle che il suo poema operasse
continuamente del pari e sulla immaginazione e sul cuore, e dall'una e
dall'altra sua facoltà volle trarlo, cioè da quella d'immaginare e da quella di
sentire. Questo suo intento è manifestissimo
3120 nel
suo poema, più manifesto che appo gli altri poeti greci venuti a tempi più
colti, più eziandio che ne' tragici appo i quali il terrore e la maraviglia
prevalgono ordinariamente alla pietà, e spesso son soli, sempre tengono il primo
luogo. Vedesi apertamente che Omero si
compiace nelle scene compassionevoli, che se il soggetto e l'occasione gliene
offrono, egli immediatamente le accetta, che altre ne introduce a bella posta e
cercatamente (come l'abboccamento d'Ettore e Andromaca
{a introdurre} il quale, e non ad altro, è destinata e
ordinata quella improvvisa venuta d'Ettore in troia, nel maggior
fuoco della battaglia, e in tempo che può veramente parere inopportuno {intempestivo} e imprudente), e che nell'une e nell'altre
ei non trascorre, ma ci si ferma e ci si diletta, e raccoglie tutte le
circostanze che possono {eccitare e} accrescere la
compassione, e le sminuzza, e le rappresenta con grandissima arte e intelligenza
del cuore umano. E il soggetto di tutte
3121 queste
scene dove l'animo de' lettori è sommamente interessato non sono altri che
quegli stessi che Omero ha tolto a
deprimere, i nemici de' greci ch'egli ha preso ha[ad] esaltare. Nè pertanto egli s'astiene dal volere a ogni modo far
piangere sopra i troiani, e deplorare ai medesimi greci quelle sventure ch'essi
avevano cagionate, del che egli nel tempo stesso sommamente li celebra.
[3121,1] Grande, caro, artifiziosissimo e poetichissimo
effetto dell'iliade, che Omero ottenne col duplicare espressamente e l'interesse e lo scopo e
l'Eroe, che non si poteva ottenere altrimenti, che fu tutto invenzione ed opera
di Omero, voglio dir l'unione e
l'armonia di questi due interessi e fini contrarii, e il pensiero d'introdurli
ambedue nel suo poema, e sostenerli congiuntamente fino all'ultimo, facendoli
camminar sempre del pari. Con che oltre all'avere raddoppiato l'effetto del suo
poema, interessando per l'una parte l'immaginazione, per l'altra il cuore;
3122 oltre all'aver potuto congiungere l'interesse che
deriva dalla virtù felice con quello che deriva dalla virtù sventurata (il che
non si poteva fare se non dividendo i soggetti dell'una e dell'altra, perocchè
accumulando l'una e l'altra in un soggetto solo e facendo che di sventurato
divenisse felice, o di felice terminasse nella sventura, l'uno e l'altro
interesse sarebbe stato imperfettissimo e debolissimo, e distruttivo l'uno
dell'altro, per modo che finita la lettura, l'un solo di essi sarebbe rimasto,
come accade p. e. nelle così dette, assurde tragedie, di lieto fine
{#1. V. la p. 3348.[p. 3448] segg.
e in particolare p. 3350-1[p.
3450-51].}); oltre, dico, all'aver potuto mettere in
moto nel suo poema ambedue quegl'interessi che fortissimamente operano
nell'uomo, e grandissimo piacere gli recano, e sono poetichissimi, cioè la
maraviglia della virtù superante ogni ostacolo ed ottenente il suo fine,
interesse che in quei tempi principalmente era di gran forza, e la compassione
della somma virtù caduta in somma e non medicabile nè consolabile calamità;
3123 oltre tutto questo Omero ottenne di potere introdurre nel suo poema, un
perpetuo contrasto di passioni contrarie continuamente operanti ne' lettori,
continuamente equilibrantisi l'una l'altra, continuamente sottentranti e
implicantisi e mescolantisi l'una nell'altra. Contrasto nato dalla duplicazione
dell'interesse dello scopo e della persona principale, la qual duplicazione in
virtù di questo perpetuo e perpetuamente sensibile contrasto, non solo raddoppia
ma moltiplica più volte l'effetto e l'energia dell'iliade
nell'animo de' lettori, e la vivacità delle sensazioni, e il commovimento e
l'agitazione dello spirito, propria operazione della poesia.
[3448,1] Tragedie {o drammi} di
lieto fine. - L'effetto loro totale, si è di lasciar gli affetti dell'uditore in
pieno equilibrio; cioè di esser nullo. - Il fine dei drammi non è, e non
dev'essere, d'insegnare a temere il delitto, cioè di far che gli uomini temano
di peccare. Meglio sarebbe una predica dell'inferno o del purgatorio; e meglio
ancora una
3449 lettura del codice penale, che si
facesse dalla scena. Il loro scopo si è d'ispirare odio verso il delitto. Questo
è ciò che le leggi non possono. Laddove l'ispirar timore è proprio uffizio di
esse, ed esse sole il possono, o certo più e meglio d'ogni altra cosa, eccetto
forse l'esempio vivo de' gastighi, cioè l'effettiva esecuzione delle leggi
penali. Ora la punizione del delitto non ispira odio. Anzi lo scema, perchè
sottentra {e con lui si mescola} la compassione. Anzi
lo distrugge, perchè la vendetta spegne tutti gli odi. Anzi produce un effetto a
lui contrario, perchè la compassione è contraria all'odio; e spesso avviene che
nel veder punito il delitto, questa superi ogni altro sentimento, e gli spenga,
e resti sola; e spesso la pena, benchè giusta ed equa, par più grave del
delitto; e spessissimo è odiosa, parte per la pietà, parte perchè alcuni per
viltà d'animo e poca stima di se stessi, altri per cognizione dell'uomo, si
sentono, più o meno, prossimamente o lontanamente, capaci di peccare; e niuno
ama di esser punito, anzi tutti abborrono il gastigo in se stessi. - Il dramma
3450 di lieto fine coll'effetto di una sua parte
distrugge quello dell'altra. {#
1. Veggasi la pag. 3122.}
Voglio dire la compassione. (Dell'odio verso la colpa, ch'è pur distrutto dalla
catastrofe, ho già detto pp.
3097. sgg. ). Il giusto {ec.} divenuto
felice, per infelice che sia stato, non è più compatito. Ognuno quasi si
contenterebbe di arrivare per la stessa strada alla stessa sorte. L'oppresso
vendicato non è compatito. Ora egli è cosa stoltissima il travagliare in un
dramma ec. ad eccitare un affetto che il dramma medesimo debba direttamente
spegnere, e che, non a caso, ma per intenzione dell'autore e per natura
dell'opera, finita la rappresentazione o la lettura, non debba lasciare alcun
vestigio di se; un affetto che non debba esser durabile, che durando si opponga
all'effetto voluto e cercato dall'autore e dalla qualità del dramma. E quando
l'eccitar questo affetto, come la compassione per gl'immeritevolmente infelici,
è il principale scopo che l'autore e il dramma si propongono (come
ordinariamente accade), il farlo non durevole, il distruggerlo nel suddetto
modo, è contraddizione ne' termini:
3451 principale e
non durevole, principale e da distruggersi appostatamente e volutamente col
dramma stesso, principale e non risultante dal totale del dramma, principale e
da non dover perseverare nè sino alla fine nè dopo la fine, e da non dover esser
prodotto dal dramma considerato nell'intero; dovere dal dramma considerato nell'intero esser prodotto un effetto
diverso, anzi contrario, a quello ch'ei si propone per iscopo principale. - La
naturalezza {#1. Veggasi la p. 3125. 3133.} e la verisimiglianza è maggiore
assai ne' drammi di tristo che in quelli di lieto fine, perchè così va il mondo:
il delitto e il vizio trionfa, i buoni sono oppressi, la felicità e l'infelicità
sono ambedue di chi non le merita. - Ma nel mondo il felice per lo più ha nome
di buono, e viceversa. Il dramma chiama la bontà e la malvagità col loro nome, e
mostra il carattere e la condotta {morale} de' felici e
degl'infelici qual ella è veramente. Quindi la sua grande utilità, quindi l'odio
e il disprezzo {originato dal dramma,} verso i malvagi
benchè felici, e viceversa. Non dall'alterar la natura e la verità delle cose,
facendo sfortunato il vizio e la virtù.
3452 E ben
grande utilità morale, e che ben di rado si proccura e si ottiene, e basta ben a
produr l'odio e l'indignazione, il far conoscere e recar sotto gli occhi le vere
qualità morali e i veri meriti de' felici e degl'infelici. E l'odio, {il disprezzo, il vitupero, l'infamia,} l'indignazione,
la pietà, {la stima, la lode} sono non piccoli, e certo
i soli, gastighi e compensi destinati in questo mondo al vizio e alla virtù. Non
è poco il far che l'una[uno] e l'altra gli
ottengano, che l'uno sia punito, l'altra premiata com'ambedue possono esserlo,
che la natura delle cose abbia luogo, che l'ordine stabilito alle cose umane e
il decreto della natura sia effettuato. Il qual ordine e decreto non è altro che
questo: sieno i malvagi felici ed infami, i buoni infelici e gloriosi o
compatiti. Ordine spesso turbato, e decreto ben sovente trasgredito, non quanto
alla felicità ed infelicità, ma quanto al biasimo e alla lode, all'odio ed
all'amore o compassione. - L'uditore vedendo il vizio e il delitto rappresentato
con vivi e odiosi colori nel dramma, desidera fortemente di vederlo punito. E
per lo contrario vedendo la
3453 virtù e il merito
oppressi e infelici, e rendutigli con bella e viva pittura ed artifizio amabili
e cari dal poeta, concepisce sensibile desiderio di vederli ristorati e
premiati. Or se nè l'uno nè l'altro fa il dramma stesso, {#1. Veggasi la p.
3109-10} cioè lascia il vizio impunito anzi premiato, e la
virtù non premiata anzi punita e sfortunata; ne seguono due bellissimi effetti,
l'uno morale e l'altro poetico. Il primo si è che l'uditore, appunto per lo
sfortunato esito della virtù e il contrario del vizio, che se gli è
rappresentato nel dramma, si crede obbligato verso se stesso a cangiare quanto è
in lui le sorti di que' malvagi e di que' virtuosi, punendo gli uni col maggior
possibile odio ed ira, e gli altri premiando col maggior affetto di amore, di
compassione e di lode. E con questa disposizione tutta di abborrimento e
detestazione verso i malvagi e di tenerezza e pietà verso i buoni, egli parte
dallo spettacolo. La qual disposizione quanto sia morale e buona e desiderabile
che si desti, chi nol vede? E questo
3454 è veramente
l'unico modo di far che l'uditore parta appassionato per la virtù, e
passionatamente nemico del vizio; l'unico modo di ridurre a passione l'amor
dell'una e l'odio dell'altro, cosa difficilissima a conseguirsi oggidì in
chicchessia, e stata sempre difficile ad ottenersi ne' cuori volgari e plebei
della moltitudine; ma cosa dall'altra parte così utile che più non può dirsi,
perchè nè quell'amore nè quell'odio saranno nè furono mai efficaci nell'uomo
essendo pura ragione, e s'ei non si convertano in passione, quali furono non di
rado anticamente. L'effetto poetico si è che un dramma così formato lascia nel
cuore degli uditori un affetto vivo, gli fa partire coll'animo agitato e
commosso, dico agitato e commosso ancora, non prima commosso e poi racchetato,
prima acceso e poi spento a furia d'acqua fredda, come fa il dramma di lieto
fine; insomma produce un effetto grande e forte, un'impressione e una passion
viva, nè la produce soltanto ma la lascia, il che non fa il dramma di lieto
fine; e l'effetto è durevole
3455 e saldo. Or che altro
si richiede {al totale di} una poesia, poeticamente
parlando, che produrre e lasciare un sentimento forte e durevole? quando anche
ei non fosse d'altronde utile e morale, come nel nostro caso. Certo ben
pochissime sono quelle poesie qualunque, che ottengano il detto scopo; e quelle
qualunque pochissime che l'ottengono, non sono e non possono esser altro che
grandi, insigni, famose e vere poesie. Or fate che il dramma dopo avervi mosso
all'odio verso il malvagio, ve lo dia, per così dir nelle mani, legato, punito,
giustiziato. Voi partite dallo spettacolo col cuore in pienissima calma. E come
no? qual vostro affetto resta superiore agli altri? non rimangon tutti in
pienissimo equilibrio? e una poesia che lascia gli affetti de' lettori o uditori
in pienissimo equilibrio, si chiama poesia? produce un effetto poetico? che
altro vuol dire essere in pieno equilibrio, se non esser quieti, e senza
tempesta nè commozione alcuna? e qual altro è il proprio {uffizio e} scopo della poesia se non il commuovere, così o così, ma
3456 sempre commuover gli affetti? E quanto
all'equilibrio, vedete: da una parte l'odio e l'ira che avevate concepita,
dall'altra la vendetta che placa e sfoga l'uno e l'altra; di qua il desiderio,
di là l'oggetto desiderato, cioè il castigo del malvagio. Le partite sono
uguali; l'affare è finito, il negozio è terminato, gl'interessi pareggiati: voi
chiudete il vostro libro de' conti e non ci pensate più. Infatti l'uditore si
parte dal dramma di lieto fine non altrimenti che chi abbia ricevuto un'offesa e
fattone piena e tranquilla vendetta, o ne sia stato pienamente soddisfatto, il
quale torna a casa e si corica colla stessa placidezza e coll'animo così
riposato, come se non gli fosse stata fatta alcuna offesa, e di questa non serba
pensiero alcuno. Bello effetto di un dramma, di una rappresentazione, di una
poesia; lasciare di se tal vestigio negli animi degli spettatori o uditori o
lettori, come s'e' non l'avessero nè veduta nè udita nè letta. Meglio varrebbe
essere stato a uno spettacolo di forze, di giuochi, equestre, {e} che so io, i quali pur lasciano
3457 nell'animo alcuna orma o di maraviglia o di diletto o d'altro.
{Ma} in verità in quella parte dell'anima in cui il
dramma e la poesia deve agire, quivi il dramma di lieto fine non lascia alcun
segno. Se lascia alcuna traccia in altra parte dell'anima, questo effetto o è
alieno dalla poesia, o l'è secondario, o estrinseco, accidentale, di
circostanza, parziale, cioè non prodotto dal totale della composizione, forse
proprio della decorazione, dell'azione ec. dello spettacolo più che del dramma,
non poetico ec. Or quanto all'effetto del dramma di lieto fine poeticamente
considerato, esso è tale qual si è mostrato, anzi non è, perch'esso è nullo, e
perciò che spetta al totale, il dramma di lieto fine non produce, poeticamente,
alcuno effetto. Quanto all'effetto morale, che odio, che ira verso il vizio può
rimanere in chi l'ha visto totalmente abbattuto, vinto, umiliato e punito?
Quella punizione che l'uditore gli avrebbe dato nel cuor suo, l'ha preoccupata
il poeta: questi ha fatto il tutto; l'uditore non ha a far più nulla, e nulla
fa. Quella passione ch'egli avrebbe concepita, l'ha sfogata il poeta da se: al
poeta
3458 dunque rimane. L'ira l'odio che l'uditore
avrebbe portato seco, il poeta l'ha soddisfatto. Odio ed ira e qualunque
passione soddisfatta, non resta. (Non resta, dico, quanto all'atto, di cui solo
è padrone il poeta, e non dell'abito). Dunque l'uditore parte dal dramma senza
nè odio nè ira nè altra passione alcuna contro i malvagi, il vizio, il delitto.
Tutto questo discorso circa la parte che spetta nel dramma ai malvagi, si faccia
altresì circa quella che spetta ai buoni. - Chiuderò queste osservazioni con un
esempio di fatto, narratomi da chi si trovò presente. Si rappresentò in
Bologna pochi anni fa l'Agamennone dell'Alfieri. Destò vivissimo
interesse negli uditori, e fra l'altro, tanto odio verso Egisto, che quando Clitennestra esce dalla stanza del marito col pugnale
insanguinato, e trova Egisto, la
platea gridava furiosamente all'attrice che l'ammazzasse. Ma come in quella
tragedia Egisto
riesce fortunato e gl'innocenti restano oppressi, quivi si vide quello che
possano le vere tragedie negli animi degli uditori, quando elle sono di
3459 tristo fine. Perchè promettendo gli attori che la
sera vegnente avrebbero rappresentato l'Oreste pur d'Alfieri, ove avrebbero veduto la morte di
Egisto, la gente uscì dal teatro
fremendo perchè il delitto fosse rimaso ancora impunito, e dicendo che per
qualunque prezzo erano risoluti l'indomani di trovarsi a veder la pena di questo
scellerato. E l'altro dì prima di sera il teatro era già pieno in modo che più
non ve ne capeva. O moralmente o poeticamente che si consideri un tanto odio
verso un ribaldo {di 3000 anni addietro,} potuto
ispirare e lasciare da quella tragedia, ed una passione così calda, un effetto
così vivo, potuto da lei produrre e lasciare; per l'una e per l'altra parte si
può vedere se le tragedie di lieto fine sieno poco o utili o dilettevoli. E
paragonando gli effetti di questa con quelli dell'Oreste, che certo furono molto
minori e men vivi (sebbene anche questa seconda tragedia sia bellissima), si
sarà potuto notare da qualunque mediocre osservatore se il dramma di tristo, o
quello di lieto fine, sia da preferirsi,
3460 e qual
de' due abbia maggior forza negli animi, e sia d'effetto più teatrale e poetico,
e più morale ed utile. - Si potrà applicare tutto il passato discorso, colle
debite modificazioni, a quei drammi ne' quali l'infelicità de' buoni o degli
immeritevoli, non vien da' cattivi, nè da altrui vizi o colpe, ma dal fato o da
circostanze, quali sono l'Edipo re di Sofocle, {+la Sofonisba d'Alfieri, e molte tragedie
di varie età e lingue,} e molti drammi sentimentali moderni, appresso
varie nazioni. E similmente a quei drammi in cui l'infelicità viene da colpa, ma
o involontaria o compassionevole ec. degli stessi infelici, come appunto si può
dire che sia l'Edipo
re, la Fedra, e molti drammi, {massimamente} moderni, o tragedie ec. E dalle stesse
predette osservazioni si potrà raccogliere se sia meglio che lo scioglimento di
tali drammi sia felice o infelice, che la sorte de' protagonisti si muti o si
conservi la stessa, che di felice divenga infelice, o che per lo contrario, ec.
(16-18. Settembre. 1823.).
[3482,1] Ne' tragici greci (così negli altri poeti o
scrittori antichi) non s'incontrano quelle minutezze, quella particolare e
distinta descrizione e sviluppo delle passioni e de' caratteri che è propria de'
drammi (e così degli altri poemi e componimenti) moderni, non solo perchè gli
antichi erano molto inferiori a' moderni nella cognizione del cuore umano, il
che a tutti è noto, ma perchè gli antichi nè valevano gran fatto nel dettaglio,
nè lo curavano, anzi lo disprezzavano e fuggivano, e tanto era impropria degli
antichi l'esattezza e la minutezza quanto ella è propria e caratteristica de'
moderni. Ciò nel modo e per le ragioni da me spiegate altrove pp. 1482-83.
[3548,2] Il fine del poeta epico (e simili, e in quanto gli
altri gli son simili), non dev'esser già di narrare, ma di descrivere, di
commuovere, di destare
3549 immagini e affetti, di
elevar l'animo, di riscaldarlo, di correggere i costumi, d'infiammare alla
virtù, alla gloria, all'amor della patria, di lodare, di riprendere, di accender
l'emulazione, di esaltare i pregi della propria nazione, de' propri avi, degli
eroi domestici ec. Tutti questi o parte di questi hanno da essere i veri e
proprii fini del poeta epico, non il narrare; ma il poeta epico dee però fare in
modo che apparisca il suo vero e proprio, o certo principal fine, non esser
altro che il narrare. Appena merita il nome di poesia un poema il quale in
verità non faccia altro che raccontare, cioè non produca altro effetto che di
{stuzzicare e} pascere la semplice curiosità del
lettore, ossia coll'intreccio bene intrigato e avviluppato, ossia con qualunque
mezzo. Queste sono piuttosto novelle che poesie, per quanto l'azione raccontata
potesse esser nobile {sublime} interessante ec. (Di
questa specie sono l'Orlando innamorato, il Ricciardetto e
simili). E possono ben essere di questa natura anche i poemi tessuti o sparsi
d'invenzioni capricciose e di favole ec. come i veri poemi. Anche favoleggiando
3550 sempre o quasi sempre, un poema può non far
veramente altro che raccontare. Questi tali non sono poemi perchè il poeta ha
veramente e principalmente per fine quel ch'ei non dee senon far vista di avere,
cioè il narrare. Ma per lo contrario i poemi pieni di lunghe descrizioni, di
dissertazioni e declamazioni morali, politiche ec., di sentenze, di elogi, di
biasimi, di esortazioni, di dissuasioni ec. in persona del poeta {ec.} e di simili cose, non sono poemi epici ec. perchè
il poeta mostra veramente di avere per principali fini, quei ch'e' non deve se
non avere senza mostrarlo. (29 Sett. 1823.). {{v. p.
3552.}}
[3095,2] Riprendono {nell'iliade} la poca unità, l'interesse principale
che i lettori prendono per Ettore, il
doppio Eroe (Ettore ed Achille), e
conchiudono che {se Omero} nelle parti è superiore agli altri poeti, nel tutto
però preso insieme, nella condotta del poema, nella regolarità è inferiore agli
altri epici, particolarmente a Virgilio.
Certo se potessero esser vere regole {di poesia} quelle
che si oppongono al buono e grande effetto della medesima e alla natura
dell'uomo, io non disconverrei da queste sentenze. {In proposito delle cose contenute nel séguito di questo
pensiero, vedi la pag. 470. capoverso
2.}
[3604,1] Richiedendosi necessariamente, come s'è mostrato, al
poeta epico (e similmente al drammatico, al romanziere ec. ed anche allo
storico) ch'egli renda in alcun modo, qualunque siasi, amabile colui ch'e'
voglia rendere interessante, e grandemente amabile, colui ch'abbia ad essere
sommamente interessante; è da considerare che a tal effetto giova
grandissimamente la sventura, la quale accresce a più doppi l'amabilità ove la
trova, e rende spesse volte amabile chi non lo è, ancorchè sia meritevole delle
disgrazie; molto più quando e' ne sia immeritevole. L'uomo poi amabilissimo, che
sia indegnamente sventuratissimo, è la più amabil cosa che possa concepirsi.
3605 L'uomo amabile e sventurato meritatamente, è
sempre molto più caro e compatito e interessante, che il non amabile e
immeritatamente sventurato, il quale può non esser nulla compatito e nulla
interessare (e così spessisimo accade), quando eziandio le sue sventure sieno
estreme, e quelle dell'altro menome, nel qual caso ancora, colui non può mancare
d'esser compatito e riuscir più amabile dell'ordinario. Ma non entriamo in tante
sottigliezze e distinzioni. La infelicità nel principal Eroe dell'impresa ch'è
il {proprio} soggetto del poema, non può aver luogo, se
non come accidentale, e risolvendosi all'ultimo in felicità, secondo che a suo
luogo ho spiegato e mostrato pp. 3097. sgg. Per tanto queste osservazioni confermano grandemente
il mio discorso sulla necessità di raddoppiar l'interesse nel poema epico, a
voler ch'esso poema riesca sommamente interessante e produca grandissimo
effetto; e giustificano ed esaltano il fatto di Omero nell'iliade. Perocchè non dandosi
sommo interesse senza somma amabilità, e la sventura essendo principalissima
3606 fonte di amabilità, e quasi perfezione e sommità
di essa, e non potendo una grandissima e piena e finale infelicità aver luogo
nell'eroe dell'impresa, resta che sia bisogno, a far che il poema sia sommamente
interessante, duplicarne formalmente l'interesse, e diversificar l'uno interesse
dall'altro, introducendo un altro eroe sommamente amabile, e sommamente
sventurato, dalla cui finale sventura sia prodotto {#1. e intorno ad essa si aggiri, e ad essa sempre tenda e
sia spinto, e in vista di essa per tutto il poema sia proccurato,}
questo secondo interesse di cui parliamo, il quale renda il poema sommamente
interessante e capace di lasciar l'interesse nell'animo de' lettori per buono
spazio dopo la lettura ec. Questo è ciò che fece Omero nell'iliade, nella quale Ettore è per le sue
proprie qualità ed azioni, e per la sua somma, piena e finale sventura,
sommamente amabile, e quindi sommamente interessante. Quanto ad Achille, ch'è l'altro protagonista, e
l'Eroe dell'impresa (così lo chiameremo per esser brevi), Omero non potea farlo sfortunato e infelice, massime
considerando la natura e le opinioni di quei tempi, che riponeano il sommo
pregio degli uomini nella fortuna, ed anche ragionando (nel modo che altrove ho
3607 detto pp. 3097. sgg.
pp.
3342-43), dalla fortuna o buona o ria argomentavano o la malvagità o
la bontà, o il merito o il demerito di ciascuno, non istimando che nè la
sventura nè la buona sorte potesse toccare agl'immeritevoli. Pur quanto gli fu
possibile, Omero non mancò di cercar di
conciliare ad Achille, cogli altri
affetti i più favorevoli, anche l'affetto dolcissimo della pietà, madre o
mantice dell'amore. Ciò non solo coll'accidentale sventura della morte del suo
amico Patroclo e con altre tali, ma
col mostrare eziandio, come in lontananza, la finale sventura e l'infelice
destino del bravo Achille, che per
immutabile decreto del fato aveva a morire nel più bel fiore degli anni, {{e questo in}} prezzo della sua gloria, ch'egli
scientemente {e liberamente aveva scelta e preposta,}
insieme con una morte immatura, a una vita lunga e senza onore. Tratto sublime
che perfeziona il poetico e l'epico del carattere di Achille, e della sua virtù, coraggio, grandezza
d'animo, ec. e che finisce di renderlo un personaggio sommamente amabile e
interessante.
[4234,5] La poesia, quanto a' generi, non ha in sostanza che
tre vere e grandi divisioni: lirico, epico e drammatico. Il lirico, primogenito
di tutti; proprio di ogni nazione anche selvaggia; più nobile e più poetico d'ogni altro; vera {e pura} poesia in tutta la sua estensione; proprio
d'ogni uomo anche incolto, che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto, e
colle parole misurate in qualunque modo, e coll'armonia; espressione libera e
schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell'uomo. L'epico nacque dopo
questo e da questo; non è in certo modo che un'amplificazione del lirico, o
vogliam dire il genere lirico che tra gli altri suoi mezzi e subbietti ha
assunta
4235 principalmente e scelta la narrazione,
poeticamente modificata. Il poema epico si cantava anch'esso sulla lira o con
musica, per le vie, al popolo, come i primi poemi lirici. Esso non è che un inno
in onor degli {eroi o delle nazioni o eserciti;}
solamente un inno prolungato. Però anch'esso è proprio d'ogni nazione anche
incolta e selvaggia, massime se guerriera. E veggonsi i canti di selvaggi in
gran parte, e quelli ancora de' bardi, partecipar tanto dell'epico e del lirico,
che non si saprebbe a qual de' due generi attribuirli. Ma essi son veramente
dell'uno e dell'altro insieme; sono inni lunghi e circostanziati, di materia
guerriera per lo più; sono poemi epici indicanti il primordio, la prima natività
dell'epica dalla lirica, individui del genere epico nascente, e separantesi, ma
non separato ancora dal lirico. Il drammatico è ultimo dei tre generi, di tempo
e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà,
non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più
che per la essenza sua. La natura insegna, è vero, a contraffar la voce, le
parole, i gesti, gli atti di qualche persona; e fa che tale imitazione, ben
fatta, rechi piacere: ma essa non insegna a farla in dialogo, molto meno con
regola e con misura, anzi n'esclude la misura affatto, n'esclude affatto
l'armonia; giacchè il pregio {e il diletto} di tali
imitazioni consiste tutto nella precisa rappresentazion della cosa imitata, di
modo ch'ella sia posta sotto i sensi, e paia vederla o udirla. Il che anzi è
amico della irregolarità e disarmonia, perchè appunto è amico della verità, che
non è armonica. Oltre che la natura propone per lo più a tali imitazioni i
soggetti più disusati, fuor di regola, le bizzarrie, i ridicoli, le stravaganze,
i difetti. E tali imitazioni {naturali} poi, non sono
mai d'un avvenimento, ma d'un'azione semplicissima, voglio dir d'un atto, senza
parti, senza cagioni, mezzo, conseguenze; considerato in se solo, e per suo solo
rispetto. Dalle quali cose è manifesto che la imitazion suggerita dalla natura,
è per essenza, del tutto differente dalla drammatica. Il dramma non è proprio
delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e
dell'ozio, un trovato
4236 di persone oziose, che
vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell'ozio, inventato, come
tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall'ingegno dell'uomo, non
ispirato dalla natura, ma diretto a procacciar sollazzo a se e agli altri, e
onor sociale o utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma
non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima
figlia, e l'epica, che è sua vera nepote. - Gli altri che si chiamano generi di
poesia, si possono tutti ridurre a questi tre capi, o non sono generi distinti
per poesia, ma per metro o cosa tale estrinseca. L'elegiaco è nome di metro.
Ogni suo soggetto usitato appartiene di sua natura alla lirica; come i subbietti
lugubri, che furono spessissimo trattati dai greci {lirici,} massime antichi, in versi lirici, nei componimenti al tutto
lirici, detti θρῆνοι, {+quali furon
quelli di Simonide, assai
celebrato in tal maniera di componimenti, e quelli di Pindaro: forse anche μονῳδίαι, come quelle che di
Saffo ricorda
Suida.} Il satirico è in parte lirico, se
passionato, come l'archilocheo; in parte comico. Il didascalico, per quel che ha di vera
poesia, è lirico o epico; dove è semplicemente precettivo, non ha di poesia che
il linguaggio, {il modo} e i gesti per dir così. {ec.}
(Recanati. 15. Dic. 1826.).
[4255,6] Dei nostri sommi poeti, due sono stati
sfortunatissimi, Dante e il Tasso. Di ambedue abbiamo e visitiamo i
sepolcri: fuori delle patrie loro ambedue. Ma io, che ho pianto sopra quello del
Tasso, non ho sentito alcun moto
di tenerezza a quello di Dante: e così
credo che avvenga generalmente. E nondimeno non mancava in me, nè manca negli
altri, un'altissima stima, anzi ammirazione, verso Dante; maggiore forse (e ragionevolmente) che verso
l'altro. Di più, le sventure di quello furono senza dubbio reali e grandi; di
questo appena siamo certi che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie:
tanta è la scarsezza e l'oscurità delle notizie che abbiamo in questo
particolare: tanto confuso, e pieno continuamente di contraddizioni, il modo di
scriverne del medesimo Tasso. Ma noi
veggiamo in Dante un uomo d'animo forte,
d'animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; oltracciò un uomo che
contrasta e combatte con essa, colla necessità col fato. Tanto più ammirabile
certo, ma tanto meno amabile e commiserabile. Nel Tasso veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria,
soccombente, atterrato, che ha ceduto all'avversità, che soffre continuamente e
patisce oltre modo. Sieno ancora immaginarie
4256 e
vane del tutto le sue calamità; la infelicità sua certamente è reale. Anzi senza
fallo, se ben sia meno sfortunato di Dante, egli è molto più infelice.
(Recanati. 14. Marzo. 1827.). {{(Si può applicare all'epopea, drammatica ec.)}}.
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