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[12,2]  I francesi colla loro pronunzia tolgono a infinite parole che han prese dai latini italiani ec. quel suono espressivo che aveano in origine, e che è uno dei più grandi pregi nelle lingue ec. ec. Per esempio nausea in latino e in italiano con quell'au e con quel'ea imita a maraviglia quel gesto che l'uomo fa e quella voce che manda scontorcendo la bocca e il naso quando è stomacato. Ma nosé non imita niente, ed è come quelle cose che spogliate degli spiriti e dei sali, umori, grasso ec. restano tanti capomorti. {{(capogatti ec. non capigatti) V. questi pensieri p. 95.}}

[44,2]  Anche in nostra lingua le mutazioni della pronunzia latina ec. hanno guasto parecchie parole, come da raucus espressivissima del suono che significa, roco che perde quasi tutta l'espressione.

[975,3]  La scrittura dev'essere scrittura e non algebra;  976 deve rappresentar le parole coi segni convenuti, e l'esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, {ovvero i pensieri e gli affetti dell'animo,} è ufficio delle parole così rappresentate. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, {di punti ammirativi doppi e tripli,} che so io? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee. {+Che altro è questo se non ritornare l'arte {dello scrivere} all'infanzia?} Imparate imparate l'arte dello stile, quell'arte che possedevano così bene i nostri antichi, quell'arte che oggi è nella massima parte perduta, quell'arte che è necessario possedere in tutta la sua profondità, in tutta la sua varietà, in tutta la sua perfezione, chi vuole scrivere. E così obbligherete il lettore alla sospensione, all'attenzione, alla meditazione, alla posatezza nel leggere, agli affetti che occorreranno, ve l'obbligherete, dico, con le parole, e non coi segnetti, nè collo spendere due pagine in quella scrittura che si potrebbe contenere in una sola pagina, togliendo le lineette, e le divisioni ec. Che maraviglia risulta da questa sorta d'imitazioni? Non consiste nella maraviglia uno de' principalissimi pregi dell'imitazione, una  977 delle somme cause del diletto ch'ella produce? Or dunque non è meglio che lo scrittore volendo scrivere in questa maniera, si metta a fare il pittore? Non ha sbagliato mestiere? non produrreb' egli molto meglio quegli effetti che vuol produrre scrivendo così? Non c'è maraviglia, dove non c'è difficoltà. E che difficoltà nell'imitare in questo modo? Che difficoltà nell'esprimere il calpestio dei cavalli col trap trap trap, e il suono de' campanelli col tin tin tin, come fanno i romantici? (Bürger nell'Eleonora, B. Ital. tomo 8. p. 365.) Questa è l'imitazione delle balie, e de' saltimbanchi, ed è tutt'una con quella che si fa nella detta maniera di scrivere, e coi detti segni, sconosciutissimi, e con ragione a tutti gli antichi e sommi. (22. Aprile. Giorno di Pasqua 1821.).

[977,1]  Quanto più qualsivoglia imitazione trapassa i limiti dello strumento che l'è destinato, e che la caratterizza e qualifica, tanto più esce della sua natura e proprietà, e tanto più si scema la maraviglia, come se nella scultura che imita col marmo s'introducessero gli occhi di vetro, o le parrucche invece delle chiome scolpite. E così appunto si deve dire in ordine alla scrittura, la quale imita colle parole, e non deve uscire del suo strumento. Massime se questi nuovi strumenti son troppo facili e ovvi,  978 cosa contraria alla dignità e alla maraviglia dell'imitazione, e che confonde la imitazione del poeta o dell'artefice colla misera imitazione delle balie, de' mimi, de' ciarlatani, delle scimie, e con quella imitazione che si fa tutto giorno o con parole, o con gesti, o con lavori {triviali} di mano, senza che alcuno si avvisi di maravigliarsene, o di crederla opera del genio, e divina. (23. Aprile. 1821.).

[1278,1]  Tornando al proposito, ed oggi, e da lungo tempo, questa medesima lettera greca y, non per altro introdotta nell'alfabeto latino che per rappresentare l'υ greco, ed esprimere il suono della u francese,  1279 non si pronunzia in esso alfabeto nè in essa lingua, se non come i semplice. Così pure nello spagnuolo e nel francese, quando non è trasformato in i anche nella scrittura, come sempre lo è nella nostra lingua. E notate che in dette due lingue l'y si pronunzia i anche in parole {e nomi propri ec.} non derivati dal latino, {o che in latino non avevano detta lettera, o anche avevano l'i in sua vece. E l'y e l'i si scambiano a ogni tratto nella scrittura spagnuola e francese, massime in quelle non affatto moderne, giacchè oggi l'ortografia è più determinata.} {+(I francesi scrivono Sylvain pronunziando Silvain. V. anche il Diz. Spagnuolo in Syl.)} Notate ancora che i francesi conservano l'u gallico, e pure pronunziano l'y per i. Dal che apparisce che questa lettera grecolatina, perdè affatto e universalmente il suo primo suono, e cangiossi in i, come l'υ presso i greci. Ed è naturale l'affinità scambievole dell'i e dell'u, le più esili delle nostre vocali. V. p. 2152. fine. Infatti il suono della u francese o Lombarda (il Forcellini la chiama Bergamasca) partecipa della i come della u. E quegli stessi greci che pronunziavano il loro υ come i francesi la u, lo consideravano come una i piuttosto che come una u; voglio dire come una specie o inflessione ec. della i. Giacchè nel loro alfabeto lo chiamavano ὑψιλόν (come noi diciamo pure alla greca ipsilon) cioè υ tenue. Ora questo aggiunto di tenue non gli è dato ad altro oggetto che di distinzione, come l'ε si chiama parimente ἐψιλόν per distinguerlo dall'ἦτα. Ma i greci non hanno nel loro alfabeto altra u da cui bisognasse distinguere questo υ; bensì hanno un'altra i cioè l'ἰῶτα.

[1283,1]  Alla p. 1270. Anche dopo fatta la meravigliosa analisi de' suoni articolati pronunziabili in una intera favella, e concepito il portentoso disegno di esprimergli ad uno ad uno e rappresentargli nella scrittura; e in somma trovato l'alfabeto; si dovè provare tanta difficoltà nell'applicazione, quanta se ne prova sempre passando dalla teorica alla pratica. Anzi si può dire in genere che lo scrivere una lingua non mai stata scritta era lo stesso che applicar la teorica alla pratica. Difficoltà, inconvenienti, disordini infiniti dovettero comparire nelle prime scritture. Gli alfabeti, come tutte le cose umane, e massime così difficili e sottili, durarono per lunghissimo tempo imperfetti. Cioè l'analisi dei suoni non fu potuta fare perfettamente, se non dopo lunga serie di esperienze e riflessioni. Non potè detta analisi arrivar subito ai suoni intieramente elementari. Quindi segni inutili e soprabbondanti per una parte, mancanze di segni necessarii per l'altra. {+Quindi sistema peccante di poca semplicità e di troppa semplicità. Gli archeologi possono facilmente vedere e notare, e notano i progressi dell'alfabeto sì presso una medesima nazione, sì passando ad altre nazioni, come fece. Certo è però che i primissimi alfabeti dovettero essere molto più imperfetti di quegli stessi imperfettissimi e primi che conosciamo, e che essi dovettero lungo tempo durare in quella o simile imperfezione, e quindi tanto più contribuire ad alterare la lingua scritta, la lingua comunicata alle altre nazioni e tempi ec.} Quante parole che si distinguevano ottimamente nella pronunzia, si dovettero confondere nella scrittura. O si cercò allora di distinguerle in modi arbitrarii, o lasciandole così indistinte, le proprietà, i significati, le origini delle parole si  1284 vennero a poco a poco a confondere. Nell'uno e nell'altro caso vedete quanto la necessaria imperfezione delle prime scritture (e per prime intendo quelle di parecchi secoli) debba aver nociuto alla perfetta conservazione delle primitive radici, averle svisate di forma, confusine i significati ec. ec. Così discorrete degli altri inconvenienti che derivarono dalle imperfezioni degli alfabeti, e degli effetti che questi inconvenienti dovettero produrre sulle parole.

[1338,3]  Gli Ebrei pongono o suppongono uno sceva semplice (cioè una e muta che non fa sillaba) espresso o sottinteso sotto, cioè dopo, tutte le consonanti che non hanno altra vocale, {sia nel principio, nel mezzo o nel fine delle voci.} Ragionevolmente perchè i nostri organi cadono naturalmente in una leggerissima e, non solo pronunziando una consonante isolata, o una parola terminata per consonante, e non seguita  1339 subito da parola cominciante per vocale, ec. ma anche nel pronunziare due o più consonanti di seguito in una stessa parola, come travaglio ec. quella o quelle consonanti che non hanno altra vocale, s'appoggiano insensibilmente in una e tenuissima; e non possono mai nudamente e puramente addossarsi alla consonante che segue. Eccetto quando quelle due o più consonanti fanno un tal suono che benchè rappresentato con più caratteri, è però effettivamente uno solo, ed equivale ad una sola lettera; {+(lettera non rappresentata nell'alfabeto distintamente; e ve ne sono parecchie; del che v. gli altri pensieri sulla ricchezza dell'alfabeto naturale pronunziato)} come le consonanti doppie (tutto), come nella suddetta voce travaglio, le consonanti g ed l ec. Non così nell'x benchè rappresentato con un solo carattere. ec. (17. Luglio 1821.).

[1342,1]  Il nostro gli, il nostro gn, e simili suoni, sono distinti da tutti gli altri, e volendo esattamente rappresentarli converrebbe farlo con caratteri particolari e distinti. Giacchè il gli, benchè partecipi del suono di g e di l, ne partecipa come  1343 suono affine, alla maniera di tanti altri, che pur si distinguono da' loro affini, con caratteri propri; ma in realtà non è nè g, nè l, e non contiene precisamente nessuno dei due, ed è una consonante distinta, ed unica, quando anche si voglia chiamare composta, come la z. {+La quale sarebbe male espressa con ts o ds ec. Così la f è differente dal p, quantunque sia composta di questo suono, e di un'aspirazione o soffio, e i greci anticamente l'esprimessero col carattere del p, e con quello dell'aspirazione, cioè H.} Quel suono che contiene veramente il g e la l, è quello della nostra parola Inglese, o del francese aigle, anzi generalmente del francese gl, ben diverso dal nostro gli. Tuttavia si può lodare, l'avere {(per maggior semplicità dell'alfabeto)} rappresentato questo suono, co' due caratteri, del suono de' quali partecipa; il che dimostra la sottigliezza con cui s'è analizzata la voce articolata, fino a decomporre parecchi suoni che non equivalgono precisamente a verun altro. Questa lode però spetta particolarmente alla lingua italiana, giacchè i francesi esprimono il detto suono con due ll, e così gli spagnuoli. Carattere insufficiente, e male appropriato, e che dimostra minor sottigliezza di analisi. {+V. p. 1345. capoverso 2.[1346,2]} Nel qual proposito mi piace di riferire quello che dice M. Beauzée (Encycl. méthod. in H.), parlando di un altro carattere, cioè dell'h. Il semble qu'il auroit été plus raisonnable de supprimer de *  1344 notre orthographe tout caractere muet; et celle des Italiens doit par-là même arriver plutôt que la nôtre à son point de perfection, parce qu'ils ont la liberté de supprimer les H muetes. * La mia osservazione ancora può molto servire a mostrare quanto la scrittura materiale italiana {e il suo sistema} sia più filosofico, e al tempo stesso più naturale che forse qualunque altro. Puoi vedere la p. 1339. (17.[18] Luglio 1821.) {+Il gl, il gn ec. hanno parte di g e parte di l, {ec.} ma non contengono queste due lettere intere, e non sono nè l'una nè l'altra. Sono dunque vere lettere proprie, e non doppie, perchè non è doppio quello che ha due metà. Così dico della z. Non così l'x, che contiene due lettere intere, e non è che una cifra, ossia un carattere (e non lettera) doppio.}

[1346,3]  Dalle lettere consonanti che cadono necessariamente in e, bisogna eccettuare il nostro c e g chiuso, e il ch degli spagnuoli, le quali  1347 lettere non si possono pronunziare se non cogli organi, vale a dire la lingua, il palato, e i denti così serrati, che il suono, anche nel mezzo della parola e in qualunque luogo, esce inevitabilmente in un i, quanto si voglia tenue, e ciò perchè l'i è la vocale più esile e stretta. {+Esce dico in un i ma poi termina veramente in un e (quasi ie), qualunque volta le dette lettere, e i suoni loro analoghi si pronunzino isolati, o nel fine di una parola, o insomma senz'altro appoggio di vocale.} Così accade anche ai suoni che partecipano dei sopraddetti, come gli (che noi non iscriviamo mai senza l'i, o lo pronunziamo in altro modo) e gn. {+V. p. 1363.} Del resto il nostro c e g chiusi, noi li poniamo anche avanti alla e, quantunque questa insieme coll'i sia la sola vocale a cui la preponiamo. Ciò per altro nella scrittura. Ma la pronunzia frappone sempre un i anche al c ed e, ec.; e così solevano fare i nostri antichi anche nella scrittura di quelle voci, dalle quali una poco analitica ortografia ha escluso l'i. (19. Luglio 1821.).

[1659,1]   1659 Alla p. 1284 marg. fine. Da simili ragioni, nacque senza fallo la gran differenza che si scorge fra la scrittura e la pronunzia delle lingue francese, inglese ec. Differenza chiamo io, quando le lettere {scritte} si pronunziano tutto giorno diversamente dal valore che è loro assegnato nel rispettivo alfabeto di ciascuna lingua, (Empire, si pronunzia ampire. La e nell'alfabeto francese è a o e? Perchè dunque scrivete e dovendo pronunziare a?) {+quando si scrivono lettere che non si pronunziano (come in Wieland); quando altre si omettono che si denno pronunziare.} Questa differenza è imperfezione somma nella scrittura di tali lingue. L'italiana e la spagnuola sono in ciò le più perfette fra le moderne, forse perchè furono coltivate prima delle altre, e passarono in mano delle persone istruite, quando erano ancor molli, e prima che il modo di scriverle fosse già determinato dall'uso quotidiano degl'ignoranti e negligenti. L'ortografia italiana era molto imperfetta, com'è naturale, ne' 300isti[trecentisti], e nello stesso Dante, Petrarca ec. V. Perticari. Del resto era ben naturale che le lingue moderne nate dalla corruzione e dall'ignoranza, e in tempi d'ignoranza, non si sapessero scrivere; non si trovassero nè sapessero applicare i segni;  1660 si confondessero i suoni e i segni antichi co' moderni; si seguitasse il costume di scrivere le parole in quel tal modo come si scrivevano anticamente, benchè la pronunzia fosse cambiata, e la forma di esse ec.; si pigliasse in prestanza l'ortografia degli antichi ne' luoghi e ne' casi alquanto dubbi ec. (come notano infatti degl'italiani che non essendo ben formata l'ortografia nostra massime nel 400. {e ne' principii del 500,} si serviano della latina, e scrivevano p. e. et pronunziando e, vulgare, letitia ec. ec. così mi pare che osservi il Salviati) e tutto ciò producesse le imperfezioni che si trovano nelle ortografie straniere. (9. Sett. 1821.). {{V. p. 1945. e 2458.}}

[1970,1]   1970 La minuziosità della punteggiatura usata da' francesi, corrisponde, ed è analoga, conseguente e conveniente all'indole delle loro parole, costruzioni ec. e di tutta la loro lingua, e scrittura. (22. Ott. 1821.).

[2376,1]  È costume massimamente italiano di elidere e togliere il c dalle parole latine, specialmente e p. esempio avanti il t. Ora anche gli antichi ed ottimi scrittori e monumenti usano spesse volte lo stesso in molte parole, dicendo p. e. artus per arctus (dove il c è radicale, perchè arctus fu da principio arcitus participio di arcere), ec. {V. p. 1144. se vuoi.} (nel Virg. dell'Heyne trovi sempre artus, mai arctus) autor per auctor, autoritas ec. V. il Cellar. il Forcell. l'ortograf. del Manuzio ec. E nelle antiche iscrizioni medaglie ec. si troveranno infiniti esempi di ciò, come dire Atium, o Atius, o Atia, per Actium ec. ec. Il qual costume o sia buono o cattivo in riga di  2377 latinità, e di retta ortografia (che certo in molti casi sarà cattivo, perocchè detto modo di scrivere è incostante ma frequentissimo nelle dette iscrizioni medaglie, ne' codd. più antichi ec.), serve sempre a dimostrare che quel costume che il volgo italiano ha poi adottato, e comunicato finalmente per regola alle ottime scritture (che ne' primi secoli della nostra lingua adoperarono in questo e simili casi assai frequentemente l'ortografia latina), fu antichissimo nella pronunzia del volgo o non volgo, giacchè poteva cagionare ordinariamente tali vizi di scrittura negli amanuensi, lapidarii ec. La qual considerazione si dee generalizzare e riferire a tutti quei casi (che son molti) ne' quali (o spettino all'ortografia o ad altro) gli antichi monumenti codici ec. si trovano ordinariamente, e con decisa frequenza imbrattati d'errori che si accostano o s'agguagliano alla pronunzia o al costume qualunque sia della lingua italiana, o delle sue sorelle ec. (1. Feb. 1822.).

[2654,1]  Codicis * (Vatic. Cic. de Repub.) orthographia miris laborat varietatibus et inconstantia. Est enim id fatum latinae scripturae {ac} pronunciationis, quod grammaticorum tot pugnantia praecepta infinitaeque quaestiones demonstrant. Hinc merito Cassiodorius (1): (1. Inst. praef.) orthographia apud Graecos plerumque sine ambiguitate probatur expressa; inter Latinos vero sub ardua difficultate relicta monstratur; unde etiam modo studium magnum lectoris inquirit. * Exempli gratia, labdacismus * (for. lambdacismus, sed in emendd. nihil) proprius Afrorum fuit; sicut colloquium pro conloquium, teste Isidoro (2) (2. Orig. I. 32.) Quid porro? nonne ipsa latinitas, uti observabat Hieronymus (3), (3. Prol. lib. II. comm. ad Gal.) * (scil. ad ep. S. Paul. ad Galat.) et regionibus quotidie mutabatur et tempore? postea praesertim quam tanta barbarorum peregrinitas in imperium rom. infusa est, lingua autem generis quarti esse coepit, quod Isidorus(4)(4. Orig. IX. 1.) mixtum appellat. * Maius. M. Tulli Cic. de Re pub. quae supersunt  2655 edente Ang. Maio Vaticanae Bibliothecae praefecto. Romae in Collegio Urbano apud Burliaeum 1822. Praefat. cap. 13. p. XXXVII. (Roma. 16. Dic. 1822.).

[2657,1]  Quoties g est ante n, toties memini me videre in antiquis codd. si quando vocabulum divideretur * (nel fine o della riga o della pag.), litteram g adhaerere priori vocabuli parti, n autem posteriori. Ergone Hispani Angli et Germani melius quam Itali pronunciare haec verba videntur? * Maius ad Cic. de re publ. II. 19. p. 165. v. 7. (dove la pagina del cod. finisce in mag, e la seguente comincia in na; cioè magna) not. b (20. Dic. 1822.). {+Bisogna però vedere in che paese sieno stati scritti questi codd. come p. e. in ispagna.} {{V. p. 3762.}}

[2740,1]  Per esempio d'uno dei tanti modi in cui gli alfabeti, ch'io dico esser derivati tutti o quasi tutti da un solo, si moltiplicarono e diversificarono dall'alfabeto originale, secondo le lingue a cui furono applicati, può servire il seguente. Nell'alfabeto fenicio, ebraico, samaritano ec. dal quale provenne l'alfabeto greco, non si trova il ψ, carattere inutile perchè rappresenta due lettere; inventato, secondo Plinio, da Simonide; proccurato vanamente dall'Imperatore Claudio d'introdurre nell'alfabeto latino, che parimente ne manca, sebbene derivi dall'origine stessa che il greco; e in luogo del quale si trovano negli antichi monumenti greci i due caratteri π σ. {+(Secondo i grammatici il ψ vale ancora βσ e ϕσ; ma essi lo deducono dalle inflessioni ec. come ἄραψ ἄραβος, ἄραβες ἄραψι ec. Non so nè credo che rechino alcun'antica inscrizione ec.) V. p. 3080.} Ora ecco come dev'esser nato questo carattere che distingue l'alfabeto greco dal fenicio. Nella lingua greca,  2741 per proprietà sua, è frequentissimo questo suono di ps: ed ogni lingua ha di questi suoni che in lei sono più frequenti e cari che nelle altre. Gli scrivani adunque obbligati ad esprimerlo bene spesso, incominciarono per fretta ad intrecciare insieme quei due caratteri π σ ogni volta che occorreva loro di scriverli congiuntamente. Da quest'uso, nato dalla fretta, nacque una specie di nesso che rappresentava i due sopraddetti caratteri; e questo nesso che da principio dovette conservare parte della forma d'ambedue i caratteri che lo componevano, adottato generalmente per la comodità che portava seco, e per la brevità dello scrivere, appoco appoco venne in tanto uso che occorrendo di scrivere congiuntamente il π e il σ, non si adoperava più se non quel nesso, che finalmente per questo modo venne a fare un carattere proprio, e distinto dagli altri  2742 caratteri dell'alfabeto, destinato ad esprimere in qualunque caso quel tal suono: ma destinato a ciò non primitivamente, nè nella prima invenzione o adozione dell'alfabeto greco, e nella prima enumerazione de' suoni elementari di quella lingua o della favella in genere; ma per comodità di quelli che già si servivano da gran tempo del detto alfabeto. Di modo che si può dire che questo carattere non sia figlio del suono ch'esso esprime, come lo sono quelli ch'esprimono i suoni elementari, ma figlio di due caratteri preesistenti nell'alfabeto greco, e quindi quasi nepote del suono che per lui è rappresentato. La grammatica e le regole dell'ortografia ec. non esistevano ancora. Venute poi queste, e prendendo prima di tutto ad esaminare e stabilire l'alfabeto nazionale, trovato questo nesso già padrone dell'uso comune, e sottentrato in luogo di carattere distinto {e} non doppio  2743 ma unico, lo considerarono come tale, gli diedero un posto proprio nell'alfabeto greco tra i caratteri elementari, e fissarono per regola che quel tal suono ps si esprimesse, come già da tutti si esprimeva, col ψ, e non altrimenti. Ed eccovi questo nesso, introdotto a principio dagli scrivani per fretta e per comodo; non riconoscendosi più la sua origine, o anco riconoscendosi, ci viene nelle grammatiche antiche e moderne come un carattere proprio dei greci, e come uno degli elementi del loro alfabeto. Lo stesso accadde allo ξ, che non è fenicio, introdotto come nesso per rappresentare due caratteri, cioè γσ, o κσ, {+o χσ}: e ciò per essere questi suoni, frequentissimi nella lingua greca, siccome anche nella lingua latina, nel cui alfabeto pertanto ha pure avuto luogo questo medesimo nesso, considerato come carattere. In luogo del quale gli antichi greci scrivevano γσ, o κσ. Lo stesso dicasi  2744 del ϕ, carattere (originariamente nesso) che non si trova nell'alfabeto fenicio (perciocchè il ‎‏ף‏‎ {+o ‎‏פ‏‎} è veramente il Π, {+lat. P, giacchè l'Ϝ è il digamma eolico)}, e che fu introdotto in vece del ΠH che si trova negli antichi monumenti greci, dove pur si trova il KH in vece del X, carattere non fenicio. Questi due suoni composti, anzi doppi, ph e ch, frequentissimi nella lingua greca, non si udivano nella latina. Dunque l'alfabeto latino non ebbe questi due segni. I tre caratteri ξ, ϕ, χ s'attribuiscono presso Plinio (7. 56.) a Palamede, aggiunti da lui all'alfabeto Cadmeo o Fenicio. Lo stesso dite dell'ω, che s'attribuisce presso il medesimo a Simonide ec.

[2869,1]  Non è maraviglia che la scrittura francese sia così diversa dalla pronunzia. Come altrove ho detto pp. 2462-63 , a tutte le ortografie delle lingue figlie della latina, ed anche, almeno in parte, della inglese e della tedesca, servì  2870 di modello e di guida la scrittura latina, che apparteneva all'unica letteratura che si conoscesse quando prima si cominciarono a formare e regolare le moderne ortografie, anzi era altresì quasi l'unica scrittura nota, perchè le lingue moderne poco fino allora s'erano scritte, e quando conveniva scrivere, s'era per lo più scritto in latino, benchè barbaro. Ora la pronunzia francese, è tra le pronunzie delle lingue nate dalla latina, quella che più s'è discostata dal latino. Ond'è che la lingua francese è altresì fra queste lingue la più diversa dalla madre, così di spirito, di costruzioni, di maniere, di frasi, {e di assai vocaboli,} come di suoni. {#(1.) V. p. 2989.} Egli è certissimo che da principio la lingua francese si pronunziava nel modo stesso che si scriveva, ossia la pronunzia delle sillabe nelle parole francesi corrispondeva al valore che avevano nell'alfabeto le lettere con cui esse parole si scrivevano. I versi che si trovano ancora de' poeti provenzali, pronunziavansi indubitatamente in questo modo {o con poca differenza,} come ne fa fede la loro misura, le loro rime ec. che si perderebbero l'une e l'altra pronunziando quei versi altramente, o alla moderna. Ma le irruzioni e i commerci de' settentrionali  2871 avendo cangiata la pronunzia francese, e diradata di vocali e inspessita di consonanti e resa più aspra, e così diversificatala dalla lingua provenzale, e poi col mezzo della francese, mutata eziandio la provenzale, (v. Perticari Apologia di Dante cap. 11. principio, p. 106. fine - 108. principio, e cap. 12. principio, p. 111. 112. e ivi fine, p. 119. e Capo 16. fine, p. 158.) la lingua francese si allontanò sommamente dalla latina, sì per li nuovi vocaboli e forme che acquistò da popoli che non avevano mai parlato latino, sì per li suoni di cui vestì, e con cui pronunziò quegli stessi vocaboli tolti dal latino ch'ella aveva, e che tuttora conserva. Quindi per due ragioni la pronunzia francese dovette riuscir diversa dalla scrittura. Primo, per la sopraddetta, cioè perchè non avendovi scrittura nota, o almeno scrittura appartenente a lingua letterata e formata, fuori della latina, l'ortografia francese dovette pur prendere, come l'altre, per suo modello la latina, ed essendo già la pronunzia francese fatta diversissima dalla latina, e certo assai più diversa che non erano o non furono poi la spagnuola e l'italiana,  2872 perciò la scrittura francese dovette molto più differire dalla pronunzia, che non differiscono la spagnuola e l'italiana che presero e usarono lo stesso modello. Secondo: questa diversificazione e settentrionalizzazione di pronunzia, avendo avuto luogo, o acquistato forza ed estensione in Francia piuttosto tardi, e di più trovandosi che i poeti di cui la Provenza abbondò, scrivevano il provenzale, stato già tutt'uno col francese, ed allora tuttavia analogo, ma più latino, (v. Perticari l. c. p. 107. principio) lo scrivevano, dico, in modo simile ed analogo al latino; ed essendo così vero come naturale che i primi che scrissero qualche cosa in francese, riguardarono ai provenzali, e se li proposero per guide, come quelli ch'erano in quei tempi i più dotti {forse} della Francia, ed avevano contribuito a spargere in essa il gusto della poesia volgare e dello scrivere in volgare; da tutto questo ne seguì che la scrittura francese si accostò al latino, come ci si accostava e la scrittura pronunzia provenzale; ci si accostò dico, non ostante che la pronunzia francese ogni dì più se ne scostasse, con che si venne anche a scostare dalla scrittura.  2873 Perciocchè veramente si può dire che la pronunzia francese da se, e movendosi essa, si allontanò {{e divise}} dalla scrittura, piuttosto che la scrittura dalla pronunzia. Benchè veramente sia debito de' buoni e filosofi ortografi di far che la scrittura in qualunque modo tenga sempre dietro alla universale pronunzia, regolata, o riconosciuta per regolare; e non far che la scrittura stia ferma, e lasci andare questa tal pronunzia al suo viaggio, senza darsene alcun pensiero. Ma questi discorsi non si potevano nè fare nè seguire in quei primi e confusi tempi e ignoranti, nè dopo fatti, sono stati effettuabili, avendo preso piede l'usanza contraria in modo che non si potea più scacciare nè mutare; abbisognando ella di troppe e troppe grandi ed essenziali mutazioni, non di poche e lievi e quasi accidentali come ne abbisognò e ne ricevette l'usanza italiana.

[2884,1]  Quanta barbarie avesse introdotto anche nell'ortografia italiana durante il quattrocento l'eccessivo modellarla sulla latina, onde, se si fosse perseverato in  2885 quella forma, anche noi scriveremmo diversissimamente da quel che pronunzieremmo, come si può credere che allora avvenisse, se pur la pedanteria di quei tempi, o piuttosto i pedanti, (perchè di tutti non è credibile) non pronunziavano come scrivevano; vedi alcuni esempi nelle Lezioni sulle doti di una colta favella dell'Ab. Colombo, Parma 1820. Lez. 3. p. 69. 70. e il Comento di Pico Mirandolano sopra la Canzone d'amore di Girolamo Benivieni con essa Canzone ec. Venez. 1522. dove si scrive sempre ad per a {{avanti consonante,}} anche seguendo il d, come ad dir (st. 1. della Canz. v. 6. a carte 41.); advenire ec. Durò questo pessimo uso anche nei principii del cinquecento. Nel citato libro si scrive tabola per tavola, egloge per egloghe, ec. ec. oltre philosopho, admirando, ad pena per appena ec. (3. Luglio 1823.).

[3055,1]  Come pedantescamente l'ortografia francese sia modellata, anzi servilmente copiata dalla latina si può osservar nell'uso dell'h che in parole {o sillabe} affatto compagne di pronunzia, e di suono, non hanno l'h se in latino (o in greco ec.) non l'avevano, se l'avevano l'hanno anche in francese. Come in Christ - cristal, technique, théologie, homme - omettre ec. Così dite del ph, dell'y ec. Cosa veramente pedantesca e infilosofica  3056 che parole nazionali, usualissime, volgarissime s'abbiano da scrivere non come la nazione le pronunzia, ma come le scrivevano quelli dalle cui lingue esse vennero, i quali così le scrivevano perchè così le pronunziavano, giacchè anche i latt. pronunziavano {p. e.} l'y come u gallico, ec. (sebbene anch'essi da' tempi di Cicerone in poi peccarono un poco nella servile imitazione della scrittura greca circa le parole venute o nuovamente prese dal greco. {+E vedi Desbillons ad Phaedr. Manheim 1786. p. LXVIII. }). Che se le voci naturalizzate in una lingua, e mutate affatto dal loro primo stato per la pronunzia della nazione, s'avessero sempre a scrivere nel modo in cui le scrivevano o le scrivono quei popoli, ancorchè lontanissimi e diversissimi, onde a noi vennero, {+e se la scrittura originale s'avesse sempre a conservare in ciascuna voce, cangiata o non cangiata dal tempo, dal luogo, e dalla diversa nazione e lingua, e se il pregio di un'ortografia consistesse nel conservare le forme originali di ciascuna voce per forestiera ch'ella fosse,} non so perchè le voci venute dal greco non si debbano scrivere con lettere greche, e l'ebraiche e le arabiche con lettere e punti ebraici ed arabici, e le tedesche con lettere tedesche. Giacchè usando diverso alfabeto, la scrittura originale si può imitare, ma non perfettamente conservare. E così dovremmo imparare {e usare} cento alfabeti per saper leggere e scrivere la nostra lingua.  3057 Veramente nessuna nazione in questa parte è così savia, e niuna scrittura così vera, perfetta e filosofica come l'italiana. Gli antichi greci se le potrebbero paragonare, se non che poche voci forestiere li ponevano in pericolo di guastar la loro ortografia. (27. Luglio. 1823.).

[3630,1]  Quanto fosse incerta l'ortografia stessa italiana (che oggi è la più giusta di tutte) anche nel 600, cioè nel secolo dopo il miglior secolo della nostra letteratura, veggasi la prefazione all'ortografia del Bartoli, (uomo che fra tutti del suo tempo, e fors'anche di tutti i tempi, fu quello che e per teoria e scienza e per pratica, meglio e più profondamente e pienamente conobbe la nostra lingua), e il consiglio che quivi egli dà a chi vuole scrivere, di pigliarsi cioè o di formarsi un'ortografia a suo modo, e quella sempre seguire; consiglio che niuno certamente darebbe oggi in italia ad alcuno, nè vi sarebbe più che una ortografia da poter pigliare cioè scegliere ec. Ma al contrario era allora, dopo tre secoli e più che si scriveva la nostra lingua, e ciò da letterati, non sol per uso della vita. (8. Ott. 1823.).

[3683,1]  Cattiva ortografia italiana nel 500. per troppo voler somigliarsi all'uso della scrittura latina. Machiavelli scrive alcune volte (o così portano le sue antiche stampe) sanctissimo per santissimo. (13. Ott. 1823.).

[3920,1]  Ortografia italiana peccante per latinismo. Machiavelli in una dell'edizioni della testina (che sono le originali, e dove l'ortografia non è rimodernata, come poi, per altre mani) scrive mille voci difformemente per latinismo, benchè certo al suo tempo non si pronunziassero così, ma come oggi ec., per esempio Pontifice (par. 2. p. 73. principio {+e in tutta la storia, ec.}) e simili. (26. Nov. 1823.).

[3937,3]  Ho detto altrove in più luoghi pp. 965. sgg. pp. 1499. sgg. pp. 2869. sgg. pp. 2989-90 p. 3395 p. 3573 che la francese per l'estrinseco e per l'intrinseco è di tutte le lingue sorelle la più lontana dalla madre. Molto più vicina le fu ne' passati secoli (come nel 500 ec.) per l'intrinseco, siccome per l'estrinseco ancora, cioè per la pronunzia della loro scrittura (ch'è tanto più simile al latino che la loro favella) erano più vicini al latino non solo nel 300 ec. come ho detto altrove p. 2869, e ne' principii della lingua, ma nel 500 ancora e nel 600 di mano in mano ec. (29.  3938 Nov. 1823.)

[3959,1]   3959 Quanta fosse la difficoltà e dell'invenzione dell'alfabeto, e della sua applicazione alla scrittura, {+e alle diverse lingue antiche successivamente,} e quanta dovesse essere l'irregolarità e falsità delle prime scritture alfabetiche e delle prime ortografie (difetti che si veggono ancora notabilissimi nelle più antiche scritture, cioè nell'orientali, come ho detto altrove pp. 1288-91 , p. e. nell'ebraica, ch'è senza vocali, come molte altre orientali ec., difetti perpetuati poi in esse scritture, fino anche a' nostri tempi, in quelle che sono ancora in uso ec.), si può congetturare dalle cose dette da me altrove in più luoghi pp. 1659-60 pp. 1967-69 pp. 2458-63 pp. 2884-85 p. 3683 circa la difficoltà dell'applicare primieramente la scrittura alle lingue moderne, e regolarne l'ortografia, e farla corrispondere al vero suono ec. delle parole, e circa l'irregolarità e falsità delle ortografie moderne ne' loro principii, anzi pur fino all'ultimo secolo in italia, ed altrove, massime in francia, sino al dì d'oggi; non ostante e che si avessero modelli chiarissimi, completissimi e perfettissimi di scrittura e ortografia nel latino e nel greco; e che l'uso dello scrivere fosse da tanti secoli fino a quel tempo {inclusivamente,} così comune; e che gli uomini fossero tanto men rozzi e più sperti in ogni cosa che non al tempo della prima invenzione ed uso dell'alfabeto e sua successiva applicazione alle varie lingue; e queste benchè bambine, pure certamente più formate, e meno incerte, arbitrarie, istabili, informi che al detto tempo, in cui l'uomo non aveva ancora mai usato nè conosciuto nè avuto esempio alcuno di lingua {non che} perfetta, ma degna del nome di lingua, al contrario di allora che si conoscevano e s'erano  3960 parlate, scritte ec. ec. sì generalmente per tanti secoli le lingue greca e latina sì perfette, oltre tante altre colte; e finalmente non ostante la somma civiltà e il punto di perfezione a cui sono arrivate e in cui si trovano le cognizioni ec. dello spirito umano in questi tempi, e la tanta esattezza divenuta sua propria in ogni cosa, e caratteristica di questi secoli, e la facoltà d'invenzione e di applicazione ec. e gusto e frequenza di riforme e di perfezionamenti ec. ec. Si giudichi dunque con queste proporzioni della difficoltà, irregolarità ec. delle scritture antiche ec. come sopra. (8. Dec. 1823. Festa della immacolata Concezione di Maria Vergine Santissima.).

[3964,2]  Dico altrove pp. 3586-87 p. 3637 che bisogna esattamente distinguere tra' vocaboli e modi latini conservati nelle lingue moderne, o ricuperati per mezzo della letteratura, scienze, diplomatica, politica, canoni, giurisprudenza, cose ecclesiastiche, liturgie ec. (o conservati ancora per questi mezzi, ma non per l'uso della favella ordinaria ec.). La stessa distinzione bisogna fare circa le forme delle parole ec. atteso massimamente che le ortografie moderne sono state da principio ed anche in seguito lungo tempo modellate sul latino, peccarono assai e lungamente per latinismo che nella rispettiva lingua parlata non si trovava, furono inesattissime ec. di tutte le quali cose ho detto in più luoghi pp. 1659-60 pp. 2458-63 pp. 2884-85 p. 3683 pp. 3959-60. (9. Dec. Vigilia della Venuta. 1823.).

[3980,4]  L'ortografia francese fu da principio ed anche per lungo tempo proporzionatamente, molto più simile alla scrittura latina che non è oggi, anzi sempre più se ne va scostando per accostarsi alla pronunzia. Fu, dico, molto più simile, sì perchè anche la pronunzia lo era, e sì per l'inesattezza e latinismo comuni a tutte le ortografie moderne, come altrove in più luoghi pp. 1659-60 pp. 1968-69 pp. 2458-63 pp. 2884-85 p. 3683 pp. 3959-60. Ora, se cambiandosi la pronunzia e correggendosi il barbaro latinismo dell'ortografia, la scrittura francese si è mutata  3981 non poco, perchè non si dovrà mutarla affatto sin tanto ch'ella si conformi onninamente alla pronunzia e francese e presente, qual ella è in fatti, e rinunzi del tutto alla forma latina delle parole scritte in quanto ell'è diversa da quella di esse parole pronunziate, ed all'aver riguardo in qualunque modo al latino? Se ciò non si è ancor fatto, e se non si farà, vuol dire che l'ortografia francese non è ancora o non sarà mai perfetta, nè interamente rettificata, anzi è imperfettissima e scorrettissima. Il contrario è avvenuto ed avviene ancor tuttavia (conformandosi sempre al nuovo modo di pronunziare, o conformandosi alla pronunzia dove l'antica ortografia non vi si conformava; come p. e. oggi tutti scrivono ispirare e simili, laddove tutti gli antichi inspirare, sia che così pronunziassero, sia che latinizzassero in questa scrittura) nell'ortografia spagnuola e massimamente nell'italiano che perciò sono perfette, o quasi, e certo assai più della francese vicine alla perfezione. Non così nell'inglese, nella tedesca ec. perciò imperfette come la francese, ma forse meno, perch'esse da principio non ebbero occasione nè modo di guardare al latino, con cui non hanno che fare {+le loro lingue,} massime il tedesco, o certo di guardarvi meno, e quindi minor cagione d'allontanarsi dalla pronunzia e dalla forma reale delle voci propria della loro lingua, e d'uscire dei termini e vera proprietà di questa ec. (14. Dec. 1823.).

[4018,5]  Latinismi dell'ortografia italiana nel 500. del che altrove p. 3683 p. 3920. Macchiavelli opp. 1550. par. 5. p. 47. fin. adverso; p. 49. fin. admiration, e cento simili scritture. (18. Gen. Domenica. 1824.).

[4023,2]  Alla osservazione del Mai p. 2657 sopra il modo in cui ne' codici è scritto il gn indicante esser più vera la pronunzia spagnuola, tedesca ec. cioè g-n, che l'italiana, osservisi, oltre il detto altrove pp. 1342-44, che molte voci latine o dal latino venute che hanno in latino il gn, in ispagnuolo si scrivono ñ, cioè pronunziansi gn all'italiana, come parmi aver detto altrove p. 3695 p. 3754 coll'esempio di cuñado (cognatus), a cui si può aggiungere leña (ligna) femin. eccetto se tali voci non son prese in ispagnuolo dall'italiano o dal francese piuttosto che dal latino a dirittura da cui hanno la prima origine. Infatti p. e. noi appunto diciamo legna femmin. nel senso spagnuolo, ed è voce propria nostra (lignum si dice in ispagnuolo altrimenti, cioè madera ec. come in francese bois ec.) e cuñado sta nel senso italiano per fratello o sorella della moglie o del marito ec. Ed è a notare che la maggior parte forse delle voci spagnuole derivanti dal latino e che in latino hanno il gn, si scrivono in ispagn. gn, pronunziando g-n, come digno, ignorante, magnifico (però tamaño e quamaño ec.) ec. ovvero n semplice per ellissi della n, che indica l'antica pronunzia spagnuola in quelle voci essere stata g-n e non all'  4024 italiana. (28. Gen. 1824.). {{Señal co' derivati ec. è dal latino o dall'italiano?}}

[4050,6]  Come anticamente i francesi pronunziassero conforme scrivevano e in parte scrivono, vedi il cit. luogo del Voltaire p. 139-140. (21. Marzo. 1824.).

[4051,2]  Imperfezione dell'ortografia italiana ne' passati secoli. È noto che  4052 i manoscritti originali anche de' più dotti uomini de' migliori secoli, e in particolare e nominatamente quelli dell'Ariosto e del Tasso, che son pur tanto ripieni di correzioni, presentano una stortissima e scorrettissima ortografia, con errori tali che oggi non commetterebbe il più imperito scrivano o fanciullo principiante, e una stessa voce v'è scritta ora con una ora con altra ora con altra ortografia. (21. Marzo. Domenica terza di Quaresima. 1824.).

[4090,6]  S'è veduto altrove pp. 1659-60 pp. 2458-63 pp. 2869. sgg. pp. 2884-85 pp. 3959-60 p. 3964 come la irregolarità e i vizi palpabili delle ortografie straniere vengano in gran parte dall'aver voluto accomodare le loro scritture alla latina. Ora egli è pur curioso che gli stranieri vogliano poi pronunziare la scrittura latina nel modo in cui pronunziano la propria. Questa non corrisponde alla parola pronunziata perchè l'hanno voluta scrivere alla latina, e le parole latine le vogliono poi pronunziare  4091 colla stessa differenza dalla scrittura, che usano nel pronunziar le loro parole, perchè sono male scritte. Ma se esse sono male scritte, le latine sono scritte bene; però s'hanno a pronunziar come sono scritte e non altrimenti; e gli stranieri mostrano di non ricordarsi che essi non pronunziano diversamente da quel che scrivono, se non perchè vollero scrivere alla latina, e che l'origine di questa differenza tra il loro scritto e il parlato, e della loro scrittura falsa, fu l'aver voluto scrivere alla latina mentre parlavano in altro modo, e l'aver voluto seguitare materialmente la scrittura latina, non falsa ma vera. Ora avendola malamente voluta prendere per modello, e con ciò falsificata la loro scrittura, pretendono poi per questa cagione medesima che quella sia falsa come la loro, e perchè la loro è falsa perciocchè segue quella; il che è ben lepido. (21. Maggio. 1824.). Quelli poi che non hanno tolta l'ortografia loro da' latini (sebben tutti in parte l'han tolta o immediatamente o mediatamente), e quelli che l'han tolta, in quelle cose in cui la loro non deriva da quella, ma è pur viziosa manifestamente perchè ripugna al lor proprio alfabeto, tralascia lettere e sillabe che s'hanno a profferire, ne scrive che non s'hanno a pronunziare; come mai, dico, questi tali hanno da credere che l'ortografia latina sia e viziosa perchè la loro lo è, e macchiata di quei vizi appunto che ha la loro, diversissimi poi in ciascuna, di modo che ciascuna nazione straniera pronunzia il latino diversamente? (21. Mag. 1824.).

[4124,9]  Le prime sillabe di chri-stianisme e di cry-pte si pronunziano al modo stessissimo. Perchè dunque sì diversamente scrivonsi? Ciò non accade certo in italiano (dove, eccetto alcuni pochissimi casi in cui si scrive diversamente per distinzione, come ho, - o, quel che è diversamente scritto, {diversamente} sempre si pronunzia, e viceversa) e non è da credersi che accadesse nè in latino nè in greco. Questo è un altro dei principali difetti  4125 che può avere un'ortografia, che le parole o sillabe ugualmente pronunziate, diversamente si scrivano; e viceversa che le ugualmente scritte si pronunzino diversamente. Il che per ambe le parti accade spessissimo in francese in inglese ec. e anche in ispagnuolo. (18. Feb. 1. Venerdì di Quaresima 1825.).

[4273,2]  Nella version latina di quel passaggio del Riccio rapito di Pope (Canto 1.) che contiene la descrizione della toilette, fatta dal Dr. Parnell (versione assai bizzarra, e che parrebbe piuttosto fatta nell'ottavo secolo che nel decimottavo, poichè consiste di versi dei quali ogni mezzo verso rima coll'altro mezzo, p. e. Et nunc dilectum speculum, pro more retectum, Emicat in mensa, quae splendet pyxide densa, * che sono i primi), trovo questi due versi, di séguito: Induit arma ergo Veneris pulcherrima virgo: Pulchrior in praesens tempus de tempore crescens, * dove, come si vede, ergo fa rima con virgo, e praesens con crescens. Che dicono gl'italiani di questa pronunzia? (Recanati. 5. Aprile. 1827.). {{V. p. 4497.}}

[4280,4]  Dico altrove p. 965 pp. 2869-75 che la moderna pronunzia francese distrugge ed annulla bene spesso l'imitativo che aveva il suono della parola in latino, {+e in cui spesso consisteva tutta la ragione di essa parola.} Il simile si dee dire di altre voci che la lingua francese ha da altre lingue che la latina, ovvero sue proprie ed originali. Miauler, miaulement {parole} espressive della voce del gatto, nella lor forma scritta (e però primitiva) hanno una perfettissima imitazione, nella pronunziata che ne rimane? Ognuno che abbia udito una sola volta il verso del gatto, sa che esso è mià e non miò; e dirà imitativo l'italiano miagolare (o sia questo originato dal francese, o viceversa, o l'  4281 uno e l'altro nati indipendentemente dalla natura), e corrotto affatto il franc. miauler, miaulement (noi diciamo miao o gnao, come anche gnaulare, e non già gnolare). Gli spagnuoli maullar o mahullar, maullido, maullamiento, mau. (16. Aprile. Lunedì di Pasqua. 1827.).

[4284,2]  Una delle cause della imperfezione e confusione delle ortografie moderne, si è che esse si sono quasi interamente ristrette all'alfabeto latino, avendo esse molto più suoni, massime vocali, che non ha quell'alfabeto. Ciò si vede specialmente nell'inglese, dove per conseguenza uno stesso segno vocale deve esprimere ora uno ora un altro suono, senza regola fissa, e servire a più suoni. I caratteri dell'alfabeto latino non bastano a molte lingue moderne. E generalmente si vede che le ortografie sono tanto più imperfette, quanto le lingue sono più  4285 distanti per origine e per proprietà dal latino, sulla ortografia del quale tutte, malgrado di ogni repugnanza, furono architettate.

[4290,2]  Io non credo vero quel che dicono i critici che gli antichi, p. e. Ebrei, Greci, Latini Orientali ec. non avessero nelle loro lingue il suono del v consonante, ma solo l'u vocale. Credo che il vau dell'alfabeto ebraico non sia veramente altro che un uau o u, credo che gli antichi latini non avessero segno nel loro alfabeto per esprimere il v consonante, e che il V non fosse in origine che un u; ma con ciò non si prova altro se non che gli antichi non ebbero il v nel loro alfabeto, il che non prova che non l'avessero nella lingua. Considerato come un'aspirazione (non altrimenti che l'f, il quale ancor manca negli antichi alfabeti, giacchè il fe ebraico fu anticamente pe, e il ϕ greco è una lettera aggiunta all'alfabeto antico, {e} considerata come doppia o composta, cioè di π e di Η, ossia come un π aspirato), esso v, per l'imperfezione degli antichi alfabeti, mancò di segno proprio, giacchè non si ebbe bastante sottigliezza per separarlo dalle lettere su cui esso cadeva, per avvedersi che esso era un suono per se, un elemento della favella. Perciò da  4291 principio esso non fu scritto in niun modo, come nel lat. amai per amavi; poi scritto come aspirazione, digamma ec. p. e. amaFi ec.; finalmente, sempre privo di segno proprio, esso fu scritto con quel medesimo segno che serviva all'u, ond'è avvenuto che nel latino maiuscolo il V sia ora vocale ora consonante, e così l'u nel latino minuscolo, la qual confusione dura ancora, non ostante che i moderni abbiano fatto di quest'u due caratteri, u e v; giacchè si vede, ciò non ostante, nei dizionari l'u e il v considerarsi come un solo elemento diversamente modificato, ed abbiamo e impariamo fin da fanciulli la irragionevole distinzione tra u vocale e u consonante, distinzione che non ha ragione alcuna naturale, ma solo storica ec. ec. Il simile dirò dell'f ec. ec. (20. Sett. 1827. Firenze.)

[4293,1]   4293 L'estrema imperfezione dell'ortografia francese è confessata in modo très - éclatant dagli stessi francesi {con} que' loro dizionari che contengono la prononciation figurée, cioè rappresentata in modo più conforme all'alfabeto ed alla ragion naturale. Che si dee pensare della scrittura di una nazione, la quale scrittura ha bisogno di essere scritta in un altro modo, di essere rappresentata con un'altra scrittura, e ciò alla stessa nazione, acciò che questa intenda ciò che quella significa? giacchè l'intendere come essa vada pronunziata, non è altro che intendere il suo valore. (Firenze. 21. Sett. 1827.).