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[392,1]  Oltre il progresso dei lumi esatti; dello studio e imitazione degli esemplari {tanto nazionali che antichi;} della regolarità della lingua, dello scrivere e della poesia ridotti ad arte ec. un'altra gran cagione dell'estinguersi che fece subitamente l'originalità vera e la facoltà creatrice nella letteratura italiana, originalità finita con Dante e il Petrarca, cioè subito dopo la nascita di essa letteratura, può essere l'estinzione della libertà, e il passaggio dalla forma repubblicana, alla monarchica, la quale costringe lo spirito impedito, e scacciato o limitato nelle idee e nelle cose, a rivolgersi alle parole. Il cinquecento fu, si può dir, tutto monarchico in italia e fuori, quanto al governo. E le lettere italiane risorsero dal sonno del quattrocento, sotto Cosimo e Lorenzo de' Medici fondatori della monarchia toscana e distruttori di quella repubblica. E in questo risorgimento (come poi sotto Leon X.) le lettere presero una forma regolare, una forma tutta diversa da quella del trecento, e (quel che è più) da quella che sogliono sempre prendere nel loro risorgimento  393 o nascere. La letteratura italiana non è stata più propriamente originale e inventiva. L'Alfieri è un'eccezione, dovuta al suo spirito libero, e contrario a quello del tempo, e alla natura de' governi sotto cui visse. (8. Dicembre 1820.).

[690,1]  Il secolo del cinquecento è il vero e solo secolo aureo e della nostra lingua e della nostra letteratura.

[838,1]  Quanto più l'indole, la struttura, l'andamento di una lingua, è conforme alle regole naturali, semplice, diritto ec. tanto più quella lingua è adattata alla universalità. E per lo contrario tanto meno, quanto più ella e[è] figurata, composta, contorta, quanto più v'ha nella sua forma di arbitrario, di particolare e proprio suo, o de' suoi scrittori ec. non della natura comune delle cose. Le prime qualità spettano per eccellenza alla lingua francese, quantunque la lingua italiana le possieda molto più della latina, anzi senza confronto; tuttavia in esse (e felicemente) cede alla francese, come tutte le lingue moderne {Europee,} quantunque nessuna di queste ceda in esse qualità alla latina, anzi la vinca di gran lunga, e neppure alla greca.

[1037,2]  Una lingua non si forma nè stabilisce mai, se non applicandola alla letteratura. Questo è chiaro dall'esempio di tutte. Nessuna lingua non applicata alla letteratura è stata mai formata nè stabilita,  1038 e molto meno perfetta. Come dunque la perfezione dell'italiana starà nel 300? Altro è scrivere una lingua (come si scriveva l'antica teutonica, non mai {ben} formata nè perfetta) altro è applicarla alla letteratura. Alla quale l'italiano non fu applicato che nel 500. Nel 300. {veramente e propriamente} da tre soli (lasciando le barbare traduzioni di quel secolo), il che ognun vede se si possa chiamare, perfetta applicazione alla letteratura. Se lo scrivere una lingua fosse lo stesso che l'applicarla alla letteratura, l'epoca della perfezione della latina si dovrebbe porre non nel secolo di Cic. ec. ma nel tempo dei primi scrittorelli latini; ovvero con molto più ragione in quello d'Ennio ec. e degli scrittori anteriori a Lucrezio, {a Catullo, a Cicerone (contemporanei)} giacchè allora il latino fu applicato {generalmente} a lavori molto più letterarii, che nella universalità del 300. E così dico pure delle altre lingue o morte, o viventi. (12. Maggio 1821.). {{V. p. 1056.}}

[1046,2]  Principalissime cagioni dell'essersi la lingua greca per sì lungo tempo mantenuta incorrotta (v. Giordani nel fine della Lettera sul Dionigi) furono indubitatamente la sua ricchezza, e la sua libertà d'indole e di fatto. La qual libertà produce in buona parte la ricchezza; la qual libertà è la più  1047 certa, anzi necessaria, anzi unica salvaguardia della purità di qualunque lingua. La quale se non è libera primitivamente e per indole, stante l'inevitabile mutazione e novità delle cose, deve infallibilmente declinare dalla sua indole primitiva, e per conseguenza alterarsi, perdere la sua naturalezza e corrompersi: laddove ella conserva l'indole sua primitiva, se fra le proprietà di questa è compresa la libertà. E quindi si veda quanto bene provveggano alla conservazione della purità del nostro idioma, coloro che vogliono togliergli la libertà, che per buona fortuna, non solo è nella sua indole, ma ne costituisce una delle principali parti, e uno de' caratteri distintivi. E ciò è naturale ad una lingua che ricevè buona parte di formazione nel trecento, tempo liberissimo, perchè antichissimo, e quindi naturale, e l'antichità e la natura non furono mai soggette alle regole minuziose e scrupolose della ragione, e molto meno della matematica. Dico antichissimo, rispetto alle lingue moderne, nessuna delle quali data da sì lontano tempo il principio vero di una formazione molto inoltrata, e di una notabilissima coltura, ed applicazione alla scrittura: nè può {di gran lunga} mostrare in un secolo così remoto sì grande universalità e numero di scrittori e di parlatori ec. che le servano anche oggi di modello. E questa antichità  1048 di formazione e di coltura, antichità unica fra le lingue moderne, è forse la cagione per cui l'indole primitiva della lingua italiana formata, è più libera forse di quella d'ogni altra lingua moderna colta (siccome pure dell'esser più naturale, più immaginosa, più varia, più lontana dal geometrico ec.).

[1069,1]  3. È già noto che le regole nascono quando manca chi faccia. Ma in Grecia non mancò fino agli ultimi tempi della sua esistenza politica. E sebbene allora nacquero {(o almeno si propagarono e crebbero)} anche fra' greci le regole, e le arti gramatiche, ec. ec. nondimeno il lungo uso e consolidamento della sua libertà rispetto alla lingua, impedì che le regole le nuocessero, sebbene non così accadde alla letteratura. Laddove la letteratura latina quasi spirata con Virgilio, e col di lei secolo d'oro, e parimente l'italiana, lasciarono largo e libero campo alle regole, ed a tutti i beatissimi effetti loro. Giacchè sebbene il 500. non mancava di regole, (ne mancò però del tutto il 300.), quelle non aveano che fare coll'esattezza e finezza ec.  1070 e servilità delle posteriori, e si possono paragonare (massime in fatto di lingua) a quelle che in fatto di rettorica o di poetica ec. ebbero anche i greci ne' migliori tempi. Che se i latini n'ebbero di molte e precise, perchè le riceverono dai greci già fatti gramatici e rettorici, questa è pure una delle ragioni della poca libertà della loro lingua formata ec. ec. e resta compresa nella soverchia civiltà di quel tempo, che ho già addotta da principio, come cagione di detta poca libertà. (20. Maggio 1821.). {{V. p. 743. - 746. principio.}}

[1158,2]  Parimente la lingua italiana antica, quella lingua de' trecentisti, che quanto alla dolcezza e leggiadria non ha pari in nessun altro secolo, non  1159 solo non isfugge il concorso delle vocali, ma lo ama. Proprietà che la nostra lingua è venuta perdendo appoco appoco, quanto più s'è allontanata dalla condizione primitiva; e che oggi non solo dal massimo numero degli scrittori cioè da quelli di poca vaglia, ma da più eleganti, è per lo più sfuggita come vizio, e come causa di brutto e duro suono, in luogo di dolcezza o di grazia. {+Massimamente però gli scrittori più triviali (dico quanto alla lingua e lo stile), o affettati o no, di questo e de' due ultimi secoli, par ch'abbiano una somma paura che due o più vocali s'incontrino, e storcono le parole in mille maniere per evitare questo disastro.}

[1325,1]   1325 Se quella cosa straordinaria o irregolare nel bello, e dentro i limiti del bello, diventa ordinaria e regolare, non produce più il senso della grazia. Perduto il senso dello straordinario si perde quello del grazioso. Una stessa cosa è graziosa in un tempo o in un luogo, non graziosa in un altro. E ciò può essere per due cagioni. 1. Se quella tal cosa per alcuni riesce straordinaria per altri no. Il parlar toscano riesce più grazioso a noi che a' Toscani. Così le Fiorentinerie giudiziosamente introdotte nelle scritture ec. Così l'eleganza e la grazia de' Trecentisti la sentiamo noi molto più che quel tempo che li produceva; molto più di quegli stessi scrittori, i quali forse non vollero nè cercarono d'esser graziosi, ma pensarono solo a scrivere come veniva, e a dir quello che dovevano; nè s'accorsero della loro grazia: e lo stesso dico de' parlatori di quel tempo. Lo stesso delle pronunzie {o dialetti} forestieri {ec.} i quali riescono graziosi fuor della patria, non già in patria. 2. Se quel tale straordinario o irregolare ec. ad altri riesce compatibile col conveniente, col bello ec. ad altri incompatibile, eccessivo, e distruttivo della regola, del conveniente, del bello ec. Una stessa pronunzia  1326 ec. forestiera, riesce graziosa in un luogo dove la differenza è leggiera ec. e sgraziatissima in un altro, dove ella contrasta troppo vivamente {e bruscamente} colla pronunzia, coll'assuefazione indigena ec. ec. Così dico dell'eccesso delle Toscanerie popolari nelle scritture, {che a noi riesce affettato,} ec. ec. {+Ma anche questo giudizio è soggetto a variare, e quella stessa pronunzia o dialetto ec. che riusciva insopportabile a quella tal persona, coll'assuefarvisi ec. arriverà a parergli anche graziosa. Così dico d'ogni altro genere, e l'esperienza n'è frequente.}

[1366,1]  Non basta che Dante, Petr. Bocc. siano stati tre sommi scrittori. Nè la letteratura nè la lingua è perfetta e perfettamente formata in essi, nè quando pur  1367 fosse ciò basterebbe a porre nel 300 il secol d'oro della lingua. Qual poeta, anzi quale scrittore, anzi quale ingegno maggiore di Omero ebbe {mai, non dirò} la Grecia, ancorchè sì feconda per sì gran tempo, {ma il mondo?} E tuttavia nessuno può riporre la perfetta formazione e il secol d'oro della lingua greca, nel tempo, e neppur nella lingua d'Omero: {+(v. se vuoi, la lettera al Monti sulla Grecità del Frullone, in fine. Proposta ec. vol. 2. par. 1. appendice.)} quantunque la lingua greca sia molto più formata in Omero, che non è l'italiana massime in Dante; perchè Dante fu quasi il primo scrittore italiano, Omero non fu nè il primo scrittore nè il primo poeta greco. E la lingua greca architettata (siccome lingua veramente antica) sopra un piano assai più naturale ec. del nostro, era capace di arrivare alla perfezione sua propria in molto meno tempo dell'italiana, ch'è pur lingua moderna, e spetta (necessariamente) al genere moderno. (22. Luglio 1821.). {{V. p. 1384. fine.}}

[1417,2]  I tempi differiscono assai di più. Lasciamo stare la letteratura classica greca paragonata colla classica latina, che pur si formò su di quella. I trecentisti ci piacciono assai anche oggi, ma {oggi} chi scrivesse precisamente come loro, in questa lingua, ch'è pur la stessa, sarebbe giudicato barbaro, e quella semplicità ec. ec. parrebbe eccessiva, {cioè} sconveniente, inverisimile, e non più naturale oggidì, quantunque  1418 la natura in quanto all'essenziale non si muti. I francesi gustano i latini e i greci, ma si guarderebbero bene dall'imitarne molte cose, che in quelli non li disgustano, anzi paiono loro bellezze, perchè le giudicano convenienze relativamente alle circostanze della loro natura, de' tempi ec. Del resto non mancano francesi che anche quanto al bello, antepongano la loro letteratura alle antiche, segno di falso gusto, cioè allontanato dalla natura, più gradi, che non ne sono allontanati gli altri gusti. I francesi di buon gusto cioè più naturale, gusteranno anche gl'italiani classici, sebbene tanto opposti alla loro maniera. Li gusteranno però meno di quello che facciano (ed effettivamente lo fanno) le altre nazioni, e saranno offesi di molte che a noi e agli altri paiono naturalezze. Non dico niente delle letterature e gusti orientali, o selvaggi ec. ec.

[1449,1]  Non solo i contemporanei p. e. di Omero, sentivano e gustavano la di lui semplicità ben meno di noi, come ho detto altrove p. 1420, ma lo stesso Omero non si accorgeva di esser semplice, non credè non cercò di esser pregevole per questo, non sentì non conobbe pienamente il pregio e il gusto della semplicità (nè in genere, nè della sua propria): come si può vedere in quei soverchi epiteti ec. ed altri ornamenti ch'egli profonde fuor di luogo, come fanno i fanciulli  1450 quando cominciano a comporre, e si studiano e stiman pregio dell'opera tutto il contrario della semplicità, cioè l'esser manierati, ornati ec. Segni di un'arte bambina, la quale infanzia dell'arte produceva insaputamente la semplicità, e volutamente questi piccoli difetti in ordine alla stessa semplicità; difetti che un'arte più matura ha saputo facilmente evitare cercando la semplicità, la quale però non ha mai più potuto conseguire. Così dico dell'Ariosto ec. de' cui difetti ho parlato ne' miei primi pensieri pp. 4-5 , ed altrove p. 700. Così dei trecentisti manieratissimi, e scioccamente carichi di ornamenti in molte cose, benchè, per indole naturale, semplicissimi ec. (4. Agos. 1821.).

[1470,1]  Una delle principali e universali e caratteristiche inseparabili proprietà dello stile degli  1471 antichi non corrotti, cioè o classici, o anteriori alla perfezione della letteratura, si è la forza e l'efficacia. Quest'è la prima, anzi l'unica qualità ch'io {ho} sentito notare da uomini poco avvezzi a letture classiche, ogni volta che venivano dal leggere qualche libro de' buoni antichi, o qualche libro moderno su quel gusto di stile. Ed era l'unica perchè forse essi non erano capaci di discernere a prima vista, nè gustare le altre. Ma questa dà subito nell'occhio, e si distingue e si separa facilmente dalle altre. Quindi osservate quanto sia vero che la natura è sorgente di forza, e che questa è sua qualità caratteristica, come la debolezza lo è della ragione. Perciocchè 1. gli antichi scrittori, massime quelli anteriori al perfezionamento della letteratura, i quali sono ordinariamente più energici degli altri, non cercavano gran fatto l'energia, nè se ne pregiavano, nè volevano esser famosi per questo ec. come ho detto altrove p. 207 pp. 691-94 p. 1325 p. 1335 p. 1420 pp. 1435-36 pp. 1449-50 della semplicità, dell'eleganza, della purità di lingua ec. Tali sono i  1472 trecentisti ec. Eppure senza cercarlo, riuscivano robustissimi e nervosissimi per la sola forza della natura che in loro parlava e regnava, e quindi per la loro propria forza. 2. Quando anche la cercassero, già la cercavano assai meno di noi che tanto meno la troviamo, poi se la cercavano in proporzione della riuscita, vuol dire che la cercavano sopra tutto, e che quindi nel tempo che la natura regnava, l'efficacia e l'energia si stimava la principal dote dello stile. E così accadeva in tutto: e così la prima e perenne sorgente di forza, sia nello stile, sia nella lingua, sia ne' concetti, sia nelle azioni, sarà sempre l'esempio degli antichi, cioè la natura. E i tempi moderni con tutti i loro lumi non possono mai supplire a questa fonte. (8. Agos. 1821.).

[1483,1]  Non la maggior diligenza dunque, ma l'esser gli scrittori antichi più vicini alle prime determinazioni de' significati e formazioni delle parole, e il formarne essi stessi, non per lusso, che gli antichi non conoscevano, ma per bisogno, o per utile, fanno ch'essi si riguardino e siano veri modelli della proprietà delle voci e dei modi. E infatti la diligenza che vien dall'arte come pur la produce, è in ragione inversa dell'antichità. Ora la proprietà degli scrittori è in ragion diretta; e Plauto e Terenzio e gli altri antichi latini i più rozzi, sono  1484 tanto più propri quanto meno eleganti di Cicerone. Così i trecentisti ignorantissimi, rispetto ai cinquecentisti ec. Dante rispetto al Petrarca e al Boccaccio ec. V. la p. 1253.

[1525,1]  Degli stessi tre soli scrittori letterati del trecento, un solo, cioè Dante, ebbe intenzione scrivendo, di applicar la lingua italiana alla letteratura. Il che si fa manifesto sì dal poema sacro, ch'egli considerava, non come trastullo, ma come impresa di gran momento, e dov'egli trattò le materie più gravi della filosofia e teologia; sì dall'opera, tutta filosofica, teologica, e insomma dottrinale e gravissima del Convito, simile agli antichi Dialoghi scientifici ec. (vedilo); sì finalmente dalle opinioni ch'egli manifesta nel Volgare Eloquio. Ond'è che Dante fu propriamente, com'è stato sempre considerato, e per intenzione e per effetto, il fondatore della lingua italiana.  1526 Ma gli altri due, non iscrissero italiano che per passatempo, e tanto è lungi che volessero applicarlo alla letteratura, che anzi non iscrivevano quelle materie in quella lingua, se non perchè le credevano indegne della lingua letterata, cioè latina, in cui scrivevano tutto ciò con cui miravano a farsi nome di letterati, e ad accrescer la letteratura. Siccome giudicavano (ancor dopo Dante, ed espressamente contro il parere e l'esempio suo, specialmente il Petr.) che la lingua italiana fosse indegna e incapace delle materie gravi e della letteratura. Sicchè non pur non vollero applicarvela, ma non credettero di potere, nè che veruno potesse mai farlo. Opinione che durò fin dopo la metà del Cinquecento circa il poema eroico, del quale pochi anni dopo la morte dell'Ariosto, e pochi prima che uscisse la Gerusalemme, si credeva in italia che la lingua italiana non fosse capace: onde il Caro prese a tradurre l'Eneide ec. (v. il 3. tomo delle sue lett. se non fallo). Ed è notissima l'opinione che portava il Petr. del suo canzoniere: ed egli lo scrisse  1527 in italiano, come anche il Boccaccio le sue novelle e romanzi, per divertimento delle brigate, come ora si scriverebbe in un dialetto vernacolo, e per li cavalieri e dame, e genti di mondo, che non si credevano capaci di letteratura. ec. ec. Ed è pur noto come nel 500. si scrivessero poemi sudatissimi in latino, e storie ec. (19. Agos. 1821.).

[1689,1]  A ciò che ho detto altrove p. 1366 pp. 1579-80 che la semplicità è relativa, aggiungete che oggi per es. sarebbe bruttissimo uno stile semplice al modo di Senofonte, o de' nostri trecentisti, ancorchè inaffettato, e composto di voci e frasi niente anticate. La semplicità d'oggi è diversissima da quella d'allora, e di un grado molto minore. Cosa che non s'intende da coloro che raccomandano l'imitazione degli antichi. (13. Sett. 1821.).

[1768,1]  Ho lodato l'italia appetto alla Francia pp. 343-45 pp. 1243-44 perchè non ha rinunziato alla sua lingua antica, ed ha voluto ch'ella fosse composta di cinque secoli, in vece di un solo. Ma la biasimerei sommamente se per conservare l'antica intendesse di rinunziare alla moderna, mentre se l'antica è utile, questa è necessaria; e molto più se in luogo di compor la sua lingua di 5 secoli, la componesse come i francesi di un solo, ma non di quello che parla (il che alla fine è comportabile), bensì di quello che  1769 parlò quattro secoli fa: ovvero anche se la volesse comporre de' soli secoli passati, escludendo questo, il quale finalmente è l'unico che per essenza delle cose non si possa escludere. Certo è lodevole che non si sradichi la pianta, conservando i germogli, e trapiantandoli, ma perchè s'ha da conservare il solo tronco spogliandolo de' germogli, delle foglie, de' rami; anzi la sola radice tagliando il tronco, e guardando bene che non torni a crescere, e che le radici se ne stieno senza produr nulla? E sarebbe ben ridicolo che conservando sulla nostra favella l'autorità agli antichi che più non parlano, la si volesse levare a noi che parliamo: e sarebbe questa la prima volta che le cose de' vivi fossero proprietà intera de' morti. {+Sarebbe veramente assurdo che mentre una parola {o frase} superflua nuovamente trovata in uno scrittore antico, si può sempre incontrastabilmente usare quanto alla purità, una parola o frase utile o necessaria, e che del resto abbia tutti i numeri, nuovamente introdotta da un moderno, non si possa usare senza impurità.} Anzi quanto più la nostra lingua è diligente nel non voler perdere (cosa ottima), tanto più per necessaria conseguenza, dev'essere industriosa nel guadagnare, per non somigliarsi al pazzo avaro che {+per amor del danaio} non mette a frutto il danajo, ma  1770 si contenta di non perderlo, e guardarlo senza pericoli. (22. Sett. 1821.).

[1809,1]   1809 Ma se noi non sentiamo perfettamente in essi il familiare, qualità delle lingue la più difficile a ben sentirsi in una lingua forestiera, e più in una lingua morta, lo sentiamo però ottimamente in Dante, nei prosatori trecentisti, escluso il Boccaccio, che introdusse nell'italiano tante voci, frasi, e forme latine, e nel Petrarca (v. un mio pensiero sulla familiarità del Petrarca), eccetto dov'egli pure si accosta ed imita (come fa, e felicemente, assai spesso) l'andamento latino. Questi e tutti gli scrittori primitivi di ciascuna lingua, doverono necessariamente dare un andamento, un insieme di familiarità al loro stile ed alla maniera di esprimere il[i] loro pensieri, {+sì per altre ragioni, sì} perchè mancavano di uno de' principali fonti dell'eleganza, cioè le parole, frasi forme rimosse dall'uso del volgo per una tal quale, non dirò antichità, ma quasi maturità. {+(Infatti è notabile che la vera imitazione degli antichi quanto alla lingua, dà subito un'aria di familiarità allo stile).} E siccome altrove osservammo pp. 1482. sgg. che gli scrittori primitivi sono sempre i più propri, così e per le stesse ragioni, essi debbono  1810 cedere ai susseguenti nell'eleganza (intendendo quella che ho dichiarato).

[1918,1]  Quindi è che parlando generalmente e di un intiero stile (giacchè l'effetto generale, deriva e si conforma agli effetti particolari), in un secolo e in una nazione dove le parole e frasi sieno poco usitate nel senso proprio scrivendo, dove sia molto in uso lo stile metaforico (dentro i limiti però dell'eleganza), uno stile proprio, e composto anche, purchè con certa arte, di parole e frasi pedestri, familiari, e spettanti ai particolari, riuscirà  1919 elegantissimo. E viceversa supponendo il caso contrario. Quindi possiamo osservare, congetturare, specificare, distinguere i diversi effetti che hanno prodotto ne' diversi secoli e le diverse opinioni in cui (dentro i limiti del bello) sono stati avuti gli scrittori italiani di diverso stile, nella stessa italia: come i 300isti[trecentisti], paragonati co' cinquecentisti, ec. ec. Quindi possiamo anche notare la istabilità delle riputazioni e degli effetti di un'opera di belle arti, o di scrittura, sulle quali si stima che il giudizio spassionato del pubblico, sia come giusto, così invariabile. Giusto concedo, invariabile nego; massime in lungo corso di secoli, e in qualche diversità di nazioni, e di costumi ec.

[1993,2]  La lingua francese ricevette una certa forma, e venne in onore prima dell'italiana, e forse anche della spagnuola, mercè de' poeti provenzali che la scrivevano ec. Onde sulla fine stessa del ducento, e principio di quel trecento che innalzò la lingua italiana su tutte le vive d'allora, si stimava in italia la parlatura francesca * esser la più dilettevole e comuna di tutti gli altri linguaggi parlati * ;  1994 si scriveva in quella piuttosto che nella nostra, stimandola più bella e migliore * ec. v. Perticari, del 300. p. 14-15. Ma la buona fortuna dell'italia volle che nel 300, cioè prima {assai} che in nessun'altra nazione, sorgessero in essa tre grandi scrittori, giudicati grandi anche poscia, indipendentemente dall'età in cui vissero, i quali applicarono la nostra lingua alla letteratura, togliendola dalle bocche della plebe, le diedero stabilità, regole, andamento, indole, tutte le modificazioni necessarie per farne una lingua non del tutto formata, ch'era impossibile a tre soli, ma pur tale che già bastasse ad esser grande scrittore adoperandola; la modellarono sulla già esistente letteratura latina ec. Questa circostanza, indipendente affatto dalla natura della lingua italiana, ha fatto e dovuto far sì che l'epoca di essa lingua si pigli necessariamente  1995 d'allora in poi, cioè da quando ell'ebbe tre sommi scrittori, che l'applicarono decisamente alla letteratura, {all'altissima poesia,} alle grandi e nobili cose, alla filosofia, alla teologia (ch'era allora il non plus ultra, e perciò Dante col suo magnanimo ardire, pigliando quella linguaccia greggia ed informe dalle bocche plebee, e volendo innalzarla fin dove si può mai giungere, si compiacque, anche in onta della convenienza e buon gusto poetico, di applicarla a ciò che allora si stimava la più sublime materia, cioè la teologia). Questa circostanza ha fatto che la lingua italiana contando oggi, a differenza di tutte le altre, cinque interi secoli di letteratura, sia la più ricca di tutte; questa che la sua formazione e la sua indole sia decisamente antica, cioè bellissima e liberissima, con gli altri infiniti vantaggi delle lingue antiche (giacchè i cinquecentisti che poi decisamente la formarono, oltre  1996 che sono antichi essi stessi, e che si modellarono sugli antichi classici latini e greci seguirono ed in ciò, e in ogni altra cosa il disegno e le parti di quella tal forma che la nostra lingua ricevette nel 300. e ch'essi solamente perfezionarono, compirono, e per ogni parte regolarono, uniformarono, ed armonizzarono); questa circostanza ha fatto che la nr̃a[nostra] lingua non abbia mai rinunziato alle parole, modi, forme antiche, ed all'autorità degli antichi dal 300 in poi, non potendo rinunziarvi se non rinunziando a se stessa, perchè d'allora in poi ell'assunse l'indole che la caratterizza, e fu splendidamente applicata alla vera letteratura. Questa circostanza è unica nella lingua italiana. La spagnuola le tenne dietro più presto che qualunqu'altra, ma solo due secoli dopo. Dal 500. dunque ella prende la sua epoca, ed ella è la più antica di fatto e d'indole, dopo  1997 l'italiana. La lingua francese non ebbe uno scrittore assolutamente grande e da riconoscersi per tale in tutti i secoli, prima del secolo di Luigi 14. o in quel torno. (Montagne nel 500. o non fu tale, o non bastò, o non era tale da formare e fissare bastantemente una lingua.) Quindi la sua epoca non va più in là, ella conta un secolo e mezzo al più, l'autorità degli antichi è e dev'esser nulla per lei. Dove comincia la vera e propria letteratura di una nazione quivi comincia l'autorità de' suoi scrittori in punto di lingua.

[2014,1]  La mancanza di libertà alla lingua latina, venne certo o dall'esser ella stata perfettamente applicata ne' suoi buoni tempi a pochi generi di scrittura, ad altri imperfettamente e poco e da pochi, ad altri punto;  2015 o dall'esser ella, come lingua formata, la più moderna delle antiche, ed essere stata la sua formazione contemporanea ai maggiori incrementi dell'arte che si vedessero tra gli antichi ec. ec.; o dall'aver ella avuto in Cicerone uno scrittore e un formatore troppo vasto per se, troppo poco per lei, troppo eminente sopra gli altri, alla cui lingua chi si restrinse, perdette la libertà della lingua, chi ricusollo, perdette la purità, ed avendo riconquistata la libertà colla violenza, degenerolla in anarchia. Perocchè la libertà e ne' popoli e nelle lingue è buona quando ella è goduta pacificamente e senza contrasto relativo ad essa, e come legittimamente e per diritto, ma quando ella è conquistata colla violenza, è piuttosto mancanza di leggi, che libertà. Essendo proprio delle cose umane dapoi che son giunte  2016 ad una estremità, saltare alla contraria, poi risaltare alla prima, e non sapersi mai più fermare nel mezzo, dove la natura sola nel primitivo loro andamento le aveva condotte, e sola potrebbe ricondurle. Un simile pericolo corse la lingua italiana nel 500. quando alcuni volevano restringerla, non al 300. come oggi i pedanti, ma alla sola lingua e stile di Dante, Petr. e Bocc. per la eminenza di questi scrittori, anzi la prosa alla sola lingua e stile del Boccaccio, la lirica a quello del solo Petrarca ec. contro i quali combatte il Caro nell'Apologia.

[2100,1]  Anche la lingua italiana quando si stava formando, (sebbene anche poscia ha sortito un'indole liberissima) nondimeno manifestava allora quell'eccessiva libertà, adattabilità, onnipotenza ch'è propria di tutte le lingue in tal epoca. E parimente andava soggetta a quei difetti che nascono da tali qualità; onde nello stesso cinquecento, quando si stava perfezionando la lingua italiana, essa rassomigliava nel Guicciardini al tedesco quanto all'oscurità e confusione che deriva dall'abuso della potenza che avea la nostra lingua di abbracciare con un solo periodo un'infinità di sentenze,  2101 di concatenare insieme mille pensieri; di chiudere un ragionamento, un discorso intero, un intero sistema o circuito d'idee, in un solo periodo. (qualità che la Staël nota più volte e rimprovera nel tedesco) Parimente si rassomigliava esteriormente al tedesco nell'abuso delle inversioni, delle figure, di tutte le facoltà non logiche che può possedere una lingua, e che la nostra infatti possedeva.

[2112,1]  Come anche le costruzioni, l'andamento, la struttura ch'io chiamo naturale in una lingua, distinguendola dalla ragionevole, logica, geometrica, abbia una proprietà universale, e sia da tutti più o meno facilmente appresa (almeno dentro una stessa categoria di nazioni e di tempi), e come per conseguenza la semplicissima e naturalissima (sebbene perciò appunto figuratissima) struttura della lingua greca, dovesse facilitare la di lei universalità; si può vedere in questo, che le scritture le più facili in qualunque lingua per noi nuova o poco nota, sono quasi sempre e generalmente  2113 le più antiche e primitive, e quelle al cui tempo, la lingua o si veniva formando, e non era ancor pienamente formata, o non peranche era incominciata a formare. Così accade nello spagnuolo, così ne' trecentisti italiani (i più facili scrittori nostri), così nella stessa oscurissima lingua tedesca, i cui antichi romanzi (come di un certo Romanzo del 13.zo sec. intitolato Nibelung, dice espressamente la Staël) sono anche oggi assai più facili e chiari ad intendersi, che i libri moderni. Accade insomma il contrario di quello che a prima vista parrebbe, cioè che una lingua non formata, o non ben formata e regolata, {e poco logica,} sia più facile della perfettamente formata {, e logica.} (Eccetto le minuzie degli arcaismi, che abbisognano di Dizionario per intenderli ec. difficoltà che per lo straniero apprentif è nulla, e non è sensibile se non al nazionale ec. ec. {+Eccetto ancora certi ardiri propri della natura, e diversi secondo l'indole delle nazioni delle lingue, e degl'individui in que' tempi, i quali ardiri piuttosto affaticano, di quello che impediscano di capire. v. p. 2153.}) Parimente infatti  2114 i più antichi scrittori greci sono i più facili e chiari, perchè i più semplici, e di costrutti e frasi le più naturali, e lo studioso che intende benissimo Senofonte, Demostene, Isocrate ec. si maraviglia di non intendere i sofisti, e Luciano, e Dion Cassio, e i padri greci, e altri tali; e molto sbaglierebbe quel maestro che facesse incominciare i suoi scolari dagli scrittori greci più moderni, credendo, come può parere a prima giunta, che i più antichi, e più perfettamente greci, debbano esser più difficili. Così pure accade nel latino, che i più antichi sono i più facili, e di dizione più somigliante di gran lunga alla greca, che tale fu infatti la letteratura latina ne' suoi principii, e la lingua latina, anche prima della letteratura, e l'una e l'altra indipendentemente ancora dall'imitazione e dallo studio degli esemplari e letteratura greca. Son più facili gli antichi poeti latini, che i prosatori del secol d'oro. (18. Nov. 1821.).

[2123,1]   2123 Di più tale influenza, qualunque sia o sia stata, non può essere che temporanea, dipendente dalle circostanze, e soggetta a scemare, crescere, svanire, mutar di posto nsieme con esse. Tale influenza non derivando dall'essere di capitale, nè dall'influenza politica, non può derivare se non da quella influenza sociale che è data da una maggioranza di coltura e letteratura, e che si esercita mediante queste. Firenze e la Toscana ebbero infatti questa maggioranza dal 300 al 500. (sebbene nel 500. non tanta, e però la loro influenza sulla lingua fu allora effettivamente minore.) {La corruzione della barbarie straniera è maggiore in toscana tanto nelle scritture, quanto nella civil conversazione che nel resto d'italia anzi quivi è nel suo colmo, e la riforma non v'ha quasi messo piede. Come dunque dovrà ella esser la Capitana di questa riforma? Del resto non si può considerare se non la superiorità o inferiorità nella lingua scritta e civile, sola che spetti alla letteratura, sola che possa esser nazionale.} Oggi tanto è lungi che l'abbiano, che, lasciando la lingua dove i toscani sono più ignoranti che qualunque altro italiano (come furono in parte anche nel 500), secondo che apparisce da tutto ciò che si stampa in quel paese (intendo la lingua scritta), Firenze in letteratura sottostà a tutte le altre metropoli e città  2124 colte d'italia, eccetto forse Roma, e la toscana se non a tutte le provincie italiane, certo cede al Piemonte, Lombardia, Veneziano, e non supera punto nè le Marche, nè il Napoletano. La preminenza dunque della letteratura, sola causa che potesse dare a Firenze il primato sulla lingua, e che glielo desse in effetto, è cessata, anzi convertita in inferiorità. {+(Appunto la letteratura è in meschinissimo stato in Toscana, e indipendentemente dalla lingua, lo stile, il gusto, le metafore, ogni qualità generale e particolare dello stile è così barbaro negli stessi Accademici della Crusca, che fa maraviglia, e non credo che abbia cosa simile in nessuna più incolta parte d'italia.)} Tolta la causa, deve dunque cessare l'effetto, come cessò per la Sicilia, che da prima si trovò nel caso della toscana, e per la provenza, che da prima fu nel medesimo caso rispetto alla Francia.

[2180,2]  Anche dopo introdotto in Grecia lo studio dell'atticismo ec. l'essere o non essere ateniese di nascita o allevato in Atene, non fu mai prevenzione per giudicare favorevolmente o sfavorevolmente di uno scrittore neppur quanto alla purità della lingua; almeno non lo fu tanto quanto rispetto alla toscaneria o fiorentineria nel 500 (e anche oggi), e nell'opinione degli  2181 Accademici della Crusca circa il giudicar classici o non classici di lingua gli scrittori altronde esimi e famosi (anche in genere di stile); siccome neppure fu stimato vizio lo scrivere espressamente in altro dialetto (non solo il mescolare all'atticismo parole o modi ec. forestieri, o il ridurre l'atticismo a nient'altro che dialetto comune, e formato di tutto ciò ch'era proprio de' diversi paesi greci), come fece Arriano nell'indica, {+e forse anche in altre opere, v. p. 2231.} Ecateo Milesio (ma molto prima) ec. Anzi Atene dopo prevaluto nella grecia l'atticismo, ebbe appresso a poco la sorte di Firenze, cioè non produsse nulla di buono, nel che v. un passo di Cicerone in una nota al Dial. del Capro, nella Proposta del Monti, voce Becco.- ec. ec. (28. Nov. 1821.).

[2239,2]  Osservando bene, potrete vedere che la prosa (ed anche la poesia) latina, nelle metafore,  2240 eleganze, ardimenti abituali e solenni, giro della frase, costruzione ec. è molto più poetica della greca, la quale (parlo della classica ed antica) ha un andamento assai più rimesso, posato, piano, semplice, meno ardito, anzi non soffrirebbe in nessun caso quelle metafore ardite e poetiche che a' prosatori latini sono familiari, e poco meno che volgari. E se non le soffrirebbe, ciò non è perch'ella ne abbia ed usi delle altre equivalenti, ma intendo dire ch'ella non soffrirebbe un'egual misura e grado di ardimento ne' traslati e in tutta l'elocuzione della prosa la più alta, come è quella di Demostene, a petto a cui Cicerone è un poeta per lo stile è[e] la lingua, laddove egli è quasi un prosatore ne' concetti, passioni ec. rispetto a Demostene poeta, o certo più poeta di Cicerone. Quindi una frase prosaica latina sarebbe poetica in greco, una frase epica  2241 o elegiaca in latino sarebbe lirica in greco ec. Quasi gl'istessi rispetti ha la lingua latina coll'italiana, similissima in queste parti alla greca, e però non è maraviglia se il latinismo dello stile diede qualche durezza ai cinquecentisti, e sforzò e snaturò alquanto il loro scrivere. (10. Dic. dì della Venuta della S. Casa. 1821.).

[2460,1]  Quindi l'ortografia italiana del trecento, anche quella dei primi letterati, era tutta barbaramente latina. Si può vedere il manoscritto della divina Commedia fatto di pugno del Bocc. e del Petrarca, e pubblicato quest'anno o il passato da una Biblioteca di Roma. Quindi conservato l'h che niun italiano pronunziava più (se non colla g, e c); quindi l'y, lettera inutile, avendo perduta la sua antica pronunzia di u gallico; quindi il K, ec. ec. E siccome per lunghissimo tempo, anche dopo stabilita la nostra letteratura, si durò a credere che il volgare non fosse capace di scrittura e d'uso più che tanto nobile e importante (e per molto tempo realmente non lo fu, perchè non v'era applicata); così fino al cinquecento, e massimamente fino a tutta la sua prima metà,  2461 si seguitò a scrivere {l'}italiano, con ortografia barbaramente latina, o non credendolo capace d'ortografia propria, o non sapendogliela ancora trovare, e ben regolare e comporre, o pedantescamente volendo ritornare il volgare al latino quanto più si potesse. Vedi la edizione della Coltivazione dell'Alamanni fatta in Parigi 1546, da Rob. Stefano, sotto gli occhi dell'autore, e ristampata colla stessa ortografia in Padova, Volpi 1718, e Bologna 1746. e quella delle Api del Rucellai, Venez. 1539, che fu la prima, (per Giananton. de' Nicolini da Sabio) ristampata parimente ne' detti luoghi. Dice il Volpi che quella maniera e di scrivere e di puntare che vedesi all'Alamanni esser piacciuta, è alquanto diversa non solo da quella che oggidì s'usa, ma da quella eziandio che a tempi di lui universalmente si costumava. * (G. A. V.[Volpi] a' Lettori). {Vedi anche le lett. del Casa al Gualteruzzi, da un ms. originale, nelle sue op. t. 2. Venez. 1752.} Io non so se sia vero, nè se quella del Rucellai p. e. se ne diversifichi notabilmente: non mi par che l'edizioni italiane di que' tempi (come quella delle Rime del Firenzuola in Firenze, cit. nel Voc.)  2462 ne vadano molto lungi: ma se ciò fosse, verrebbe dalla dimora dell'Alamanni in Francia. {{V. p. 2466.}}

[2503,1]  I primi scrittori e formatori di qualsivoglia lingua, e fondatori di qualsivoglia letteratura, non solo non fuggirono il barbarismo, ma lo cercarono. {+V. Caro, Apologia, p. 23-40. cioè l'introduzione del Predella.} Tolsero voci e modi {e forme e metafore e maniere di stile e costruzioni ec.} (e questo in gran copia) dalle lingue madri, dalle sorelle, e anche dalle affatto aliene,  2504 massimamente se a queste, benchè aliene, apparteneva quella letteratura sulla quale essi si modellavano, e dalla quale venivano derivando e imparavano a fabbricar la loro. Dante è pieno di barbarismi, cioè di maniere e voci tolte non solo dal latino, ma dall'altre lingue o dialetti ch'avevano una tal qual dimestichezza o commercio colla nostra nazione, e in particolare di provenzalismi (che vengono ad essere appunto {presso a poco} i gallicismi, tanto abominevoli oggidì); de' quali abbondano parimente gli altri trecentisti, e i ducentisti ec. Di barbarismi abbonda Omero, com'è bene osservato dagli eruditi: di barbarismi Erodoto: di barbarismi i primi scrittori francesi ec.

[2515,1]  E quella ricchissima, {fecondissima,} potentissima, regolatissima, e al tempo stesso {variatissima, poetichissima e} naturalissima lingua del cinquecento, ch'a noi (ne' suoi buoni scrittori) riesce così elegante, forse ch'allora fu tenuta per tale? Signor no, ma per corrotta. E la buona lingua si stimava solo quella del trecento, {+e se ne deplorava la mutazione, chiamandola corruzione e scadimento totale della lingua, (come noi facciamo rispetto al 500),} e gli scrittori tanto più s'avevano eleganti, quanto meno scrivevano nella lingua loro per iscrivere in quella di quell'altro secolo. Laddove a noi, a' quali l'una e l'altra è divenuta pellegrina, tanto più piacciono i cinquecentisti quanto più seguono l'uso  2516 del loro secolo, e meno imitano il trecento. Ed è ben ragionevole perchè allora solo possono esser naturali e di vena, come è il Caro che non fu mai imitatore. {+(È notabile che di parecchi cinquecentisti, le lettere dov'essi ponevano meno studio, e che stimavano essi medesimi di lingua impurissima, mentr'era quella del loro secolo, sono più grate a leggersi, e di migliore stile che l'altre opere, dove si volevano accostare alla lingua del trecento, mentre nelle lettere usavano la lingua loro, e riescono per noi elegantissimi e naturalissimi.). V. p. 2525.} Ma anche nel cinquecento non si stimava veramente elegante se non il pellegrino, e lo trovavano e cercavano nella lingua del trecento, che sola chiamavano pura, quando per noi è purissima quella del cinquecento. V. Salviati, Avvertim. della lingua, citati nelle op. del Casa, Venezia 1752. t. 3. p. 323. fine - 324. Nel trecento poi nemmen si parlava di purità, nè si poneva tra i pregi della lingua o dello scrivere; e la lingua del loro secolo non si stimava elegante (se non forse alcune smancerie fiorentine, di cui parla il Passavanti, e queste credo piuttosto che s'amassero nel resto di Toscana o d'italia, che in Firenze, come accade veramente anche oggi): e quelli scrittori che più si stimavano eleganti, e che tali si credevano o pretendevano essi medesimi, erano non quelli che oggi più s'ammirano per la naturalezza e la semplicità, e che  2517 in somma usavano più puramente la lingua nazionale o patria del tempo loro, ma quelli che oggi meno s'apprezzano, cioè che la fornivano di parole e modi forestieri, e che si studiavano di tirarla alle forme d'altre lingue, e d'altri stili, come fece il Boccaccio rispetto al latino, e come anche Dante, la cui lingua, s'è pura per noi, che misuriamo la purità coll'autorità, niuno certamente avrebbe chiamato pura a quei tempi, s'avessero pensato allora alla purità{{, e gli stessi cinquecentisti non erano}} {+molto inchinati a stimarlo tale, nè ad accordargli un[un'] assoluta autorità e voto decisivo in fatto di purità di lingua, restringendosi piuttosto al Petr. e al Boc. V. Caro Apolog. p. 28. fine ec. Lett. 172. t. 2. e se vuoi, anche il Galateo del Casa circa la stima ch'allora si faceva di tanto poeta.}

[2529,1]  Alla p. 2521. La conchiusione e la somma del discorso si è che in qualunque tempo e in qualunque letteratura è piaciuta una lingua diversa dalla presente {nazionale} parlata, per bonissima, utilissima e bellissima che questa fosse: e non s'è mai giudicata elegante la scrittura composta delle voci e de' modi ordinari in quel tempo e correnti  2530 effettivamente nella nazione, per purissimi che questi fossero. E questa (bench'altre ancora ve n'abbia) è l'una delle principali cagioni per cui non piace, e si disapprova e si biasima e riesce inelegante nelle scritture la presente lingua della nostra nazione, e si richiama la nostra lingua antica. Con ragione, benchè non sia molto ragionevole il richiamarla come pura, chè nè essa era pura, nè la purità è un pregio necessario ed appartenente all'essenza dello scriver bene, e molte volte non è possibile, e in fine è piuttosto un nome che una cosa, non potendosi mai definir questa purità, nè trovar precisamente quel che sia la purità di una tal lingua individua, anzi non esistendo essa mai, perchè tutte le lingue sono composte di voci, modi ec. presi più o meno ab antico da molte e varie altre lingue. E non potendosi neppur circoscrivere la così detta  2531 purità dentro i termini dell'uso nazionale, perchè se ciò fosse, tutte le nazioni in tutti i tempi parlerebbero puramente, e tutti gli scrittori seguendo la lingua del tempo loro, scriverebbero puramente, massime conformandosi alla parlata, e non esisterebbe il contrario della purità, cioè l'impurità, perchè nessuna lingua in nessun tempo sarebbe mai impura, benchè tutta composta da capo a piedi di barbarismi. Sicchè resta che per lingua pura s'intenda come suo preciso sinonimo la lingua antica di una nazione, cioè quella lingua composta per la più parte di voci e modi venuti di fuori, che dagli antichi fu parlata e scritta. E in particolare quella che fu contemporanea della miglior letteratura e coltura nazionale, e in somma quella che fu il risultato, non già dell'abbozzo (ch'ebbe la lingua italiana da' 300isti) ma del perfezionamento dato alla lingua  2532 nazionale, e massime alla scritta, dagli scrittori e letterati nazionali nel tempo in cui maggiormente e precisamente fiorì la letteratura e coltura nazionale {{, che fu per noi il 500.}}

[2532,1]  Richiamare questa tal lingua, non pura, {propriamente parlando,} ma antica, e non come pura, ma come antica, richiamarla, dico, nella letteratura, è, {come ho detto,} ragionevole, ed autorizzato dall'esempio dell'altre nazioni antiche e moderne. Ed è ragionevole sì per li suoi pregi intrinseci e indipendenti dalle circostanze, e per la miseria e bruttezza propria {assoluta} e indipendente della nostra lingua moderna; sì per quello che ho dedotto dal precedente discorso, cioè che una lingua nazionale usitata e parlata presentemente non può mai riuscire elegante nelle scritture, quando anche, in se, fosse ottima e bellissima.

[2578,1]  La lingua latina ebbe un modello d'altra lingua regolata, ordinata, e stabilita, su cui formarsi. Ciò fu la greca, la quale non n'ebbe alcuno. Tutte le cose umane si perfezionano grado per grado. L'aver avuto un modello, al contrario della lingua greca, fu cagione che la lingua latina fosse più perfetta della greca, e altresì che fosse meno libera. (Nè più nè meno dico delle letterature greca e latina rispettivamente; questa più perfetta, quella più originale e indipendente e varia.) I primi scrittori greci, anche sommi, ed aurei, come Erodoto, Senofonte ec. erano i primi ad applicar la dialettica, e l'ordine ragionato all'orazione. Non  2579 avevano alcun esempio di ciò sotto gli occhi. Quindi, com'è naturale a chiunque incomincia, infinite sono le aberrazioni loro dalla dialettica e dall'ordine ragionato. Le quali aberrazioni passate poi e confermate nell'uso dello scrivere, sanzionate dall'autorità, e dallo stesso errore di tali scrittori, sottoposte a regola esse pure, o divenute regola esse medesime, si chiamarono, e si chiamano, e sono eleganze, e proprietà {della} lingua {greca.} Così è accaduto alla lingua italiana. La ragione è ch'ella fu molto e da molti scritta nel 300, secolo d'ignoranza, e che anche allora fu applicata alla letteratura in modo sufficiente per far considerare quel secolo come classico, dare autorità a quegli scrittori, {+presi in corpo e in massa,} e farli seguire da' posteri. I greci o non avevano affatto alcuna lingua coltivata a cui guardare, o se ve n'era, era molto lontana da loro, come forse la sascrita, l'egiziana, ec. e poco o niente nota, neanche ai loro più dotti. Gl'italiani n'avevano, cioè la  2580 latina e la greca. Ma quel secolo ignorante non conosceva la greca, pochissimo la latina, massime la latina buona e regolata. {+(Fors'anche molti conoscendo passabilmente il latino, e fors'anche scrivendolo con passabile regolatezza, erano sregolatissimi in italiano, per incapacità di applicar quelle regole a questa lingua, che tutto dì favellavano sregolatamente; di conoscere o scoprire i rapporti delle cose ec.)} Quei pochi che conobbero un poco di latino, scrissero con ordine più ragionato, come fecero principalmente i frati, Passavanti, F. Bartolommeo, Cavalca ec. Dante, e più ancora il Petrarca e il Boccaccio che meglio di tutti conoscevano il buono e vero latino, meno di tutti aberrarono dall'ordine dialettico dell'orazione. Questi principalmente diedero autorità presso i posteri a' loro scrittori contemporanei, la massima parte ignoranti, non solo di fatto, ma anche di professione laici e illetterati, e che non pretendevano di scrivere se non per bisogno, come i nostri castaldi. I quali abbondarono di sragionamenti, e disordini gramaticali d'ogni sorta.

[2662,2]  Il Padre Sforza Pallavicino nel Trattato dello Stile e del Dialogo, Capo 27, intitolato Si stabilisce quali Autori deono esser seguiti nelle materie scientifiche da quelli che scrivono in Italiano, ovvero in Latino (ristampa di Modena 1819. pag. 175-8.) dà decisa ed universale, e non relativa ma assoluta preferenza agli  2663 scrittori, stile e lingua del 500, (e del seguente secolo ancora, in cui egli scriveva) sopra quelli e quella del 300. (5. Gennaio 1823.).

[2693,2]  Del disprezzo in cui fu tenuta dai dotti la lingua italiana (detta volgare) nel 300, nel 400 e nel 500, a paragone della latina, vedi Perticari loc. cit. capo 34. (16. Maggio 1823.). Vedi anche il fine della Lezione dell'ordine dell'Universo di Pier Francesco Giambullari nelle Prose Fiorentine par. 2. vol. 2. (Venez. 1735. t. 3. par. 2. p. 24. fine - 25.). (17. Maggio 1823.). {+V. altresì Perticari Degli Scritt. del 300. l. 1. c. 13. p. 77. c. 16. p. 88. segg. c. ult. fine. p. 98. l. 2. c. 9. p. 163. }

[2715,2]  Di quelli che nel 500. volevano restringere la lingua italiana della poesia a quella del Petrarca, e della prosa a quella del solo Boccaccio, vedi Perticari Degli Scritt. del 300. l. 2. c. 12. p. 178. colle similitudini che ivi pone de' greci e de' latini, e Apologia di Dante c. 41. p. 407-{10.} (23. Maggio 1823.).

[2722,1]   2722 Delle lingue vive non accade quello che delle lingue le quali più non si parlano. Queste, a guisa di pianta che più non vegeta, non possono ricevere accrescimento; e tutto quello, che a lor riguardo si può fare da noi, si è di serbarle diligentemente nello stato in cui sono; perciocchè in esse ogni alterazione tende a corrompimento. Al contrario le lingue che sono vive, vegetano tuttora, e possono crescere di più in più: e in esse le piccole mutazioni, che si vanno facendo di tempo in tempo, non sono segnali certi di corrompimento; anzi sono talora di sanità e vigoria. E però coloro, i quali non vorrebbon che i nostri scritti avessero altro sapore che di Trecento, nocciono alla lingua, perchè si sforzano di ridurla alla condizione di quelle che sono morte, e, in quanto a loro sta, ne diseccano i verdi rami, sicch'ella non possa, contro all'avviso d'Orazio, più vestirsi di nuove foglie. Quest'autore vivea pure nel secol d'  2723 oro della lingua latina, e nel tempo in cui essa era nel suo più florido stato: e tuttavia perch'ella era ancor viva, egli pensava ch'essa potesse arricchirsi vie maggiormente e ricevere nuove forme di favellare. * Nota dell'Abate Colombo alle Lezioni sulle Doti di una colta favella con una non più stampata sullo stile da usarsi oggidì ed altre operette del medesimo autore * (cioè dell'Abate Colombo). Parma per Giuseppe Paganino 1820. (edizione 2da delle tre prime Lezioni e delle altre operette, fuorchè d'una). Lezione IV. Dello Stile che dee usare oggidì un pulito Scrittore. pag. 96. (antepenultima delle Lezioni). nota a. (25. Maggio. Domenica della SS. Trinità. 1823.).

[2723,1]  I pedanti che oggi ci contrastano la facoltà di arricchir la lingua, pigliano per pretesto ch'essa è già perfetta. Ma lo stesso contrasto facevano nei cinquecento quand'essa si stava perfezionando,  2724 anzi nel momento ch'ella cominciavasi a perfezionare, come fece il Bembo, il quale volea che questo cominciamento fosse il toglierle la facoltà di crescer mai più, e 'l ristringerla al solo Petrarca e al solo Boccaccio. Lo stesso contrasto fecero al tempo di Cicerone e d'Orazio, cioè nel secolo d'oro della lingua latina, nel quale ella si perfezionava, e fino al quale non fu certamente perfetta. Ma la pedanteria nasce presto, e gli uomini impotenti presto, anzi subito credono {e vogliono} che sia perfetto e che non si possa nè si debba oltrepassare nè accrescere quel tanto, più o manco, di buono ch'è stato fatto, per dispensarsi dall'oltrepassarlo ed accrescerlo, e perch'essi non si sentono capaci di farlo. (25. Maggio 1823.). {{E come pochissimo ci vuole a superare l'abilità degli uomini da nulla, così pochissimo artifizio, e pochissima bontà basta a fare ch'essi la credano insuperabile, qual è veramente per loro, ancorchè piccolissima. Oltre che  2725 al loro scarso e torto giudizio spesso e in buona fede il mediocre pare ottimo, e l'ottimo mediocre, e il cattivo buono, e al contrario. (27. Maggio. 1823.).}}

[2783,1]  Credo eziandio che non poche voci venute dalla stessa lingua italiana (non dall'antica latina), e passate in francia; di là ci sieno tornate, e ci tornino tuttavia bene spesso come forestiere: o che quelle nostre sieno dimenticate, o che queste sieno alterate in modo che non si riconoscano essere originalmente tutt'une colle nostre ancora esistenti, e già preesistenti alle sopraddette francesi. {+(Quanto a molte voci e forme italiane passate anticamente fra' provenzali, ed ora credute provenzali di origine, o perchè si trovano nei loro scrittori, e non più presso noi; o perchè, alquanto mutate dalla prima figura e significazione, le ritolsero dai provenzali i nostri primi poeti o que' del 300, e i commerci di que' tempi, vedi Perticari Apologia capo 11. 12. p. 108-17. e capo 19. fine p. 176-7.).} Così dico di molte voci spagnuole ricevute nella nostra lingua durante il 500 e il 600, ne' quali secoli la letteratura spagnuola nata dall'italiana, modellavasi pur tutta sull'italiana, e quindi certo la loro lingua doveva abbondare, e abbondava, di parole e maniere provenutele dall'italiano.

[3389,1]  La lingua spagnuola, secondo me, può essere agli scrittori italiani una sorgente di buona e bella ed utile novità ond'essi arricchiscano la nostra lingua, massimamente di locuzioni e di modi.

[3413,1]   3413 Alla p. 2841. Sperone Speroni nell'Orazione in morte del Cardinal Bembo, quinta delle Orazioni sue stampate in Ven. 1596. pag. 144-5 poco innanzi il mezzo dell'orazione suddetta.. I medesimi verbi colla stessa construtione * (p. 145.) usa il volgar poeta, * (il poeta italiano) che suole usar l'oratore; onde non pur è lunge da quell'errore, ove spesse fiate veggiamo incorrere i Greci, et qualche volta i Latini, cioè a dire, che egli si paia di favellare in un'altra lingua, che non è quella dell'oratore; anzi i più lodati Toscani all'hora sperano di parlar bene nelle lor prose, et par quasi, che sene vantino, quando al modo, che da' Poeti è tenuto hanno affettato di ragionare. Et chi questo non crede, vada egli a leggere il Decameron del Boccaccio, terzo lume di questa lingua, et troveravvi per entro cento versi di Dante così intieri, come li fece la sua comedia. * {#1. V. p. 3561.} Non parrebbe da queste parole che l'italia non avesse lingua propriamente  3414 poetica, o certo ben poco distinta dalla prosaica? E non è d'altronde manifesto ch'ella ha una lingua poetica più distinta dalla prosaica che non è quella di forse niun'altra lingua vivente, e certo più che non è quella de' Latini, in quanto si vede che noi, imparato che abbiamo ad intendere la prosa latina, intendiamo con poco più studio la poesia, {+(lo studio che ci vuole, e il divario tra il linguaggio della poesia latina e della prosa, consiste principalmente nella diversità di molta parte delle trasposizioni, ossia nell'ordine e costruzione delle parole, ch'in parte è diversa)} ma uno straniero non perciò ch'egli ottimamente intendesse la nostra moderna lingua prosaica, intenderebbe senza molto apposito studio la poetica? Tant'è. Nello stesso cinquecento, l'italia non aveva ancora una lingua che fosse formalmente poetica, cioè la diversità del linguaggio tra i poeti e gli oratori, non era per anche se non lieve, e male o insufficientemente determinata. Gli scrittori prosaici che componevano con istudio e con presunzione di bello stile, si accostavano alla lingua del Boccaccio e de' trecentisti, e questa era similissima alla lingua poetica, perchè la lingua poetica del 300. era quasi una colla prosaica. Gli scrittori poetici che scostandosi dalla lingua del 300, volevano  3415 accostarsi a quella del loro secolo, davano in uno stile familiare, bellissimo bensì, ma poco diverso da quel della prosa. Testimonio l'Orlando dell'Ariosto e l'Eneide del Caro, i quali, a quello togliendo le rime, a questa la misura {+(oltre le immagini e la qualità de' concetti ec.)} in che eccedono o di che mancano che non sieno una bellissima ed elegantissima prosa? E paragonando il poema del Tasso (scritto nella {{propria}} lingua del suo tempo) colle prose eleganti di quell'età, poco divario vi si potrà scoprire quanto alla lingua. Di più i poeti italiani del 500. furono soliti (massime i lirici, che sono i più) di modellarsi sullo stile di Petrarca e di Dante. Il carattere di questo stile {riuscì ed è} necessariamente familiare, come ho detto altrove pp. 1808-10 pp. 2542-44 pp. 2639-42 pp. 2836-41. Seguendo questo carattere, o che i poeti del 500 l'esprimessero nella stessa lingua di que' due, come moltissimi faceano, o nella lingua del 500, come altri; doveano necessariamente dare al loro stile un carattere di familiare e poco diverso da quel della prosa. E così generalmente accadde. (Il linguaggio del Casa non è familiare, ed è molto  3416 più distinto dal prosaico, e così il suo stile. Ciò perchè ne' suoi versi egli non si propose il carattere nè del Petrarca nè di Dante, ma un suo proprio. E quindi quanto il carattere del suo linguaggio e stile poetico è distinto da quel della prosa, tanto egli è ancora diverso da quello {+del linguaggio e stile} sì di Dante e Petrarca, sì degli altri lirici, e poeti quali si vogliano, del suo tempo.). La Coltivazione, le Api ec. sono {ben sovente} bella prosa misurata {+quanto al linguaggio, ed allo stile eziandio: e ciò quantunque l'uno e l'altro poema sieno imitazioni, e l'Api nient'altro quasi che traduzione, delle georgiche, il capo d'opera dello stile il più poetico e il più separato dal familiare, dal volgo, dal prosaico. Similmente si può discorrere dell'Eneide del Caro.}

[3630,1]  Quanto fosse incerta l'ortografia stessa italiana (che oggi è la più giusta di tutte) anche nel 600, cioè nel secolo dopo il miglior secolo della nostra letteratura, veggasi la prefazione all'ortografia del Bartoli, (uomo che fra tutti del suo tempo, e fors'anche di tutti i tempi, fu quello che e per teoria e scienza e per pratica, meglio e più profondamente e pienamente conobbe la nostra lingua), e il consiglio che quivi egli dà a chi vuole scrivere, di pigliarsi cioè o di formarsi un'ortografia a suo modo, e quella sempre seguire; consiglio che niuno certamente darebbe oggi in italia ad alcuno, nè vi sarebbe più che una ortografia da poter pigliare cioè scegliere ec. Ma al contrario era allora, dopo tre secoli e più che si scriveva la nostra lingua, e ciò da letterati, non sol per uso della vita. (8. Ott. 1823.).

[3683,1]  Cattiva ortografia italiana nel 500. per troppo voler somigliarsi all'uso della scrittura latina. Machiavelli scrive alcune volte (o così portano le sue antiche stampe) sanctissimo per santissimo. (13. Ott. 1823.).

[3728,1]  Alla p. 3390. Anche ne' nostri più antichi, cioè ne' trecentisti e così in que' del 500 che più gl'imitano, o in quanto egli adoprano le voci antiquate (come spesso il Davanzati e altri assai), e fors'anche ne' ducentisti si trovano moltissime parole spagnuole, oggi fra noi disusate affatto, o rare più o meno, e tra gli spagnuoli ancora correnti e usuali, o ancor fresche più o meno; le quali anche chi sa spagnuolo e italiano, non sa che sieno o sieno state comuni ad ambe le lingue, e trovandole ne' nostri antichi se ne maraviglia, perchè son prettissime spagnuole. Queste o furon tolte dallo spagnuolo (forse per mezzo de' provenzali ch'ebbero  3729 a fare coi catalani, {ec.} e ne presero e dieder loro voci e modi e poesia e stile e metri ec. ec.: v. Andrès) o forse più probabilmente vengono dalla comun fonte d'ambo gl'idiomi, {+o ciò fosse il latin volgare, o qualchessia altra delle tante secondarie che diedero de' vocaboli alle nostre lingue, potendo essere che da una di queste le ricevesse sì l'italia, come la Spagna indipendentemente l'una dall'altra. P. e. da' provenzali ec. ec. Del resto lo stesso ci accade di vedere ne' nostri antichi rispetto alle parole e frasi francesi ec. Ma quanto a queste le cagioni parte son note, parte l'ha spiegate Perticari nell'Apologia. V. p. 3771.} e già fur propri italiani (senza esser punto presi dalla spagna), indi passarono in disuso, mentre in ispagna si conservano ancora: e chi sa che questa non li ricevesse originariamente dalla lingua italiana. Come che sia, tali voci (o frasi ec.) appo i nostri {antichi} non hanno punto {del} forestiero, se non per chi sappia che or sono spagnuole, e sia avvezzo a sentirle, leggerle, parlarle nello spagnuolo, e di là le creda venute ec. ma per se stesse hanno tutta l'aria naturale.

[3741,1]  Della bassa opinione in cui fino nel 500 era tenuta la lingua italiana (detta allora, quasi per disprezzo, volgare) e la sua capacità {e nobiltà e degnità ed efficacia e ricchezza} e potenza e possibilità di crescere ec. e il suo stato d'allora (ch'era pur certo assai più potente {ed efficace e forte ed espressivo e ricco} e nobile e capace ed idoneo, che non fu {prima nè} poscia e non è oggi, {+dopo sì lungo tempo e tanto accrescimento del numero e varietà degli scrittori che la trattarono, e delle materie che vi si trattarono, e delle idee che vi furono e sono, tuttodì in maggior copia e varietà, significate.} non solo rispetto a letteratura, ma a filosofia e politica, e maneggi e trattati civili, e storie, ed arti e scienze d'ogni maniera; onde questa lingua in quel tempo fu meno stimata in ch'ella più valse per ogni verso che in qualsivoglia altra età e ch'ella sia forse mai per valere), vedi il Dialogo delle Lingue dello Speroni, tutto, ma particolarmente dal principio del Discorso tra il Lascari e il Peretto, sino al fine del Dialogo. (20. Ott. 1823.).

[3851,2]  Participii passivi di verbi attivi o neutri, in senso attivo o neutro ec. Ho detto altrove p. 3072 dello spagn. parida participio sovente (o sempre; v. i Diz.) attivo intransitivo di senso. Simili ne abbiamo ancor noi parecchi, e molto elegantemente gli usiamo, in luogo de' participii veramente attivi di forma, il cui uso è poco grato alla nostra lingua, non altrimenti che alla francese e spagnuola. Uomo considerato, avvertito, avvisato vagliono considerante, avvertente ec. cioè che considera ec. {veri} attivi di significato, benchè intransitivi. Simili credo che si trovino ancora nel francese e più nello spagnuolo che se ne servono parimente in luogo de' participii di forma attiva poco accetti a esse lingue {#1. Avisado per prudente, accorto, e anche dello spagn. ma dubito che in ispagn. avisar abbia quel tal senso attivo analogo a questo di accorto ec., il quale egli ha tra noi. V. p. 3899.} La detta sorta di participii passivi attivati, fatti da' verbi attivi ec. (ed infatti essi o sempre o per lo più, hanno ancora il proprio lor significato, cioè il passivo) è massimamente usata da' nostri antichi del 300. e del 500. che ne hanno in molto più copia che noi oggidì non sogliamo usare o punto, o solo in senso passivo. La nostra lingua somigliava anche in questo alla spagnuola la quale mi pare che anche oggidì conservi quest'uso più  3852 frequente che non facciam noi, accostatici ora ai francesi, a' quali esso è men frequente che agli altri, siccome esso pare singolarmente proprio della lingua spagnuola ec. ec. (10. Nov. 1823.).

[3855,1]  Tra le cagioni del mancar noi (e così gli spagnuoli) di lingua e letteratura moderna propria, si dee porre, e per prima di tutte, la nullità politica e militare in cui è caduta l'italia non men che la Spagna dal 600 in poi, epoca appunto da cui incomincia la decadenza ed estinzione delle lingue e letterature proprie in italia e in ispagna. Questa nullità si può considerare e come una delle cagioni del detto effetto, e come la cagione assoluta di esso. Come una delle cagioni, perocchè se noi manchiamo oggi affatto di voci moderne proprie italiane e spagnuole, politiche e militari, ciò viene perchè gl'italiani e spagnuoli non hanno più, dal 600 in poi, nè affari politici propri, nè milizia propria. Fino dall'estinzione dell'imperio romano, l'italia è stata serva, perchè divisa; ma sino a tutto il 500 la milizia italiana propria ha esistito, e le corti e repubbliche italiane hanno operato da se, benchè piccole e deboli. Il governo era in mano d'italiani, le dinastie erano italiane in assai maggior numero che poi non furono  3856 ed or non sono. Influiti e dominati da' governi e dagli eserciti stranieri, i governi e gli eserciti italiani, chè tali essi erano ancora, agivano tuttavia essi medesimi, ed avevano affari. Essi erano che si davano agli stranieri, quando a questo, quando a quello, che li chiamavano, che gli scacciavano, o contribuivano a ciò fare, che si alleavano cogli stranieri, o contro di loro, con altri stranieri, o con altri italiani, contro altri italiani, o a favore. L'amicizia de' governi italiani, ancorchè piccolissimi, delle stesse singolari città, era considerata e ricercata dagli stranieri, e la nemicizia temuta; e in qualunque modo i governi e le città italiane erano allora nemiche o amiche di questa o quella straniera potenza. Gl'italiani agivano per se presso o nelle corti straniere, e gli stranieri presso gl'italiani. {+V. p. 3887.} Quindi è che noi avevamo allora a dovizia voci politiche e militari; più a dovizia ancora delle altre nazioni, perchè la politica e il militare, ridotti ad arte e scienza tra noi, non lo erano presso gli altri. Negli storici, negli scrittori tecnici di politica o di milizia, o d'altre materie appartenenti, e generalmente negli scrittori italiani avanti il seicento, non troverete mai difficoltà veruna di esprimersi in checchessia che spetti agli affari pubblici, economia pubblica, diplomatica, negoziazioni, politica, e a qualsivoglia parte dell'arte militare; mai povertà; {e} mai li vedrete ricorrere a voci straniere, o che possano pur sospettarsi tali: al contrario li vedrete franchissimi  3857 nell'espressione di tali materie, anzi ricchissimi e abbondantissimi, esattissimi, provvisti di termini per ciascuna cosa e parte di essa, ed anche di più termini per ciascuna, voci tutte italianissime e tanto italiane quanto or sono francesi quelle di cui i francesi e noi ed anche altri in tali materie si servono; e queste voci e questi termini ben si vede che non erano inventati da quegli scrittori, nè debbonsi al loro ingegno, ma all'uso della favella italiana d'allora, e che erano fra noi (come anche fuori non poche[pochi]) comunissimi, notissimi, e di significato ben certo e determinato. La più parte di questi, dal 600. in poi, perduti nell'uso del favellare, {lo furono e lo sono} conseguentemente nelle scritture, di modo che le stesse cose ancora, che noi a que' tempi con parole italianissime, e con più parole eziandio, chiarissimamente e notissimamente esprimevamo, or non le sappiamo esprimere che con voci straniere affatto, o se queste ci mancano, e son troppo straniere per potersi introdurre, o non furono ancora introdotte, non possiamo esprimer quelle cose in verun modo. Moltissime di quelle voci, usandole, sarebbero intese fra noi anche oggidì nel lor proprio e perfetto senso, come allora, e non farebbero oscurità. Ma moltissime, sostituite alle straniere che or s'usano, riuscirebbero oscure, parte per la nuova assuefazione fatta a queste altre voci, perchè[parte] perchè il loro senso non sarebbe più inteso così determinatamente come  3858 allora. E il simile dico di molte voci con cui potremmo esprimer cose per cui non abbiamo nemmen voci straniere, o che a questi pur manchino, o che tra noi non sieno state ancora introdotte. Moltissime voci militari, civili e politiche sì del nostro 300, sì dello stesso 500, benchè significative di cose or notissime e comunissime, son tali che noi ora, leggendole negli antichi, o non le intendiamo, o non senza studio, o non avvertiamo, almen senza molta acutezza e attenzione, {o imperfettamente} la loro corrispondenza con quelle che oggi ne' medesimi casi comunemente usiamo. Altresì ci accade {non di rado} tale incertezza nelle voci significative di cose, or non più comuni, e spesso in queste ci accade più che nell'altre. Ecco come, mancati gli affari politici e la milizia in italia, la nostra nazione non ha nè può avere, nè ebbe dal 600 in poi, lingua moderna propria per significar le cose politiche e militari, non ch'ella mai non l'abbia avuta, anzi l'ebbe, ma l'ha perduta, o non l'ha se non antica. E nello stesso modo proporzionatamente e ragguagliatamente discorrasi della Spagna.

[3920,1]  Ortografia italiana peccante per latinismo. Machiavelli in una dell'edizioni della testina (che sono le originali, e dove l'ortografia non è rimodernata, come poi, per altre mani) scrive mille voci difformemente per latinismo, benchè certo al suo tempo non si pronunziassero così, ma come oggi ec., per esempio Pontifice (par. 2. p. 73. principio {+e in tutta la storia, ec.}) e simili. (26. Nov. 1823.).

[3937,3]  Ho detto altrove in più luoghi pp. 965. sgg. pp. 1499. sgg. pp. 2869. sgg. pp. 2989-90 p. 3395 p. 3573 che la francese per l'estrinseco e per l'intrinseco è di tutte le lingue sorelle la più lontana dalla madre. Molto più vicina le fu ne' passati secoli (come nel 500 ec.) per l'intrinseco, siccome per l'estrinseco ancora, cioè per la pronunzia della loro scrittura (ch'è tanto più simile al latino che la loro favella) erano più vicini al latino non solo nel 300 ec. come ho detto altrove p. 2869, e ne' principii della lingua, ma nel 500 ancora e nel 600 di mano in mano ec. (29.  3938 Nov. 1823.)

[3979,1]  Come la lingua e letteratura italiana si stimassero nel 500 da molti {+anche dotti e gravi uomini} non dovere {nè potere} uscire de' termini in che le posero i 3. famosi trecentisti, anzi solamente il Petrarca e il Boccaccio, nè delle lor parole e modi e artifizi e stili, e dell'abito ch'essi avevan dato all'una e all'altra ec. del che altrove pp. 2515-17 pp. 2533-40 pp. 2723-24 pp. 3561-62, vedi il Dial. della Rettorica dello Speroni, Diall. Ven. 1596. p. 147.-150. p. 157. fine. - 158. principio, p. 162. verso il fine. (14. Dec. 1823.).

[4018,5]  Latinismi dell'ortografia italiana nel 500. del che altrove p. 3683 p. 3920. Macchiavelli opp. 1550. par. 5. p. 47. fin. adverso; p. 49. fin. admiration, e cento simili scritture. (18. Gen. Domenica. 1824.).

[4026,7]  Dico altrove {+p. 2827.} che la mutata pronunzia della lingua greca, dovette di necessità ne' secoli inferiori, alterandone l'armonia, alterarne la costruzione l'ordine e l'indole ec. perchè da un medesimo periodo o costrutto diversamente  4027 pronunziato, non risultava più o niuna, o certo non la stessa armonia di prima. Aggiungi che anche indipendentemente {da} questo, gli scrittori, ed anche i poeti greci de' secoli inferiori (come pure i latini, gl'italiani, e tutti gli altri ne' tempi di corrotto gusto e letteratura) amavano e volevano un'armonia diversa per se ed assolutamente e in quanto armonia da quella degli antichi, cioè sonante, alta, sfacciata, uniforme, cadenziosa ec. Questa dagli esperti si ravvisa a prima vista in tutti o quasi tutti i prosatori e poeti greci di detti secoli, anche de' migliori, ed anch'essi atticisti, formati sugli antichi, imitatori, ec. Tanto che questo numero, diverso dall'antico e della qualità predetta, che quasi in tutti, più o meno, e più o men frequente, vi si ravvisa, e[è] un certo e de' principali e più appariscenti segni, almeno a un vero intendente, per discernere gl'imitatori e più recenti, che spesso sono del resto curiosissimamente conformi agli antichi, da' classici originali e de' buoni tempi della greca letteratura. Ora il diverso gusto nell'armonia e numero di prosa e verso (nel quale aggiungi i nuovi metri, occasionati da tal gusto e dalla mutata pronunzia della lingua) contribuì non poco ad alterare, anche negli scrittori diligenti ed archeomani i costrutti e l'ordine della lingua, come era necessario, e come si vede, guardandovi sottilmente, per es. in Longino, perchè vi trovi non di rado in parole antiche un costrutto non antico, e si conosce ch'è fatto per il numero che ne risulta, e altrimenti non sarebbe risultato, e il quale altresì non è antico. (Così dicasi dell'alterazione cagionata ne' costrutti ec. dalla mutata pronunzia). Questa causa di corruzione è da porsi fra quelle che produssero e producono universalmente l'alterazione e corruttela di tutte le lingue, nelle quali tutte (o quasi tutte) i secoli di gusto falso e declinato pigliarono un numero conforme al descritto di sopra e diverso da quello de' loro antichi. Si  4028 conosce a prima vista, {e indubbiamente, (almen da un intendente ed esercitato)} per la differenza e per la detta qualità del numero, un secentista da un cinquecentista, ancorchè quello sia de' migliori, ed anche conforme in tutto il resto agli antichi. Il Pallavicini, ottimo per se in quasi tutto il restante, pecca moltissimo nella sfacciataggine e uniformità (vera o apparente, come dico altrove pp. 4026-28) del numero, alla quale subito si riconosce il suo stile, diverso principalmente per questo (quanto all'estrinseco, cioè astraendo dalle antitesi e concettuzzi che spettano piuttosto alle sentenze e ai concetti, come appunto si chiamano) da' nostri antichi, da lui tanto studiati, e tanto e così bene espressi e seguiti. Che dirò del numero di Apuleio, Petronio ec. rispetto a quello di Cic. e di Livio? non che di Cesare, e de' più antichi e semplici, che Cic. nell'Oratore dice mancar tutti del numero {+s'intende del colto, perchè senza un numero non possono essere. V. p. seg. [p. 4029,1]..} Che dirò di Lucano, dell'autore del Moretum, Stazio ec. rispetto a Virgilio? Marziale a Catullo ec.? Or questa mutazione e depravazione del numero dovette necessariamente essere una delle maggiori cagioni dell'alterazione della lingua sì greca, sì latina e italiana, sì ec., massime quanto ai costrutti e l'ordine, e quindi alla frase e frasi, e quindi all'indole, insomma al principale. Anche si dovettero depravar le {semplici} parole per servire al numero, {+e grattar l'orecchio avido di nuovi e spiccati suoni,} o sformando le vecchie, o inducendone delle nuove e strane, o componendone, come in greco, o troncandole come tra noi (l'uso de' troncamenti è singolarmente proprio del Pallavicini, e de' secentisti e de' più moderni da loro in poi), avendo riguardo sì al suono della parola in se, sì al suo effetto nella composizione e nel periodo. (9. Feb. 1824.). Veggasi il detto altrove pp. 848-49 {su d'alcuni} sforzati costrutti d'Isocrate per evitare il concorso {(conflitto)} delle vocali ec. ec. (9. Feb. 1824.). (Riferiscasi ancora a questo proposito per quanto gli può toccare, il detto altrove pp. 1157-60 sul vario gusto de' greci, lat. e ital. in diversi tempi, circa il concorso, l'abbondanza ec. delle vocali.) Ora se questo accadeva a Isocrate ottimo giudice, ed esposto  4029 migliaia d'altri tali, e scrivente per piacere a essi, nel centro della lingua pel tempo e pel luogo, fiorente la lingua e la letteratura, nel suo gran colmo ec. ec. che cosa doveva accadere ne' secoli bassi ne' quali ec. fra gl'imitatori ec. la più parte, com'era allora non greci di patria, ma dell'Asia, e questa anche alta, non la minore ec. ec. molti ancora non greci neppur di genitori, come Gioseffo, Porfirio e tanti altri ec. ec.? (10. Feb. 1824.).

[4051,2]  Imperfezione dell'ortografia italiana ne' passati secoli. È noto che  4052 i manoscritti originali anche de' più dotti uomini de' migliori secoli, e in particolare e nominatamente quelli dell'Ariosto e del Tasso, che son pur tanto ripieni di correzioni, presentano una stortissima e scorrettissima ortografia, con errori tali che oggi non commetterebbe il più imperito scrivano o fanciullo principiante, e una stessa voce v'è scritta ora con una ora con altra ora con altra ortografia. (21. Marzo. Domenica terza di Quaresima. 1824.).

[4066,1]   4066 La maniera familiare che come più volte ho detto pp. 1808-10 pp. 2639-40 pp. 2836-41 pp. 3009. sgg. pp. 3014-17 p. 3415, fu necessariamente scelta da' nostri classici antichi, o necessariamente v'incorsero senz'avvedersene ed anche fuggendola, può ora in parte o in tutto sfuggire massimamente alle persone di naso poco acuto, e a quelle non molto esercitate e profonde nella cognizione, nel sentimento e nel gusto dell'antica e buona lingua e stile italiano, che è quanto dire a quasi tutti i presenti italiani. Ciò viene, fra l'altre cose, perchè quello che allora fu familiare nella lingua, or non lo è più, anzi è antico ed elegante, ovvero è arcaismo. Non per tanto è men vero quel che io altrove ho detto. Anzi è tanto vero, che anche dopo che la lingua aveva acquistato la materia e i mezzi e la capacità della eleganza e del parlar distinto da quello del volgo e dall'usuale, si è pur seguitato sì nel 500 e 600 sì nel presente secolo da molti cultori e amatori dello scriver classico, a usare una maniera familiare, sovente non avvedendosene o non intendendo bene la proprietà e qualità della maniera che sceglievano e usavano, e sovente anche {intendendo,} credendo di usare una maniera elegante. E ciò si è fatto in due modi. O adoperando le stesse forme antiche, le quali oggi non sono più familiari, anzi eleganti, onde n'è risultata opinione di eleganza a tali stili ed opere modellate sull'antico, ma veramente esse hanno del familiare, perchè il totale dello stile antico da essi imitato, necessariamente ne aveva anche indipendentemente dalle forme, bensì per cagion loro e per conformarsi e corrispondere ad esse {forme} che allora erano necessariamente familiari. Ovvero adoperando le forme familiari moderne a esempio e imitazione degli antichi, e della familiarità che nelle forme e nello stile loro si scorgeva, benchè non bene intendendola, e sovente confondendo sì la familiarità imitata sì quella  4067 che adoperavano ad imitarla, colla eleganza, dignità e nobiltà e col dir separato dall'usuale, perciò appunto che la familiarità in genere non era {e non è} più usuale, e l'uso della medesima è proprio degli antichi. Il terzo modo, che sarebbe quello di usar l'antico e il moderno e tutte le risorse della lingua, in vista e con intenzione di fare uno stile e una maniera nè familiare nè antica, ma elegante in generale, nobile, maestosa, distinta affatto dal dir comune, e proprio di una lingua che è già atta allo stile perfetto, quale è appunto quello di Cicerone nella prosa e di Virgilio nella poesia (stile usato quando la lingua latina era appunto in {quelle circostanze e} quello stato di capacità in cui è ora la lingua nostra); questo terzo modo non è stato non che usato, ma concepito nè inteso da quasi niuno, comechè egli è forse il solo conveniente, il solo perfetto, e convenevole a una lingua {e letteratura già} perfetta. (8. Aprile. 1824.).

[4243,2]  Della diffusione della lingua italiana presso gli stranieri nel 500. v. anche Speroni Oraz. in lode del Bembo. Tasso opp. ed. del Mauro, t. 9. p. 148. lett. 238. {Lettere di Principi o a Principi Ven. 1573. carta 226. versa.}

[4246,1]   4246 Superstiziosa imitazione e venerazione del Petrarca nel 16. secolo del che altrove ec. pp. 2533-36 V. nelle opp. del Tasso le Opposizioni al Sonetto Spino, leggiadre rime * ec. e la Risposta del Tasso. (ed. del Mauro, t. 6.). {{V. ancora il Guidiccioni nelle Lett. di div. eccellentiss. uom. Ven. Giolito. 1554. p. 43-48.}}

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Ricchezza delle lingue. (1827) (1)
Tedeschi. Loro lingua, letteratura, carattere ec. ec. (1827) (1)
Sono più facili a intendersi negli autori più antichi. (1827) (1)
Scrittori greci de' bassi tempi ec. (1827) (1)
Greci, ignoranti del latino ec. (1827) (1)
Concorso delle vocali. (1827) (1)
Armonia, grazia ec. delle parole, delle pronunzie, de' versi ec. (1827) (1)
Letteratura e lingua italiana di oggidì. Trista condizione di un vero letterato in Italia. Gli bisogna fare all'Italia una lingua moderna. Considerazioni in questo proposito. (1827) (1)
. Suo stato, costumi ec. antichi e moderni. (1827) (1)
Arcaismi. Scrivere all'antica. (1827) (1)
Lingue, si stendono per piccolissimo tratto di paese. (1827) (1)
Participii in de' verbi attivi o neutri. (1827) (1)
Volgare latino. (pnr) (1)
Lingua poetica, in che consista ec. ec. (1827) (1)
. Sua lirica. (1827) (1)
Purismo. Setta purista appresso i Latini. (1827) (1)
Latina (prosa e poesia), più ardita e poetica che la greca. (1827) (1)
Dialetti greci. (1827) (1)
Participii usati per aggettivi. (1827) (1)
Numero, vario ne' vari secoli di ciascuna letteratura: mutandosi, muta la lingua e lo stile, ec. Considerazioni sopra il Numero. (1827) (1)