12. Giugno 1821.
[1155,4]
Alla p. 1128.
Da queste osservazioni apparisce che la desinenza italiana della prima persona
{attiva} singolare del perfetto indicativo, dico la
desinenza in ai, è la vera e primitiva desinenza
latina di detta persona, conservatasi per tanti secoli {dopo
sparita dalle scritture, o senza mai esservi ammessa,} mediante il
volgare latino; e per tanti altri, mediante la nostra lingua che gli
1156 è succeduta. Desinenza conservatasi anche nella
scrittura francese, nostra sorella, ma perduta nella pronunzia, conforme alla
qual pronunzia gli spagnuoli (altri nostri fratelli) scrivono e dicono amè ec. Voce senza fallo derivata dall'antichissimo
amai, mutato il dittongo ai nella lettera e, forse a cagione del
commercio scambievole ch'ebbero i francesi e gli spagnuoli, e le lingue e poesie
loro ne' principii di queste e di quelle: commercio notabilissimo, {lungo, vivo, e frequente;} e conosciuto dagli eruditi,
(Andrès t. 2. p. 281. fine, e segg.) e che
in ordine alla {forma di} molte parole e frasi è la
sola cagione per cui la lingua spagnuola somiglia alla latina meno della nostra,
quantunque in genere somigli {e la latina e la nostra}
assai più della francese. Così nel futuro amarè ec.
ec. somiglia alla lingua francese pronunziata.
[1156,1] Quanto alla cagione per cui si trasmise col tempo
alle lettere a ed i il
digamma eolico, e poi il v, affine d'evitare, come
dicono, l'iato, secondo il costume eolico, osserverò alcune cose che gioveranno
{anche} a tutta questa parte del nostro discorso, e
dalle quali potremo forse dedurre che il detto costume non venne veramente dal
popolo, come ho detto p. 1128. il
quale anzi {pare che} conservasse la pronunzia antica
fino a tramandarla ai nostri idiomi,
1157 ma venne
piuttosto, o nella massima parte, dagli scrittori, o dal ripulimento della rozza
lingua latina antica.
[1157,1] Il concorso delle vocali suol essere accetto
generalmente alle lingue (se non altro de' popoli meridionali {d'occidente})
tanto più, quanto elle sono più vicine ai loro principii, ovvero ancora quanto
sono più antiche, e quanto più la loro formazione si dovè a tempi vicini alla
naturalezza de' costumi e de' gusti. Per lo più vanno perdendo questa
inclinazione col tempo, e col ripulimento, e si considera come duro e sgradevole
il concorso delle vocali che da principio s'aveva per fonte di dolcezza e di
leggiadria. La lingua latina che noi conosciamo, cioè la lingua polita e formata
{e scritta} non ama il concorso delle vocali,
perch'ella fu polita e formata {e scritta} in tempi
appunto politi e civili, e i più lontani forse dell'antichità dalla prima
naturalezza; nell'ultima epoca dell'antichità; presso una nazione già molto
civile ec. Per lo contrario la lingua greca stabilita e formata, e ridotta a
perfette scritture in tempi antichissimi, gradì nelle scritture il concorso
delle vocali, lo considerò come dolcezza e dilicatezza; e perciò la lingua greca
che noi conosciamo e possiamo conoscere, cioè la scritta,
1158 ama il concorso delle vocali, specialmente quella lingua che
appartiene agli scrittori più antichi, e nel tempo stesso più grandi, più
classici, più puri, e più veramente greci.
[1158,1] E siccome la prosodia greca era già formata ai tempi
d'Omero, (sia ch'egli la trovasse, o
la formasse da se) la latina lo fu tanti e tanti secoli dopo, così fra la poesia
dell'una e dell'altra lingua si osserva una notabile differenza in questo
proposito, la quale conferma grandemente il mio discorso. Ed è che nella poesia
latina se una parola finita per vocale è seguita da un'altra che incominci per
vocale, l'ultima vocale della parola precedente è mangiata dalla seguente, si
perde, e non si conta fra le sillabe del verso. All'opposto nella poesia greca
non è mangiata, nè si perde o altera in verun modo, e si conta per sillaba, come
fosse seguita da consonante; fuorchè se il poeta non la toglie via del tutto,
surrogandole un apostrofo. Così dico dei dittonghi nello stesso caso, parimente
elisi nella poesia latina, e intatti nella greca.
[1158,2] Parimente la lingua italiana antica, quella lingua
de' trecentisti, che quanto alla dolcezza e leggiadria non ha pari in nessun
altro secolo, non
1159 solo non isfugge il concorso
delle vocali, ma lo ama. Proprietà che la nostra lingua è venuta perdendo appoco
appoco, quanto più s'è allontanata dalla condizione primitiva; e che oggi non
solo dal massimo numero degli scrittori cioè da quelli di poca vaglia, ma da più
eleganti, è per lo più sfuggita come vizio, e come causa di brutto e duro suono,
in luogo di dolcezza o di grazia. {+Massimamente però gli scrittori più triviali (dico quanto alla lingua e lo
stile), o affettati o no, di questo e de' due ultimi secoli, par ch'abbiano
una somma paura che due o più vocali s'incontrino, e storcono le parole in
mille maniere per evitare questo disastro.}
[1159,1] E così stimo che accada a tutte le lingue in ragione
del tempo, dell'indole sua, e del ripulimento di esse lingue. E accadde, io
penso, anche alla lingua greca. Giacchè, lasciando quello che si può notare
negli scrittori greci più recenti, i dittonghi che da principio, e lungo tempo
nel seguito si pronunziavano sciolti, si cominciarono a pronunziar chiusi, e
questo costume, come osservò il Visconti, risale fino al tempo di Callimaco, se è veramente di Callimaco un epigramma che porta il suo nome, dove alle parole ναιχὶ[ναίχι]
καλὸς si fa che l'eco risponda ἄλλος ἔχει
*
(epig. 30.), la
qual cosa dimostra che lo scrittore dell'epigramma pronunziava nechi ed echi come i greci
moderni, per naichi ed echei. E come io non
1160 dubito che i latini
anticamente non pronunziassero i loro dittonghi sciolti siccome i greci, così mi
persuado facilmente che a' tempi di Cic.
e di Virg. li pronunziassero chiusi come
oggi si pronunziano. (12. Giugno 1821.).