Volgare latino.
Vernacular Latin.
32,2.4 42,1 43,5 95,2 107,3.4 109,1 111,1 112,4 113,2 150,1 205,2 228,1 230,2 366,1 462,2 480,1.2 497,1 501,2 502,1 508,1 511,1.2 592,3 595,1 597,1 599,3 928,1 941,1 979,1.2 980,1.2 983,2 984,4983,4 1010,1.2 1012,2 1014,3 1015,1 1031,1 1055,1 1066,1 1071,1 1104,1 1155,4 1164,12 1165,3 1180,1.2 1230,1 1295,1 1361,2 1421,1 1456,1 1475,1 1499,1 1504,1.2 1533,1 1678,1 1679,1 1779,2 1818,1 1945,2 1970,3 1983,2 1993,1 2023,1 2070 2079,1 2137 2148,1 2197,2 2201-2 2221,2 2226,2 2236,1 2243,2 2244,1 2246,2 2247,1 2257,1 2258,2 2264,1 2267, marg. 2276,1 2279,1 2280,1 2283,1 2297,1 2299,2 2305,1 2312,2 2316,1 2323 2324,1.2 2324, marg. 2325,1 2267 2330,1 2345, marg. 2346,1 2355,2 2357,1 2360,1 2362,1.2.3 2364,1 2366,1.2 2368,1 2369,1 2374,1 2376,1 2386,1 2391,3 2442,1.2 2465,1 2474,1 2497,1 2556,1 2565,1 2587,1 2588,2 2592,1 2608,2 2624,1.2 2627,1 2629,2 2642,1 2643,2 2649,1 2653,1 2654,1 2655,1.3 2656,1.2 2657,1 2658,1 2662,1 2663,5 2674,1 2676,2 2685,1 2686,2.3 2688,1 2700,1 2703,1 2705,1.2 2715,1 2739,1 2757,1.2 2771,1.2 2793,1 2795,1 2809,1 2811,2 2812-3 2821,3 2823,1 2825,1 2835,3 2842,1 2864,1.2.3 2865,1.3 2882,1 2893,12 2894,1 2918,1 2919,1 2923,3 2925,2 2926,1.2 2930,1 2935,2 2947,1 2984,1 3001,2 3004,1 3005,1 3006,1 3018,2 3023,1 3032,1 3038,1 3051,1 3052,1 3053,1 3054,2.3 3057,1.2 3060,2 3061,2 3062,2.3 3071,1 3072,1.2 3073,3 3080,1 3095,1 3170,1.2.3 3172,1 3182,1 3262,3 3264,2 3283,2 3288,1 3289,2 3298,5 3312,1.2 3317,1 3340,1 3343,1 3344,1 3350,2.4 3361,1 3430,1 3460,1 3477,2.3 3488,1 3491,2 3514,1.2 3515,1 3542,2 3543,3 3548,1 3557,1.2.3 3558,2 3560,2 3568,13 3569,1.2 3584,1.32.4 3585,1 3587,1 3589,13588,1 3616,2 3617,2.3.5 3618,2.3 3620,2.3 3621,2 3625,1 3629,1 3636,1 3638,2 3684,2.3.5 3687,1 3694,2 3695,3 3698,1 3704,1 3710,1 3715,1 3729, marg. 3742,1.3 3751,1 3754,1 3755,1 3761,2.3 3764,3 3771,1 3772,1 3815,1.2.4 3816,4 3818,1 3825,1.2 3828,1 3834,1 3851,2 3852,4 3869,1 3872,1 3875,1 3881,3 3886,1 3893,1 3896,1 3897,1 3899,2 3900,5 3901,1.3.4 3902,1 3903,2 3904,5 3908,2 3927,2 3928,2.3 3937,1.2 3938,5 3939,1.3.4.5 3942,1 3946,1 3960,1.4 3961,1.2 3964,2 3967,1 3968,3 3970,1 3978,4 3979,3 3987,4 3989,2 3990,3 3996,2.3.5 3997,1 3998,3 3999,1.2 4001,2 4004,2.3.4 4006,4 4008,5 4009,6.7.9 4010,2 4011,2.3 4014,7 4015,4 4016,2 4017,1 4018,1.4 4020,3.6 4022,3 4023,2 4024,3.4 4025,2.5 4026,2.4 4029,2 4030,3.6 4033,2.4 4034,1.6 4035,3.4.5 4036,1.2.5.6.9 4037,1.3 4042,2 4044,3 4046,3.4.8 4049,2.3 4050,3 4053,1.2 4055,1.5 4061,3 4062,3.4 4067,2 4068,3.7 4073,2 4075,1 4082,3.6.7 4083,2.4.5 4085,2.4 4086,3.4 4087,4.7 4088,6 4089,3.4.5.6.7 4090,3.6 4093,3.4 4094,1 4095,4 4101,1.2.6.7.8 4102,1.4.6.7 4103,1 4104,1.3.5 4105,1 4108,1 4110,4 4113,1 4114,2.3.5.7.8 4115,3.5 4116,2 4117,3.5.8.10 4118,4.5.6.7.9.10.13 4119,3.5.7.8.10 4120,1.6.7.8.9.13.14.15.16.17.19 4121,3.4.10.11.13 4122,2.3.9.12.13.14.17 4123,5.7.8.12 4124,1.2.5.8 4125,4.6 4126,1.10.11 4127,2.4 4134,2.4 4135,4 4136,1 4138,1 4139,1.3.4.6.11.12 4140,4.5.7.8.9 4141,1 4143,1-3 4147,1.2.3 4148,2.7.8.11 4149,1.2 4150,2.3.8.9 4151,1.8.10-12 4152,1-5 4153,2-4 4154,2.5.11 4155,1.2 4156,1.5-7 4157,1.3 4158,1.3.8 4160,4.9 4161,3 4162,5.7.8 4163,5 4164,5.7.10.13 4165,2-5.12.13 4166,1.5 4167,1.7 4170,5.9.10.14 4172,1 4173,6 4177,3.4.5 4179,3 4182,3.4.5 4188,10.11 4190,8 4193,1 4196,1.3 4197,4.5 4200,2.5 4201,1.2.4.5.9 4209,1 4210,2.3 4211,1.3 4213,1.5 4217,2 4218,1 4223,1 4224,2 4226,1 4227,2.3 4228,32 4232,32 4234,2 4237,1.7.9 4239,4 4241,1 4245,4 4246,4.10.15 4248,4.6.7 4250,2 4255,3.5 4257,6.8.10 4259,4 4260,12 4273,1.2.3 4280,4 4282,5 4286,2 4283,6 4287,5.6.7 4288,1 4294,1[42,1] Un'altra prova dell'esser la nostra lingua italiana
derivata dal volgare di Roma del buon tempo si trae dalle
parole antichissime {Latine} poi andate in disuso
presso gli scrittori, che ora si trovano nell'italiano, le quali è manifesto che
con una successione continuata sono passate da quegli antichissimi tempi sino a
noi, perchè nessuno certo l'è andato a pescare negli scrittori antichissimi
latini perduti poi ancora prima del nascere della nr̃a[nostra] lingua, come Lucilio
Ennio
Nevio ec. Di maniera che tra questi
antichi che le usavano e noi che le usiamo non bisogna lasciare nessun
intervallo voto, perchè non sarebbero più rinate, se non vogliamo dire che sia
un caso, il che non si lascerà credere appena agli Epicurei. Dunque non
essendoci altra catena tra quegli scrittori e noi che il volgare Latino, giacchè
gli scrittori le aveano dismesse, resta che questo si riconosca per conservatore
e propagatore all'italiano di quelle voci. Come pausa usata dagli antichi scrittori latini, poi
disusata, poi tornata in uso a' tempi bassi e quindi nell'italiano, (v. il Du
Cange) certo non saltò da quei secoli antichi ai bassi così
per miracolo, (giacchè certo quei miserabili scrittori Latino-barbari non la
trassero dagli antichissimi autori forse già perduti e certo a loro o ignoti, o
tutt'altro che letti e studiati) ma discese per una via continuata la quale non
può esser altro che il popolare latino. E questo credo che si possa parimente
dire di moltissime altre voci.
[43,5] Non si trova in verun Dizionario italiano ch'io abbia
potuto consultare ma è comune fra noi la parola {blitri o}
blittri o blitteri che
significa, un niente, cosa da
nulla ec. Questa casa è un blitri; questa
città è un blitri a misurarla con
Roma ec. ec. Ora questa parola è totalmente e
interamente greca: βλίτρι, che anche si diceva βλίτυρι e βλήτυρι e βλίτηρι (come
{anche} noi) e forse anche βρίτυρι, e non
significava nulla. V. Laerz. l. 7. segm. 57. e quivi le
note del Casaub. e del Menag. e il Du Fresne
Glossar. Gręc. in βλίτηρι, e
nell'appendice 1. in βλίτηρι {parimente}.
Tutti gli altri libri immaginabili che poteano fare al caso sono stati da me
consultati scrupolosamente, senza trovarci ombra di questa voce, e nominatamente
i Dizionari Greci tutti quanti n'ho, dove manca affatto, in tutte le sue
maniere.
[95,2] Bisognerebbe vedere se quell'oracolo della porca bianca
da trovarsi da Enea all'imboccatura del
Tevere per buono ed ultimo augurio secondo Virgilio [Aeneid 8. 42
ff.,] avesse qualche altro significato ed origine nota e
verisimile, non fattizia e arbitraria, perchè non avendone, io suppongo che
derivi dal nome di troia che noi diamo alle
96 porche, e
che a cagione di questo oracolo mi par ben da sospettare che fosse anche voce
antica e popolare latina nello stesso significato, e così la porca venisse
popolarmente considerata come un emblema di Troia, nella
stessa guisa che presentemente parecchie città e famiglie hanno per insegna
quell'animale {o quell'oggetto materiale} ch'è chiamato
con un nome simile al loro. {{V. la Cron. d'Euseb. l. 1. c. 46. e
nota che quel racconto benchè da scrittor greco è preso anche quivi e
attribuito intieramente a un latino. v. p. 511, capoverso
1.}}
[109,1]
Baggeo deriva altresì dal latino. V. il mio discorso sulla fama di Orazio. E il francese planer dal greco πλάνομαι[πλανάομαι], onde anche in latino le stelle erranti si chiamano planetę cioè errabundi, ed è
ben verisimile che la parola francese sia derivata (non essendo probabile dal
greco) da planari detto forse volgarmente in latino
nello stesso senso. E nota in questo proposito i due participi palans, tis, e palatus, a, um
errante, segno certo di un antico verbo palari, fatto da πλάνομαι colla metatesi della λ (come
da ἅρπω rapio da μορϕὴ forma) e colla conseguente
elisione della υ. Buonus per bonus è in Frontone e, e v. le ortografie del Cellario e del Manuzio.
[111,1]
Gridare a testa o quanto se n'ha
in testa è frase antichissima e greca. Manca ne' Lessici gr. e lat. ma
si trova in Arriano
(Ind. c.
30.): ὅσον αἱ κεϕαλαὶ αὐτοῖσιν ἐχώρεον {ἀλαλάξαι}
*
: quantum capita ferre poterant
acclamasse
*
interpreta il traduttore (30. Aprile
1820.)
[112,4]
Impertinente è una parola tutta latina, derivata da un
verbo latino ec. però è naturale che gli antichi o volgari latini dicessero impertinens. (31 Maggio 1820)
[113,2]
Agevole viene da agere come
facile da facere, e
questo agere essendo ignoto alla nostra lingua, non è
verisimile che il suo derivato agevole non ci sia
venuto già bello e formato dagli antichi latini che avranno detto agibilis.
[150,1]
Quantum ad in vece di quod
attinet ad, come noi diciamo quanto a, e i
francesi quant à, è usato da Tacito
Agricol.
cap. 47. Et ipse quidem, quamquam
medio in spatio integrae aetatis ereptus, quantum
ad
gloriam, longissimum aevum
peregit.
*
Esempio e significato omesso nel Forcellini e nell'Appendice. (3.
Luglio 1820.).
[205,2]
Oste albergatore, ed anche ospite, ossia albergato,
appresso gli antichi italiani. V. la Crusca.
Hostis aveva appunto questa seconda significazione
appresso gli antichi latini. V. il
Forcellini.
206 Ed ecco una parola {latina}
disusata ai tempi di Cicerone,
ricomparisce nei principii della nostra lingua. E forse hostis avrà avuto anche il significato di albergatore, come oste oggidì, e come hospes
ed ospite in latino ed in italiano hanno lo stesso
doppio senso di albergatore e albergato. (10. Agosto 1820.). {{Straniero ossia ospite si prendeva per nemico anche nell'antica lingua celtica. V. Cesarotti note al Fingal, Canto primo.
Bassano 1789. t. 1. p. 17. E così
appoco appoco si sarà cambiato il significato di hostis, cioè considerando lo straniero come nemico.}}
[228,1]
Torno, tornio, tornire, torno torno, intorno, attorno
derivano dal greco τορνόω, τορνεύω, τόρνος, ec. da τερέω[τορέω]; onde anche in latino, tornus,
tornare ec. (26. Agosto 1820.).
[230,2]
Intertenere è composto di una preposizione totalmente
latina inter, che gl'italiani dicono tra, onde trattenere ch'è
quasi una traduzione d'intertenere. E come trattenere manifesta origine italiana, così l'altro
verbo si dimostra palesemente per derivato dal latino a noi, non essendo
verisimile che gli antichi italiani inventassero una parola di questa forma. Interporre, intercedere, interregno, sono parimente derivate dall'antico
latino.
[366,1]
Hanter frequentare, visitare spesso, aver familiarità
ec. verbo che Girard nei Sinonimi fa derivare
da hant (se ben mi ricordo) che nelle lingue del nord
significa congiungere o darsi le
mani, non potrebbe piuttosto derivare da ἀντάω? Ma bisognerebbe anche
vedere se quella parola settentrionale abbia nessuna relazione con questo verbo
greco.
[462,2]
Quanto a, preposizione italiana, usata anche in latino
da Tacito, come ho
detto in altro pensiero p. 150, deriva intieramente dal greco:
ὅσον πρός, ὅσον μὲν πρός ec. {si dice} nello stesso
significato, e negli stessi casi.
[497,1]
Favella e favellare derivano
evidentemente da fabula e fabulari mutato al solito il b in v, come da fabula diciamo pure favola; onde è come se
dicessimo fabella e fabellare. Qui non c'è niente di notabile o strano: la cosa va da se,
e sarà stata notata da tutti gli Etimologi. Ma che ha da far la favella e il
favellare col favoleggiare e colle favole? Qui appunto consiste il singolare e
l'osservabile in questa derivazione. Perocchè l'antico e primitivo significato
di fabula, non era favola,
ma discorso, da for faris,
quasi piccolo discorso, onde poi si trasferì al
significato di ciancia
498
nugae, e finalmente di finzione e racconto falso. Appunto come il
greco μῦϑος nel suo significato proprio, valeva lo stesso che λόγος verbum dictum oratio sermo colloquium, e da Omero non si trova, cred'io, adoperato se
non in questa o simili significazioni, così esso come i suoi derivati. Poi fu
trasferito alla significazione di favola. Il detto
senso di fabula, fabulator, fabulo, fabulor,
confabulor
{etc.} è evidente negli scrittori latini di tutti i
buoni secoli, massime però ne' più antichi e più puri. V. il Forcellini in tutte queste voci. Ma dopo, e
massimamente ne' bassi tempi il significato usuale e comune di fabula
{nelle scritture} non era altro che favola. E tuttavia la nostra lingua ha ritenuto
espressamente questa parola (la quale, come ho detto, è la stessa nostra di favella) nel suo antichissimo, primitivo e proprio
valore. Certo non è andata a pescare questo significato nelle antichissime
memorie, e nei primi scrittori. Bisogna dunque che la detta significazione tal
qual era da principio sia pervenuta di mano in mano, e conservata e continuata
senza
499 interruzione fino alla nascita e alle origini
della nostra lingua. Ora ciò non può essere stato se non per mezzo del volgo
latino; tanto più che gli scrittori, quando anche avessero conservata in uso la
detta significazione sino all'ultimo, non avrebbero mai potuto essi soli
comunicarla al volgo, e renderla volgare, usuale, comune, propria e primitiva in
una lingua nascente, quando il significato più comune di quella parola fose
stato un altro. E tale era infatti appresso gli scrittori. Del resto come μῦϑος
e fabula vuol dire al tempo stesso discorso e favola, e da quel
primo significato fu trasferito al secondo così viceversa nella nostra lingua
novella e novellare, dal
significato di favola o racconto, trasferiti a quello di ciance o di
favella, hanno parimente nel tempo stesso il
valore di favola e di discorso. V. la Crusca.
(13. Gen. 1821.). {{V. p. 871. fine.}}
[501,2] Come gl'italiani per proprietà di lingua dicono muovere in maniera neutra per muoversi, andare, camminare ec. così fra' latini, oltre i citati dal
Forcellini, Floro I. 13.
Sed quod ius apud barbaros?
ferocius agunt. Movent, et inde certamen.
*
Parla dei
Galli Senoni conversis a
Clusio, Romamque
venientibus,
*
come
502 soggiunge
immediatamente. E II. 8. quum ingenti strepitu ac tumultu
movisset ex Asia
*
(Antiochus). (14. Gen.
1821.). {{Vedi Sveton. in D. Julio c. 61. 1. e quivi le
note degli eruditi.}}
[502,1]
Come dice Dante
Quinci si va, chi vuole andar per pace,
*
idiotismo
assai comune e usitato nella nostra lingua, così anche i latini. Floro II. 15. sul principio: Atque si quis trium
temporum momenta consideret, primo commissum bellum, profligatum
secundo, tertio vero confectum est.
*
Parla delle
3. guerre Puniche. (14. Genn. 1821). {+Più manifesto, e conforme
all'uso italiano è questo idiotismo (vero idiotismo, perchè non è locuzione
regolare, anzi falsa secondo la dialettica e la costruzione) in Orazio
Od. 16. l. 2, v. 13. Vivitur
parvo bene, cui
paternum
*
ec. cioè si
cui (che neppur essa sarebbe locuzione regolarissima) ma è omesso
il si, come appunto in italiano.}
[508,1] Come noi diciamo in paragone
in comparazione per rispetto, appetto, verso, appresso, così Floro II. 15.
della terza Punica: et in
comparatione priorum,
509 minimum
labore.
*
Il Forcellini non ha esempio di questa locuzione, eccetto uno di Curzio che {la contiene}
{materialmente,} ma non equivale {nel senso;}
quas in comparatione meliorum, avaritia
contempserat.
*
L'Appendice nulla.
(15. Gen. 1821.).
[592,3]
Communicare per particeps fieri,
essere, o venire a parte, del qual significato il Forcellini
593 non reca esempi, se non tre di cattiva lega, e di
bassa latinità ed autorità (l'Appendice nulla) si trova presso
Cicerone: (Lael. sive de Amicit.
c. 7.) Itaque, si quando aliquod
officium exstitit amici in periculis aut adeundis, aut
communicandis,
*
(cioè nel prender parte ai pericoli
dell'amico) quis est, qui id non
maximis efferat laudibus?
*
{V. un non so che di simile nella
Crusca.}
[595,1] Quella frase o metafora nostra volgarissima e
familiare di cuocere per molestare, travagliare, tormentare, e affligger
l'animo (così la Crusca v. Cuocere
§. 3.), fu parimente presso i latini nel verbo coquere, e ciò anche ne' più antichi.
*
Ennio presso Cic. (Cato maior seu de
Senect. c. 1.) Il Forcellini ne porta anche altri due esempi, l'uno di Virgilio, l'altro di Stazio. L'Appendice nulla.
O Tite, si quid ego adiuvero, curamque levasso,
Quae nunc te coquit, et versat in pectore
fixa,
Ecquid erit pretii?
[597,1]
Stupeo, o stupesco, stupefacio, stupefio, stupidus,
ec. coi composti, non solo si sono conservati materialmente nel verbo stupire, stupefare, stupidire ec. ec. ma se ben questi
sono restati nella nostra lingua seccamente e nudamente, e senza il significato
etimologico (che vuol dire, diventar di stoppa), come infinite altre parole
delle quali resta {quasi} il corpo e non l'anima,
tuttavia la nostra lingua conserva ancora per altra parte quella prima metafora,
diventar di stoppa, e l'usa familiarmente per istupire ec. sebbene non sia registrata nella
Crusca. (1. Feb. 1821.).
[599,3] Qual cosa è più lontana dal noto e comune significato
del verbo latino defendere, quanto il significato di
proibire nel francese défendre
{nello spagnuolo defender} e
nel difendere italiano presso gli antichi? E pure il
significato proprio e primitivo del latino defendere
(admodum propria et Latina huius verbi significatio,
600 ut ait
*
Gell. l. 9. c. 1. dice il Forcellini) è molto simile, e si accosta moltissimo alla
detta significazione francese, e antica italiana: ed è questa, arceo, prohibeo, depello, propulso, come dice il Forcellini, il quale ne porta molti
esempi di diverse età di scrittori. Ora, come il verbo prohibeo, che ha questa medesima significazione, aveva ancora presso i
latini espressamente quella di proibire o défendre
{v. il Forcellini} così è ben verisimile
che il verbo defendere unisse (se non presso i noti
scrittori, presso gli antichissimi, e presso il volgo) questo significato al
sopraddetto. In ogni modo è chiaro l'uso del defendere
in francese e nel vecchio italiano, per proibire,
deriva dall'antichissimo, primo, e proprio significato di quel verbo latino;
{il quale} se anche è stato ridotto al significato
di proibire, solamente nelle origini della nostra
lingua, lo è stato però certo in forza della conservazione costante di
quell'antichissimo significato, non più noto agli scrittori di quei tempi, e
quindi necessariamente al solo volgo, e che si crederebbe perduto da lunghissimo
tempo, se non
601 avessimo questa prova della sua
costante conservazione fino all'ultima età della lingua latina. (2. Feb.
1821.).
[928,1]
Spegnere parola tutta propria oggi degl'italiani, non
pare che possa derivare da altro che da σβεννύειν mutato, oltre la desinenza, il
β in p, mutazione
ordinaria per esser due lettere dello stesso organo, cioè labiali, e il doppio
ν in gn, questo pure
ordinario, e ordinarissimo presso gli spagnuoli che da annus fanno año ec. ec. Se dunque spegnere deriva dalla detta parola greca, è necessario
supporre ch'ella fosse usitata nell'antico latino, {+(sia che le dette mutazioni,
{o vogliamo, diversità} di lettere
esistessero già nello stesso latino, sia che vi fossero introdotte, nel
passare questa parola dal latino in italiano)}, tanto più
che l'uso del detto verbo spegnere è limitato, {(cred'io)} alla sola italia. Il Forcellini non ha niente di simile
nelle parole comincianti per exb, exp, exsb, exsp, sb, sp. Parimente il Ducange, che ho ricercato accuratamente.
(10. Aprile 1821.).
[941,1] A quello che ho detto altrove p. 228 della
derivazione del verbo tornare, si aggiunga, che questo
verbo è lo stesso che il tourner dei francesi, il
quale significa la stessa cosa che in latino volvere.
Giacchè appunto {nello stesso modo,} da volvere, gli spagnuoli hanno fatto bolver che significa tornare. (13. Aprile 1821).
[983,2]
Nelle Mémoires de l'Acad. des Inscriptions,
Tom. 24. si trova: Bonamy,
Réflexions sur la langue latine vulgaire.
(25. Aprile 1821.). {+E son pur da vedere in questo proposito
le memorie di Trévoux, anno 1711. p.
914.}
[983,4] Che il verbo latino serpo
sia lo stesso che il greco ἕρπω, è cosa evidente, {come pure
i derivati, serpyllum etc.} Ma che gli antichi latini, e
successivamente il volgo latino, usassero ancora, almeno in composizione, lo
stesso verbo senza la
984 s, come in greco, lo raccolgo
dal verbo neutro italiano inerpicare o innerpicare che significa appunto lo stesso che il
greco ἀνέρπω, composto di ἕρπω, cioè sursum repo, come
anche ἀνερπύζω. (Del verbo ἀνέρπω non ha esempio lo Scapula, ma lo spiega sursum
repo. Ve n'è però esempio in Arriano, Expedit. l. 6. c. 10. sect.
6. e nell'indice è spiegato sursum serpo.)
Il qual verbo siccome non ha radice veruna nella nostra lingua, nè nella latina
conosciuta, così l'ha evidentissima nel detto verbo ἕρπω, dal quale non può
esser derivato, se non mediante il latino, cioè mediante l'uso del volgo romano,
{differente in questo dagli scrittori.}
(25. Aprile 1821.).
[1012,2] Che la lingua latina a' suoi buoni tempi, e quando
ella era formata, si distinguesse in due lingue, l'
1013 una volgare, e l'altra nobile, usata da'
patrizi, e dagli scrittori (i quali neppur credo che scrivessero come parlavano
i patrizi) (Andrès, l. c. p. 256. nota),
che Roma al tempo della sua grandezza avesse una lingua
rustica, plebeia, vulgaris,
*
un sermo barbarus, pedestris,
militaris,
*
(Spettatore di
Milano, quaderno 97. p. 242.) è
noto e certo, senza entrare in altre quistioni, per la espressa testimonianza di
Cicerone. (Andrès, l. c.) {Del
quale antico volgare latino parlerò forse quando che sia, di
proposito.} Ora si veda quanto fosse impossibile che la lingua latina
divenisse universale, mentre i soldati, i negozianti, i viaggiatori, i
governanti, le colonie ec. diffondevano una lingua diversa dalla letterata, che
sola avendo consistenza e forma, sola è capace di universalità; e mentre
l'unicità di una lingua, come ho detto altrove pp. 321-22, è
la prima condizione per poter essere universale. Laddove la latina, non solo non
era unica nella sua costituzione e nella sua indole, dirò così, interiore, come
lo è la francese; ma era divisa perfino esteriormente in lingue diverse, e, si
può dir, doppia ec. (4. Maggio 1821). {{V. p. 1020.
capoverso 1.}}
[1014,3] L'u francese, del quale ho
discorso in altro pensiero pp. 54-55, potè essere introdotto in
Francia mediante le Colonie greche, come
Marsiglia ec.
[1015,1]
1015 Mediante le quali colonie ec. la lingua e
letteratura greca si stabilì, com'è noto, in varie parti delle
Gallie. V. il
Cellar. dove parla di
Marsiglia. E le
Gallie ebbero scrittori greci, come Favorino Arelatense, S. Ireneo (sebben forse nato greco) ec. ec. V. anche il Fabric. dove parla di Luciano, B.
Gr. lib. 4. c. 16. §. 1. t. 3. p. 486. edit. vet.
[1031,1] Che la lingua italiana massimamente e
proporzionatamente la spagnuola ancora e la francese, come spiegherò poi, sieno
derivate dall'{antico} volgare latino, si dimostra non
solo coi fatti {oscuri,} e coll'erudizione {recondita,} ma col semplice ragionamento sopra i fatti
notissimi e certi, e sopra la natura delle cose. La lingua italiana è derivata
dall'antica latina, e questo è palpabile. La lingua italiana è una lingua
volgare. Ma nessuna lingua volgare deriva da una lingua scritta e propria della
letteratura, se non in quanto questa lingua scritta partecipa della medesima
lingua parlata, e parlata volgarmente. La lingua latina scritta differiva
moltissimo dalla parlata, e ciò si rileva sì dall'indole del latino scritto che
non poteva mai esser volgare, sì dalla testimonianza espressa di Cicerone. Dunque se la lingua italiana è
derivata dalla latina, e la italiana non è semplicemente scritta o letterata, ma
volgare e parlata, non può esser derivata dal latino scritto, ma è derivata dal
latino volgare.
[1055,1]
1055
Couper dee venire da κόπτειν. (16. Maggio
1821.).
[1066,1]
Lampa, lampo, lampare, lampante, come pure
lampeggio, lampeggiare,
lampeggiamento, derivano manifestamente dal greco
λάμπειν ec. co' suoi derivati ec. del quale, e de' quali non resta nel latino
scritto altro vestigio (ch'io sappia), fuorchè la voce lampas, gr. λαμπάς, ital. lampada, lampade, lampana, co' suoi
derivati, lampada
ae, lampadion, lampadias, lampadarius. V. il Forcellini, e il Du Cange. (20. Maggio 1821.).
[1071,1] Un antichissimo significato della parola inter che ordinariamente è preposizione, e in questo
caso sembra essere stata usata avverbialmente, significato non osservato dai
Gramatici nè da' Lessicografi (il Forcellini non ne fa parola alla v. Inter,
benchè citi molti gramatici), fu quello di quasi, mezzo, e simili. Del qual significato resta un
evidente vestigio nelle parole intermorior, intermortuus, mezzo morto,
che anche noi diciamo tramortire, tramortito, e quindi tramortigione, tramortimento. Ora questo antichissimo significato,
dimenticato fino dai gramatici latini, e di cui negli scrittori latini non si
trova, ch'io sappia, altra ricordanza che la sopraddetta, si conservò alla voce
inter, nel latino volgare, sino a passar nella
lingua francese, che nello stessissimo senso l'adopra nella composizione di
alcuni verbi come entr'ouvrir, entrevoir ec. Elle
signifie aussi dans la composition de quelques verbes une action
diminutive,
*
dice l'Alberti della preposizione entre, che è lo stesso che inter. Nè si
creda che questo significato sia rimasto in francese alla detta parola,
solamente in alcuni verbi che questa lingua abbia presi dal latino, già così
composti e formati, e colla detta significazione.
1072
Giacchè 1. i detti verbi così composti, e col detto senso non si trovano nel
latino, se non ci volessimo tirare il verbo interviso,
che ha veramente un altro significato da quello di voir
imparfaitement ec. dell'entrevoir (v. l'Alberti.).
Sicchè in ogni modo questi verbi non trovandosi negli scrittori latini, si
verrebbero a dimostrar derivati dall'uso latino volgare. 2. La parola entre nel detto senso si trova anche, nella
composizione, unita a parole non latine affatto, come {in}
entre-baillé, mezzo
chiuso, o socchiuso. Laonde
è manifesto che il detto significato passò dall'antichissimo latino al francese,
(certo non per altro mezzo che del volgare latino) come propriamente aderente
alla parola entre, quantunque nella sola composizione.
Si potrebbono anche riferir qua le nostre parole traudire, e travedere, (co' derivati) che
vagliono ingannarsi
nell'udire o nel
vedere, cioè vedere a mezzo,
vedere imperfettamente, come entrevoir, sebbene fissate ad un senso derivativo da questo primo.
(21. Maggio 1821.). {{V. il Du Cange, se ha nulla al
proposito.}}
[1104,1]
1104 Il verbo spagnuolo traher o traer che è manifestamente il trahere latino, si adopra alcune volte in significati
somigliantissimi a quelli del latino tractare, e de'
suoi composti attrectare, contrectare ec. Come traer con la mano, traer entre las manos e simili. Significati ed usi che
non hanno niente che fare coi significati o usi noti del latino trahere, nè con quelli dell'italiano trarre o tirare (ch'è
tutt'uno), nè del francese tirer. {+Traher vale alle volte dimenare e
muovere dice il Franciosini in traher. Ora per dimenare appunto
{o in senso simile} si adopra spesso il
verbo tractare, o l'italiano trattare, come in Dante ec. v.
la Crusca in Trattare e
specialmente §. 5.} Ora io penso che questi
significati gli avesse antichissimamente il verbo trahere, perduti poi nell'uso dello scrivere, e conservati però nel
volgare, sino a passare ad una lingua vivente, figlia d'esso volgare. Ecco
com'io la discorro.
[1155,4]
Alla p. 1128.
Da queste osservazioni apparisce che la desinenza italiana della prima persona
{attiva} singolare del perfetto indicativo, dico la
desinenza in ai, è la vera e primitiva desinenza
latina di detta persona, conservatasi per tanti secoli {dopo
sparita dalle scritture, o senza mai esservi ammessa,} mediante il
volgare latino; e per tanti altri, mediante la nostra lingua che gli
1156 è succeduta. Desinenza conservatasi anche nella
scrittura francese, nostra sorella, ma perduta nella pronunzia, conforme alla
qual pronunzia gli spagnuoli (altri nostri fratelli) scrivono e dicono amè ec. Voce senza fallo derivata dall'antichissimo
amai, mutato il dittongo ai nella lettera e, forse a cagione del
commercio scambievole ch'ebbero i francesi e gli spagnuoli, e le lingue e poesie
loro ne' principii di queste e di quelle: commercio notabilissimo, {lungo, vivo, e frequente;} e conosciuto dagli eruditi,
(Andrès t. 2. p. 281. fine, e segg.) e che
in ordine alla {forma di} molte parole e frasi è la
sola cagione per cui la lingua spagnuola somiglia alla latina meno della nostra,
quantunque in genere somigli {e la latina e la nostra}
assai più della francese. Così nel futuro amarè ec.
ec. somiglia alla lingua francese pronunziata.
[1164,2] A quello che ho notato altrove p. 111
dell'antichità della nostra frase gridare a testa, ec.
aggiungi delle francesi, crier à pleine tête, à tue tête,
du haut de sa tête, delle quali v. l'Alberti v. Tête, e v. pure i Diz. spagnuoli. (13.
Giugno 1821.).
[1165,3] Quante controversie sul significato di quelle parole
di Orazio intorno a Cleopatra vinta nella battaglia Aziaca: (Od. 37. lib. 1. v. 23.
seq.)
Nec latentes
Classe cita reparavit oras! *
1166 V. il Forcellini e i comentatori. E nessuno l'ha bene inteso. Acrone: Nec latentes Classe cita reparavit oras: fines regni latentes: id est non colligit denuo exercitum ex intimis regni partibus. * Porfirione altro antico Scoliaste: Nec latentes C. c. r. oras: hoc est: Nec fugit in latentes, id est intimas Aegypti regiones ut vires inde repararet. * Nè mai s'intenderà e spiegherà perfettamente senza l'antico italiano, il quale c'insegna un significato del verbo reparare che non è conosciuto ai Lessicografi latini. Ed è quello di ricoverarsi, nel qual senso i nostri antichi dicevano, ed ancor noi possiamo dire, riparare o ripararsi a un luogo o in un luogo. Orazio dunque vuol dire, e dice espressamente: Non si ricoverò, non rifuggì alle recondite, alle riposte parti d'Egitto. Come se in luogo di reparavit avesse detto petiit, ma reparavit ha maggior forza di esprimere la fuga e il timore. (14. Giugno 1821.).
Nec latentes
Classe cita reparavit oras! *
1166 V. il Forcellini e i comentatori. E nessuno l'ha bene inteso. Acrone: Nec latentes Classe cita reparavit oras: fines regni latentes: id est non colligit denuo exercitum ex intimis regni partibus. * Porfirione altro antico Scoliaste: Nec latentes C. c. r. oras: hoc est: Nec fugit in latentes, id est intimas Aegypti regiones ut vires inde repararet. * Nè mai s'intenderà e spiegherà perfettamente senza l'antico italiano, il quale c'insegna un significato del verbo reparare che non è conosciuto ai Lessicografi latini. Ed è quello di ricoverarsi, nel qual senso i nostri antichi dicevano, ed ancor noi possiamo dire, riparare o ripararsi a un luogo o in un luogo. Orazio dunque vuol dire, e dice espressamente: Non si ricoverò, non rifuggì alle recondite, alle riposte parti d'Egitto. Come se in luogo di reparavit avesse detto petiit, ma reparavit ha maggior forza di esprimere la fuga e il timore. (14. Giugno 1821.).
[1230,1] Da repere che anche il Forcellini dice esser metatesi di ἕρπω, oltre l'inerpicare del quale ho detto altrove pp.
983-84, ed oltre il latinismo repere che
nella Crusca ha un esempio di Dante, e uno del Soderini,
ebbero i nostri antichi anche ripire, voce italiana
d'uso, e volgare in quei tempi, come sembra, e adoprata anch'essa nel
significato di inerpicarsi, ἀνέρπειν, o di salire,
montar su, come puoi vedere ne' due esempi delle Storie
Pistolesi nella Crusca, e in questi della Storia della
Guerra di Semifonte scritta da M. Pace da Certaldo,
Firenze 1753. il quale autore fu tra il 200
e il 300. Gli Fiorentini appoggiate le scale di già ripivano
*
(p. 37): e Videro... alcuni già avere appoggiate le scale, e far pruova di
ripire.
*
(p. 46.)
Esempi portati nella Lettera a V. Monti di Vincenzo Lancetti, Proposta di alcune Correzioni ed Aggiunte al Vocab. della
Crusca, vol. 2. par. 1. Milano
1819. Appendice, p. 284. Quindi ripido, cioè Erto, Malagevole a salire, spiega la Crusca,
e ripidezza astratto di ripido, voci non latine: e da repere, repente, per molto erto, ripido, dice la Crusca, che ne porta due
1231 esempi del trecento. Il Du Cange non
ha niente in proposito. (27. Giugno 1821.).
[1295,1]
Alla p. 1138.
fine, aggiungi - 4. La lingua latina ha prodotto tre figlie, che ancor
vivono, che noi stessi parliamo, e le di cui antichità, origini, progressi ec.
dal principio loro fino al dì d'oggi, si conoscono o si possono ottimamente o
sempre meglio conoscere. Che in somma è quanto dire che la lingua latina ancor
vive. E la considerazione di queste lingue fatta coi debiti lumi, ci può portare
e ci porta a scoprire moltissime proprietà della lingua latina antichissima, che
non si potrebbero, o non così bene dedurre dagli scrittori latini; e ciò stante
l'infinita tenacità del
1296 volgo che mediante il
parlar quotidiano, ha conservato dai primordi della lingua latina fino al dì
d'oggi, e conserva tuttavia nell'uso quotidiano (e le ha pure introdotte nelle
scritture) molte antichissime particolarità della lingua latina; come dimostrerò
discorrendo dell'antico latino volgare. Sicchè lo studio comparativo delle tre
lingue latino-moderne, fatto con maggior cura, di quello che finora sia stato, e
con maggiore intenzione all'effetto di scoprire le antichità della favella
materna, ci può condurre a conoscer cose latine antichissime, e primitive, o
quasi primitive. La quale facoltà di uno studio comparativo sulla lingua greca
parlata, non si ha, benchè la lingua greca viva ancora al modo che vive la
latina. Oltre che non si hanno tante comodità di conoscere così bene il greco
moderno, e le sue origini, e progressi, e generalmente la storia della lingua
greca da un certo tempo in qua; come si hanno di conoscere quello che noi
possiamo chiamare il latino moderno, e la storia della lingua latina dalla sua
formazione e letteratura fino al dì d'oggi, come dirò poi.
[1361,2] Oὐδὲν τοῦ ὅλου rien du
tout.
{+pas (che val
propriamente nulla) du tout.}
(21. Luglio 1821.).
[1421,1]
{Alla p.
512. marg.} Ancor noi oltre ove ch'è ubi, abbiamo pur dove che vale il medesimo, ma è quasi de ubi, cioè unde. Siccome
gli spagnuoli per ubi dicono donde
{(e
adonde)} che è quasi de unde. E noi pure oltre onde cioè unde, abbiamo donde, che per altro vale, non ubi, ma unde. (31. Luglio 1821.).
[1456,1]
Frissonner ec. ϕρύττω o ϕρύσσω ec. (5. Agosto.
1821.).
[1475,1]
1475 Confrontando le lingue spagnuola francese e
italiana, si trovano molte proprietà principalissime ed essenziali, che sono
comuni a tutte tre. Or queste essendosi formate massime quanto al principale e
fondamentale, l'una indipendentemente dall'altra, è necessario il dire che le
dette proprietà derivino da un'origine comune, e questa non può esser che il
latino, e s'elle non si trovano nel latino scritto, dunque vengono dal volgare.
Nè si può dir che derivino dal latino corrotto de' bassi tempi, perchè, come ho
detto pp. 1031-37 , egli
si corruppe diversamente e indipendentemente secondo i luoghi ec. e le lingue
che nacquero dal latino nacquero separatamente, e quasi in diverse parti. Quindi
l'uso degli articoli e de' segnacasi, uniformi appresso a poco anche
materialmente nelle tre lingue; l'uso de' verbi ausiliari pure uniformi, cioè
essere e avere (eccetto
che lo spagnolo non adopra essere), si debbono
considerare come propri del volgare latino. Così l'uso del verbo finito colla
particella che (franc. e spagn. que) in vece dell'infinito ec. del qual costume
1476 si hanno indizi anche nel buon latino (cioè del quod ec.) e molto più frequenti nel barbaro. I greci
ebbero pur sempre lo stesso uso (ὅτι).
[1499,1] Del resto gli scrittori antichissimi e primitivi,
non meno italiani e greci, che latini e francesi, sono sempre sommamente propri,
e scarseggiano di sinonimia. Ciò accade, perch'essi, ancorchè senza studio, pur
possedevano assai bene e pienamente la lingua, ancorchè vastissima, ch'essi
stessi creavano o formavano, tanto in ordine al generale e all'indole, tanto in
ordine ai particolari, e alle parole e modi, e alla determinazione dei loro
significati ec. e v. la pag.
1482.-84. la quale, stante questa riflessione, non contraddice alla
pag. 1494.-96.
(13-14. Agosto. 1821.).
[1533,1] Chi non crederebbe che il significato francese della
parola genio non fosse al tutto
1534 moderno? Eppure nel seg. passo di Sidonio
(Panegyr. ad Anthem. v. 190. seqq.)
io non so in qual altro senso, che in questo o simile, si possa intendere.
Qua Crispus brevitate placet, quo pondere Varro,
Quo genio Plautus, quo fulmine * {#(a) altri meglio, flumine} Quintilianus,
Qua pompa Tacitus numquam sine laude loquendus. *
Se pur non volesse dire piacevolezza, e una cosa simile a quella che esprime talvolta l'italiano genio, e in questo senso pure non si troverebbe presso gli antichi scrittori. V. però il Forcell. e il Ducange. (20. Agos. 1821.).
Qua Crispus brevitate placet, quo pondere Varro,
Quo genio Plautus, quo fulmine * {#(a) altri meglio, flumine} Quintilianus,
Qua pompa Tacitus numquam sine laude loquendus. *
Se pur non volesse dire piacevolezza, e una cosa simile a quella che esprime talvolta l'italiano genio, e in questo senso pure non si troverebbe presso gli antichi scrittori. V. però il Forcell. e il Ducange. (20. Agos. 1821.).
[1678,1] È noto che anticamente il dittongo ae de' latini scrivevasi e pronunziavasi alla greca
ai (v. i gramatici.) Or questa pronunzia e
scrittura antichissima l'italiano la conserva
1679
anche oggi nel latino vae, greco οὐαί, ch'egli scrive
e pronunzia guai, mutato il v in gu, come in guado, guastare, da vadum
vastare. ec. I nostri contadini in alcune parti
d'italia dicono golpe, (v. monti, Proposta ec. in Golpe, dove senza bisogno lo deriva dal
francese) golo, sguelto, guerro per volpe, volo, svelto, verro (porco non castrato, verres) ec. ec. E viceversa vardare, valchiera per guardare, gualchiera
ec. {+Noi diciamo vizzo e guizzo. (Crusca.)
I nostri antichi diceano vivore per vigore. (Crusca.)} Il déguiser franc. è corruzione di déviser
(v. la
Crusca in Divisato: svisare è pur lo
stesso, in rigore d'etimologia.) Non parlo della pronunzia del w
inglese ec. ec. ec. (12. Sett. 1821.).
[1679,1] L'italiano il francese lo spagnuolo i quali parlano
(massime l'italiano) poco differentemente da quello che parlavano i latini, non
perciò scrivono come i latini scrivevano. Vale a dire che delle due lingue
Romane distinte da Cicerone, la rustica
è sopravvissuta alla colta, l'una vive alterata, l'altra {è} morta del tutto. Tanta è la tenacità del popolo, tanta la
difficoltà di conservare e
1680 perpetuare quello a cui
la moltitudine non partecipa. Questo però per le mutazioni de' tempi per la
barbarie, per la dimenticanza del buono scrivere ec. quello, non solo si
conservò per la tenacissima natura del popolo, malgrado le tante vicende delle
nazioni, influenze e inondazioni di forestieri ec. ma s'introdusse anche, e
resta in luogo del latino scritto. E il ridurre a letteratura la lingua italiana
ec. fu in certo modo un dare una letteratura al rustico latino, essendo perduta
l'altra letteratura del latino colto. E malgrado gli sforzi fatti nel 400. e
500. per ravvivare questa seconda, (e ciò tanto in italia
che altrove) ella s'è perduta, e l'altra s'è propagata, accresciuta, e vive.
(12. Sett. 1821.).
[1779,2] Noi diciamo agevole ec. i
francesi aisé, la qual parola è manifestamente
corrotta, e deriva da un'altra a cui la nostra s'avvicina molto più; cioè agibilis, quod agi
1780
potest, siccome facilis, quod fieri potest, onde viene a dir quasi lo stesso,
come infatti agevole è sinonimo di facile. Si vede
dunque che questa parola agibilis in senso di facile apparteneva al volgare latino, dal quale rimase
in due diverse lingue che ne derivarono. Giacchè il latino barbaro de' bassi
tempi era diversissimo non solo nelle diverse nazioni, ma quasi in ciascuna
provincia, scrittore ec. Ed aisé deriva da agibilis o agevole, come poi
da aise ec. derivò il nostro agio
agiato
agiatamente
adagio ec. Tutte corruzioni moderne della radice ago. V. Forcellini e Ducange.
(24. Sett. 1821.).
[1818,1] Se gl'italiani i francesi e gli spagnuoli concordano
nell'usare il verbo mittere nel senso di ponere (mettere, mettre,
meter); se è certo che quest'uso antichissimamente proprio di tutte tre
queste lingue, non è derivato da scambievoli comunicazioni del linguaggio latino
corrotto in quella o in questa delle tre nazioni; se finalmente quest'uniformità
1819 di uso in tre lingue sorelle bensì, ma nate
indipendentemente l'una dall'altra, benchè da una stessa madre, non si vuole
attribuire al puro caso; sarà forza derivarlo da un'origine comune, e questa non
può essere che il volgare latino da cui tutte tre derivarono; giacchè quest'uso
non si trova nel latino scritto. V. Forcellini, e i Glossari.
(1. Ott. 1821.).
[1945,2]
Alla p. 1660.
Siccome le pronunzie variano secondo i climi e i popoli, così è verisimile che
il latino passato {p. e.} nelle
Gallie, o quando lo riceverono da' Galli i Franchi,
cominciasse subito a pronunziarsi in modo simile a quello che si pronunzia il
francese,
1946 scrivendolo però nel modo che l'avevano
ricevuto, cioè come facevano i latini. Quindi la differenza tra la scrittura e
la pronunzia, e i difetti della rappresentazione de' suoni. Infatti anche oggi i
francesi gl'inglesi i tedeschi ec. leggono il latino come la loro lingua. Nel
che è tanto verisimile che si accostino alla pronunzia latina, quanto è vero che
i latini fossero inglesi ec. Laddove essi erano italiani, e questo clima e
questo popolo che fu latino, è naturale che abbia conservata la massima parte
della vera pronunzia delle scritture latine, non avendo nessun motivo di
cangiarla. (18. Ott. 1821.). {{V. p. 1967.}}
[1970,3] In tutte le congiugazioni, anzi in tutti i verbi di
tutte tre le lingue figlie della latina, la caratteristica inseparabile dal
futuro indicativo si è la r. Al contrario nelle
congiugazioni latine che noi conosciamo, nel cui futuro indicativo la r non è mai caratteristica, e non entra
1971 mai nella desinenza. Or questa qualità delle dette
tre lingue, non può attribuirsi alla corruzione particolare che ricevette la
lingua latina in Francia, Spagna,
italia, indipendentemente l'una dall'altra; ma
essendo comune, e costantissima in tutte tre, manifesta chiaramente un'origine
comune. Or questa non essendo la lingua latina scritta, non può essere altro che
l'antica volgare ugualmente diffusa e comunicata alle tre nazioni. Mi par dunque
evidente che nel latino volgare la caratteristica di tutti i futuri indicativi
fosse la r. Questa proprietà del volgare latino, mi
par che s'abbia da tenere per dimostrata. Credo verisimile che esso volgare in
luogo del futuro indicativo, usasse il futuro congiuntivo, la cui caratteristica
è sempre la r nel latino che noi conosciamo. Così p.
e. il futuro congiuntivo legero, corrisponde appuntino
all'italiano leggerò, e ne viene ad esser la fonte.
1972 Ed infatti osservo che sebbene regolarmente la
r sia del tutto esclusa dalla desinenza del futuro
indicativo nel latino scritto, nondimeno ella è caratteristica come presso noi
in parecchi verbi latini anomali o difettivi ec. il cui futuro indicativo ha
appunto la desinenza, che ha il futuro soggiuntivo negli altri verbi. Per
esempio, ero, potero ec. ec.
odero, meminero ec.
{{odierò, potrò ec.}} Ora i verbi {(o nomi)}
anomali o difettivi ec. sogliono essere i più antichi in ciascuna lingua, e
certo indizio dell'antico costume, e delle proprietà di essa, siccome d'altronde
il volgare di ciascuna lingua è il maggior conservatore delle sue antiche
proprietà.
[1983,2] A quanto ho detto p. 1678-79 del
nostro guai venuto dal latino vae, aggiungi che in parecchi luoghi d'italia
si suol dire ghel o ghelo
per ve
lo (ghel dissi, ghelo dico), o gh' per v' (gh'ho messo, per v'ho messo, cioè ho messo
quivi) ec. Così mi par che usino massimamente i Veneziani.
[1993,1] Dell'antico volgare latino V. Perticari, de' trecentisti
ec. l. 1. c. 5. p. 22 segg. c. 6. 7. 8. (26. Ott.
1821.).
[2023,1]
Alla p. 1109.
Di questi tali verbi di forma continuativa, propri delle lingue moderne,
2024 quelli che non hanno oggi alcun significato
distintamente continuativo, o che s'usano indifferentemente come i positivi da
cui derivano, o restano in luogo di questi già estinti, potranno credersi
introdotti nelle nostre lingue ne' bassi tempi, o ne' bassi tempi trasportati
dal significato continuativo al positivo o a qualunque altro, o sostituiti
interamente ai positivi loro. Quelli però (e son parecchi) che hanno nelle
stesse nostre lingue un evidente significato continuativo (esistano ancora {in esse} o non esistano i loro positivi), e tuttavia non
si trovano negli scrittori della buona latinità, difficilmente m'indurrò a
credere, che sieno di bassa epoca, e che non ci siano dirittamente pervenuti
mediante l'antico volgare latino, padre delle nostre lingue, e conservatore
ostinato delle antiche proprietà della favella. Giacchè non è verisimile
2025 che ne' bassi e corrotti tempi, si coniassero
espressamente questi verbi, secondo tutta la proprietà dell'antichissimo latino,
secondo tutte le regole della formazione e {{della}}
significazione continuativa; quando queste regole, e questa tal proprietà, da sì
lungo tempo, e nell'istesso fiore della latinità era stata dimenticata, o mal
distinta, e confusamente sentita, o del tutto ignorata {{e
violata}} dagli stessi scrittori latini e da' migliori gramatici, e
conoscitori della regolata favella, e formatori di nuove parole. (31. Ott.
1821.).
[2069,1]
Alla p. 1126.
marg. Quanto sia vero che il v è stato
sempre, per natura della pronunzia umana, almeno ne' nostri climi, o considerato
o confuso con una aspirazione, e questa lieve, si può vedere nella lingua
italiana che spesso lo ha tolto via affatto o dalle parole derivate dal latino,
o da altre. E in quelle stesse dove lo ha conservato, la pronunzia volgare
spessissimo lo sopprime, e spesso anche la scrittura, come nella parola nativo dal latino nativus,
che noi scriviamo indifferentemente natío, ed in molte
altre simili, latine o no, che o si scrivono indifferentemente in ambo i modi, o
sempre senza il v che prima avevano, come restío, che certo da prima si disse restivo, o restivus. {
Giulío per giulivo, Poliz. l. 1. Stanza 6. v. 4. Bevo, beo, bee ec. Devo
deve, deo
dee ec. V.
le gramatiche, e fra gli altri il Corticelli.
Paone, pavone ec.}
Viceversa il popolo molte volte in queste o altre
2070
voci, inserisce o aggiunge comunque, quasi per vezzo, il v, che non ci va, massimamente fra due vocali, per evitare l'iato, al modo appunto del digamma eolico, ch'io dico
esser lo stesso che l'antico v latino. Del resto come
i latini dicevano audivi e audii ec. ec. così è solenne proprietà della nostra lingua il poter
togliere il v agl'imperfetti della 2. 3. e 4.
congiugazione e dire tanto udia, leggea, vedea quanto udiva, leggeva, vedeva (cioè videbat ec. essendo il b latino un v presso noi in
tali casi, come lo era spesso fra' latini, e viceversa, e come tra gli spagnoli
queste due lettere, e ne' detti tempi e sempre si confondono.) Particolarità
analoghe a queste che ho notate nella lingua italiana, si possono anche notare
nella francese e più nella spagnola. Siccome l'analogia fra la f e il v si può notare nel
francese vedendo dal masc. vif farsi il fem. vive ec. ec. (7. Nov. 1821.).
[2079,1]
Alla p. 1154.
marg. I nostri antichi hanno anche un fremitare verbo italiano, formato però alla maniera latina da fremitus o fremitum di fremere, (che noi anticamente dicemmo pure fremire), e che si può molto verisimilmente credere di
più antica origine, benchè non si trovi negli autori latini nè nel Glossario. (12. Nov. 1821.).
[2136,1] Quello che dico degli autori dico degli stili, dei
modi, dei linguaggi, dei costumi, della conversazione. La conversazione francese
si dee tradurre nell'italiano parlato o scritto, in modo che ella non sia
francese in italiano, ma tale in italiano qual è in francese; tale il linguaggio
della conversazione in italiano, qual è in francese, e non però francese.
(21. Nov. 1821.).
[2148,1]
Contrastare, contraster, contester, contrester,
francese contrastar spagnolo sono verbi, o anzi un
verbo ignoto alla buona latinità, ma comune ab antico e fin dall'origine loro
alle tre figlie della lingua latina; e formato {{1.}}
alla latina affatto, 2. di due parole latinissime
2149
contra e stare, delle quali
l'una non esiste più nel francese ec. Questo che cosa denota se non un'origine
comune di esso verbo, anteriore alla diramazione delle tre sorelle, cioè alla
corruzione del latino, {+fatta ne' bassi
tempi,} la quale non fu che parziale e diversa e indipendente nelle
tre nazioni; {+(siccome esse nazioni
furono allora indipendenti ec. l'una dall'altra, e separate politicamente
ec.)} e un'origine latina? Or questa che altro può essere se non il
volgare antico latino? V. il Ducange in Contrastare. E di questo genere, e nelle medesime
circostanze sono infinite parole, proprie ab antico e primitivamente di tutte
tre le nostre lingue sorelle. (22. Nov. 1821.).
[2197,2]
Solitas è voce latina antica dice il
Forc. e significa solitudine. Or
eccola ancora vivissima nello spagn. soledad collo
stesso significato. V. il Gloss. se ha nulla. (30. Nov.
1821.).
[2221,2]
Non
potui abreptum etc.?
Verum anceps pugnae fuerat fortuna.
Fuisset:
Quem metui moritura? *
Didone, Aen. 4. 600. 603. seg. Fuerat qui significa espressamente sarebbe stata. {Puoi vedere p. 2321.} Fuera direbbero appunto gli spagnuoli. Quest'uso dell'indicativo preterito 2222 piucchè perfetto in luogo e in senso del piucchè perfetto dell'ottativo o soggiuntivo, è frequentissimo presso i latini massime allora quando esso va congiunto con altro più che perfetto del soggiuntivo, onde sarebbe stato bisogno il duplicar questo, come nel citato luogo, dove se in vece di fuerat poneste fuisset, raddoppiereste quel fuisset (fosse stata) che viene subito dopo. {V. anche Georg. 2. 132. 133. dove però si usa l'imperfetto indicativo {(v. p. 2348.)} V. pure Georg. 3. 563. seqq. e Oraz. l. 4. od. 6. v. 16-24. falleret per fefellisset.} Così in quell'altro di Virg. Aen. 2.:
Et si fata deum, si mens non laeva fuisset,
Impulerat ec. * {V. anche Oraz. Od. 17. l. 2. v. 28. seqq. {{e l. 3. 16. 3. seqq.}}}
Così in quel famoso perieram nisi periissem. * Cioè sarei perito, se non fossi perito. Or da tali osservazioni io deduco due cose.
Verum anceps pugnae fuerat fortuna.
Fuisset:
Quem metui moritura? *
Didone, Aen. 4. 600. 603. seg. Fuerat qui significa espressamente sarebbe stata. {Puoi vedere p. 2321.} Fuera direbbero appunto gli spagnuoli. Quest'uso dell'indicativo preterito 2222 piucchè perfetto in luogo e in senso del piucchè perfetto dell'ottativo o soggiuntivo, è frequentissimo presso i latini massime allora quando esso va congiunto con altro più che perfetto del soggiuntivo, onde sarebbe stato bisogno il duplicar questo, come nel citato luogo, dove se in vece di fuerat poneste fuisset, raddoppiereste quel fuisset (fosse stata) che viene subito dopo. {V. anche Georg. 2. 132. 133. dove però si usa l'imperfetto indicativo {(v. p. 2348.)} V. pure Georg. 3. 563. seqq. e Oraz. l. 4. od. 6. v. 16-24. falleret per fefellisset.} Così in quell'altro di Virg. Aen. 2.:
Et si fata deum, si mens non laeva fuisset,
Impulerat ec. * {V. anche Oraz. Od. 17. l. 2. v. 28. seqq. {{e l. 3. 16. 3. seqq.}}}
Così in quel famoso perieram nisi periissem. * Cioè sarei perito, se non fossi perito. Or da tali osservazioni io deduco due cose.
[2226,2]
Alla p. 2019. marg.
fine. Abbiamo pure pattuire (corrottamente
pattovire, come continovo ec.) il qual verbo non è già da pactum
i, sostant. nè da pactus part. dai quali
avremmo fatto pattare, (abbiamo anche questo infatti,
ed impattare, v. i Dizionari spagnoli) ma dal sust.
pactus us, di cui v. nel Dufresne
pactibus da Plauto
2227 nella Cistellaria (sebbene il Forcell. nè
l'Appendice non ne hanno nulla) e Pactus (non so se i, o us) di bassa latinità. E nota pertanto in questo moderno pattuire un chiaro vestigio, anzi un derivato
dell'antico pactus us, manifesto nel luogo di Plauto (però vedilo), e obbliato poi
dagli scrittori, e dagli stessi vocabolaristi. Giacchè il Forc. non la mette neppure fra
quelle de' Lessici antichi da lui scartate. (5. Nov.[Dic.] 1821.). {+Il
nostro eccettuare (v. nel Gloss.
Exceptuare) io credo che venga da un
ignoto exceptus us sostant. come captus us dal semplice capio, da cui viene excipio, onde
exceptare (Gloss.) excepter franc. ed exceptuare. (V. i Dizionari spagnoli. Così conceptus us, deceptus
us,receptus us, inceptus us, ec.}
[2236,1] Spessissimo anzi quasi sempre, dalle voci latine
comincianti per ex noi abbiamo tolto la e, e il c, e cominciatele
per s, specialmente, anzi propriamente allora quando
la ex era seguita da consonante, sicchè la nostra s
viene ad essere impura. Nel qual caso che cosa soglian fare gli spagnuoli e i
francesi, l'ho detto altrove pp. 812-14 parlando della s iniziale impura. Parrà che costoro, solendo
conservare la e, si accostino
2237 più di noi al latino, e nondimeno chi vuol vedere che l'antico
volgare latino, ed anche gli scrittori più antichi, usavano di far nè più nè
meno quel che facciamo noi, osservi il Forc. in Stinguo (e forse
anche in molti altri luoghi), verbo che anche noi anticamente dicemmo per estinguo, e così stremo per
estremo,
{+sperimento,
esperimento; sperto, esperto; spremere da
exprimere da cui pure abbiamo esprimere, sclamare da exclamare, onde pure esclamare;} e
così altre tali voci che hanno {{pur}} conservata la e, la perdono o a piacer dello scrittore, o nei nostri
antichi, o nella bocca del popolo ec. E forse l'avere gli spagnoli e i francesi
la e in tali parole, non è tanto conservazione, quanto
maggiore {e doppia} corruzione; vale a dire che,
secondo me, essi volgarmente da principio dissero come noi, cioè colla s impura iniziale, e poi per proprietà ed inclinazione
de' loro organi, che mal la soffrivano, o a cui riusciva poco dolce ec.
v'aggiunsero, non
2238 prendendola dal latino ma del
loro, la e iniziale. Infatti essa si trova sempre o
quasi sempre nelle parole che anche nel latino scritto, e dell'aureo secolo, e
per loro natura ed etimologia ec. cominciano colla s
impura, siccome pur fanno sempre in italiano. {{V. p.
2297.}}
[2243,2] In proposito di ciò che ho detto pp.
95-96
p.
511 circa la famosa scrofa apparsa ad Enea, v.
la Vita di Virgilio attribuita a
Donato, sul principio,
dove racconta il miracolo di una verga accaduto alla madre ec. Il che ha
rapporto col caso nostro, perchè dimostra le superstizioni popolari fondate
2244 sulla similitudine dei nomi, e come esse solessero
credere rappresentato o simboleggiato (relativamente ai presagi, augurii ec.) il
tal uomo, la tal cosa, dalla tal altra che le rassomigliava nel puro nome, come la troia a
Troia, e come parecchi altri esempi si troverebbero
negli antichi di augurii ec. tratti da pure combinazioni di nomi. Giacchè quella
Vita
di Virgilio di chiunque sia, e per quanto poca fede
meriti, meriterà almeno fede in quanto all'avere semplicemente raccolte le
tradizioni popolari e sciocche e mal fondate che correvano, e in quanto al
render testimonianza del modo di pensare di que' tempi, sì in questo soggetto,
come ne' soggetti analoghi. (11. Dic. 1821.).
[2244,1]
Alla p. 1563.
principio. Il nostro urtare, francese heurter (v. gli spagn. Il Gloss. non ha nulla), viene evidentemente {da
urgere} alla maniera de' continuativi,
cioè da urtus, suo participio ignoto per se stesso, ma
fatto manifesto da
2245 questo verbo comune a due
lingue figlie della latina, e dalla voce urto,
francese heurt, che non è altro che un verbale formato
dal participio in us di urgere, alla maniera di tanti altri verbali latini, come dirò altrove
p.
3557. (11. Dic. 1821.).
[2246,2]
Involare che presso noi vale solamente rubare ebbe in fatti questa significazione non presso
i latini del secolo di Augusto, ma
presso gli anteriori e i posteriori. (V.
Forcell.) Fra' quali l'autor della Vita di
Virgilio, innanzi
2247 alla metà, cioè
cap. 11. V. il Gloss. se ha nulla.
{{Voler dicono
i francesi. {+ed è notabile perchè viene ad
essere la radice d'involare in questo
senso. V. il
Gloss. anche in Volare se ha nulla.} V. i Diz.
spagn.}}
[2247,1]
Nocchiero voce nostra usuale viene da
ναυκλῆρος[ναύκληρος] mutato l'au in o e il cl in chi, come appunto da
clericus chierico, da clamare
chiamare ec. Nauclerus si trova negli
scrittori latini ma rara, non usuale; e parrebbe ch'ella fosse stata per loro un
grecismo: pure indubitatamente ella fu presso i latini volgarissima, sebben poco
usata dagli scrittori, giacchè volgarissima è in italiano fino ab antico.
V. il Forcell. e (se ha nulla) l'Append. e il Gloss.
(12. Dic. 1821.).
[2257,1]
2257 Dico altrove {(p.
1970.)} del futuro congiuntivo adoperato
probabilmente dal volgo latino in vece del dimostrativo. V. Virg.
Georg. 2. 49-52. dove exuerint non vale se non se si
spoglieranno, o cosa tanto simile, che ben si rende probabile lo
scambio di questi due futuri nel dialetto volgare romano. (16. Dic.
1821.). {{V. pure Oraz. Epod. 15. 23-4. moerebis-risero, e p. 2340. e Virg.
En. 6. 92.}}
[2258,2]
Puoi vedere il Forcell. in cilium ed osservare come anche presso gli antichi autori
latini si trovi vestigio evidente e di questa voce, e del significato che essa
{ha} nella nostra lingua. Voce e significato venuto
dal volgare latino indubitatamente. E la voce buona latina supercilium dimostra l'esistenza del semplice
2259
cilium significante qualcosa che appartenesse
all'occhio. V. pure il Gloss. e i Dizionari francesi e
spagnoli (18. Dic. 1821.).
[2264,1] Suole la lingua italiana de' nomi sostantivi retti
dalla preposizione con, servirsi in modo di avverbi,
come con verità per veramente, con gentilezza per gentilmente, {+con effetto per effettivamente, con facilità per facilmente
(Casa, let. 43. di
esortazione..} Molto più questa facoltà è adoperata
dalla lingua spagnuola (dalla quale, almeno in parte, ell'è forse derivata
nell'italiana). Tale usanza
2265 è poco o niente
familiare ai latini, anzi si può giudicar quasi barbara in quella lingua. E
nondimeno io son persuaso ch'ella fosse solenne al volgare latino. Eccovi Orazio,
3. 29. carm. v. 33. seqq.
cetera fluminis
Ritu feruntur, nunc medio alveo
cum pace * (cioè pacificamente) delabentis Etruscum
In mare: nunc lapides adesos ec. *
Il qual esempio non portato dal Forcell. credo che difficilmente troverà il simile negli scrittori latini. Nel Forcell. non trovo alla voce Cum cosa che faccia al proposito, se non forse il §. Aliquando redundare videtur. * Vedilo, e l'Append. se ha nulla, e il Glossar. e i comentatori di Orazio. {+Solamente trovo nel Forcell. in Pax alquanto sopra la fine, un esempio di Livio citato, e un altro accennato, dove si legge cum bona pace * , e potrebbe riferirsi al mio proposito, ma propriamente non vale pacificamente, ma senza far guerra, senza molestare, in pace in somma, come noi diciamo.} Osservo ancora che questo costume proprio dell'italiano e dello spagnolo è anche proprio del greco, certo assai più di questo che del latino scritto. E siccome è certo che le dette lingue {moderne} non possono averlo derivato dal greco, così è ben verisimile 2266 che l'abbiano dal volgare latino, tanto più simile al greco che non è il latino scritto (per la qual cosa anche l'ĩdole[l'indole] dello spagnolo e dell'italiano somiglia più al greco che al latino scritto). E più simile per due cagioni 1. che egli è più antico, serba meglio i caratteri della sua origine, di quel tempo cioè in cui esso insieme col greco derivò da una stessa fonte, 2. che il greco scritto, cioè quel solo che noi {ben} conosciamo, fu senza paragone più simile al greco parlato, di quello che il latino parlato allo scritto. (21. Dic. 1821.).
cetera fluminis
Ritu feruntur, nunc medio alveo
cum pace * (cioè pacificamente) delabentis Etruscum
In mare: nunc lapides adesos ec. *
Il qual esempio non portato dal Forcell. credo che difficilmente troverà il simile negli scrittori latini. Nel Forcell. non trovo alla voce Cum cosa che faccia al proposito, se non forse il §. Aliquando redundare videtur. * Vedilo, e l'Append. se ha nulla, e il Glossar. e i comentatori di Orazio. {+Solamente trovo nel Forcell. in Pax alquanto sopra la fine, un esempio di Livio citato, e un altro accennato, dove si legge cum bona pace * , e potrebbe riferirsi al mio proposito, ma propriamente non vale pacificamente, ma senza far guerra, senza molestare, in pace in somma, come noi diciamo.} Osservo ancora che questo costume proprio dell'italiano e dello spagnolo è anche proprio del greco, certo assai più di questo che del latino scritto. E siccome è certo che le dette lingue {moderne} non possono averlo derivato dal greco, così è ben verisimile 2266 che l'abbiano dal volgare latino, tanto più simile al greco che non è il latino scritto (per la qual cosa anche l'ĩdole[l'indole] dello spagnolo e dell'italiano somiglia più al greco che al latino scritto). E più simile per due cagioni 1. che egli è più antico, serba meglio i caratteri della sua origine, di quel tempo cioè in cui esso insieme col greco derivò da una stessa fonte, 2. che il greco scritto, cioè quel solo che noi {ben} conosciamo, fu senza paragone più simile al greco parlato, di quello che il latino parlato allo scritto. (21. Dic. 1821.).
[2276,1]
V. nel Forcell. in Non, principio,
nell'esempio di Quintiliano una
frase uguale al non plus ec. de' francesi.
Vedilo anche in magis e in plus se ha nulla,
2277 v. anche il Gloss.
(23. Dic. 1821.).
[2279,1] Si trova in latino obsidium per assedio, obsidiare per insidiare. (V. e consulta il Forcell.) Parrebbe pur tuttavia ch'egli dovesse valere assediare. Fatto sta che questo verbo e quel nome sono
composti. Dunque è naturale che una volta avessero i loro semplici. E quali? sidium, o sedium, e sidiare ec. Ora io credo che questi in realtà
vivessero nel volgare latino benchè morti nelle scritture, e lo deduco dallo
spagnolo sitio, e sitiar
(assedio, assediare)
mutato il d in t, scambio
consueto. Osservate anche il francese siege, il Glossar.
in Sedius il med. in Assedium, e Assediare, parole italiane e francesi
formati[formate] dalla stessa radice di obsidium, obsidiari, ma con
diversa preposizione. (23. Dic. 1821.).
[2280,1] L'italiano mescolare, il
francese mêler, anticamente mesler, lo spagnolo mezclar derivano
evidentemente da un latino misculare o misculari, il quale è tanto ben formato da miscere (da cui abbiamo pur mescere) quanto joculari da jocari, speculari da specere, {+gratulari da gratari,} ed altri molti. E questo misculari trovandosi in tre
diverse lingue figlie della latina, dovè per necessità trovarsi in quella fonte
da cui tutte tre (ciascuna indipendentemente dall'altra) derivarono, cioè nel
volgare latino. Massimamente che le dette voci sono proprissime ciascuna della
sua lingua, fino da' principii di questa. V. il Forcell. il
Glossar. ec. che non ho consultati. Aggiungete che il francese
e lo spagnolo non hanno altro verbo che risponda a miscere, onde si vede che misculare prevalse
nell'uso volgare latino come infatti prevale
2281 nel
med.[medesimo] uso volgare, il mescolare italiano al mescere. {+Similmente prevale (e
questo è veramente il più volgare), prevale dico il mischiare, e questo è in anima e in corpo il misculare, o misculari latino, cambiato per proprietà di nostra pronunzia
il cul, in chi, del
che v. p. 980. marg.
Diciamo anche meschiare, ma è meno usuale, e
l'adoprarlo non è senza qualche affettazione o d'eleganza o d'altro.
V. il Gloss.
se ha nulla, e p.
2385.}
[2283,1] Antica pronunzia e scrittura del verbo che poi
ordinariamente si disse claudere, fu cludere, conservata sempre ne' composti, recludere, includere, concludere,
excludere e in tutti o quasi tutti gli altri. V. il Forcell. e Frontone
sulla fine dei Principia
Orationum (quem iubes cludi
*
) il
qual Frontone era studiosissimo
dell'antica ortografia, e il codice che lo contiene è antichissimo. Or questa
antica maniera, e ad esclusione della più moderna, si è conservata nell'italiano
chiudere, mutato il cl
in chi al nostro solito. Dunque il volgo latino
2284 continuò sempre (certo in
italia) nell'antica pronunzia di quella voce. V. il Gloss. se ha nulla. (24. Dic. 1821.).
[2297,1]
Alla p. 2238.
I preliminari di questo pensiero si applichino a quello che segue ora, perocchè
quanto a stinguo esso non è aferesi di exstinguo, ma la radice del medesimo, e di restinguo ec: altrimenti si direbbe extinguo, e allora stinguo
sarebbe per aferesi.-
[2299,2]
Lamia era una voce (dal greco, o comune al greco) e
significava un'
2300 idea del tutto popolare nella
grecia e nel Lazio, anzi
popolare per sua natura, in qualunque popolo, e propriamente una di quelle voci
e idee che non essendo adoperate mai dagli scrittori se non per ischerzo, o per
filosofica riprensione, sono nondimeno tutto giorno in uso nella comune favella,
e in questa sordamente si conservano e si perpetuano, come fanno i pregiudizi e
le sciocchissime opinioni, e i più puerili errori della più minuta plebaglia,
{e} delle ultime femminucce; pregiudizi ec. de'
quali in particolare non s'ha notizia fuori di quella tal nazione perchè
difficilmente vengono in taglio d'esser mentovati nella scrittura, o nella
società, per poco civile che sia. E massimamente se ne perde la notizia, s'essi
sono antichi (come appunto delle voci oscene delle quali avranno abbondato le
lingue antiche, ne abbondano le moderne, nè però si conoscono da' forestieri.).
2301 Frattanto essi si conservano tradizionalmente
di padre in figlio, e si perpetuano più che qualunque altra cosa volgare, e con
essi le parole che loro appartengono specificatamente. Di tal natura è
l'antichissima e volgarissima voce Lamia, λαμία, e l'idea ch'essa significa. V. il Forcell., i Diz.
Greci, il Glossar. e il mio Saggio sugli errori popolari
degli antichi.
[2305,1]
2305 Gl'italiani, i francesi, gli spagnoli usano il
verbo sapio (sapere, saber,
savoir) nel senso di scio. Che vuol dir ciò,
se non che così adoperava quel volgare da cui e non d'altronde, tutte tre queste
lingue son derivate? V. il Forc. e il Glossar.
{{e Sapiens, Sapientia ec.}}
(29. Dic. 1821.).
[2312,2] Non so se possa fare al caso l'osservare che noi
diciamo filo per nulla, il
che potrebbe derivare non da filum, ma da hilum, mutato l'h in f, come viceversa gli spagnuoli, onde appunto per filum dicono hilo. E
ricordati di quanto ho detto p. 1127 circa l'antica proprietà
della f, cioè di essere aspirazione. Del resto v. la
Crusca, il Glossar.
i Dizionari francesi e spagnoli ec. e il Forc. in filum, se avesse nulla. (30. Dic. 1821.)
[2316,1] Circa quello che ho detto altrove p.
65 del vir frugi de' latini, che significava
uomo di garbo, e propriamente non voleva dir altro
che utile, v. il Forcellini in Nequam, che significa cattivo, e propriamente non vale che inutile. Così in Nequitia ec. (31. Dic.
1821.).
[2323,1]
Alla p. 2019. marg.
fine. Il quale exdorsuare (antico verbo) mi
pare indizio di un perduto dorsus us in vece di dorsus i, o dorsum i, dal
quale si sarebbe fatto non exdorsuare ma exdorsare, come infatti abbiamo noi sdossare (ch'è lo stesso: v. p. 2236. segg.
2297. segg. giacchè dosso è lo stesso che dorso,
ed è maniera italiana, francese ec. di pronunziar questa parola, ma derivata da
antichissima origine, perchè gli antichi latini dicevano infatti dossum i, cambiando al solito la r in s. V. il Forcell.
in Dossuarius.), indossare, addossare ec. V. il
Gloss.
il Forcell.
i Dizionari francesi e spagnoli in queste e simili voci. Il detto
antico dorsus us è anche dimostrato, al parer mio, dai
2324 derivati dorsualis
(da dorsum o dossum verrebbe
dorsalis o dossali.
Vedilo infatti con altre simili voci nel Gloss.), dossuarius, dorsuosus. {+Dorsuosus è da dorsus us
come luctuosus da luctus
us, fructuosus da fructus us, flexuosus da flexus us, sinuosus da
sinus us, aestuosus
da aestus us ec. ec., actuosus da actus us ec., portuosus da portus us
ec. tortuosus da tortus
us ec. (v. il Forcell. in
monstruosus che forse viene esso
stesso da un monstrus us.) adfectuosus da adfectus us ec. Ossuosus par che venga da os, o da ossum i, e pure a' bassi tempi,
o volgarmente si disse ossuum, ossua. V. Forcell. e Gloss.
impetuosus, tumultuosus, sumptuosus,
untuoso.} V. la p.
2226. {e 2386.}
(2. Gen. 1822.).
[2325,1]
Volgus, volpes dicevano gli antichi latini ec. ec. e
cento mila altre voci similmente, adoperando l'o in
cambio dell'u. (v. il Forc.
2326 in O, U ec.
ec.) Uso proprio del volgo, proprio dell'antichità, e perciò amato
anche recentemente da quelli che affettavano antichità di lingua, come Frontone ec. Or quest'uso appunto
eccovelo nell'italiano, solito a scambiare in o l'u latino dei buoni tempi, e restituir queste voci
nella primitiva loro forma ch'ebbero fra gli antichi latini, e nelle vecchie
scritture. È noto che tal costume è più proprio dell'italiano che dello
spagnuolo, e più assai che del francese. ec. ec. (4. Gen.
1822.)
[2267,1] La considerazione dei dittonghi (fra' quali il qua que ec. non fu mai contato) mostra essa sola che i
latini avevano realmente nella natura della loro pronunzia, massime anticamente,
la proprietà di esprimere il suono delle vocali doppie in un solo tempo, cioè
come una sola sillaba. Giacchè senza dubbio ai
(antico) ae
oe ec. si pronunziarono da principio sciolti, ma come
una sola sillaba, dal che poi nacque, che si cominciassero a pronunziar legati,
come accadde in grecia. {+Che l'antico dittongo ai si pronunziasse
sciolto, e per conseguenza i dittonghi latini si pronunziassero così, ma
che al tempo di Virgilio già si
pronunziassero chiusi, osserva En. 3. 354. dove Virgilio avendo bisogno di una voce
trisillaba, dice Aulai per aulae: e v.
pure En. 6. 747. e p. 2367.} (L'italiano ha molti
dittonghi e tutti si pronunziano sciolti: ma il volgo bene spesso li riduce ad
una sola vocale, come in latino, dicendo p. es. celo
p. cielo, sono per suono. {+Questo
è anche costume de' poeti, e di altri ancora fra gli antichi. V. la p.
seg.} ec. ec.) Sottoposta poi a regola la quantità delle sillabe,
quelle vocali doppie che nell'uso eran divenute una sola (cioè ae ec.), si
2268
considerarono come formanti una sola sillaba, quelle che benchè in un sol tempo,
tuttavia si pronunziavano tutte due (o fossero più di due) distintamente (come
accade anche nell'italiano dove neppure il volgo, se non forse in qualche parte,
dice pensero ec. e pure pensiero è per tutti 3sillabo[trisillabo]: gli antichi poeti, 500isti[cinquecentisti] ec. scrivevano anche volentieri pensero ec. v. le rime del Casa
{e il Petr. di Marsand}), si considerarono come altrettante
sillabe quante vocali erano ec. (21. Dic. 1821.). {+V.
la Regia Parnassi in Aaron, e il Forcell.
ibid.}
[2330,1]
Alla p. 1153.
Tali versi de' comici, giambici, ec. erano quasi ritmici, cioè regolati e
misurati piuttosto sul numero delle sillabe, e la disposizione degli accenti,
(poco anche osservata) che sul valore e quantità di ciascuna sillaba. Dunque
vuol dire che secondo il ritmo, tali vocali doppie si dovevano pronunziare
piuttosto come monosillabe che dissillabe
2331 ec.
Dunque pel volgo, anzi nella pronunzia quotidiana esse erano monosillabe, e non
altrimenti, fino agli ultimi tempi della lingua latina (giacchè questo medesimo
costume si può molto più notare ne' versi espressamente ritmici de' bassi tempi)
ec. ec. (5. Gen. 1822.).
[2346,1] Dell'uso invalso fra i latini fino da antichissimi
tempi di contrarre i participii passati di moltissimi verbi, tanto che questi
participii nella buona latinità non si trovano più se non contratti, come lectus, e non mai legitus
ec., e non solo nella buona, ma in qualunque o anteriore o posteriore latinità,
non si trovano più i veri e regolari participii, ma solo i loro vestigii ne
scopre l'erudito; v. p. 1153. capoverso
ult. ec..
[2355,2] Noi diciamo leccare, i
francesi lécher, (gli spagnuoli vedilo), i greci
λείχειν, i latini nulla di simile. A primissima giunta è manifesto che il greco
λείχω, cioè lecho, o licho è
tuttuno col nostro lecco, che anche, volgarmente, si
dice licco. E notate pure che il francese non dice léquer o lecquer, ma lécher, conservando il χ greco. Queste parole sono
antichissimamente e primitivamente proprie delle nostre lingue. Sono
volgarissime, anzi plebee; nè s'usa altra voce nel linguaggio familiare per
dinotare la stessa azione.
2356 Antichissima e
proprissima della lingua greca è la voce λείχω. Come dunque questa conformità
fra l'antichissimo greco, e il modernissimo, vivente, ed usualissimo italiano,
francese ec? Non è egli evidente che leccare, lécher ec. ci viene dal volgare latino? E da qual
altra fonte che da un volgare ci può esser venuta una parola sì volgare, e
propria del nostro più familiare discorso? E qual altro volgare che il latino
può ed avere avuta questa parola greca, usandola volgarmente, ed averla
comunicata a queste due lingue moderne, nate l'una separatamente dall'altra? Ma
come potè nel volgare latino divenire sì familiare, e conservarsi poi sino
all'ultimo, un'[un] antichissimo verbo greco?
Certo il volgo latino non istudiava il greco, e più grecizzanti erano i nobili
che la plebe. È dunque manifesto che tal verbo deriva niente meno che da quella
primitiva sorgente da cui vennero il greco e il latino (volgari tutti due quando
nacquero, come son tutte le lingue); e che perduto poi, o escluso dalle polite
scritture, e dal linguaggio nobile, come tante altre,
2357 (e come accade appunto nell'italiano che
parecchie voci volgari benchè derivate dalla purissima latinità, cioè dalla
nostra madre, si escludono dalle polite scritture o discorsi, perchè appunto
fatte troppo familiari dall'uso quotidiano della plebe, ec. e si antepongono
altre d'origine o di forma corrottissima) si conservò perpetuamente nel
popolare. Ed appunto qui possiamo osservare un esempio di ciò che ho detto nella
parentesi, poichè lingo
(v. il Forcell.) non è che corruzione
di λείχω, o lecho, o licho;
pur quello fu adottato nelle scritture, questo escluso, benchè certo esistesse
nella lingua latina, come abbiamo veduto. V.
il Ducange in Lecator, e nota anche Licator sì quivi
in un esempio, come al suo luogo. (23. Gen. 1822.).
[2357,1] Ho detto altrove p. 2279 che lo
spagnuolo sitiar per assediare forse viene da un sidiari, o sidiare semplice di obsidiari ec. Aggiungo, se quivi non l'ho già detto, che parimente sitio per assedio non sembra
esser altro che sidio sidionis, cioè obsidio tolta la preposizione ob la quale infatti non è che aggiunta ad una parola semplice, che non
può essere se non
2358
sidio. E siccome il semplice è più antico del
composto, così veniamo ad avere nello spagnolo (certo non per altro mezzo che
del volgare latino) una parola più antica di obsidio,
ignota alle scritture latine, che non riconoscono se non quest'ultima, e per
conseguenza non potuta conservarsi se non nel volgare {fino} ab antichissimo. (24. Gen. 1822.). {{V. il Gloss. se ha
nulla.}}
[2360,1]
Extremus, formaque ante omnes pulcher Julus,
Sidonio est invectus equo: quem candida Dido
2361 Esse sui dederat monumentum et pignus amoris. *
En. 5. 570.-2. Assolutamente per invehitur, locuzione simile al nostro volgare: è posto, è assiso; è portato da un cavallo Sidonio ec. Perocchè il nostro presente passivo è formato del verbo essere e del participio passato. Non così in latino. E tuttavia in questo luogo est invectus, non è preterito, ma presente. Ed in uno scrittore così elegante come Virgilio. {{v. i Comentatori. Del resto v. il contesto di Virgilio, e troverai che non può essere se non presente, quali sono prima e dopo, gli altri verbi da lui adoperati; portat, ducit, fertur, ec. (26. Gen. 1822.).}}
Sidonio est invectus equo: quem candida Dido
2361 Esse sui dederat monumentum et pignus amoris. *
En. 5. 570.-2. Assolutamente per invehitur, locuzione simile al nostro volgare: è posto, è assiso; è portato da un cavallo Sidonio ec. Perocchè il nostro presente passivo è formato del verbo essere e del participio passato. Non così in latino. E tuttavia in questo luogo est invectus, non è preterito, ma presente. Ed in uno scrittore così elegante come Virgilio. {{v. i Comentatori. Del resto v. il contesto di Virgilio, e troverai che non può essere se non presente, quali sono prima e dopo, gli altri verbi da lui adoperati; portat, ducit, fertur, ec. (26. Gen. 1822.).}}
[2364,1] È proprio della nostra lingua, della francese della
spagnuola il far servire la preposizione senza col suo
caso, come per aggettivo, p. e. dicendo luogo senz'acqua,
vento senza umidità, casa senza luce ec. cioè priva di ec.
2365 Ciò non è frequente in
latino e può parere un barbarismo. Pur vedilo in Virg.
En. 6. 580. nel Forc. in sine, 1. esempio, nel detto di Caligola presso Svetonio, arena sine
calce
*
ec. Così noi ci serviamo d'altre
preposizioni allo stesso modo; uso non molto proprio del buono latino, ma di cui
pur si troverebbero molti altri esempi. Ce ne serviamo pure a modo di avverbi,
come ho detto p. 2264. segg.
(28. Gen. 1822.).
[2368,1]
Tristis per cattivo
all'italiana, mi par di trovarlo nell'En. 2. 548. V. gl'interpr. il Forcell. il Gloss. ec. (29. Gen. 1822.).
[2369,1] Noi diciamo fare una cosa di
buona gana, cioè alacriter. Presso gli
spagnuoli gana vale alacritas. Gli scrittori latini non hanno parola da cui questa si
possa derivare. E pure dove credete che rimonti la sua origine? Alle primissime
sorgenti delle due lingue sorelle latina e greca. Γάνος in greco vuol dire lętitia, gaudium, voluptas. V. il
Lessico co' suoi derivati. Come dunque questa voce nostra e
spagnuola, volgarissima in ambo le lingue, anzi plebea, nè degna della scrittura
sostenuta, può esser mai derivata dal greco? quando ne' tempi barbari in cui
nacquero tali lingue,
2370 appena si sapeva in
italia o in Ispagna che vi
fosse al mondo una lingua greca? come può esser venuta questa voce se non dal
volgare latino, e per mezzo di esso?
[2374,1]
Alla p. 2328.
fine. (Così l'Alamanni, Coltivaz. lib. 6. v. 416-7. O se l'ingorde folaghe intra loro Sopra il secco
sentier
vagando stanno.
*
). Ed è ben
ragione perocchè il verbo essere è di sua natura in
tutte le lingue applicabile a qualsivoglia
2375 cosa,
qualità, azione ec. Ora il verbo stare è
sostanzialmente {e originariamente} continuativo di essere (in latino in italiano in ispagnuolo), e
partecipa della di lui natura, e viene al caso ogni volta che s'ha da
significare continuazione o durata di qualunque cosa è. Osservate i latini, osservate Virgilio e vedrete che laddove essi congiungono il verbo stare co' nomi addiettivi, o co' participii d'altri
verbi, esso verbo non tanto significa stare in piedi,
ec. quanto continuazione o durata di ciò ch'è significato da' detti nomi o
participii. Talia perstabat memorans
*
(En. 2. 650.), Stabant orantes
*
ec.
(En. 6. 313.) Mi ricordo anche di altri di altri
luoghi di Virgilio dove ciò ch'io dico è
anche più manifesto, e l'uso del verbo stare si
rassomiglia più decisamente a quello che noi e gli spagnuoli ne facciamo co'
gerundii. V. gl'interpr. e il Forcell.
(31. Gen. 1822.).
[2376,1] È costume massimamente italiano di elidere e
togliere il c dalle parole latine, specialmente e p.
esempio avanti il t. Ora anche gli antichi ed ottimi
scrittori e monumenti usano spesse volte lo stesso in molte parole, dicendo p.
e. artus per arctus (dove il
c è radicale, perchè arctus fu da principio arcitus participio di
arcere), ec. {V. p. 1144. se vuoi.} (nel Virg. dell'Heyne trovi sempre artus,
mai arctus) autor per auctor, autoritas ec. V. il
Cellar. il Forcell.
l'ortograf. del Manuzio ec. E nelle antiche
iscrizioni medaglie ec. si troveranno infiniti esempi di ciò, come dire Atium, o Atius, o Atia, per Actium ec. ec. Il
qual costume o sia buono o cattivo in riga di
2377
latinità, e di retta ortografia (che certo in molti casi sarà cattivo, perocchè
detto modo di scrivere è incostante ma frequentissimo nelle dette iscrizioni
medaglie, ne' codd. più antichi ec.), serve sempre a dimostrare che quel costume
che il volgo italiano ha poi adottato, e comunicato finalmente per regola alle
ottime scritture (che ne' primi secoli della nostra lingua adoperarono in questo
e simili casi assai frequentemente l'ortografia latina), fu antichissimo nella
pronunzia del volgo o non volgo, giacchè poteva cagionare ordinariamente tali
vizi di scrittura negli amanuensi, lapidarii ec. La qual considerazione si dee
generalizzare e riferire a tutti quei casi (che son molti) ne' quali (o spettino
all'ortografia o ad altro) gli antichi monumenti codici ec. si trovano ordinariamente, e con decisa
frequenza imbrattati d'errori che si accostano o s'agguagliano alla
pronunzia o al costume qualunque sia della lingua italiana, o delle sue sorelle
ec. (1. Feb. 1822.).
[2386,1]
Alla p. 2324. sul
principio. V. pure il Forcell. in
montuosus il quale inclino a credere che
possa dinotare un vecchio ed antiquato, o popolare e corrotto dal volgo montus us. V. il
Gloss. se ha nulla. (3.
Feb. 1822.).
[2391,3]
Cogliere (che anche si dice corre) e coger non sono altro che colligere; scegliere (anche
scerre) ed escoger
dimostrano un excolligere latino detto volgarmente a
preferenza e in vece di eligere 1. perchè la
preposizione ex della quale sono composti questi due
verbi moderni non significa niente in queste due lingue (oltre ch'ella è qui
sfigurata in modo che anche
2392 significando per se,
non significherebbe nulla in questi casi, non essendo più lei) bensì in latino.
2. perchè questi due verbi sono tanto simili che dimostrano l'unità
dell'origine, e tanto diversi fra loro che danno ad intendere di non esser
derivato nessuno di essi due dall'altro. (22. Feb. 1822.).
[2465,1] I greci ϑεῖος, gli spagnuoli Tio, gl'italiani zio, esprimendo questi col
Z, quelli col T, il suono dels saspirato che nè gli uni nè gli altri hanno.
Donde questa parola così necessaria e usuale {e
volgare} in tutti i linguaggi, e usualissima e volgarissima nello
spagnuolo e nell'italiano; donde, dico, e per qual mezzo può esser passata dal
greco a questi volgari moderni, se non per mezzo del volgare latino, non
trovandosi nel latino scritto? L'avranno forse presa gli spagnuoli e gl'italiani
dal greco moderno, o da quello de' bassi tempi (non si saprebbe con qual mezzo),
e avrebbe potuto divenir usuale e volgarissima e scacciar la parola antica,
2466 una parola forestiera {significante una cosa} che tuttogiorno s'era nominata e si nomina? E
siccome si potrebbe dubitare che alcune o tutte queste parole ch'io dimostro
uniformi nel greco e ne' nostri volgari, ci fossero derivate per mezzo del
francese ne' bassi tempi, e il francese l'avesse avute dalle colonie greche
state anticamente in francia ec. del che ho discorso
altrove pp. 1039-43
notate che questo ϑεῖος si trova in tutti i volgari derivati dal latino, fuorchè
appunto nel francese che da avunculus dice oncle. Oltre che la qualità della cosa significata da
questa voce, non permetterebbe, come ho detto, ch'ella fosse passata così tardi,
e potuta stabilirsi ne' nostri volgari in luogo dell'antica denominazione; se
questa, cioè, non fosse antica e antichissima. Vedi però il Forcell.
il Gloss. Diz. franc. ec. (8. Giugno 1822.). {{V. anche calare a cui la
Crusca pone per greco χαλᾶν. (9. Giugno
1822.).}}
[2474,1] Diciamo tuttogiorno in volgare: venir voglia a uno d'una cosa, venirgli pensiero, talento, desiderio,
ec. ec. V. la
Crusca e i Diz. francesi e spagnuoli. Or chi ardirebbe di dir questo in latino? Chi non
lo stimerebbe un barbaro italianismo o volgarismo? Or ecco appunto una tal frase
parola per parola nel poema più perfetto del più
2475
perfetto ed elegante poeta latino, e in un luogo che dovea necessariamente esser
de' più nobili, cioè nel principio e invocazione delle Georgiche: (l. 1. v. 37.)
Nec tibi regnandi veniat tam
dira cupido, Nè ti venga sì brutta voglia di
regnare
*
cioè nell'inferno. V. il Forcell. e il Gloss. se hanno
niente al proposito. (14. Giugno. 1822.).
[2497,1] L'antichissima e propria significazione del verbo
pareo, in luogo di cui vennero poi in uso i suoi
composti adpareo, {compareo ec.} s'è conservata in uso
familiarissimo e frequentissimo presso gl'italiani e gli spagnuoli (parere, parecer, si pare ec.) Per qual mezzo, se non del volgare antico
latino? V. il Forc. e il Gloss. Così i
francesi paroître, o paraître ec. (25. Giugno. 1822.).
[2556,1]
2556 Il grand'uso che gl'italiani (forse anche gli
spagnuoli e i francesi) fanno della preposizione compositiva di o dis nel senso negativo
(come disamore, disfavorire;
e per apocope in questo e mill'altri casi, sfavorire;
disutile, e mill'altre da formarsi anche a
piacere: v. la Crusca), essendo molto poco e scarso nel latino
scritto (come in dispar
dissimilis
discalceatus dove il dis
nega: v. il
Forcell. in di), e d'altra parte
non significando niente in italiano, in francese in ispagnuolo la detta
preposizione per se (la quale sembra venire dal greco δύς usata come in
δυσέρως[δύσερως], δυσωπία, δυστυχής), par
che dimostri d'essere stato molto più comune nel latino volgare di quello che
nello scritto, e d'aver tenuto il luogo di vera particella negativa, così
frequente e manuale nella composizione come la greca α
privativa, e come lo è la detta particella presso di noi ad arbitrio del
parlatore o scrittore che ha bisogno d'un
2557
qualunque composto che dica il contrario di quel che dice la tale o tal altra
radice italiana. Del resto il dis latino nelle parole
dissimilis, dispar,
secondo me, ha più tosto una tal qual forza disgiuntiva, che veramente negativa.
E in discalceatus, {discingo ec.} io credo che propriamente
abbia piuttosto la forza del greco ἀπό in composizione (come qui appunto
ἀποζωννύω discingo), e del latino ex pure in composizione, (come appunto excalceatus ch'è lo stesso), di quello che la vera forza privativa del
greco α che tiene presso di noi, sebbene discalceatus
ec. passò poi a significar privativamente senza
scarpe. E forse in questa maniera, cioè dalla forza di ἀπὸ, e di ex composti, passò la particola dis presso di noi, al significato assoluto di privazione o negazione.
{{Ma vedendosi p. e. dalla voce discalceatus (e v. il Forcell.
2558 in Dis...) che questo passaggio l'avea fatto la detta preposizione
anche fra gli antichi latini, si dimostra quel ch'io dissi da principio,
cioè che il suo uso negativo o privativo, così frequente e familiare come
nel latino scritto non si trova, ci dev'esser venuto dal latino volgare.
(9. Luglio 1822.).}}
{{V. p. 2577.}}
[2565,1]
2565 Noi abbiamo oscuro da
obscurus, e scuro. Obscurus è certo un composto, come dimostra la
preposizione ob. Tolta la quale resta scurus. Che questa voce esistesse una volta, non si
può dubitare, dovendo esistere il semplice prima del composto. V. il Forcell. Obscurus,
principio. Ma questa voce ignota presso i latini, si conserva
nell'italiano. E questa medesima è una prova ch'esistesse, come viceversa le
cose dette sono una prova che la nostra voce sia antica, e venutaci col volgare
latino. Osservate se credeste che scuro fosse fatto
per apocope volgare da oscuro, che l'apocope dell'o iniziale, per quello che mi pare, non è punto in uso
nel nostro popolo. (12. Luglio 1822.).
[2587,1] È frequentissimo e amplissimo nell'Italiano e nello
Spagnuolo l'uso della voce termine
{nel suo plurale massimamente, la} quale piglia diversi
significati, secondo ch'ell'è applicata. {+(Questi per lo più importano condizione, stato, essere sustantivo o cosa simile.)}
V. la Crus. Non così nel latino scritto, dov'essa voce non ha che la
forza di confine o limite ec. Pur vedi
presso il Forcell. nell'ultimo esempio di questa voce, ch'è di Plauto, una frase tutta italiana e
spagnuola, la qual può dimostrare che detta voce nel volgare latino avesse o
tutti o in parte quegli usi appunto ch'ell'ha nelle dette lingue. V. du Cange, s'ha nulla.
V. anche l'Alberti
Diz. franc.
Terme in fine. (29. Luglio.
1822.).
[2588,2] Da coquere diciamo cocere (che per più gentilezza e per proprietà
italiana si scrive cuocere) mutato il qu radicale, in c parimente
radicale. Che questa lettera fosse radicale anche ab antico si può raccogliere
dalla voce praecox (cioè praecocs) praecocis, la quale (spogliata
della prep. {prae}) forse contiene la radice di coquere. E molte altre pronunzie volgari di voci
derivate dal latino, si potrebbono forse dimostrare antichissime con simili
osservazioni delle loro radici (o già note, o scopribili), delle voci loro
affini ec. (30. Luglio. 1822.). {{V. Forcellini
Coquo, Praecox
ec. e il
Glossario.}}
[2592,1]
2592 Intorno all'etimologia di favellare. L'altre due voci sono
favellare
e
cicalare: l'una si è dir
favole; e
cicalare
si è il cigolare degli uccelli.
*
Cellini
Discorso sopra la differenza nata tra gli Scultori e Pittori
circa il luogo destro stato dato alla Pittura nelle Essequie del
gran Michelagnolo Bonarroti. fine. Opere di
Benvenuto Cellini,
Mil. 1806-11. vol. 3. p. 261. Parla di tre voci che s'usano in lingua toscana per esprimere
il parlare, e la prima detta dal Cellini si è ragionare, il
che egli dice che vuol fare, e non favellare nè cicalare. (2. Agosto, dì del perdono.
1822.).
[2608,2]
Sallustio, Catil. c. 23. Maria montesque
polliceri.
*
Non si trova, ch'io sappia, questo
proverbio, oggi volgarissimo in italia, se non in questo
scrittore studiosissimo delle voci e maniere antiche, e {che} per conseguenza bene spesso declina alle voci e maniere
popolari, come sempre accade agli scrittori studiosi dell'antichità della
lingua, della quale antichità principal conservatrice è la plebe. (17.
Agosto. 1822.).
[2627,1]
Pausa, posa, posare (per riposare), riposo, riposare (reposare) e simili vengono indubitatamente
2628 da παύω-παύσω-παῦσις ec. (28. Sett.
1822.)
[2629,2] A ciò che ho detto altrove delle voci ermo, eremo, romito, hermite, hermitage, hermita ec.
tutte fatte dal greco ἔρημος, aggiungi lo spagnuolo ermo, ed ermar (con ermador ec.) che significa desolare,
vastare, appunto come il greco ἐρημόω. (3. Ottobre. 1822.).
{+Queste voci e simili
sono tutte poetiche per l'infinità o vastità dell'idea ec. ec. Così la
deserta notte, e tali immagini di solitudine, silenzio
ec.}
[2642,1]
Mania, smania, smaniare
{e lo spagnuolo mania, e il
francese manie, maniaque ec.} dal greco
μανία, μαίνομαι ec. {cioè}
furor, furere ec. furore
frenesia ec. (22. Ottobre. 1822.).
[2643,2]
Cara spagnuolo cioè faccia,
e così cera, e chère nello
stesso senso, vengono dal greco. V. Perticari
Apol. di Dante Part. 2. c.
5. not. 1. pag. 75. (28. Ott. 1822.)
[2649,1]
2649 Sopra i dialetti della lingua latina. Estratto da
un articolo: Del Dialetto Veneto: Lettera di un Viaggiatore
oltramontano (inglese), che sta nelle Effemeridi letterarie di Roma t. 2. p.
58-70. (Genn. 1821.) "L'antica lingua di
questi popoli (Veneti) traspariva nel loro Latino, come è agevole di
riconoscere dalle inscrizioni raccolte dal Maffei (1.): ed è probabile che gli
originarj dialetti delle diverse nazioni che si stabilirono in
Italia, sieno una rimota cagione della
varietà de' linguaggi che vi si parlano presentemente. {#(1) Le lapidarie inscrizioni Latine
ritrovate nelle città subalpine d'Italia ci
fanno spesso consocere di quale provincial ne fossero gli autori.
Così la lettera W che è uno de' segni più caratteristici
dell'alfabeto oltramontano, si trova in quelle che appartengono alle
Colonie Galliche."}
*
p. 58.
[2653,1]
2653 Da rullus cioè circulator, roule, rouler etc. (8. {Dic.}
1822. dì della Concezione di Maria SS.a)
[2654,1]
Codicis
*
(Vatic.
Cic.
de Repub.) orthographia miris laborat varietatibus et inconstantia. Est enim id
fatum latinae scripturae {ac} pronunciationis,
quod grammaticorum tot pugnantia praecepta infinitaeque quaestiones
demonstrant. Hinc merito Cassiodorius (1): (1. Inst. praef.) orthographia apud Graecos
plerumque sine ambiguitate probatur expressa; inter Latinos
vero sub ardua difficultate relicta monstratur; unde etiam
modo studium magnum lectoris inquirit.
*
Exempli gratia, labdacismus
*
(for. lambdacismus, sed in emendd.
nihil) proprius Afrorum fuit; sicut colloquium pro conloquium, teste Isidoro (2) (2. Orig. I. 32.) Quid porro? nonne
ipsa latinitas, uti observabat Hieronymus (3), (3. Prol. lib. II. comm. ad
Gal.)
*
(scil. ad ep. S. Paul. ad
Galat.) et regionibus quotidie mutabatur et
tempore? postea praesertim quam tanta barbarorum peregrinitas in
imperium rom. infusa est, lingua autem
generis quarti esse coepit, quod Isidorus(4)(4. Orig. IX. 1.) mixtum
appellat.
*
Maius.
M. Tulli Cic.
de Re pub. quae supersunt
2655 edente Ang. Maio Vaticanae Bibliothecae praefecto.
Romae in Collegio Urbano apud Burliaeum 1822.
Praefat. cap. 13. p. XXXVII.
(Roma. 16. Dic. 1822.).
[2657,1]
Quoties g est ante n, toties
memini me videre in antiquis codd. si quando vocabulum
divideretur
*
(nel fine o della riga o della pag.), litteram g adhaerere priori
vocabuli parti, n autem posteriori. Ergone
Hispani Angli et Germani melius quam Itali pronunciare haec verba
videntur?
*
Maius
ad Cic. de re publ. II. 19. p. 165. v.
7. (dove la pagina del cod. finisce in mag,
e la seguente comincia in na; cioè magna) not. b (20. Dic. 1822.). {+Bisogna però vedere in che paese sieno stati scritti
questi codd. come p. e. in ispagna.}
{{V. p. 3762.}}
[2658,1]
2658
Nella repubbl. di Cic.
succitata, al c. 37. del lib. 2. p. 203. v. 1.-2. dove l'edizione ha
res publica richiedendosi in fatti il nominativo,
il Cod. ha republica, quasi fosse italiano. Dal che
apparisce che anche anticamente s'usava di tralasciare l's finale nel pronunziare le voci latine, come si lascia nelle nostre
lingue. (21. Dic. 1822.). {+Infatti è nota l'apocope della s nella fine delle voci presso gli antichi poeti latt. V. la
p. 2656,
marg.}
[2662,1] Circa la mia opinione pp. 95-96
p. 511
pp. 2243-44 che troia nell'antico latino
volesse dire come in italiano scrofa, vedi nel Forcellini
troianus aggiunto di porcus, e che cosa ne dica.
(Roma 28. Dicembre 1822.).
[2663,5] Anticamente i latini dicevano maxilla
axilla
*
etc. (Cic.
Orator, n. 155.) indi fecero mala, ala ec. Or noi conserviamo l'antico: mascella, ascella, tassello. Dicevano anche siet per sit
(v. ib.
num. 159); or
2664 quello e non questo si
dovette {sempre} conservare nell'uso del popolo, come
apparisce da sia, soit, sea. (10. Gen. 1823.). {{Notisi il nostro uso simile, di
aggiungere un'e alle vocali accentate: virtue, fue
ec.}}
[2674,1]
2674 ῎Εμβραχυ per insomma,
denique ec. come noi diciamo appunto in breve. Platone, Gorgia, ed. principe Ald. t.. p. 457. A. (19. Feb.
1823.).
[2676,2]
Gli scrittori greci più
eleganti ed attici e antichi sogliono usare la voce ϕησί per ϕασί nel
significato di aiunt, è fama, on dit, il
singolare invece del plurale {+(forma ellittica per ϕησί τις uom dice, altri
dice).} Così noi volgarmente tutto giorno, e non solo
noi nel parlare, ma eziandio gli scrittori nostri, massime del trecento,
usiamo dice per dicono, altri dice, l'uom dice, un dice
(on dit).
*
Passavanti edizione
Venez. del Bortoli p. 251. E così
dice
che fa il Leone.
*
Mi ricordo di aver
trovato questa frase anche in altri trecentisti, e mi par senza fallo nelle
Vite de[de']
Santi Padri. Quest'uso che noi abbiamo comune cogli
antichissimi e più eleganti e puri scrittori greci, per qual mezzo ci può esser
venuto se non per quello dell'antico
2677 volgar
latino? Sempre ch'io trovo qualche conformità frappante fra il greco e l'italiano (massime l'italiano
volgare, popolare, corrente e parlato) {e così il francese e
lo spagnuolo,} conformità che non appartenga alla natura generale
delle favelle, ma alle proprietà arbitrarie ed accidentali delle lingue, se
quella tal qualità o parte ec. sopra cui cade questa conformità, non si trova
negli scrittori latini, io tengo per fermo ch'ella si trovasse nel latino
parlato, cioè nel volgar latino. Giacchè questo ebbe commercio col volgar greco,
e quel ch'è più, venne da una medesima fonte col greco; e da esso volgar latino
è venuto il nostro volgare. Ma qual commercio ebbe mai il nostro volgare col
volgar greco, cioè col greco parlato, e massime coll'antico? qual commercio poi
col greco scritto, e questo pure antichissimo? Quanto al nostro caso, io non
credo che negli scrittori latini si trovi p. e. ait in
vece di aiunt. Ma veggasi il Forcellini.
(Roma 2. Marzo 1823.)
{{V. p.
2987.}}
[2685,1] ᾽Oλίγου δέω τοῦτο ποιεῖν ἢ παϑεῖν∙ ὀλίγου δεῖν καὶ
ἀπόλωλα∙ ὀλίγου δεῖ τοῦτο γενέσϑαι∙ πολλοῦ γε καὶ δεῖ∙ πολλοῦ ἢ μικροῦ ἐδέησεν ἢ
ἐδέησα∙ μικροῦ δεῖν ec. Peu s'en faut: beaucoup s'en faut: peu s'en fallut ec.
{poco mancò che ec.}
{+di poco fallò, per
poco, per poco non, ec. V. p.
3817.}
(1. Aprile. 1823.).
[2688,1]
2688 Il Perticari nell'Apolog. di Dante p.
207. not. 19. trovando in un'antica canzone provenzale il verbo arsare dice che questa è la radice della voce arso, la quale finora è sembrato vocabolo senza
radice, giacchè dal verbo ardere dovrebbe derivare arduto e non arso.
S'inganna: ed anzi il verbo arsare deriva da arso di ardere che n'è la
radice. I participii de' nostri verbi sono per lo più i participii latini,
quando il verbo è latino. Se in questi participii è qualche anomalia, la ragione
e l'origine della medã[medesima],
non si deve cercare nell'italiano nè nel provenzale, ma nel latino, sia che
quest'anomalia esista anche nel latino, sia che quel participio (e così dico
delle altre voci) ch'è anomalo per noi, non lo sia per li latini. Giacchè l'uso
italiano, massime nel particolare dei participii, ha seguito ordinariamente
l'uso latino senza guardare se questo corrispondesse o no alle regole o
all'analogia della nuova lingua che si veniva formando. E moltissime
irregolarità della nostra lingua e delle sue sorelle vengono dalla sua cieca
conformità colla lingua madre. Da sospendere, prendere, accendere,
2689
discendere ec. secondo l'analogia della nostra lingua,
verrebbe sospenduto, prenduto, accenduto, discenduto, difenduto ec. Ma i latini
dicevano suspensus, prensus,
defensus ec. Dunque anche gl'italiani sospeso, preso, acceso, disceso, difeso ec. Nè la radice p. e. di preso è il prensare (che anzi viene da prensus) ma il prehendere o
prendere de' latini. Al contrario i latini da vendere facevano venditus;
qui la nostra lingua segue la sua analogia e dice venduto da venditus, {#1. Puoi vedere la p.
3075.} non veso, perchè il
latino non dice vensus. Credo anch'io che gli antichi
latini dicessero suspenditus, prenditus, accenditus ec. ma se poi dissero
diversamente, l'anomalia di preso, acceso ec. non è d'origine italiana nè provenzale, ma
latina. Così da ardere noi dovremmo fare arduto. Ma sia che i primi latini dicessero arditus da ardeo, come
dissero ardui per arsi,
{sia che nol dicessero mai,} certo è che poi e
comunemente dissero arsi, arsurus, arsus, supino arsum. Noi dunque non diciamo arduto ma arso, e diciamo arso
2690 perchè così dissero i latini, e l'origine di
quest'anomalia si cerchi nel latino dov'ella pur fu e donde ella venne, non
nell'italiano o nel provenzale o nella lingua romana o romanza; quando è chiaro
ch'ell'è tanto più antica di tutte queste lingue. Similmente da audeo dovevasi fare audĭtus.
Ma i latini a noi noti fecero ausus. Anomalia della
stessa natura e condizione di arsus da ardeo, 2a congiugazione come audeo. Quest'ausus è il nostro oso nome: da questo nome oso
viene osare, che i provenzali dissero o almeno
scrissero anche ausar
(Perticari l. c. p. 210. lin. 7.): ed
infatti osare non è che un continuativo barbaro d'audere ch'è la sua radice prima, e l'immediata è ausus. Ma il Perticari viceversa direbbe che oso ed ausus viene da osare e da
ausare, giacchè dice che arso viene da arsare. Quasi che, anche
secondo l'analogia della nostra lingua, da arsare si
potesse far arso: e non piuttosto arsato, ch'è il
2691 suo vero participio, e
ben differente da arso ch'è participio d'un altro
verbo.
[2700,1] La cagione per cui negli antichissimi scrittori
latini si trova maggiore conformità e di voci e di modi colla lingua italiana,
che non se ne trova negli scrittori latini dell'aureo secolo, e tanto maggiore
quanto sono più antichi, si è che i primi scrittori di una lingua, mentre non
v'è ancora lingua illustre, o non è abbastanza formata, divisa dalla plebea,
fatta propria della scrittura, usano un più gran numero di voci, frasi, forme
plebee, idiotismi ec. che non fanno gli scrittori seguenti; sono in somma più
vicini al plebeo da cui le lingue scritte per necessità incominciano, e da cui
si vanno dividendo solamente appoco appoco, usano una più gran parte della
lingua plebea ch'è la sola ch'esista allora nella nazione, o che
2701 non è abbastanza distinta dalla lingua nobile e
cortigiana ec. sì perchè quella lingua che si parla (com'è la cortigiana) tien sempre più o meno della plebea; sì
perchè allora i cortigiani ec. non hanno l'esempio e la coltura derivante dalle
Lettere nazionali e dalla lingua nazionale scritta, per parlare molto
diversamente dalla plebe. Ora l'unica lingua che possano seguire e prendere in
mano i primi scrittori di una lingua, si è la parlata, giacchè la scritta ancor
non esiste. E siccome la lingua italiana e le sue sorelle non derivano dal
latino scritto ma dal parlato, e questo in gran parte non illustre, ma
principalmente dal plebeo e volgare, quindi la molta conformità di queste nostre
lingue cogli antichissimi e primi scrittori latini. Vedi un luogo di Tiraboschi appresso Perticari, Apologia di Dante, capo 43.
pag. 430. (20. Maggio 1823).
[2703,1] La voce popolare bobò che
significa presso di noi uno spauracchio de' fanciulli simile al μορμώ ec. dei
greci, alle Lammie de' latini ec.
2704 (V. il mio Saggio sugli errori
popolari) non è altro che un sostantivo formato dalle due
voci bau bau (colla solita mutazione dell'au in o), o piuttosto le
stesse due voci sostantivate, e ridotte a significare una persona o spettro che
manda fuori quelle voci bau bau. Le quali sono voci
antichissime e comuni ai greci che con essi[esse] esprimevano l'abbaiare dei cani, e quindi fecero il verbo
βαΰζειν; ai latini che ne fecero nello stesso senso il verbo baubari, e a noi che ne abbiamo fatto baiare e quindi abbaiare (se
pur questi verbi non vengono dal suddetto latino), onde il francese antico abaïer e il moderno aboyer
de' quali verbi vedi il Dizionario di Richelet.
{Vedi
anche la pag.
2811-13.} Ma dall'esprimere la voce de' cani, le
parole bau bau passarono a significare una voce che
spaventasse i fanciulli. {V. la Crusca in Bau.} Quindi il nostro Bobò sostantivo di persona. Presso i francesi bobo è voce {parimente} puerile che significa
un petit mal, cioè quello che le nostre balie
dicono bua, la qual
2705 voce
fu pur delle balie latine, ma con altro significato, cioè con quello che le
nostre dicono bumbù, o come ha la
Crusca, bombo. V. Forcellini. I Glossari non hanno nulla al proposito. (20.
Maggio 1823).
[2715,1]
Perticari, Degli Scritt. del
300. l. 2. c. 2. p. 106-7. fa derivare il nome italiano
carogna da un'antica voce greca. (22. Maggio
1823.).
[2739,1]
Opra sincope di opera si
trova in Ennio (ap. Forcell. v. opera, fin.), come
nei nostri poeti opra e
2740
oprare e adoprare
ec. Tan alla spagnuola per tam
nel cod. antichissimo di Cic., de Repub. l.
1. c. 9. p. 26. ed. Rom. 1822. dove vedi la nota del
Mai.
(3 Giugno. 1823.).
[2793,1]
Traslatare, trasladar, translater continuativi barbari
di transferre. (16. Giugno 1823.).
[2795,1] Una delle proprietà comuni alle tre lingue figlie
della latina, le quali proprietà si debbono per conseguenza credere originate
dalla lingua madre di tutt'e tre, come ho detto altrove pp. 1475-76 , si è quella di
2796 usare causa (cosa,
chose) per res. (18. Giugno 1823.).
[2809,1] Io non so quali abbiano ragione intorno all'origine
del verbo latino accuso, o quelli che lo derivano da
causa, o quelli che lo fanno venire da un verbo
cuso continuativo di cudere, del qual cuso non recano però
nessuno esempio. (V. Forcell. v. accuso fin. e v. cuso) Forse a questi ultimi potrebbe esser favorevole il nostro
antico cusare, il quale se venisse da cuso e non da causari, o se
non fosse uno storpiamento d'accusare, sarebbe un
antichissimo tema perduto {o disusato} nel latino
scritto, e conservato nell'italiano; e sarebbe il semplice dei verbi composti
accuso, incuso, {excuso,}
recuso. È da notare però che il nostro volgo (almeno quello della
Marca) usa il verbo causare nel significato appunto
del nostro antico cusare, e del latino causari, cioè in senso, {non di
cagionare, ma} di recare per cagione o come
2810
cagione,
accagionare: l'usa dico in questa frase avverbiale causando che, cioè atteso
che, poichè. Il qual significato di causare e il qual modo avverbiale non è notato dalla
Crusca, ma trovasi pure usato da Lorenzo de' Medici nella famosa lettera a Gio. de'
Medici Card. suo figliuolo, poi Papa Leone X, verso il fine,
dove però nella raccolta di Prose, stampata in
Torino 1753. vol. 2. p. 782. trovo cagionando che per causando
che, che sta nelle Lettere di diversi eccellentissimi
huomini, raccolte dal Dolce, Venez. appresso Gabriel Giolito de' Ferrari
et fratelli 1554. p. 303. e nelle Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi
ingegni stampate da Paolo Manuzio in Venez.
1544. carte 6. p. 2. (In ogni modo anche la frase avverbiale cagionando che manca nella Crusca)
Nelle Lettere di XIII Huomini illustri, Ven.
per Comin da Trino di Monferrato
1561. p. 485. trovo pensando che. Vedi il Magnifico di Roscoe, dove quella lettera è
riportata.
[2811,2]
Institutum autem
eius
*
(Moeridis in ᾽Aττικιστῇ) est annotare
et inter se conferre voces quibus Attici, et quibus Graeci in aliis
dialectis, maxime illa κοινῇ utebantur: interdum notat et κοινὸν vulgi,
illudque diversum facit non modo ab Attico sed etiam ἑλληνικῷ, ut in
ἐξίλλειν, εὐϕήμει, κάϑησο, λέμμα, οἰδίπουν, οἶσε, σχέατον.
*
Fabric.
B. G. edit. vet. l. 5. c. 38. §. 9. num.
157. vol. 9 p. 420. (23. Giugno. 1823.).
[2811,3]
Alla p. 2776
margine. Lo stesso discorso si può fare di βαΰζω, il quale è pur verbo
esprimente un suono, e fatto per imitazione di questo suono; il qual suono come
è similissimo a quello di βαΰω, così non ha niente che fare con βαΰζω. Ma questa
e simili interposizioni della lettera
2812 ζ e d'altre
tali, sono {state} fatte o per evitare l'iato o per
altre diverse cagioni, nel processo della lingua, quando già non v'era più
bisogno che il vocabolo per essere inteso, esprimesse e rappresentasse collo
stesso suo suono l'oggetto significato, ma egli era già inteso generalmente per
se, e non per virtù della sua origine; e quando già nella lingua si guardava più
alla dolcezza ec. che alla necessità ec. ne' quali modi le parole in tutte le
lingue si sono allontanate dalla forma primitiva e hanno spesso perduto affatto
quel suono rappresentativo che prima avevano e sul quale furono modellati e
creati, e nel quale da principio consisteva la ragione della loro significanza.
I latini dal tema βαΰω o bauare fecero baubari, interponendo un b
(il quale in questo caso è più adattato all'imitazione) invece del ζ. Noi baiare, che per verità potrebb'essere appunto quello
stesso originale βαΰω ch'è affatto perduto nella lingua greca e nella latina
scritta: e ben si potrebbe credere che fosse totalmente
2813 voce antica latina, conservata nel volgare; dal che si
dedurrebbe, primo, che l'antico latino, e di poi il suo volgare perpetuamente
conservò puro il verbo originale βαΰω (giacchè l'υ greco in latino {antico} ora risponde a un u,
ora ad un i), {quantunque non si
trovi nel latino scritto;} verbo inusitato affatto nell'antica e
moderna grecità nota; secondo, che questo antichissimo verbo, perduto, o
vogliamo dire alterato nel greco, perduto ossia alterato nel latino scritto,
conservasi ancora purissimo e senz'alterazione alcuna nell'italiano, e vedi la
pag. 2704. {+Si potrebbe anche credere che i primi latini e il volgo,
invece di baubari dicessero bauari (appunto βαΰειν), e che la mutazione dell'u in i (vocali che
spessissimo si scambiano, per esser le più esili, come ho detto altrove pp. 1277-83
p.
2153
p.
2824) seguisse nell'italiano e nel francese ec. Ovvero che gli
antichi dicessero bauari, e poi il volgo baiari.}
(24. Giugno 1823.).
[2821,3] Un altro futare dice Festo che fu usato da Catone per saepius
fuisse. Questo dimostrerebbe un antico participio
2822
futus del verbo sostantivo latino. Dico del verbo
sostantivo, e non dico del verbo sum. Questo è
originalmente il medesimo che il greco εἰμί ovvero ἔω, e che il sascrito asham, e il suo participio in us dovette essere situs o stus o sutus (giacchè è
notabile il nostro antico suto, {vero e proprio} participio del verbo essere, laddove stato che oggi s'usa in vece di quello, è tolto in
prestito da stare), come ho detto altrove pp.
1120-21
pp.
2784-85. {Il franc. été è lo stesso che sté,
giacchè gli antichi dicevano esté, e quell'e innanzi, è aggiunto per dolcezza di lingua
avanti la s impura nel principio della parola,
come in espérer, espouser (ora épouser), del che ho detto altrove p.
813. Ora il participio sté sarebbe
appunto stus in latino.} Ma il participio
futus, onde futare, non
potè essere se non di quel verbo da cui il verbo sum
tolse in prestito il preterito perfetto fui colle voci
che da questo si formano, cioè fueram, fuero ec. Il qual verbo fuo
non ha che far niente in origine con sum nè con εἰμί,
ma è lo stesso che ϕύω, e v. Forcell. in fuam e in sum. Di
questo dunque dovette esistere {anche} il participio
futus, il quale dimostrasi col verbo futare che ne deriva. E nótisi che Festo dice il verbo futare
essere stato usato da Catone per saepius fuisse, e non per saepius
esse, onde pare che questo verbo appresso Catone conservasse una certa corrispondenza e
similitudine e analogia colle voci fui, fuisse ec. tolte in prestito da sum, le quali tutte indicano il passato, e che anch'esso denotasse il
passato di natura sua, ed avesse
2823 significazione
preterita. Del resto come il verbo futare è diverso da
stare, così il participio futus da cui quello deriva, è diverso da situs o stus da cui vien questo, e come futus è participio di fuo e
stus di sum, così futare è continuativo di fuo
e stare di sum. E
l'esistenza del participio futus dimostrata dal verbo
futare, non nuoce a quella che io sostengo del
participio stus, giacchè sum
e fuo che ora fanno un sol verbo anomalo composto e
raccozzato di due difettivi, furono a principio due verbi ben distinti e per
origine, e per forma materiale, e probabilmente completi tutti e due, e non
difettivi come ora. (26. Giugno 1823.).
[2823,1] È notabile come il nostro volgo e il nostro discorso
familiare conservi ancora l'esattissima etimologia e proprietà de' verbi stupeo, stupesco, {stupefacio, stupefio,} ec. che diciamo anche stupire, stupefare, stupefarsi. In luogo de' quali verbi diciamo
sovente restare, o rimanere
o divenire o diventare
di stoppa per grandemente
maravigliarsi che sono precisissimamente il significato proprio e
l'intenzione metaforica de' predetti verbi latini.
2824
Così penso assolutamente io, sebbene altri li derivano da stipes, e forse niuno ha pensato di derivarli da stuppa, che anche si dice stupa. Il che
forse è avvenuto perchè non dovettero sapere o avvertire quella nostra frase
familiare che ho notata. Che se in alcuni mss. si trova anche stipeo ed obstipeo, ciò non
vale, perchè stupa si disse anticamente stipa, secondo Servio, {che lo} deriva da stipare. {Potrebbe anche esser la
stessa voce che} στύπη da στύϕω. {Chi sa che lo stesso stipare
non venga appunto da στύϕω piuttosto che da στείβω? V. Forcellini in stipa, stipo, stuppa
ec. Certo s'egli ha che fare con stupa o
stipa, esso viene da questa voce, e non al
contrario come vuol Servio.}
È[E] l'υ greco, siccome ho detto più volte p. 1277 cambiasi nel latino ora in i ora in
u, e queste due vocali i
ed u si scambiano sovente fra loro e nel latino e
nelle altre lingue, come ho pur detto altrove p. 1277
pp. 2152-53
p.
2813: ed osservate infatti che {l'u} francese e bergamasco, e l'υ greco, è
appunto un misto e quasi un composto d'ambedue queste vocali i ed u, e non si sa a qual
più delle due rassomigliarlo; onde si vede quanto elle sieno affini e simili ed
amiche tra loro, che s'accozzano insieme a fare (sulla bocca di molti e diversi
popoli) una sola vocale, dove niuna delle due viene a prevalere. Quindi
s'argomenti quanto è facile che queste due vocali si scambino l'una coll'altra
nella pronunzia
2825 umana, anche in uno stesso tempo e
popolo, non chè in diversi tempi e nazioni e climi. {+Simulare da similis, onde anche similare, e
noi simigliare e somigliare. assimulare e assimilare. maximus, optimus e maxumus, optumus. amantissimus e
amantissumus. V. Perticari
Apolog. di
Dante p. 156. cap. 16. verso il fine. lubens, decumus, reciperare e recuperare,
carnufex.}
(26. Giugno. 1823.).
[2825,1]
Fortunatianus
in Honorii
*
(Augustodunensis, De
luminaribus Ecclesiae) Codicibus
lib. 1. cap. 98. vitiose Fortunatius, natione Afer,
Aquilejensis Episcopus, interfuit Concilio Sardicensi An. 347.
*
et {{p. 179.}}
teste Hieronymo
*
(De Scriptoribus
Ecclesiasticis) cap. 97. scripsit Commentarios in Evangelia, titulis (ut apud
Hilarium fit) ordinatis, brevique et rustico sermone. De
rustico sermone Latino singularem se libellum conscribere proposuisse
testatus est V. C. Christianus
Falsterus ad Gellii
XIII. 6. parte 3. Amoenitatum Philologicarum p. 286. De
Fortunatiano hoc, qui ad
Arianos denique deflexit, plura Tillemontius Tomo VI. memoriarum pag. 364.
419.
*
- Fabricius
Bibl. lat. med. et inf. aetat. ed. Mansii,
Patav. 1754. t. 2. p. 178.-179. lib. 6. art. Fortunatianus.
(26. Giugno 1823.).
[2835,3] Ho recato altrove pp. 1505-506
in proposito dei sinonimi, alcuni esempi di voci che nelle lingue figlie della
latina son passati ad aver per proprii de' significati ben lontani da quelli che
avevano nella latina, e tra queste il verbo quęrere
(querer) che nella lingua spagnuola significa velle. Aggiungete l'esempio del verbo latino creare (criar) che in
ispagnuolo significa allevare, educare, sì esso come i suoi derivati, crianza, criado ec. (28. Giugno
1823.).
[2842,1] Continuativi delle lingue figlie della latina. Diventare ital. da devenio -
deventus. Sepultar
spagn. da sepelio - sepultus. Questo verbo sepultare trovasi usato
da Venanzio Fortunato poeta e scrittore italiano del sesto secolo, Carm. lib. 8. Hymno de vitae aeternae
gaudiis. (Glossar. Cang.) {
Pressare, presser, prensar, oppressare, oppressé,
soppressare, expressar ec. da premo - pressus. V.
il Glossar.
Tritare da tero - tritus. Il
Gloss.
Tritare, Frequenter
terere, Ioh.
de Ianua, cioè genovese del secolo 13.o, autore di un Lessico edito. Cautare, incautare da
caveo - cautus. V. il Glossar.}
Gozar spagnuolo da gaudeo -
gavisus. Fecesi ne' bassi tempi di gavisus
gausus, onde gosus, onde gosare, e gozar. Ovvero di
gavisus
gavisare, gausare, gosare, gozar. Trovasi nelle
antiche glosse latino - greche gaviso - χαίρω. V. il Glossar.
Cang. in Gavisci, ed anche in Gavisio, Gausida (goduta sostantivo) e Gausita. Vedi quivi
anche Gauzita, dove trovi già il z di Gozar. Da questo, o da gavisio, gausio, gosio, {+anzi
da gavisus us, gausus,
gosus} credo io che sia fatto lo
spagnuolo gozo godimento, piuttosto che da gaudium. Gozar assai spesso,
{come} il nostro godere e
il francese jouir, è vero continuativo di gaudere, non meno per il significato che per la forma,
equivalendo a frui. Il verbo jouir, jouissons, jouissez, jouissent ec. dee esser venuto
similmente da gavisare, prima che {questo} fosse mutato in
2843
gausare, {e ne sparisse la i, che manca in gozar,} ma contuttociò è più sfigurato. Così dite di joie, {jouissance, joyeux ec. e di}
gioia, gioire, ec. {che di là vengono.}
Pransare o pranzare ital. da
pransus di prandeo onde
il frequentativo latino pransitare. Incettare non da un barbaro incaptare, come pensa Giordani nel principio della
lettera a Monti, Proposta vol. 1. parte 2., ma appunto
da un inceptare mutato l'a
di captare in e per virtù della composizione, come in
attrectare, contrectare, detrectare, {obtrectare,} ec. da tractare o da detractus ec. di detraho, in affectare ec. da
affectus di afficio il
quale viene da facio, in coniectare, subiectare, obiectare ec. da coniectus di coniicio che viene da iacio,
{+in descendo, ascendo ec. da scando, in occento da
occentus di occino
da cano, in aggredior
ec. da gradior, in accendo, incendo, succendo da candeo o dall'inusitato cando, v.
p. 3298.} e in {molti} simili,
{+benchè più generalmente e
regolarmente l'a della prima sillaba de' verbi
dissillabi, {#1. V. p.
3351. si muti per la composizione in i. (e puoi vedere la p. 2890.)}}
Incepto da inceptus d'incipio è tutt'altro verbo. Da capto, o certo da capio vengono excepto, recepto, {accepto, intercettare, discepto,} ec. i
quali pure mutano l'a in e,
e non fanno excapto, recapto
ec. {V. p. 3350. fine. 3900. fine.}
Avvisare nel suo senso proprio (vedi la Crusca in avvisare §. 1. 2. 3.) è verissimo
continuativo di avvedere nel senso suo primitivo. Ma
non può esser fatto da questo verbo italiano, il quale ha per participio avvisto e avveduto, non avviso. Conviene che sia fatto da advisus di advidere, il qual verbo {oggi} non si trova nella buona latinità. {Puoi
vedere la p. 3034.} Trovasi però nella bassa il
verbo advidere in senso di avvertire, che io credo metaforico,
2844 e in
questo e simili sensi il verbo advisare e avisare. {V. il Glossar.
Cang.} Anche i
francesi e gli spagnuoli, che non hanno il verbo avvedere, hanno aviser e avisar, ma l'usano in quei sensi metaforici ne' quali
l'usiamo anche noi. Nel senso proprio nel quale egli è più dirittamente
continuativo del suo verbo originale advidere, non
credo ch'egli si trovi se non nella nostra lingua, e principalmente nei nostri
antichi autori. Noi diciamo anche avvistare, ed
equivale a un di presso ad avvisare nel senso proprio,
o nel più simile a questo. {+V. p.
3005.}
Advidere dovette propriamente significare {adspicere,}
oculos advertere, e quindi anche animum advertere. (Nell'esempio che ne porta il Glossario, non
mi risolvo s'ei voglia dire animadvertere, o commonere, come il Glossario spiega).
Nel qual senso, avvisare preso nel significato
proprio, è suo vero continuativo, esprimendo la stessa azione, ma più durevole.
{Si può dir simile ad adspectare.} Noi non usiamo advidere se non reciproco, cioè neutro passivo, sempre però in
significato simile ai sopraddetti, o {che questo} sia
relativo agli occhi che propriamente vedono, o all'animo che considera e
conosce. Chi vuol ridere e nuovamente vedere quanti spropositi abbia fatto dir
la poca notizia finora avutasi della formazion de' verbi
2845 latini e latinobarbari da' participii o supini d'altri verbi,
vegga la bella etimologia di advisare che dà l'Hickesio presso il Cange nel Glossario. Vedi la
Crusca anche in avvisamento §. 3. e in
avvisatura. (29. Giugno, mio dì
natale. 1823.)
{{V. p. 3019.}}
[2882,1]
2882 È notabile come lo spagnuolo atar abbia conservato il proprio e primitivo significato di aptare cioè legare,
significato che benchè proprio e primitivo, pur non è molto frequente negli
autori latini, anzi un esempio che faccia veramente al caso non mi pare che sia
se non quello d'Ammiano nel Forcell. v. aptatus. Ora Ammiano è pur di bassa latinità. Mostra
che il volgo abbia sempre conservato il primo uso di questo verbo, più degli
scrittori eleganti, che l'hanno {piuttosto} adoperato
metaforicamente. Del resto se mai si potesse dubitare che il verbo aptare venisse da aptus, il
cui proprio senso è legato ec. e che Festo dice essere participio di apo, lo spagnuolo atar
{che vale legare
congiungere,} finirebbe di mandare a terra
qualunque dubbio. Il nostro {attare,}
adattare, adapter ec. ha per
proprio il significato metaforico ordinario di apto
adapto ec. V. nel Forcell. esempi di coaptare, coaptatio, coaptatus, {(συνάπτειν)}
in senso di collegato ec. tutti di S. Agostino, il quale certo non
pigliava {questo} buono e primitivo uso di tali parole
da' più antichi padri della scrittura latina, nè dagli scrittori aurei che non
le usano, ma dal parlar del volgo, che tuttavia conservava quel significato,
come ancora lo conserva in Ispagna. E così dite di Ammiano.
2883
E chi sa che aptare in questo senso, non sia l'origine
di attaccare, attacher ec.?
V. il
Glossar.
Cang. principalmente in attachiare cioè vincire
ec. Ma siccome questa voce si trova massimamente usata nelle scritture
latino-barbare d'inglesi e scozzesi così non voglio contrastare che la sua
origine non possa probabilmente essere Teutonica ec. come si afferma nel
medesimo Glossar. v. 2. Tasca.
(3. Luglio 1823.). {{V. p. 2887.}}
[2893,2] Circa quello che altrove pp. 2200-204 ho detto de' participii quaesitus e quaeritus e del
verbo quęritare ec. I francesi hanno querir
{da quęrere, e}
quêter, anticamente quester,
da quaesitus di quęsere,
onde noi chiesto, e gli spagnuoli quisto. Chéri è il querido degli spagnuoli da quęritus di quęrere. E chérir è lo
stesso querer spagnuolo nel significato, che questo
pure ha, di voler bene. Il nostro cherere è il quaerere latino, in significato
però di volere, come lo spagnuolo querer, e anche di domandare, come il nostro
chiedere ch'è il latino quęrere
{(v. p. 2995.),} siccome il suo
participio chiesto è il latino quęsitus, per sincope quęstus. {+Malquerer, malquerido, malquisto,
cioè volere e voluto male. Chesta, inchesta, richesta
sust.i, per chiesta ec. richedere
richesto; inchierere
richierere cioè inquirere
requirere; ec. acchiedere quasi acquaerere per acquirere, con altro senso.}
Acquérir e conquérir
francesi, adquirir spagnuolo sono i latini acquirere e conquirere. Acquêter, anticamente acquester, e l'antico conquêter o conquester francesi, lo spagnuolo conquistar, e l'italiano acquistare
2894 e conquistare sono
continuativi fatti da acquisitus e conquisitus, detratta la seconda i. (V. il
Glossario se ha nulla in tutte queste e simili voci).
(5. Luglio 1823.).
[2894,1] Questa detrazione fatta, come si vede, in tante voci
o derivate o composte da quęsitus, o che non sono
altra voce se non questa medesima, conferma la mia opinione che da situs particip. di sum si
facesse stare, {detratta la i} come appunto da conquisitus
conquistare, e così da quaesitus
quisto e chiesto ec. {+Così da positus, postus
repostus ec. ec. E della soppressione della i in moltissimi participii latini come docitus - doctus, legitus - legtus - lectus ec. soppressione divenuta, fino ab antico,
comune, anzi universale, vedi ciò che dico altrove.} La qual
detrazione non è solamente propria delle lingue moderne (dico circa questo
vocabolo quaesitus appunto), giacchè la stessa lingua
latina nè[ne] fa uso nella voce quęstus {us,} la quale, come
altrove ho dato per regola circa tali verbali, e formato[è formata] appunto da quęsitus, e
dovrebbe {regolarmente} dire quęsitus us, la qual voce ancora si trova effettivamente. Siccome vi
sono le voci quaesitio, quęsitor, quaesitura, di cui sono
contrazione quaestio, quaestor, quaestura, voci fatte da quelle
per detrazione della i, come per tal detrazione son
fatte quaestorius, quaestuosus ec. benchè non si trovi quaesitorius,
2895
quaesituosus ec. {{E vedi a questo proposito la p. 2932. e 2991-2.
3032.
segg.}}
[2918,1] Da quello che ho detto p. 2789-90. si rileva che il nostro aggettivo ratto, non è se non il participio raptus, e che questo dovette essere usato dagli antichi latini e
volgarmente, in senso di veloce, come ratto fra noi.
Perocchè dire che questo sia nato dall'avverbio italiano ratto, e quest'avverbio da raptim, onde ratto per veloce venga da
raptim è derivazione o formazione priva d'ogni
esempio. E per lo contrario è certissimo che ratto
avverbio viene da ratto aggettivo, anzi è lo stesso
aggettivo neutralmente e avverbialmente posto, il che è proprietà ed uso della
nostra lingua di fare, come alto, forte, (anche i francesi fort avverbio e
aggettivo) presto, tosto,
{piano} e mill'altri, per
altamente ec. Anzi è in libertà dello scrittore o
parlatore italiano di far così de' nuovi avverbi dagli aggettivi,
2919 non già viceversa. V. il Forcell.
in Rapio col. 1. fine, Rapto fine, Raptus l'esempio di Claudiano. Gli spagnuoli similmente
hanno p. e. demasiado avv. e aggett. ec. (8.
Luglio 1823.).
[2919,1] Noi usiamo volgarmente il verbo volere applicandolo a cose inanimate, o ad esseri immaginari, e
talvolta impersonalmente, in modo ch'egli o sta per potere, o ridonda e non fa che servire a una perifrasi, per idiotismo,
e per proprietà di lingua. Per esempio, La piaga non se gli vuole rammarginare.
Cioè, Non si può far che la piaga se gli rammargini, ossia La piaga non se gli
può ancora rammarginare. Qui volere sta per potere. Se il cielo si vorrà serenare, se la stagione
si vorrà scaldare, se il vento vorrà cessare, se il negozio vorrà camminar bene,
se la pianta vorrà pigliar piede, l'erba non ci vuol nascere. Cioè, Se piglierà
piede, Non ci nasce. Qui volere ridonda. Da più mesi
non è voluto piovere. Cioè, non è piovuto. Qui volere
ridonda ed è impersonale. {Anche in
francese: cette machine ne veut pas aller, ce bois ne
veut pas brûler
*
. Alberti. Così, mi pare, anche in
ispagnuolo.}
[2923,3] Il verbo avere in senso di
essere, usato impersonalmente dagl'italiani da'
francesi dagli spagnuoli, talora eziandio personalmente dagl'italiani (v. il Corticelli), non è altro che il latino
se habere (il qual parimente vale essere) omesso il pronome. Il volgo latino dovette
dire p. e. nihil hic se habet, qui non si ha nulla, cioè non v'è; poi
lasciato il pronome, nihil hic habet, qui non v'ha nulla. Cicerone: Attica belle se
habet
*
col pronome, e altrove: Terentia minus
belle habet:
*
ecco lasciato figuratamente il
pronome nella stessa frase. (Forcell. in Belle). Bene habeo, bene habemus,
bene habent tibi principia sono
2924 tutte
locuzioni ellittiche per l'omissione del pronome se,
nos, me. Bene habet, {optime habet,} sic
habet; ecco oltre l'omission del pronome se,
anche quella del nome res. Onde avviene che in queste
locuzioni, che intere sarebbono bene se res habet, sic se res habet, il verbo habere per le dette ellissi venga a trovarsi impersonale. Ed ecco nel
latino il verbo habere in significato di essere, neutro assoluto, cioè senza pronome, e
impersonale. Quis hic habet? chi
è qui? In questo è[e] negli altri
luoghi dove il verbo habere sta per abitare in significato neutro, esso verbo non vale
propriamente altro che essere; e habitare altresì ch'è un frequentativo o continuativo di habere, sempre che ha senso neutro, sta per essere. E questa forma è tutta greca: giacchè presso i
greci ἔχειν, la metà delle volte non è altro che un sinonimo di essere, e s'usa
in questo senso anche impersonalmente, come in italiano, francese e spagnuolo,
tutto dì. {V. p. 3907.} Così anche nel greco moderno a
ogni tratto.
2925 Δὲν ἔχει, non ci
è, non ci ha. (9. Luglio.
1823.).
[2925,2] È uso della nostra lingua di porre l'avverbio male come particella privativa in vece di in avanti gli aggettivi, {i
sostantivi, gli avverbi,} i participii ec. o facendo di questi tutta
una voce con quella, o scrivendo quella separatamente. {Male per non o poco o difficilmente. V. la
Crusca in male.} Il qual uso ci è così proprio,
che sta in libertà dello scrittore di fare in questo modo de' nuovi
accoppiamenti nel detto senso, sempre ch'ei vuole, siccome n'han fatto alcuni
moderni,
2926 p. e. il Salvini, ad esempio degli antichi, e stanno segnati
nella Crusca. I francesi similmente: mal-adresse, mal-adroit, mal-adroitement, mal-aisé, mal-gracieux,
mal-plaisant, mal-habile, mal-honnête ec. ec. V. il Diz. del Richelet in Mal fine. Or quest'uso è tutto latino e degli ottimi tempi.
V. Forcell. in male. (9.
Luglio 1823.).
[2930,1]
Pinso pinsis pinsi et pinsui,
pinsum et pinsitum et pistum. Da pinsus o da pinsitus, pinsitare appresso Plauto, se questa voce è vera. Da pistus
pistare appresso il Forcellini e il Glossario (vedilo in
Pistare e Pistatus), onde il nostro pestare che
volgarmente si dice anche oggi più spesso pistare,
siccome pisto per pesto.
(V. il Glossar. in pestare). Pisto
rimane eziandio nello spagnuolo, ed è un aggettivo neutro sostantivato che vale
quello che noi diciamo il pollo pesto. {Tutti tre questi participii di pinso sono comprovati con esempi, e non da me
congetturati. V. Forcell. in ciascuno di loro, e in pinso.}
[2935,2]
Cespicare, incespicare, incespare. Vedi il Forcellini in Caespitator e il Glossario
in Cespitare.
(10. Luglio. 1823.).
[2947,1]
2947
Intentare lat. da intendo,
onde il francese intenter e quello che noi {pur} diciamo intentare un'accusa,
un processo e simili. {+1. v. il Glossar.
Cang.} Participio
intentatus. Intentare
de' nostri antichi (v. la Crus. in intentare e intentazione) e intentar spagnuolo, da tento
colla prepos. in, e vale lo stesso che tentare. Questo composto, tutto alla latina, ma tutto
diverso dall'altro intentare sopraddetto, io lo credo
venuto, se non altro, dal latino volgare, poichè m'ha sapor di vera latinità, e
non mi riesce verisimile che sia stato creato nelle lingue vernacole, pochissimo
usate a crear nuovi composti con preposizione, il qual uso è tutto greco e
latino. Participio intentato, {intentado,} o intentatus, cioè tentatus. {+Similmente obtento, se questa voce è vera, viene da ob-tineo, laddove ostento da os-tendo, antic. obs-tendo, [v. la p.
2996.]} Diverso da questo è l'altro participio intentatus che significa il contrario, cioè non tentatus, fatto non
colla prep. in, ma colla particella privativa del
medesimo suono in, il quale participio noi pure
l'abbiamo, e viene ad essere un terzo participio intentatus diverso per origine e per significato, benchè di suono in
ogni cosa conforme ed uguale, dai due sopraddetti. Similmente inauditus, insuetus ed
2948 altri tali, vagliono non
auditus, non suetus, ed altresì l'opposto,
cioè suetus, auditus, da insuesco ed inaudio.
(12. Luglio. 1823.).
[2984,1]
Trapano, trapanare, trépan, trépaner - τρύπανον
ec. (17. Luglio 1823.).
[3001,2] Continuativi barbari. Dilatar spagn. da differo-dilatus. V. la
Crusca. I franc. dilayer. {#1. Trovo nel moderno spagn. dilatar anche per denunziare, accusare, da defero - delatus.}
Decretare, decretar, décréter da decerno - decretus. Diviser franc. da
divido - divisus. {+Libertar spagn.
quasi liberitare o liberatare.}
{+Tal contrazione non è maravigliosa in
questo caso, e fors'è antica. Libertus a non
sembra che contrazione di liberatus a.} V.
Forcell. e Glossar. se hanno nulla. (21.
Luglio. 1823.).
[3004,1] Frequentissimo nell'italiano scritto, e più nello
spagn. scritto e parlato si è l'uso del verbo andare,
andar (non ir), in senso
di essere. Ecco Seneca tragico (ap. Forc. in eo
is, col. 3. princip.), Non ibo inulta.
*
{Appo Oraz.
Sat. II. 1. v. ult. tu missus abibis
*
è lo stesso
che missus, cioè absolutus
eris, cioè mittēris o absolvēris. {{i greci οἴχεσϑαι con
participio: uso analogo al nostro ec. ec.}}}
Notate che noi abbiam preso indubitatamente quest'uso dagli spagn. (infatti esso
è frequentissimo nei nostri secentisti con cento altri spagnuolismi: nei
500[cinquecentisti] o
300isti[trecentisti], non si trova, ch'io
mi ricordi, o mai o quasi mai). E Seneca
appunto è spagnuolo. La frase
dell'egizio Claudiano
qui vindicet
ibit,
*
cioè erit, è d'altro
genere, perchè nè gli spagn. nè gl'italiani non usano andare per essere se non seguìto
effettivamente o potenzialmente da un aggettivo che ha forza di predicato. Qua
si deono forse riferire le frasi, andar la bisogna,
la cosa ec. così andò il
fatto, così va per così
è, va bene, come va la
salute ec. ec. V. i Diz. franc. e spagn.
(21. Luglio. 1823.). {{V. p.
3008.}}
[3005,1]
3005
Alla p. 2844.
Così lo spagn. avistar. - A questo discorso
appartengono il franc. viser, {+deviser franc. antico, per s'entretenir
familièrement etc. (V. il Gloss.
Cang. in Visores 2.)} e l'ital. divisare, il quale però ancora, almeno in alcuni
sensi, può esser continuativo barbaro di divido - divisus e lo stesso che il franc. diviser. V. la Crusca, e il Forc. e Gloss. s'hanno nulla.
[3006,1]
3006
Suso, giuso. Così i più
antichi latini per sursum
deorsum. V. Forcellini in Susum ec. e il Gloss. se ha
nulla.
[3018,2]
Fatum da for faris. - Dicha spagn. (cioè detta)
per fortuna (come desdicha
sfortuna, dichoso, desdichada ec.) da dicta (femmin. come ἡ
εἱμαρμένη, ἡ
3019 πεπρωμένη, la
destinée) o da dictum, come da suspectus o suspectum (Gloss.
Cang.) sospetto, gli spagn. in femminino sospecha
in vece di sospecho. (23. Luglio
1823.).
[3023,1]
Necesso as è verbo di Venanzio Fortunato. V. Forcell. e
Gloss.
Cang. Si
potrebbe però credere che fosse antico, e che necessus a
um antico addiettivo fosse originariamente participio di qualche verbo
di cui necesso fosse continuativo. In tal caso necessitare latino-barb. e italiano, necessitar spagn. nécessiter
franc. sarebbe un frequentativo di questo tale ignoto verbo. In caso diverso, se
non vorremo ch'ei venga da necessitas, necessità, nécessité ec.,
diremo ch'egli è fatto da necessatus di necesso, colla solita mutazione dell'a in i. Nótisi che
nell'esempio di Venanz. Fortun. non è
chiaro se necesso sia attivo, e vaglia cogo, come affermano il Forcell. e il Gloss. ovvero neutro, e vaglia abbisognare
aver mestieri, indigere, poscere, come in ispagn. necessitar che si costruisce col genitivo. (24. Luglio.
1823.).
[3032,1]
3032
Visto ital. e spagn. participio di vedere, è manifesta contrazione di visitus, come quisto, chiesto ec. di quaesitus (v.
p. 2893. sqq. ).
Così vista sust. verbale ital. e spagn. è contrazione
di visita voce latinobarbara per visitus us cioè visus us. Così i composti di
vedere hanno p. e. avvisto, rivisto, provvisto ec. La voce vista per veduta, e con altri sensi simili, ch'ella ha pure
appresso di noi, è latino-barbara. Vedila nel
Glossario. E ch'ella sia
contrazione di Visita, com'io dico, e quindi visto sia
contrazione di visitus, vedi il Glossario med.
in Vista 4. Ora consideriamo.
[3038,1]
Alla p. 2929.
Così da vivo - vixi - victum si dovette fare anche vixum e vixus. Lo deduco dal nostro antico
visso, il quale non è contrazione di vissuto perchè tal contrazione non è dell'indole e uso
della nostra lingua. Bensì vissuto (che molti dicono e
dissero più regolarmente vivuto, anche trecentisti,
come ho trovato io medesimo, non altrimenti che da ricevere
ricevuto) sembra venire da
un altro, ed anche più antico e regolare participio lat. vixitus, cambiato l'i in u, come in latino a ogni tratto (v. p. 2824-5. principio, e 2895.), e come particolarmente in italiano ne'
participii passivi per proprietà, costume e regola della lingua (venditus - venduto, redditus - renduto, perditus - perduto, seditus antico
3039 e
regolare - seduto, debitus
da altra coniugazione - devuto, tenitus, antico e regolare - tenuto, ceditus antico e regolare - ceduto.).
[3051,1] Voce non esistente nel latino scritto, comune però
alle tre lingue figlie. Speranza, espérance, esperança, cioè sperantia, verbale di
3052
spero, fatto secondo l'uso del buon latino, come constantia, instantia, redundantia ec. (27. Luglio. 1823.).
[3052,1]
Alla p. 3040.
Qua io credo che si debba riferire il verbo posare
(franc. poser onde déposer,
{+opposer, supposer, composer,
apposer, disposer, exposer, proposer, imposer ec. ec.}) in
quanto ei significa por
giù, deporre, con tutti i
suoi derivati ec. in questo senso. Che riposare e posare per quiescere vengano
da pausa
pausare ec. (e così il franc. reposer ec.) l'ho detto in altro luogo pp. 2627-28, lo
dimostra l'uso del verbo pausare ec. ec. nel Glossar.
Cang. e va
bene. Ma che posare, poser,
déposer per deporre,
vengano da pausare, non da ponere, e non siano quindi affatto diversi da posare ec. per quiescere, benchè suonino
allo stesso modo; non posso in alcun modo persuadermelo, benchè trovi nel Gloss.
un esempio dove pausare sta per deporre. Io credo che sia sbaglio di copista {+(o dello stesso autore, ignorante,
come tutti allora erano, della lingua stessa barbara)} che
ha scritto l'au per l'o,
sillabe solite a confondersi, massime ne' bassi tempi, e massime avendovi un
altro verbo similissimo, cioè pausare
3053 per riposare, a cui
l'au veramente conveniva. Posare per deporre dee certo venire da positus, contratto in posus,
come visitus - visus, pinsitus - pinsus, pisitus - pisus, onde viser, pisare. Da positus non contratto, viene depositare
{e lo spagn. depositar,} di
cui pure ho parlato altrove p. 1142. (27. Luglio.
1823.). {{V. qui sotto.}}
[3053,1]
Pausare poi potrà venir da pausa, la qual voce viene da παύω. Ma potrebbe anche (insieme con posare, cioè quiescere, reposare, reposer ec.)
essere un vero continuativo fatto da un pausus
participio di pauo o pavo o
simil verbo pari al sopraddetto verbo greco. V. Forcell. e quello che
altrove ho detto di tali voci in un pensiero separato pp. 2627-28, e
il
Glossar.
(27. Luglio. 1823.).
[3060,2]
Porgo per porrigo is,
sincope usata dagli antichi latini e volgare tra noi. V. Forcell. in
Porgo e massime il luogo di Festo. (28. Luglio.
1823.).
[3061,2] In proposito di favella,
favellare, hablar ec. di
cui molto distesamente ho ragionato altrove pp. 497-99
pp.
3054-55, veggansi le voci francesi habler,
hablerie, hableur ec.
Essi hanno anche fable ec. come noi pur favola ec. e gli spagnuoli fabula ec. dall'altro significato latino di fabula, fabulari ec. (29. Luglio.
1823.). {{Vedi pur lo spagn. habla e hablilla ec. ser habla o hablilla del
pueblo. (29. Luglio. 1823.).}}
[3071,1]
Dompter da domitare,
inseritoci il p, come in emptus, sumptus
{(sumpsi ec.)} e simili, e
come alcuni fanno in temptare che nel Cod. de Rep. di Cic. è scritto temtare, come anche si scrive emtus, sumtus, peremtus ec. {Veggasi la p. 3761. fine.} E il Richelet nel Diz. scrive
domter con tutti i suoi derivati similmente, {+e vuol che si pronunzi donter, dontable ec.
così anche altri Dizionari mod.ni.[moderni]} Così dompnus e domnus contratto da dominus.
E a questo discorso appartiene la voce somnus fatta da
ὕπνος, e, come dice Gellio, da sypnus
- o supnus - sumnus - somnus. {+V. il Glossar. se ha niente
che faccia a proposito.}
(31. Luglio. 1823.).
[3073,3]
Aborto
as da aborior - abortus, o dal semplice orior. Il nostro abortire e il lat. abortio is (se questo verbo è vero) sarebbero
continuativi anomali. Il franc. avorter è il lat. abortare. V. lo
3074 spagn. e
il Gloss. se ha nulla. (1. Agosto. dì del Perdono.
1823.)
[3080,1]
3080
Assaltare da assalire, come
il semplice salto lat. da salio. (1. Agos. dì del Perdono. 1823.). {{V. p.
3588.}}
[3095,1]
3095 Futuri del congiuntivo usati da' lat. in vece di
quelli dell'indicativo, del che altrove pp. 1970-73
p. 2656. Odero, meminero, credo anche {coepero}
novero. Forse ero coi
composti potero, subero ec.
furono originariamente futuri del congiuntivo. (5. Agosto.
1823.).
[3172,1] Al proposito di habeo e di
ἔχω usati per essere
pp.
2923-25 spettano i verbali habitus e σχῆμα,
ἕξις etc. P. e. habitus
corporis, cioè modus
habendi o se
habendi, modus
quo
corpus
habet
3173 o se
habet, vale propriamente modo
di
essere
del
corpo ec. (12. Agos. dì di S. Chiara.
1823.).
[3182,1]
Trembler, temblar sono verbi
diminutivi, cioè fatti da un tremulare, il quale è da
tremere, come misculare
(onde mesler, cioè mêler,
mezclar, mescolare, meschiare, mischiare) da miscere, secondo che ho notato altrove pp.
2280-81
pp.
2385-86. Ma essi verbi trembler e temblar hanno il senso del positivo tremere che nel franc. e nello spagn. non si trova.
Noi abbiamo e tremare e tremolare, quello positivo, e questo, così di forma come di
significazione, diminutivo. Diciamo anche tremulare, o
piuttosto lo dicevano i nostri antichi, più alla latina, benchè questo verbo nel
buon latino non si trovi. Trovasi però nel
3183 basso
latino: v. il
Glossar.
Cang. Gli
spagnoli dicono pure tremolar
(Solìs
Hist. de Mexico, l. 1.
capit. 7. princip.), ma attivamente per agitare, dimenare, sventolare (come tremolar
unas
vanderas
nel cit. luogo del Solìs), alla qual
significazione par che appartenga l'ult. esempio del Gloss.
Cang. in Tremulare. (17. Agos. 1823.
Domenica.)
{Il Franciosini scrive tremular, lo chiama
vocabolo barbaro, e lo spiega tremare.}
[3262,3]
Movere neutro, o in forma ellittica per movere
se o movere
castra, come tra noi muovere
3263 neutro o ellittico (e così trarre), del che mi sembra avere altrove notato un esempio di Floro
pp.
501-502, vedilo appo Svetonio, in Divo Iulio,
Cap. 61 §. 1. e quivi le note degli eruditi.
Vedi pure, se ti piace, a questo
proposito il Poliziano
Stanze I. 22. dove troverai muovere neutro, senza l'accompagnamento del sesto
caso, come {ancora} in latino.
(25. Agos. dì di S. Bartolomeo. 1823.)
[3264,2] Francesismi familiarissimi, usitatissimi e
volgarissimi in quella nazione, tant
mieux, tant
pis, frasi ellittiche o irregolari, e che paiono veri
idiotismi francesi, non sono che latinismi, anzi idiotismi, cioè volgarismi,
latini. Vedi gli eruditi alla favola 5. lib.
3. di Fedro, Aesopus et Petulans.
V. anche il Forcellini se ha nulla, la Crusca ec. Noi pur diciamo
volgarmente {+e scriviamo}
tanto
meglio, tanto
peggio, ma in senso meno ellittico, più naturale e
regolare, {+anzi per lo più
regolarissimo,} e meno sovente assai de' francesi. (26. Agos.
1823.)
[3283,2] Fissare o fisare, ficcare, fixar, fixer, {+ficher,}
da figo - fixus. Affissare o affisare, {+afficher}
da affigo. Conficcare da configo. ec. Forse anche fitto sust. e affittare non d'altronde
vengono che da fictus altro participio di figo, traendo il nome dall'avviso pubblico che suole
affiggere alla sua casa, o a' cantoni della città
ec. chi vuole affittare essa casa, o possessioni, terre ec.; il quale avviso o
avvisi pubblicamente affitti si chiamano in francese
affiches, da noi volgarmente affissi. Sebbene la prep. a in affittare sembra essere espressamente aggiunta al
sost.[sostantivo]
fitto per esprimere il dare a
fitto, come in franc. affermer da ferme, e tra noi volgarmente annolare
3284 da nolo. {Veggasi per tutte le suddette voci il Gloss. se ha nulla.}
(27. Agos. 1823.).
[3288,1]
Ajouter quasi adiunctare,
aggiuntare, spagn. juntar, da adiungere. Anche il nostro giuntare è da iungere. V. la Crusca
in Giugnere §.7 e il Gloss. in iunctare, adiunctare ec. se ha nulla. (28.
Agosto. 1823.).
[3289,2]
Alla p. 3246.
Fatigo as da ago is
(v. Forcell.) se questa etimologia è vera. (Noi abbiamo fatica, volgarmente fatiga,
franc. fatigue, {+spagn. fatiga
}. Che questa sia la radice di tal verbo? {+Certo ella è voce commune a tutte tre le lingue
figlie.} Ma in tal caso dovrebb'{ella}
esserlo ancora di fatisco per venir meno? il che non {parrebbe} probabile.
V. il Gloss. se ha nulla). Ago ha dal
participio actus il frequentativo actito, e dall'antico e regolare agitus
l'usitato continuativo {o frequentativo}
agito. {+Non so
se mitigo as possa aver nulla che fare con questo
discorso.}
(28. Agos. 1823.).
[3298,5]
Pattare, impattare, {empatar,} non so s'abbiano a
far nulla con paciscor - pactus. Veggasi il Gloss. in proposito.
(29. Agos. 1823.).
[3317,1] Italianismi nell'uso della voce unus. Vedi Svetonio, in Iul.
Caes. cap. 32. §. 1. e quivi il Pitisco ec. col Forcellini ec. (1. Sett. 1823.).
[3340,1] I francesi amano di usare il numero ordinale pel
cardinale. Louis
catorze, livre deux etc.
3341 Pretto idiotismo e sgrammaticatura. Or vedilo altresì, se non fallo, appo Svetonio
in
Iul. Caes. c.
39. §. 4. e appo gli autori quivi allegati dal Pitisco ec. (2 Settembre. 1823.). {{V. p. 3544.
3557.}}
[3343,1]
Tapino donde se non da ταπεινός? (3. Settembre
1823.)
[3344,1]
3344
Scrissero, vissero, dissero, videro, diedero, tennero e simili
innumerabili, quasi da scripsĕrunt, vixĕrunt, dixĕrunt, vidĕrunt, dedĕrunt, tenuĕrunt. Così veramente dissero molti poeti, massime
i più antichi, e che tal pronunzia fosse {o restasse}
propria del volgo romano, il quale conservasse anche in questo l'antichità e
{+la trasmettesse fino a noi,}
si può raccogliere da certi versi popolari portati da Svetonio in Jul.
Caes. cap. 80 §. 3. (dove si veggano le note del Pitisco ec.), {che correvano in Roma} sugli
ultimi tempi di Giulio Cesare. Dico
popolari, {#1. lo dice Svetonio nello stesso cit. luogo: vulgo
canebantur.} e in fatti si paragonino con quelli
riportati dal medesimo Svetonio
ib. cap. 49. §. 7., ch'erano
cantati dalla soldatesca di Cesare.
(3. Sett. 1823.).
[3361,1]
Constater franc. continuativo di consto as, non mutato l'a di constatus in i, il che
dimostra che questo continuativo dev'essere latino-barbaro, o d'origine
francese. Il simile dicasi dello spagn. horadar
(anticamente foradar) da foro
as. V. il Gloss. se ha nulla in proposito.
(5. Sett. 1823.)
[3430,1]
3430
Altronde per altrove, e indi fors'anche quasi ivi o
colà, delle quali cose ho detto altrove pp. 511-12
p.
1421
p.
2865. Vedi Petrarca
Son.
Io sentia dentr'al cor già venir
meno
*
.
(15. Sett. 1823.)
[3460,1]
Relatar spagnuolo, cioè riferire, raccontare, da relatus di refero. Relater francese antico, vale il medesimo. (18.
Sett. 1823.).
[3488,1]
Alla p. 2928. marg.
fine. Da falsus di {{fallere (fatto}}
{aggettivo)} gli spagnuoli falto (seppur e' non fosse contrazione di fallito, ma non credo, e in tal caso gli spagn. direbbero anzi faldo da un falido), e falta sostant. per falsa, e
così il francese faute, cioè falte. E da falto o da falta il verbo spagn. faltar per falsare che noi diciamo, e che si disse ancora in
latino (v. Forcell.), e che i francesi dicono fausser; e per fallare o fallire ital., faillir
franc., fallere lat. Faltar la
palabra spagn. fausser sa parole, franc. falsare la fede, Speroni
Orazz.
Venezia 1596. Or. 8. contra le
Cortegiane, par. 2. p. 195. ovvero fallire la promessa, ib. p. 198. fine. {#1. falseggiar
l'amore per mancar delle promesse fatte in
amore, abbandonando una donna per amare
un'altra, o amando un'altra insieme, malgrado delle parole date. Speroni
Dial. 1. Ven. 1596. p. 9.
principio.
V. p. 3772 (1). {+(1.) Esempi analoghi di frasi vedili
nell'Alberti in faillir.}}
V. la
Crusca e il Glossar.
(21. Sett. Festa di Maria Santissima Addolorata. 1823.)
[3491,2]
Rasito as da rado is - rasus, frequentativo. Il continuativo si trova in
francese, cioè raser, che resta in luogo del positivo,
mancante in quella lingua. (22. Settembre 1823.). {{V. ancora nello spagnuolo, arrasar.}}
[3515,1] A quello che altrove ho detto pp. 980-81
p.
2358 di occhio e di ojo
{formati regolarmente} da oculus, non da ocus, come potrebbe parere,
aggiungasi che anche œil viene manifestamente da oculus (v. la pag. qui dietro [p. 3514,2]), e
non potrebbe venire da ocus. Aggiungi ancora a quello
che ho detto in tal proposito, che da somniculosus
abbiam fatto oltre sonnacchioso e sonnocchioso, anche sonnoglioso e sonniglioso, mutato il cul
in gli, come in vermiglio da
vermiculus, di cui v. pur la pag. antecedente [p.
3514,2], {+e in periglio da periculum, e
in coniglio (conejo) da
cuniculus. Quindi i diminutivi spagn. in illo, da iculus.}
(25. Sett. 1823.). {{Abbiamo anche sonnoloso.}}
[3542,2] Continuativo o frequentativo. Perpetuito as da perpetuo
as - perpetuatus. Vedi Forcell. in Perpetuitassint.
3543 Se già questa voce non fosse fatta (che nol credo)
da perpetuitas, come forse necessitare ital. ec. da necessitas, di che
ho detto altrove p. 3023. (28. Sett. 1823.).
[3543,3] Intorno allo spagn. pintar
ho detto altrove p. 1155 che il primitivo e regolare participio di
pingo, tingo e simili,
fu pingitus, tingitus ec.
Poi pingtus, tingtus ec.,
poi pinctus, (e quindi pintar, quasi pinctare);
3544 e in questo {3.o} stato molti di tali
participii rimasero, come tinctus, cinctus ec. Molti altri passarono a un quarto stato,
ove si fermarono, come pictus, fictus. {ec.} Ma noi li conserviamo per lo
più nel 3.o stato: pinto, finto. {#1. francese peint, feint. Abbiamo
anche pitto, fitto, ma
antichi o poett. ec.} Lo spagn. (regolarissimo ne' participii passivi
sopra ogni altra sorella, e sopra la stessa latina ec. nel modo che altrove ho
detto {#2. p. 3074.
segg.}) conserva il primitivo fingitus in fingido. (28. Sett.
1823.).
[3548,1]
Insetare (che noi volgarmente ma più correttamente
diciamo insitare, e forse così tutti fuor di
Toscana, come anche diciamo insito per innesto) è continuativo di insero-insevi-insitus (diverso da insero
erui
ertum); e ben s'ingannerebbe chi lo facesse tutt'uno
coll'altro insetare (da seta) come par che faccia la Crusca. Il francese enter forse ha la stessa origine, se non è fatto dal
nome ente. Gli spagnuoli hanno {+in questo significato} il verbo originale enxerir (insero, {insitum o}
ertum), come ancor noi l'abbiamo oltre al sopraddetto,
ma tra noi è tutto poetico, cioè introdotto da' poeti, e da loro usato; benchè
da essi pigliandolo, anche in prosa ben l'useremmo. (29. Sett.
1823.).
[3558,2] Dalle cose altrove dette (nel principio della
3559
teoria de' continuativi
pp.
1105-106) intorno al verbo aspettare si può
dedurre con verisimiglianza che nel volgare latino aspecto
as avesse il significato che ha oggi in italiano, come l'ebbe in lat.
expecto; massime considerando il corrispondente
greco προς-δοκάω che letteralmente si renderebbe appunto ad-spectare, e lo spagn. a-guardar ec. Attendere
attendre per aspettare, è
traslazione fatta appunto nello stesso modo, cioè dalla significazione di osservare a quella di aspettare (e notate anche in attendere la
preposizione ad in conferma della sopraddetta
congettura); siccome all'incontro può
vedersi nel Forcell. un esempio di
Tacito, dove
aspectare è preso per attendo is (il che potrebbe anche in certo modo confermare
la stessa congettura). I quali dati possono farci ancora congetturare che attendere nel significato d'aspettare ch'egli ha nelle due lingue figlie ital. e franc. abbia la
sua origine nel volgare latino ec. V. il
Gloss. in aspectare, attendere ec. se ha nulla.
(30. Sett. 1823.).
[3560,2] Francesismo ed italianismo (fors'anche spagnolismo)
3561 del genitivo plurale invece dell'accusativo
del medesimo numero, appresso Aristot.
Polit. l. 3. ed. Flor. ap. Iunt. 1576. p. 209. mezzo, e veggasi
quivi il commento di Pier Vettori.
(30. Sett. 1823.). {Noi ed i francesi usiamo il genititvo plurale anche in vece del
nominativo plurale. Anche in caso terzo ec. a di
molti, con di molti, à des femmes ec.}
[3568,3] A ciò che ho detto p. 2194 del nostro
usare, usar, user continuativo di utor-usus, aggiungi
3569 il nostro abusare, abusar, abuser, continuativo di abutor - abusus, e v. il Gloss.
se ha nulla. Oltre disusare, ausare
{o}
adusare ec. (1. Ott. 1823.).
[3585,1]
Alla p. 2821.
Che tutto ciò sia vero, e della derivazione di confutare ec. da fundo, e del participio futus per fusus ec.
osservisi il nostro rifiutare, ossia il latino refutare (che significa sovente lo stesso), dirsi nel
francese, refuser e nello spagnuolo, refusar
{o}
rehusar, come da refusus o
da fusus, noti participii di fundo o refundo. Eppur tanto sono i verbi
francese e spagn. quanto l'italiano e il latino. I francesi hanno anche réfuter
3586 in altro senso, (ch'è il proprio di refuto e il più frequente) ma questo è certamente
molto meno volgare e più moderno (benchè non moderno) di refuser, e non conservato ma ricuperato per mezzo degli scrittori ec.
non del popolo, e non continuatamente pervenuto dalla lingua latina nella
francese.
[3587,1] Diciamo volgarmente e con eleganza scriviamo, senz'altro pensare, senz'altro
dire o fare, senz'altro preparativo, senz'altra cura,
senz'altro curarsene e simili, per senza nulla pensare, senza niun
preparativo, niuna cura ec. Nelle quali frasi
la voce altro ridonda, e {s'usa} per pleonasmo, venendo in somma quelle locuzioni a dire senza pensare (anche il nulla è inutile qui, perchè il senza
privativo, unito a pensare, comprende il detto
vocabolo, giacchè chi non pensa, nulla pensa), senza preparativo, cura, (e
qui pure sarebbe pleonastico il niuno, sebben s'usa,
come il nulla nel caso sopraddetto) senza curarsene ec. Veggasi lo Speroni, solertissimo raccoglitore, e larghissimo spenditore
delle più fine e più varie e moltiplici eleganze di nostra lingua; nel
Discorso o lettera Del tempo del
partorire delle donne, che tiene il terzo luogo
3588 fra' suoi Dialoghi
Ven. 1596. p. 53. lin. penultima. Or
confrontisi questo mero idiotismo italiano, e proprio tutto della lingua, e
perciò elegante collo stessissimo idiotismo usitato nella lingua greca ed attica
da' più eleganti e studiati scrittori. V.
Creuzer
Meletemata ex disciplina antiquitatis,
par. 1. Lips. 1817. p. 83. not. 62. e Platone
nel Convito ed. Astii
Lips. 1819. sqq. t. 3. p. 472. B. v. 1. e p. 532. v.
7. Ai quali esempi è anche più conforme quello del Petrarca recato
dalla Crusca alla voce Altro dalla Canz. 18. 6. dove
altra parimente e manifestissimamente ridonda,
anzi pare affatto fuor di luogo e contraddittorio, come {appunto} in alcuni de' passi greci che son da vedere ne' luoghi
accennati. {+E così un altro esempio dello Speroni nel Dialogo della
Retorica. Diall.
Ven. 1596. p. 153. lin. 26. e
Dial.o 10. p. 207. lin. ult.}
Vedi ancora il Forcellini se ha nulla. Senz'altro vale similmente alcune volte senza nulla, semplicemente,
onninamente ec. V. p. 3885. Così ἄλλως, del che vedi le mie Annotazioni
all'Eusebio
del Mai.
(3. Ott. 1823.).
[3588,1]
Alla p. 3080.
Assaltare, assaltar è un
continuativo latino - barbaro di assalire pur latino -
barbaro, ed è nella stessa significazione di questo. (V. il Glossar. in
Assaltare, Assalire, Adsalire ec.) Laddove sobresaltar è in significato diverso da sobresalir (saltar conserva il significato
latino, ma salir non
3589
già, se non alla lontana o in parte ec. V. il Forcell.), e non ha con
esso niuna analogia di significazione. Così risaltare
e risalire; da ambedue i quali è affatto diverso e
lontano di significato il nostro risultare o resultare (resultar, résulter), e da questo e da quelli il latino resulto
(v. il Glossar.). Resulto però e risultare ec. sono per origine gli stessi che risaltare, e vengono entrambi da resilire, che noi diciamo risalire con
corrotta significazione. (rejallir forse è lo stesso
che resilire, e jallir per
origine lo stesso che saillir, e salire lat. come anche, in parte, per significato.) Così assaltare è per origine lo stesso che assultare (vera forma latina di questo verbo), il
quale ha anche talvolta una significazione o uguale o simile a quella di assaltare, come pure assilire. (V. Forc. in assilio ed assulto, e il Gloss. in
adsalire e assultare ec.) {Divenire-diventare fa a
questo proposito.} Continuativo affatto italiano di un verbo affatto
italiano, ma pur continuativo formato alla latina, cioè dal participio del verbo
originale, si è scortare (coll'o largo) da scorto di scorgere in significato di guidare ec. (se
pur non fosse
3590 da scorta
sostantivo: i francesi hanno escorte ed escorter). Il qual verbo scorgere fratello di accorgere (e s'altro
n'abbiamo di cotali) {+è tutto italiano,
non men che accorgere ec. ma forse questi verbi
vengono originariamente per corruzione di forma e traslazione di significato
ec.} dal latino corrigere. V. il Gloss. se ha niente in proposito. Forse vi fu un
excorrigere (scorgere),
un adcorrigere (accorgere)
ec. E la metafora sarebbe al contrario di avvisare,
che dal vedere è passato all'ammonire ec. (v. il detto altrove di questo verbo avvisare
pp.
2843-45
p.
3019). Laddove scorgere dall'ammonire (correggere) sarebbe passato al vedere. Ma l'uno e l'altro significato si troverebbe
appresso a poco in accorgere (accorgimento, accortezza
ec.), come appunto in avvisare (avviso per opinione, accortezza; avvisamento; avvisato per accorto ec.
ec.). Del resto scorgere sarebbe contratto da corrigere come porgere da
porrigere, e simili. (3. Ott.
1823.).
[3616,2]
Tostar spagn. da torreo-tostus. (6. Ott. 1823.).
[3621,2] Participii in us di verbi
neutri in senso neutro. V. Forcell. in Desitus confrontando quegli esempi col quarto esempio di Desino appresso il medesimo Forcellini.
(7. Ott. 1823.).
[3625,1]
Alla p. 2821.
fine. Nótisi il significato continuativo di confuto nell'esempio di Titinnio appo il Forcell. dove questo verbo
sta nel senso proprio, e questo si è quello di confundo, ma continuato, come excepto in un
luogo di Virgilio da me altrove
esaminato p. 1107, per excipio. Nótisi
ancora che nell'improprio suo ma più comune significato, confuto è vero continuativo di confundo.
Anche noi diciamo (e così i francesi ec.) confondere uno
colle ragioni, confondere le ragioni di uno,
confondere l'avversario ec. e ciò vale confutare, ma questo esprime azione e quello è quasi
un atto, e quasi il termine e l'effetto del confutare
ec. Le quali osservazioni confermano la derivazione di confuto da noi e dagli etimologi stabilita. Così mi par di spiegare la
traslazione del suo significato da quel di mescere
insieme a quel di confutare, e così mi par di
doverlo intendere; non ispiegarlo per compescere e
derivar la metafora da questo lato, come fa il Vossio (ap. Forcell.) il quale anche
3626 par che derivi confuto da futum nome (dunque da questo anche futo?), per la solita ignoranza in materia de'
continuativi. E se tal derivazione egli dà (come è anche più naturale ch'ei
faccia) anche al confuto di Titinnio, e lo spiega pure per compesco, s'inganna assai. {V. p. 3635}
Significazioni analoghe a quella nostra metaforica di confondere gli avversari ec. vedile nel Forcell. in confundo, confusio, confusus, {#1. e nel
Gloss. in Confundere,} avvertendo che la lingua latina antichissima
aveva delle metafore e degli usi di parole molto più simili ai moderni che non
ebbe poi l'aurea latinità, o piuttosto il latino più illustre scritto; e n'ebbe
in grandissima copia; e che queste parole e questi usi, e generalmente le
proprietà del volgare o familiar latino, più si veggono negli scrittori de'
bassi tempi (or v. gli esempi di Sulpicio Severo nel Forc. in confundo e confusus), e ne'
volgari moderni che negli aurei scrittori, perchè questi seguivano più
l'illustre, e quelli il familiare, questi fuggivano il volgo, e quelli o per
ignoranza o
3627 per elezione, gli andavan dietro,
questi avevano una lingua illustre e una parlata, quelli non avevano già più una
lingua illustre che fosse per essere intesa quando anche l'avessero saputa
scrivere, ma lingua scritta e parlata era per loro una cosa sola, o tra se molto
meno diversa che non nell'aureo secolo e ne' prossimi a quello. Siccome eziandio
tra gli scrittori aurei, i più antichi e i più familiari, semplici e rimessi di
stile, più conservano dell'antico latino, più rappresentano della frase volgare
e parlata, {+più hanno delle voci e
locuzioni, e delle significazioni ed usi di voci, conformi ai volgari. Così
Cornelio, Fedro, Celso ec.} più somigliano quella degli scrittori bassi e
de' volgari moderni. I più antichi (coi quali vanno quelli che più si tennero
all'antico per loro instituto, come Varrone, Frontone ec.)
perchè il linguaggio illustre e scritto non era ancor ben formato e determinato,
nè molto nè ben distinto dal parlato e familiare. I più semplici e rimessi
perchè o per istituto o per un poco meno di abilità nello scrivere {e minore studio fatto della lingua, o minor diligenza posta
nel comporre,} non vollero o non seppero troppo scostarsi dal
linguaggio più noto e succhiato da loro col latte, cioè dal familiare e parlato.
Onde a noi
3628 paiono amabilissimi e pregevolissimi
per la loro semplicità ec. ma certo a' contemporanei dovettero riuscire poco
colti. Osservo infatti che fra gli scrittori dell'aureo secolo quelli che fra noi tengono le prime lodi per la
semplicità e dello stile e della lingua (la quale in loro è sempre notabilmente
affine alla frase italiana e moderna, ed anche a quella de' tempi bassi), o non
si trovano pur nominati dagli antichi, o appena, o in modo che la loro stima si
vede essere stata come di autori, al più, di second'ordine. Tali sono Corn. Nepote, Celso, Fedro, giudicato dal Le Fevre
il più vicino alla semplicità di Terenzio
(v. Desbillons
Disputat. II. de Phaedro, in fine), e
simili. De' quali gli stessi moderni, vedendo la diversità della loro frase da
quella degli altri aurei, e giudicandola non latina (perchè non molto illustre)
hanno disputato se appartenessero al secol d'oro, ed anche se fossero antichi,
ed hanno penato a riconoscerli per autori dell'aurea latinità; e le Vite di
Cornelio sono state
attribuite ad Emilio Probo
{+(autore assai basso)} per ben
lungo tempo e in molte edizioni ec., Celso è stato creduto più moderno di quello che è, ec. Fedro è stato attribuito al Perotti,
3629
e negato da molti che la sua latinità fosse latina ec. (v. la cit. Disput. del
Desbillons). Non così è
accaduto nè anticamente accadde agli scrittori greci più semplici. Effetto e
segno che il linguaggio illustre in Grecia era, come
altrove ho sostenuto pp. 844. sgg., assai men diviso dal volgare e parlato,
e che la lingua e lo stile greco per sua natura e per sua formazione e
circostanze è più semplice ec. Onde lo stile e la lingua p. e. di Senofonte fu subito acclamata, non men
che fosse quella di Platone ch'è
lavoratissima, ec. e gli scrittori greci più semplici e familiari non hanno
aspettato i tempi moderni a divenir famosi e lodati ec. Senofonte e Platone nel loro secolo sono i due estremi quello della semplicità e
bella sprezzatura, questo dell'eleganza, diligenza e artifizio. Pur l'uno e
l'altro furono sempre quanto allo stile quasi parimente stimati da' Greci e
contemporanei e posteri, e così da' latini e dagli altri in perpetuo ec.
(8. Ott. 1823.).
[3629,1] A proposito del detto da me altrove p.
3023 sopra il verbo necessitare, notinsi i
verbi felicitare, {#1. debilitare, nobilitare, impossibilitare, facilitare, difficultare,}
ereditare e simili che son fatti evidentemente da
3630
felicità, eredità e simili,
ovvero da felicitas, hereditas ec. (8. Ott. 1823.).
[3636,1] L'uso de' diminutivi positivati {(sì verbi che nomi ec.)} o che i positivi non s'usino o non esistano
ec., o che s'usino collo stesso valore o equivalente, è comune alle nostre
lingue anche in vocaboli che non derivano dal latino, {+donde ch'egli abbiano origine. V. p. 3946.
3998..} Come in francese
{fardeau (it. fardello), marteau, martel (martello, martillo), roseau,}
berceau, tonneau ec. ec.
diminutivi per forma, sono tutti positivi di significato. {fromba e frombola coi derivati dell'uno e dell'altro. {+Puoi ved. la p. 3968-9.
3992. capoverso 1.
3993. capov. ult.; 3994. fin.
4000. fin. - 4001.
4003.} paquet
empaqueter ec. Noi volgarmente pacco e pacchetto. v. l'Alberti e gli spagnuoli.}
{fourreau
diminutivo di un fourre, onde fourrer, che rispondesse al nostro fodero o fodera. Infatti in spagn. si ha
aforro onde aforrar ec. come noi da
fodera, foderare.
L'aggiunta dell'a nel principio delle voci è
usitata assai in spagn. come in italiano (Monti
Propos. in ascendere).
Sicchè aforro è fourre.
V. {+p. 3852.}} A proposito di berceau, anche noi diciamo positivamente culla, ch'è altresì diminutivo, fatto da cuna (che noi pure abbiamo), o ch'e' sia corruzione
moderna di cunula (che si trova in Prudenzio), o ch'e' sia forma antica latina,
diminutiva anch'essa, e contratta da cunula, o
indipendente da questo. Vedi il Forcellini in trulla diminutivo di trua.
(9. Ott. 1823.). {{V. p. 3897. 3993.}}
[3638,2]
Léser o lézer da laesus di laedo. (9.
Ott. 1823.).
[3687,1]
Sella è certamente un diminutivo positivato di sedes (o di sedia, di cui
altrove p. 3350), come tra noi seggiola e seggetta sono diminutivi
positivati di seggia, corruzione di sedia, {+che
parimente abbiamo, cioè seggia e sedia, siège ec.}
Gli spagn. silla, pur diminutivo positivato. Sella it. selle franc. in
uno de' significati del lat. sella. Gli spagn. anche
qui silla. Sella per sedia, sede, è di Dante. Sella in
senso lordo, v. la Crusca. Sella
{lat.} è diminutivo come trulla e simili. Diminutivo del diminutivo, sellula. Quindi sellularius, il cui senso si
può dir positivo. Così bene spesso formula lat. formola ec. per forma.
(14. Ott. 1823.).
[3694,2]
Aiguille, aguglia, aguja, guglia (co' lor derivati
ec.) diminutivo sovente positivato, dal lat. aculeus
altresì diminutivo come equuleus. Anche il greco
ὀβελίσκος quando significa guglia è un diminutivo
positivato. ᾽Οβελίσκος e aguglia o guglia, aiguille, aguja, suonano cose simili tra loro anche nel senso
proprio. (15. Ott. 1823.).
[3695,3]
Obsoleto as da obsolesco -
obsoletus. (15. Ott. 1823.). Ma
questo non è continuativo. Esso significa obsoletum
reddere, significato alienissimo della sua formazione. Ei non è che di
Tertulliano e d'altri d'inferior
latinità (Forcell. e Gloss.). La sua
barbarie è maggiormente manifesta per la nostra
3696
teoria de' continuativi la quale fa
vedere l'improprietà e disanalogia totale (perchè niuno altro esempio ve n'ha,
ch'io sappia, nel buon latino) del suo significato ed uso. {V. Forc. in oleto.}
Completare, compléter ec.
voce moderna, sarebbe di simile genere di significazione perocch'ella
propriamente vale far completo; benchè questo viene a
coincidere col senso del verbo originario complere, il
che non accade in obsoletare, {#1. perchè obsolesco è neutro e
obsoleto attivo.} Di completare mi ricordo aver detto altrove p.
2035. Questi tali verbi son fatti da' rispettivi participii (come obsoletus, completus) già
passati in aggettivi, e non come participi ma come aggettivi, onde e' non
spettano alla nostra teoria. E' sono assaissimi. Forse ve n'ha anche nel buon
latino, sotto questo aspetto. Ma meno, cred'io, che nel basso latino, e fra'
moderni. (15. Ott. 1823.).
[3698,1] Del resto chi volesse dire che il proprio preterito
perfetto di oleo, adoleo e
simili fosse e dovesse essere olui, adolui ec. onde adolevi
inolevi ec. non sieno propri di adoleo, inoleo (ignoto), ma di adolesco veramente e di inolesco ec., osservi che anche l'altro oleo
ne' composti fa olevi per olui (Forc. in oleo); {# 1. neo - nevi, fleo - flevi ec.
ec.} e che queste desinenze evi ed ui, sono in verità una sola, cioè varie solamente di
pronunzia, perchè gli antichi latini massimamente, e poi anche i non antichi, o
meno antichi, ed anche i moderni ec., confondevano spessissimo l'u e il v
{#2. V. p. 3708..} (che già non ebbero se non un solo e comune
carattere): sicchè olevi è lo stesso che olui, interposta la e per
dolcezza, ovvero olui è lo stesso che olevi, omessa la e per
proprietà di pronunzia. Giacchè il v di questo e l'u di quello non furono mai considerate
3699 da' latini se non come una stessa lettera. Così
nell'ebraico, così nelle lingue moderne, sino agli ultimi tempi, e dura ancora
ne' Dizionari delle nostre lingue (come ne' latini) il costume di ordinar le
parole come se l'u e il v
nell'alfabeto fossero una lettera stessa, ec. ec. ec. Dunque non saprei dire, nè
credo che si possa dire, se il vero e regolare e primitivo perfetto della
seconda coniugazione abbia la desinenza in evi o in
ui, se sia docui o docevi: e piuttosto si dee dire che, se non ambo
primitive, ambo queste desinenze son regolari, anzi che sono ambo una stessa. Io
per me credo che la più antica sia quella in evi,
anticamente ei (conservata nell'italiano: potei, sedei ec. che per
adottata corruzione e passata in regola, si dice anche sedetti
{#1. Tutti i nostri perf. in etti sono primitivamente e veramente in ei, quando anche questa desinenza in molti verbi
non si possa più usare, e sia divenuta irregolare, perchè posta fuori
dall'uso, da quell'altra benchè corrotta e irregolare in origine, come
appunto lo fu evi introdotta per evitar l'iato,
come etti. E qui ancora si osservi la
conservazione dell'antichissimo e vero uso fatta dal volgar latino sempre,
sino a trasmettere a noi i perf. della 2.a in ei.
Puoi vedere la p. 3820.}
ec.), poi per evitar l'iato eϜi, e poi evi (come ho
detto altrove pp. 1126. sgg. del perfetto della prima: amai, conservato nell'italiano ec. ama
ϝ
i, amavi), indi vi (docvi) o ui (docui), ch'è tutt'uno, e
viene a esser contrazione di quella in evi (docevi). Ed è ben consentaneo che da doceo si facesse {primitivamente} nel perfetto, docei,
3700 conservando la e,
lettera caratteristica della 2.da coniugazione come l'a nella prima, onde l'antico amai. Ma l'u com'ebbe luogo nella desinenza de' perfetti della
seconda, essendo una lettera affatto estranea alle radici (come a doceo) ec.? {Impleo (compleo
ec.) - deleo (v. la p. 3702.)
es evi etum. Perchè dunque p. e. dolui e non dolevi? come
delevi che v'è sola una lettera di svario.
{+Perchè dolĭtum e non doletum?} O se
dolui, perchè delevi
e non delui? (v'ha però forse abolui, ed anche adolui ec. p. 3702. e ivi marg.) V. p. 3715.} Si risponde
facilmente se si adottano le cose sopraddette: altrimenti non si può spiegare.
L'u ebbe luogo nella seconda, come il v, ch'è la stessa lettera, ebbe luogo nella prima e
nella quarta: per evitar l'iato. L'u e il v ne' perfetti di queste coniugazioni e nelle
dipendenze de' perfetti sono dunque lettere affatto accidentali, accessorie,
estranee, introdotte dalla proprietà della pronunzia, contro la primitiva forma
d'essi verbi, benchè poi passate in regola nel latino scritto. Passate in regola
nelle due prime. La quarta è l'unica che conservi ancora il suo perfetto
primitivo (come la terza {generalmente e regolarmente,}
che non patì nè poteva patire quest'alterazione) insieme col corrotto: audii, audivi. Il latino
volgare per lo contrario non conservò, e l'italiano non conserva, che i
primitivi: amai, dovei, udii. Queste osservazioni mostrano l'analogia (finora,
3701 credo sconosciuta) che v'ebbe primitivamente
fra la ragion grammaticale, la formazione la desinenza de' perfetti della 1. 2.
e 4. e che v'ha effettivamente fra l'origine delle forme e desinenze di tutti e
tre. Analogia oscurata poscia e resa invisibile dalle alterazioni che dette
desinenze variamente ricevettero nella pronunzia, nell'uso ec., le quali
alterazione[alterazioni] passate in regola,
furono poi credute forme primitive ec. {#2.
Forse la coniugazione in cui più verbi si trovino che abbiano il perfetto (e
sue dipendenze) veramente primitivo, {+e ciò} senz'averlo doppio come que' della
quarta, {+ne' quali l'un de' perfetti
non è primitivo,} si è la 3.a}
[3704,1]
Alla p. 3702.
Queste osservazioni, e i confronti di fletum, netum e tali altri supini tutti della seconda,
confermano che suetum, exoletum, e simili, non sono di suesco, exolesco ec. verbi della terza, alla quale punto non
conviene questa desinenza, ma di altri della seconda da cui cui essi derivano.
Cretum da cerno
{#2. e suoi composti} è
corrottissimo, {{per cernitum,}}
{ch'è il vero,} e la desinenza in etum v'è accidentale ec. (15. Ott. 1823.). {#3. V. p. 3731.} Altresì quel che s'è detto de' perfetti della
seconda, e il confronto di nevi, flevi ec. mostra che suevi, crevi, adolevi ec. non sono
di suesco ec. verbi della terza. (15. Ott.
1823.). {#4. V. p. 3827.} La desinenza
{de' perfetti} in evi o
3705 in vi, propria della
prima coniugazione e, come abbiamo mostrato pp. 3698-99, della
seconda, che ora ha più sovente ui ch'è il medesimo, e
finalmente eziandio della quarta che conserva però anche quella in ii, è al tutto aliena da' verbi della terza, se non se
per qualche rara anomalia, come in crevi da cerno, {#1. e
suoi composti} perfetto irregolarissimo, per cerni, e in sevi da sero, {#2. e suoi composti}
verbo d'altronde ancora irregolarissimo, come si vede nel suo supino satum, {#3. ne'
composti situm, solita mutazione in virtù della
composizione ec. v. p. 3848.
ec.} Ovvero per qualche altra ragione come dal verbo no (di cui p.
3688.) che dovette essere della terza, il perfetto novi per evitare la voce poco graziosa ni, che sarebbe stata il suo perfetto regolare, e che
d'altronde concorreva colla particella ni: oltre che
niun perfetto latino, se ben mi ricordo, è monosillabo, ancorchè fatto da tema
monosillabo: eccetto ii da eo, e da fuo, fui,
i quali {{furono}} monosillabi, {+e forse ancora lo sono talvolta presso i poeti latini
del buon tempo ec.} secondo il mio discorso altrove fatto pp. 1151-53
pp. 2266-68 della antica
monosillabia di tali dittonghi ec. Da' monosillabi do,
sto ec. si fece il perfetto dissillabo per
duplicazione: dedi, steti,
ec. Onde avrebbe da no potuto anche farsi neni. O forse il verbo da cui viene nosco, non fu no, ma noo (νοῶ), onde il perfetto
3706
novi invece del regolare noi
sarà stato fatto (come que' della 1. in avi per ai, della 2. in evi per ei, della 4. in ivi per ii) per evitare l'iato; il quale iato però {+non può essere che} affatto
accidentale ne' perfetti di questa coniugazione. {V. p.
3756.} Così per fui,
regolare perfetto dell'antico fuo, verbo della terza,
il qual perfetto anche oggidì si conserva, e solo esso, e tutto regolare, Ennio disse fuvi, non metri causa, come crede il Forcellini, (in fuam), ma secondo me, per evitare l'iato. {#1. V. p.
3885.}
{Suo is ha sui, e non ha che questo. Abluo - Diluo ec. lui. Veggasi la p.
3732. Assuo
assui ec. e gli altri composti di suo.} L'evitazion del quale stette a cuore
principalmente agli scrittori (come anche in altre lingue), e ad essi, cred'io,
si deve attribuire l'esser passate in regola le desinenze avi ed evi (poi ui) della 1. e 2. ne' perfetti e lor dipendenze, ed in parte la desinenza
ivi nella quarta, in vece delle primitive ai, ei, ii. E quelle in avi, evi, ivi, secondo me, non furon proprie che
della scrittura, o certo del linguaggio illustre, o di esso principalmente, e
nulla o poco le adottò il plebeo, perocch'esso conservò le primitive ai, ei, ii, come lo dimostra l'italiano (e anche il francese
3707
aimai, onde lo spagn. amè,
come ho detto nella mia teoria de'
continuativi). Tornando a proposito la desinenza in vi, fuori de' detti casi, amalie[anomalie] ec. non è propria punto, anzi impropria, de'
perfetti della terza, se non per puro accidente, come in solvi, volvi e simili. Ne' quali casi il v non è di tal desinenza, nè del perfetto, {+nè dell'inflessione ordinaria de' verbi
della 3.a nel perfetto ec.} ma del tema (solvo, volvo), ed è lettera
radicale di tutto il verbo ec. Trovansi però molti verbi della 3.a che (per anomalia) fanno il perfetto in ui
(come il più di quelli della seconda): e questi sono in {molto} maggior numero che quelli della 3.a che
facciano il perfetto in vi. (siccome anche nella 2.a oggi son più quelli in ui che
quelli in vi). Per esempio l'altro sero (diverso dal sopraddetto a p. 3705.) che ha il supino sertum, nel perfetto fa serui, e così i suoi
composti. Così colo is ui. Ed altri molti. {{Ma questa desinenza è pure affatto
impropria della 3. e vi è sempre anomala, come
quella in vi o}}
{+in evi ec.
che originalmente son tutt'una con quella in ui.}
[3710,1]
Viviturus regolare, per victurus del buon latino, dimostrante il vero supino vivitum
{(vivuto)} secondo le nostre teorie (v. fra l'altre,
p. 3709. fine), vedilo in una carta del secolo del mille nel
Gloss.
Cang.
(16. Ott. 1823.).
[3715,1]
Alla p. 3700.
marg. Che la desinenza ui nel perfetto della
2,da, sia stata introdotta nel modo che abbiam detto
p. 3698, mostrasi ancora col considerarla in
alcuni verbi della 1.a. Della quale niuno dubita che il
perfetto regolare e proprio non sia quello in avi. Ma
pur parecchi suoi verbi l'hanno in ui: domui, secui, vetui, necui, {{crepui}} ec. co' loro composti
enecui, perdomui ec.
{#1. Puoi
vedere p. 2814-5. e 3570.} Or da
che è venuta quest'anomalia? Dalla stessa cagione che l'ha introdotta ne' verbi
della 2.da,
3716 nella quale ella,
per esser più comune assai che nella prima, e più comune che non è ciascuna
dell'altre desinenze, non si chiama anomalia, anzi regola; e piuttosto chiamasi
anomalia quella in evi perchè divenuta più rara, e una
di quell'altre meno comuni. Ma parlando esattamente e guardando all'origine,
quella in ui è anomalia o alterazione nella seconda
non meno che nella prima, e quella in evi è così
regolare nella 2. come nella prima quella in avi. E
più comune si è la desinenza in ui nella seconda che
nella prima, perchè l'ommissione della vocale, da cui essa deriva, era ed è più
facile e naturale circa la e che circa la a, lettera più vasta, per servirmi dell'espressione di
Cicerone in altro proposito (Orat. c. 45.
circa l'x.). Del resto, come parecchi della
seconda hanno il perfetto così in evi come in ui, qualunque de' due sia più comune, così tutti o
quasi tutti quelli della 1. che l'hanno in ui,
conservano pur quello in avi, o che questo sia in essi
il più usitato, o viceversa.
3717
{
Plico as (v.
Forc.) plicatus. Adplico, explico ec. avi
atum, ui
ĭtum. Frico as ui ctum,
fricatum. perfrico
ec. Sono as
avi
atum, ui, sonitus us. V. p. 3868. Mico as ui, micatus us. Emico as ui,
emicatio, emicatim.} E tutti altresì, se non erro, hanno il supino in ĭtum, come quelli della seconda ch'hanno il perfetto
in ui (mentre quelli che l'hanno in evi conservano altresì il vero supino in etum, credo, tutti); ovvero in ctum contratto da cĭtum (nectum, sectum ec.) come
appunto lo sogliono avere quelli della seconda che hanno il perfetto in ui, come docui-doctum contratto da docĭtum
{#1. V. p. 3723..} Ma {molti di} que'
della 1. che hanno il supino in ĭtum, conservano
altresì, come il vero perfetto in avi, così il vero
supino in atum (o il participio in atus o in aturus ec. ch'è
tutt'uno, e lo dimostra) {+più o meno
usitato di quello in ĭtum,} non altrimenti
che alcuni della seconda conservino forse accanto del supino in ĕtum il vero in ētum. Dico,
forse, perchè ora non me ne soccorre esempio. (17. Ott. 1823.).
[3751,1] Diminutivi positivati. Novello, nouveau, Novella, rinnovellare ec. ec. V. il Forc. in Novellus
(quasi iuvenculus) e {i}
derivati sopra e sotto la detta voce: gli spagnuoli ec. (22. Ott.
1823.).
[3754,1]
Alla p. 3728.
Quest'uso latino di mutare {alle volte} il primo n in g, quando
concorrerebbero due n, uso che si vede in agnatus, cognatus, cognosco, ignosco, ignotus, ignobilis, ignarus, ignavus ec. per annatus, connatus, (che
anche si trova), connosco, innosco, innotus (v. Forc.) innobilis, innarus
innavus (che sarebbero come innocens, innumerus, innobilitatus) ec. ec. (p.
3695.) {Agnomen, agnomentum ec. cognomen ec. ignotitia
(p. innotitia), tutti derivati da noo. Ignoro ec.}
corrisponde all'uso della pronunzia spagnuola che suol mutare in gn il doppio n delle parole
latine o qualunque (come año, caña per canna ec.), e che generalmente
3755 rappresenta il suo gn
col carattere ñ che è il segno di un doppio n. (Se però i latini pronunziavano ig-navus ec. come a p. 2657., l'uso spagnuolo di dir agno per annus ec. non ha
che far niente col lat. ig-navus per innavus. Tuttavia può pur avervi
che fare, in quanto anche appo gli spagnuoli quell'año
ha sempre una pronunzia di g).
[3755,1] Del resto non solo nel concorso delle due n, ma anche fuor di questo caso, i latini usavano di
preporre o frapporre avanti la n il g. Come in prognatus per pronatus (che anche si trova), {+adgnascor per adnascor,}
adgnatus per adnatus ec. (i
quali perciò dimostrano un semplice gnascor), e in gnarus, gnavus, gnavo, gnosco, gnobilis ec. (sicchè forse ignarus ec. non sono per innarus ec. ma più
probabilmente per i-gnarus, i-gnavus ec. cioè per ingnavus, ingnarus ec.). Onde resta fermo quel
ch'io[ho] detto p. 3695. che i latini usavano, come gli Eoli, il g veramente protatico
(perchè anche in pro-gnatus
per pro-natus, in i-gnobilis per in-nobilis
ec. ei viene a esser protatico.). E quest'uso ancora
3756 avrebbe qualche corrispondenza coll'uso spagnuolo di mutare alle volte, se
non erro, anche l'n semplice delle voci latine ec. in
ñ. (22. Ott. 1823.).
[3764,3]
Disperser da dispergo-dispersus. (24. Ott. 1823.).
[3771,1]
Alla p. 3729
marg. Trovansi eziandio ne' nostri antichi parecchie voci {o} significazioni ec. proprie del latino noto, ma che
ora non potremmo in alcun modo usare, ben sono usate e familiari appo gli
spagnuoli: il che
3772
{pare che} provi ch'elle fecero parte di quel volgare
che precedette ambo le lingue, del volgar latino ec. se non vogliamo supporre
che l'antico italiano allo spagnuolo, o l'antico spagnuolo all'antico italiano
le comunicasse, che nè l'uno nè l'altro è molto verisimile. (25. Ott.
1823.).
[3772,1]
Alla p. 3488.
marg. Trovo in un cinquecentista spagnuolo, ma di poca autorità, falsar la paz per rompere frodolentemente la pace, o
violar le condizioni della pace, mancare ai trattati ec. Del resto falsare in questi sensi è quasi un continuativo di fallere. Falsar la fede
nell'esempio dello Speroni è lo stesso
che il fallire, cioè fallere, la
promessa nell'altro esempio. E anche in se stesso, falsare nelle dette significazioni ha un certo senso d'ingannare, cioè
fallere, benchè forse si vorrà piuttosto dargli
quello di mancare. Ma in questo senso non si vede come
nè fallire nè falsare nè faltar ec. possano essere attivi ec. ec. (25.
Ott. 1823.). Falsare in altri sensi, (come
in falsatus e falsatio ap.
Forc.) è bensì da falsus di fallere ma preso
in senso di aggettivo; laddove ne' detti significati falsare sarebbe da falsus in senso di
participio ec. (25. Ott. 1823.).
[3816,4]
Mestare, rimestare ec. da
misceo - mixtus o mistus, quasi mistare o mixtare. V. il
Gloss. i Diz. franc. e spagn.
ec. (2. Nov. dì de' morti. 1823.). Expulser franc. da expellere - expulsus, come da pello -
pulsus, pulso as ec.
V. Forcell. in expulso ed expulsatus.
(2. Nov. dì de' morti. 1823.).
[3818,1]
Alla p. 3573.
Questa proposizione è molto azzardata. Bisogna intenderla lassamente. Per
rispetto alla lingua francese è vera, parlando generalmente. Ma per rispetto
all'italiana, dubito che sia vero neppur generalmente, ben compensate che sieno
insieme le conformità estrinseche che hanno le lingue italiana e spagnuola colla
latina. Il suono della lingua spagnuola ha più del latino, ma questa è quasi
un'illusione de' sensi. Perchè quei tali suoni latini non sono nello spagnuolo a
quei luoghi in cui erano nel latino. Per esempio la moltitudine degli s contribuisce, e forse principalmente, a
rassomigliare il suon dell'una lingua a quello dell'altra. Ma lo spagn. abbonda
di s, principalmente perchè in essa
3819 lingua tutti i plurali terminano in quella lettera. Non così in
latino. (Vero è però che in latino la terminazione in s è propria di tutti gli accusativi plurali non neutri. Ora, secondo
Perticari, i nomi latini
trasportati nelle lingue figlie, son tutti fatti dagli accusativi delle
declinazioni rispettive latine. Quindi che nello spagn. la terminazione in s sia caratteristica de' plurali, potrebb'esser preso
dal latino, e cosa anch'essa latina. E quest'osservazione può essere di non poco
peso a confermare l'opinione di Perticari; {(sebben ei parla solamente de'
singolari, i quali fatti dall'accusativo latino generano poi i plurali al
modo nostro)} mentre altri con più apparenza di ragione, ma forse men
verità, vogliono che i nostri nomi sieno gli ablativi latini. P. e. amore ec. Ma veramente non si vede perchè, dovendosi
perder l'uso degli altri casi, e restare un solo per tutti, com'è avvenuto nelle
lingue moderne, e come, certo in gran parte, dovette avvenire anche nell'antico
latino volgare e parlato, avesse a prevaler l'uso dell'ablativo. Ben è
consentaneo che l'accusativo si usasse in vece degli altri casi ec. {v. p. 3907.}) L'aggiunger {sempre} la es ai singolari
terminati in consonante non è uso latino, se non in certi casi, e nella terza
declinazione. (Noi per la terminazione de' plurali imitiamo i nominativi {latini} della seconda e della prima. {#1. Sicchè quanto alla terminazione de' plurali, la
conformità dello spagn. col latino, supposta eziandio e conceduta, come
sopra, non si può dire che superi punto quella dell'italiano. Del resto quel
continuo s che si sente nello spagnuolo fa un
suono che tutto insieme considerato è così poco, o tanto, latino, quanto le
continue terminazioni vocali dell'italiano. Il latino è temperato di queste
e di quelle, ed eziandio insieme d'altre molte terminazioni; sicchè
veramente il suo suono, parlando pure in generale e astrattamente non è nè
quello dell'italiano nè anche quello dello spagnuolo. Ben è vero che nello
spagnuolo le terminazioni consonanti sono miste come in latino, alle vocali,
laddove in italiano non v'ha quasi che le vocali; e nello spagnuolo, benchè
la terminazione in s sia, almeno tra le
consonanti, la più frequente, pur v'ha diverse terminazioni consonanti, come
in latino; e niuna terminazione in consonante, che non sia propria, credo,
anche del latino (al contrario che in francese in tedesco ec.), benchè non
sempre, anzi non il più delle volte, ne' casi stessi; e le terminazioni
vocali son piane come in latino e non acute ossia tronche come in francese.
Sotto questi aspetti il suono dello spagnuolo è veramente più conforme al
latino che non è non solo il francese ma neppur l'italiano. E da queste
ragioni nasce che udendo lo spagnuolo si possa più facilmente confonderlo
col latino che non fa il francese nè anche l'italiano. E questo effetto,
sotto questi aspetti, non è un'illusione, nè una cosa che non meriti esser
considerata, e che non abbia un principio e una ragione di conformità o
simiglianza reale. La terminazione consonante in d
frequente nello spagnuolo è rara in latino ma pur v'è, come in ad, illud, id, istud, sed ec.).} Del resto anche in francese
(bensì nel solo francese scritto) la terminazione in s
(e a' singolari terminati in consonante, si aggiunge talvolta la es, se non m'inganno) è caratteristica del plurale
(quella in x vien pure a essere in s); sicchè lo spagnuolo in questa parte non
prevarrebbe al francese se non in quanto ei pronunzia sempre la s, e il francese solo talvolta, e piuttosto per
accidente che per altro. Quanto all'
3820 italiano,
anche nelle forme regolari delle coniugazioni, esso in molte cose assai più
conforme al latino che non è lo spagnuolo. V. p. e. le pag. 3699-701. e la mia teoria de' continuativi dove si parla del digamma
eolico in amaFi ec pp. 1126-27. E
basti osservare che lo spagn. non ha che tre coniugazioni; l'italiano le ha
tutte quattro, e tutte, in molti caratteri, corrispondenti alle rispettive
latine, come negl'infiniti āre, ēre, ĕre, īre (lo
spagnuolo manca del 3.o e gli altri non gli ha che tronchi), e in altre cose.
Anche il francese ha 4. coniugazioni, ma non corrispondono alle latine (eccetto
quella in ir quanto all'infinito ec.), e la conformità
del numero {(cioè l'esser 4. come in latino)} sembra,
ed è forse, un puro caso; il che non si può certo dire dell'italiano. E quanto
alla conservazione della latinità in mille e mille altre sì regole, sì voci
particolari materialmente considerate, sì frasi considerate pure materialmente
(chè ora parliamo dell'estrinseco), {significati ed usi delle
parole e frasi, anche propri originalmente o sempre del popolo e del
parlato, non del solo illustre ec.} dubito assai che lo spagnuolo
possa esser preposto, anzi pure agguagliato all'italiano. Questa e quell'altra
voce {ec.} sarà più latina in ispagnuolo che in
italiano (così avverrà alcune volte che nello stesso francese una voce ec. sia
più latina che nelle due sorelle, {o in una di loro,} o
che queste {o l'una di esse,} non abbiano una voce ec.
nel francese conservata, {+nè pertanto
sarà chi dica la latinità conservarsi più nel francese che nelle sorelle, o
che nell'una di esse}); questa e quella voce latina resterà nello
spagnuolo, e all'italiano mancherà; ma, raccolti i conti {e
computati i casi contrarii, e posto tutto insieme,} io credo che in
tutte queste cose l'italiano soverchi lo spagnuolo di grandissima lunga.
(3. Novembre 1823.).
[3828,1]
Irascor sta nel Forcell. senza supino
nè perfetto. Trovasi iratus. Vero participio, benchè
{forse,} almeno in certi casi, aggettivato, come
tanti altri. Or donde viene questo participio? Non dimostra egli un verbo della
prima? un verbo onde venga sì egli sì irascor? Cioè un
antico iror, conservato nell'italiano (irare, adirare, {airare} ec. con lor derivati
ec.), e v. gli spagn. (4. Nov. 1823.).
[3834,1] Dico altrove p. 1279
pp. 2152-53
p.
2824 che noi sogliamo cangiare l'i de'
participii latini in us, usitati o inusitati, nella
lettera u. Che questa mutazione dell'i in u (mutazione propria
della voce umana, come ho detto altrove in più d'un luogo) ci sia naturale
segnatamente in questo caso, veggasi che noi diciamo concepito (regolare lat. ant. concepitus), e
conceputo (diciamo anche concetto voce tolta dal latino dagli scrittori e dalla letteratura).
Ma questo secondo è più italiano ed elegante. Così empiuto, compiuto, riempiuto ec. rispetto ad empíto, compíto (in alcuni sensi però non si potrebbe dir compiuto per compito ma
questi sono anzi forestieri che no) ec. Così forse altri ec. Nótisi però che i
grammatici distinguono empiere ec. ed empire (meno elegante) ec.; concepere e concepire; e ad empiere danno empiuto ec., a
concepere
conceputo; ad empire
empíto ec. (5. Nov. 1823.).
[3851,2] Participii passivi di verbi attivi o neutri, in
senso attivo o neutro ec. Ho detto altrove p. 3072 dello
spagn. parida participio sovente (o sempre; v. i Diz.)
attivo intransitivo di senso. Simili ne abbiamo ancor noi parecchi, e molto
elegantemente gli usiamo, in luogo de' participii veramente attivi di forma, il
cui uso è poco grato alla nostra lingua, non altrimenti che alla francese e
spagnuola. Uomo considerato, avvertito, avvisato vagliono considerante, avvertente ec.
cioè che considera ec. {veri}
attivi di significato, benchè intransitivi. Simili credo che si trovino ancora
nel francese e più nello spagnuolo che se ne servono parimente in luogo de'
participii di forma attiva poco accetti a esse lingue {#1. Avisado per prudente,
accorto, e anche dello spagn. ma dubito che in ispagn. avisar abbia quel tal senso attivo analogo a questo di accorto
ec., il quale egli ha tra noi. V. p.
3899.} La detta sorta di participii passivi attivati, fatti
da' verbi attivi ec. (ed infatti essi o sempre o per lo più, hanno ancora il
proprio lor significato, cioè il passivo) è massimamente usata da' nostri
antichi del 300. e del 500. che ne hanno in molto più copia che noi oggidì non
sogliamo usare o punto, o solo in senso passivo. La nostra lingua somigliava
anche in questo alla spagnuola la quale mi pare che anche oggidì conservi quest'uso più
3852 frequente che non facciam noi, accostatici ora ai
francesi, a' quali esso è men frequente che agli altri, siccome esso pare
singolarmente proprio della lingua spagnuola ec. ec. (10. Nov.
1823.).
[3852,4]
Contracter francese per contrarre, come in contrario lo spagn. traher alle volte nel senso di tractare,
secondo che ho detto nel principio della teoria de' continuativi
pp. 1104. sgg.
(10. Nov. 1823.).
[3869,1] Al detto altrove p. 3543 di tosare, tonsito ec. aggiungi
detonso as da detondeo.
(12. Nov. 1823.).
[3872,1]
Alla p. 3854.
Nondimeno i supini contratti della 2. poterono anche direttamente venire dai
rispettivi supini in ētum senza passare per la forma
in ĭtum, cioè p. e. doctum
esser contratto da docētum, non da docĭtum, soppressa la ē,
come nei perfetti in ui della stessa coniugazione,
cioè p. e. docui ossia docvi, ch'è contrazione di docēvi. Onde adultum cioè adoltum,
potrebbe benissimo venire da adolevi senza adolui, cioè essere una contrazione {immediata} di adoletum fatto
da adolevi. Anzi siccome per una parte non suole l'ē passare in ĭ,
dall'altro[altra] non veggo ragion
sufficiente per cui da' perfetti in ui sì della
seconda sì della prima, si debba fare un supino in ĭtum, io dico che tutti i supini in ĭtum
{+usitati o no} della 2. e della 1.
vengono bensì da' perfetti in ui, ma non
immediatamente. Da' perfetti in ui che sono contratti,
p. e. domvi da domavi, mervi da merevi, vennero dei
supini contratti, cioè domtum, mertum (che noi {infatti} ancora abbiamo, e i franc. domter
ec.), ne' quali era soppresso l'ē e l'ā come ne' perfetti. Da questi supini poi,
interpostavi per più dolcezza la lettera ĭ, solita
(com'esilissima ch'ella è tra le vocali) sì nel latino sì altrove ad interporsi
tra più consonanti, quando non si cerca altro che un appoggio e un riposo
momentaneo e passeggero alla pronunzia, {+riposo fuor di regola e originato ed autorizzato solo dalla comodità della
pronunzia, onde quella vocale non ha che far col tema, ed è accidentale
affatto, e un semplice affetto e accidente di pronunzia;} vennero i
supini in ĭtum come domĭtum,
merĭtum. Sicchè al contrario di quel ch'io ho
detto per lo passato pp.
3701-702
p.
3708
p.
3717,
3873 i supini contratti precederono
quelli in ĭtum, e questi vengono da quelli, e li
suppongono e dimostrano, ma non viceversa. Sicchè doctum non dimostra nè esige che vi fosse un docitum, bensì meritum un mertum; sectum non dimostra
un secitum, bensì domitum un
domtum (simile ad emtum
ec. onde domter ec.). Bensì i supini contratti, e per
conseguenza anche quelli in ĭtum, che ne derivano,
suppongono e dimostrano i perfetti in ui. Da' quali
immediatamente e regolarmente vengono i supini contratti, e mediatamente e
irregolarmente quelli in ĭtum (specie di pronunzia de'
contratti, e però contratti essi stessi; avendo l'esilissima i e breve, in cambio dell'ā
o ē): e non viceversa, come per l'addietro io diceva.
(12. Nov. 1823.). {{V. p.
3875.}}
[3875,1] Ho detto altrove p. 3312 che patulus sembra diminutivo positivato di un patus. Male. Non tutti i nomi in ulus, nè tutti i verbi in ulare sono
diminutivi {neppur per origine e regola di formazione}:
p. e. iaculum da iacio, speculum e specula da specio, vehiculum, curriculum, adminiculum, amiculum da amicio, periculum da πειράω, iaculari, speculari, famulus, famulor ec., {+retinaculum, miraculum, obstaculum,
stimulus, stimulo,
stabulum, stabulo,
pabulum, poculum,
fabula, fabulor ec.
(v. la p. 3844.), crepitaculum, sustentaculum, baculum, baculus, osculum,
ec.}
Patulus è di questi, fatto a dirittura da pateo ec. (13. Nov. 1823.). {+Fors'anche oculus è di questi, contro il detto altrove pp. 980-81
p.
2281
p.
2358
p.
3557. V. Forc.
ec.}
[3881,3]
Alla p. 3850.
fine. Buo è andato in disuso restando il
composto imbuo. Se però imbuo è da in e buo (v. Forc.) e non piuttosto corruzione e
pronunzia d'imbibo (che pur sussiste) pronunziato imbivo (imbevere, imbevo
{+che vale appunto imbuo, ed è certo da bibo, e v. i
francesi e spagnuoli}) - imbiuo - imbuo, come lavo ne'
composti e nel greco è luo, e per lo contrario da pluere noi facciamo piovere,
llover ec. {Puoi vedere la p. 3885.}
E mille esempi in questi propositi si potrebbero addurre. Così exbuae sarebbe corruzione {o
pronunziazione} di exbibae, vinibuae di vinibibae,
fors'anche bua (bumba) di biba. Di tali cangiamenti {{nati
dall'}}affinità ec. tra il v e l'u, ho detto altrove p. 3235
pp.
3698-99
pp.
3731-32. Ovvero Imbuo può esser fatto
direttamente da in e da bua
(bevanda), sia che questa voce sia alterazione di biba, o che sia un antico monosillabo significante bevanda, restato poi solo per usi puerili, sia anche in origine una
voce puerile. (14. Nov. 1823.).
[3886,1]
3886 Altrove osservo pp. 980-81
pp.
2281-83
pp.
2375-76
pp. 3514-15
p. 3557 che il cul de' latini si cangia
assai sovente nell'italiano in chi o cchi (o-cu-lus, o-cchi-o) o gli (pe-ri-cul-um, peri-gli-o), nello spagnuolo in i (o-cu-lus, oj-o) nel francese in ill o il o eil o eill
{+o ail o aill} ec. (péril,
abeille, vermeil, ouaille, o-cul-us, o-eil ec.). Nótisi che tali cangiamenti non sono certo
direttamente stati fatti da cul, ma da cl contratto nella volgar pronunzia latina, come si
vede anche non di rado nel latino illustre e scritto, massime appo i poeti; come
seclum, periclum ec.
(17. Nov. 1823.).
[3893,1]
Tio spagn. Zio ital. ϑεῖος
grec. p. 2465
(19. Nov. 1823.).
[3896,1]
3896 D'emblée viene
evidentemente dal greco ἐμβάλλω. Grecismi del volgare italiano vedine ap. il
Vettori
Commentar. in
Aristot.
Polit. Lib. 7. fin. Florent. 1576. p.
646 fin.- 647 princip. Il luogo di Aristot. quivi citato è ib. p. 641. fine.
(21. Nov. 1823.).
[3897,1]
3897 La negativa francese ne
è l'antichissima de' latini, i quali dicevano ne e nec per non, {ne quidem per nec quidem.} come ho
discorso in proposito di nihilum parlando della voce
silva e della sua origine pp. 2306-12 , e mostrato ancora che ne serviva in composizione di particella privativa,
{nequam ec. dove il ne è privativo, ec.} come in greco νη, νε,
ν, e per conseguenza sì essa che le dette greche originariamente dovettero certo
essere particelle negative, {cioè} assolutamente
servienti alla negazione ec. E v. il Forc. in Ne, Nec ec. e i Lessici
greci in νη ec. (22. Nov. 1823.).
[3899,2] Voce comune alle tre lingue: Ciabatta, zapato, savate (è noto che il nostro c molle, in
ispagnuolo è z, in francese vale s), savaterie, savetier, zapatero, ciabattino, acciabattare ec. ec. Anche le
metafore di tali voci, come di saveter e acciabattare, di ciabattino
e savetier per mauvais
ouvrier ec. ec. sono conformi, almeno tra l'italiano e
il francese, giacchè il significato di ciabatta, savate, zapato, benchè
simile, è alquanto diverso nello spagnuolo ec. (23. Nov. Domenica.
1823.).
[3900,5]
Alla p. 2843.
Che inceptare in questo senso d'incettare, cioè
3901 come composto di capto, non sia alieno dall'antica latinità, secondo
che ho detto in una delle pagg. citate in quella a cui questo pensiero
appartiene pp. 3350-51, me lo persuade eziandio il vedere che
detto senso è tutto latino, e alla latina ec. e quasi è lo stesso che quello del
semplice captare, se non che è determinato ad un certo
modo di far quello che si denota col verbo captare.
Del resto che la mutazione dell'a in e ne' composti, e l'altre tali, usitate regolarmente
nell'antico e buon latino, fossero trascurate ne' composti de' tempi bassi e
delle lingue moderne, ne può essere una prova appunto accattare (acheter). Vedi Glossar. in accaptare. {#1. Anche abbiamo accettare
(accepter ec.) da acceptare, ma non di capto bensì di accipio - acceptus
ec..}
(23. Nov. 1823.).
[3902,1]
3902
Andare per essere del che
altrove p. 3004
p.
3617. Petr. Sestina 1. verso penult. E 'l giorno andrà (sarà) pien di minute stelle Prima ch'
*
ec. (24. Nov. dì di San Flaviano. 1823.)
[3903,2] A ciò che ho detto altrove p. 1155
pp. 3543-44 in proposito di pintar e
dell'antico participio latino di pingo e de' verbi
simili, aggiungasi dipinto (non dipitto) sostantivo e aggettivo o participio, dipintura ec. peint, e quindi peintre, peinture ec. dépeint ec. Pitto per pinto, non è che degli scrittori. Abbiamo però pittura, pittore ec. Ma
anche pintore, pintura. Gli
spagnuoli pintor ec. Fitto
per finto (universale tra noi) non so se mai fosse del
volgo e della lingua parlata. Da finto, e non da fictus o fitto, finzione, fintamente ec.
{+infinto.
fractus
franto
infranto, enfreint
ec.} Abbiamo però anche fizione ec. I franc.
feint ec. Gli spagnuoli fingido (fingitus primitiva forma) ec. Vinto, non vitto (victus) se non poeticamente, ed or neanche ben si
direbbe in poesia. Gli spagnuoli vencido, i francesi
vaincu, che rispondono al
3904 primitivo vincitus di vinco, secondo il detto altrove pp. 3075-76
della mutazione dell'itus latino in u, nella desinenza di {molti}
participii francesi ec. (24. Nov. 1823.).
[3904,5] Ho detto altrove pp. 1031-37 che tutte le lingue nascendo
dai volgari, le nostre sono nate dal latino volgare e parlato e non dal latino
scritto. Da questo principio segue, fra gli altri molti, questo corollario che
tutte le voci, frasi, significazioni ec. italiane, francesi spagnuole, e tutte
le proprietà di queste tre lingue, o di qualunque di
3905 esse, che si trovano ancora, in qualsivoglia modo, nel latino scritto di
qualunque età, e che nelle dette lingue non sono state introdotte dagli
scrittori, dalla letteratura, da' letterati, dalla favella de' dotti o colti ec.
nè passati dall'una di esse lingue nell'altra per qualunque mezzo, dopo essere
in quella stati introdotti dagli scrittori o dal parlar letterato ec., ma che
vengono originariamente dal semplice uso del favellare ec.; furono tutte proprie
del latino volgare e parlato, non meno che dello scritto; e quindi chi cerca
l'antico volgar latino, ha diritto di considerarle come sue parti e qualità ec.
(24. Nov. 1823.).
[3908,2]
Causare per accusare, accagionare, del che altrove in proposito dell'antico
latino cuso
pp. 2809-10. Machiavelli
Vita di Castruccio Castracani, non molto avanti
il mezzo, tutte le Opere, 1550, parte 2.a p. 73.
principio. Occorse in questi tempi
che il popolo di Roma cominciò a tumultuare
per il vivere caro, causandone l'assenza del Pontifice che si
trovava in Avignone, et biasimavono i governi
Tedeschi.
*
(26. Nov. 1823.).
[3927,2] Vedi al proposito di questo pensiero le pagg. 3905-6. (27. Nov.
1823.). {{e la p. 3929. lin. 11.
12.}}
[3938,5] Al detto altrove p. 3283 di
fictus, fixus ec.
aggiungi confitto da configgere o configere (non da conficcare, come
dice la Crusca). Non si dice confisso. Per lo contrario affisso e non affitto participio. {+V.
però la Crus. in affitto
aggett., se quello non è un luogo male scritto, come pare.}
ec. (1 Dec. 1823.).
[3942,1] Scambio del g e del v. Nivis - neige - ningit o ninguit (onde il nostro negnere) e nivit, onde il nostro nevicare, quasi nivicare,
come da vello
vellico ec. frequentativi, di cui vedi la p. 2996. marg.: e vedi il Gloss. se
vuoi. (6. Dec. 1823.).
[3946,1]
Alla stessa pag.
margine. Alcune di queste voci potrebbero anche venire dal latino o
ignoto, o volgare, o barbaro ec. e se ne vegga il Gloss. ed anche
il Forcell. ec. (6. Dec.
1823.).
[3964,2] Dico altrove pp. 3586-87
p.
3637 che bisogna esattamente distinguere tra' vocaboli e modi latini
conservati nelle lingue moderne, o
ricuperati per mezzo della
letteratura, scienze, diplomatica, politica, canoni, giurisprudenza, cose
ecclesiastiche, liturgie ec. (o conservati ancora per questi mezzi, ma non per
l'uso della favella ordinaria ec.). La stessa distinzione bisogna fare circa le
forme delle parole ec. atteso massimamente che le ortografie moderne sono state
da principio ed anche in seguito lungo tempo modellate sul latino, peccarono
assai e lungamente per latinismo che nella rispettiva lingua parlata non si
trovava, furono inesattissime ec. di tutte le quali cose ho detto in più luoghi
pp. 1659-60
pp. 2458-63
pp.
2884-85
p.
3683
pp.
3959-60. (9. Dec. Vigilia della Venuta. 1823.).
[3967,1]
3967 L'infinito per l'imperativo, del che altrove pp.
2686-87. Hippocrates in fine libri de aere aquis et locis. ᾽Απὸ δὲ τουτέων τεκμαιρόμενος, τὰ λοιπὰ ἐνϑυμέεσϑαι, καὶ {οὐχ} ἁμαρτήσῃ.
*
Sono le ultime parole del
libro.
(10. Dec. dì della Venuta della S. Casa. 1823.). {Questo modo è frequentissimo in Ippocrate da per tutto, come
precettista ch'egli è.}
[3968,3] Ho detto, non mi ricordo il dove pp. 2280-81, di un diminutivo, mi pare, italiano che la sua
inflessione in ol (sia verbo o sia nome ec. che non mi
sovviene) dimostrava lui essere originariamente latino. Ma si osservi che la
diminuzione in olo, olare
ec. è non men propria dell'italiano moderno di quel che sia del latino quella in
ulus, ulare, olus (come in filiolus) ec.
Ben è vero ch'essa deriva onninamente da
3969 questa
latina, anzi è la medesima con lei. Del resto l'aggiunta dell'u in questa nostra inflessione (come in figliuolo ec.). 1. è una gentilezza della scrittura e
ortografia, un toscanesimo, non è proprio della favella, seppur non lo è della
toscana, e in tal caso, che non credo neanche in toscana
sia troppo frequente e' sarebbe un accidente della pronunzia. 2. non si trova
nelle più antiche scritture, nè in moltissime delle meno antiche, benchè esatte,
anzi fuorchè nelle moderne, {forse} nel più delle
scritture ella manca, {+e credo ancora
che manchi regolarmente anche oggidì, almeno secondo l'ortografia della
Crusca, in molte parole dove l'olo è pur lungo.} 3. ella svanisce regolarmente (per la
regola de' dittonghi mobili) sempre che l'accento non è sull'o: quindi da figliuolo
figliolanza ec. 4. essa è veramente una proprietà
italiana onde anche da sono, bonus e tali altri o semplici, facciamo uo, come suono, buono ec. siccome gli spagnuoli ue, che pur si risolve, o ritorna, in o
sempre che l'accento non è sull'e, come da volvo
buelvo e poi bolver ec.
{V. p.
4008.}
{+E anche quando la desinenza ec. in olus o ulus ec. non è
diminutiva, noi ne facciamo sovente uolo
{ec.} come da phaseolus,
fagiuolo ec.} 5. Essa manca sempre in
moltissime parole {italiane,} come in tanti verbi
diminutivi o frequentativi ec. in olare de' quali ho
detto altrove pp. 2280-81
pp.
1116-17
p.
1241, che sarebbe sproposito scrivere in uolare. Insomma essa giunta non è propria di questa tale italiana
inflessione diminutiva derivante dal latino, ma è un accidente di pronunzia o di
ortografia italiana o toscana, che ha luogo anche in infiniti altri casi
alienissimi da questa inflessione, e che in questa medesima non ha sempre luogo
ec. (10. Dec. dì della Venuta della S. Casa di Loreto. 1823.).
{{V. p. 3984. 3992. 3993.}}
[3970,1] Ho detto altrove pp. 2925-26 che
male nelle nostre lingue spesso si usa per non, per particella privativa, ec. Questo è proprio
particolarmente dell'antico delle nostre lingue, e fors'anche più in
particolare, dell'antico francese. I francesi ora dicono mal-ora mé-, ch'è lo stesso (médire dir
male), e così il nostro mis (misdire, misfare). Le quali particelle
corrotte da mal e destinate alla composizione, ora
significano veramente male, ora sono assolutamente
negative o privative, come in mépriser, mépris, miscredente, misleale ec. Questa particella mis (o simile) collo stesso uso è anche comune agl'inglesi, il che
conferma il sopraddetto, cioè ch'ella {+e
così mal ec. ond'ella è corrotta,} fosse
specialmente propria dell'antico delle nostre lingue, e particolarmente
dell'antico francese. V. gli spagnuoli i quali se ne mancassero, sarebbero nuova
prova di ciò, perchè lo spagnuolo non ha forse tanto tolto dal provenzale ec.
quanto il nostro antico linguaggio, massimamente scritto ec. ec. {#1. Salvo sia sempre che mis ec. non si trovi essere di origine
settentrionale, e di là venuta nell'inglese e nel francese ec.}
(10. Dec. Festa della Venuta. 1823.).
[3978,4]
Fusa e fusi plur. lat.
sostant. di cui altrove pp. 1180-82. Così locus - loci e loca. Il che è segno di un ant. locum. Così
fusa di un fusum.
3979 Così, credo, altri nomi vi sono che hanno diversi
generi o in ambo i numeri o in un solo, senza diversa significazione. Così caelus onde caeli, e caelum che oggi non ha plurale siccome il singolare di
caelus è antiquato. (14. Dec.
1823.).
[3979,3] Quanto alla {particella}
negativa o privativa ne o nec per non, del che altrove pp. 2306. sgg.
p.
3897, dà un'occhiata nel Forcellini a tutte le voci
3980 comincianti massimamente per ne, e così nello Scapula alle voci comincianti
massimamente per νη e νε.
(14. Dec. 1823.).
[3987,4] A proposito dello spirito denso dei greci mutato in
s ec. p. 1127
pp. 2195-96 si può
notare lo spagn. sombra (coi derivati) cioè ombra da umbra. E forse qua
spetta anche il francese sombre. V. il Gloss. ec.
ec. (16. Dec. 1823.).
[3989,2]
Sculpter da sculpto - ptum. (16. Dec. 1823.).
[3990,3]
Teschio non è certamente altro che un testulum o testulus da testa per capo, mutato al
solito l'ul in i, e il t in ch per proprietà della
nostra lingua, massime antica e toscana che dice {p.
e.}
schiantare e stiantare, schiacciare e stiacciare, e
mastio per maschio
(mutando per lo contrar. il ch in t) ec. ec. Come da vetulus, vecchio, del che altrove {Puoi ved. la p.
3992. capoverso 3. e la p.
3753. marg.} così da testulum
teschio; e se vecchio è da
un veculus o contrazione di vetusculus ec. (e così viejo, vieil) nello stesso modo da testa potrà essersi fatto tesculum (come da
vetus
veculus) o teschio esser contrazione di testiculum ec. Testula si trova da testa femmin. Or avvi anche testum e
3991
testu neutro. V. Forc. E pel latino testa noi diciamo testo
masch. V. il Gloss. i franc. spagn. ec. La parola teschio par che mostri che la voce testa nel
volg. lat. si usava particolarmente per denotare il cranio ec. e ciò rende tanto
più verisimile la metafora da testa (coccia) a testa (capo) e l'analogia ec. Siccome viceversa le
cose da me dette p. 32
p. 3516 intorno a testa ec. confermano le
presenti. Da teschio ben si può argomentare a testa e viceversa, essendosi già dimostrato con tanti
esempi l'uso de' diminutivi in vece e nel senso appunto de' positivi in latino e
nelle lingue moderne. Teschio o {{testulum}} dovette forse essere in
principio un mero diminutivo positivato cioè significare il medesimo che testa preso o per capo o per
cranio particolarmente ec. Del resto circa questa
voce v. il Gloss. i francesi e spagnuoli ec. (17. Dec.
1823.).
[3997,1] Al detto altrove pp. 2865-66
p.
3901 intorno all'uso dell'avv. spagn. luego
aggiungi un esempio d'Ippocr. nel
principio del {libello}
de flatibus.
Αὐτίκα γὰρ λιμὸς νοῦσος ἐστίν
*
Verbigrazia la fame si è
un'infermità.
*
Scioccamente {la
versione emendata dal}
Mercuriale: Quare statim ubi fames molestat, morbus
fit.
*
E più scioccamente quanto quel quare non può ragionevolmente aver relazione a niuna
delle cose precedenti. (22. Dec. 1823.). {In simil senso di verbigrazia
ec. o analogo a questo, mi par che si usi eziandio lo spagn.
luego.}
[3998,3] Al detto altrove pp. 2842-43 di gozar, aggiungi gozoso, cioè
gaudiosus, quasi gavisosus. (24. Dec. Vigil. del Santo Natale. 1823.).
[4001,2] Delle colonie greche in
italia, sicilia ec. e antico
commercio ec. greco in italia, avanti il dominio de'
romani, la diffusione o formazione di quella lingua latina, che noi conosciamo,
cioè romana ec. e del grecismo che per tali cagioni può esser rimasto nel
volgare latino {in} quelle parti, e quindi ne' volgari
moderni {+in quelle parti,} e
quindi nel comune italiano eziandio, massime che la formazione e letteratura di
questo ebbe principio in Sicilia e nel
4002 regno, come mostra il Perticari nell'Apologia, ec. ec., discorrasene proporzionatamente nel
modo che altrove s'è discorso pp. 1014-16
p. 2655 delle Colonie greco - galliche, di
Marsiglia ec. in rispetto ai grecismi della lingua
francese non comuni al latino noto ec. (24. Dec. 1823. Vigil. del S.
Natale.).
[4006,4]
Appellito as, apellidar ec.
(30. Dec. 1823.).
[4008,5] Al detto altrove pp. 2757-58 d'inopinus, necopinus ec.
aggiungi odorus, il quale non mi sembra altro che
contrazione di odoratus, e in fatti è voce propria de'
poeti come le sopraddette ec. V. Forcell.
(6. Gen. 1824.).
[4010,2]
Male per non ec. di cui
altrove pp. 2925-26
p.
3970. V. il pensiero
precedente e gli spagnuoli ec. (10. Gen. 1824.).
[4014,7] Intorno al verbo italiano rotolare frequentativo o diminutivo ec. di rotare, (rotolone ec.) del quale mi pare
aver detto altrove p. 1241, osservisi il francese rouler. Se questo verbo co' suoi molti derivati (o anche voci
originarie e anteriori ad esso) di cui v. il Diz. e colla voce
rôle
{+e derivati} (ruotolo o rotolo) non vengono
originariamente dall'italiano, {+come poi
noi dal francese ruolo, arruolare ec.} ne segue che la diminuzione {latina} in ol
{o ul} dovesse anche esser
propria in certo modo del francese, non solo dell'italiano come s'è dimostrato
altrove pp. 3969-70
pp.
3993-94
p.
4003, giacchè non pare che queste voci francesi vengano immediatamente
dal latino. V. però Forcell. il Gloss. ec. Esse sono {certo} originariamente diminutive o frequentative ec. {+Rouler è
frequentativo anch'oggi in certo modo ec.}
(15. Gen. 1824.).
[4015,4] Al detto altrove pp. 2843-45
p.
3928 di avvedere - avvisare ec. aggiungi divisar spagn. (D. Quij. par. 1.
cap. 51. e v. i Dizionari)e nóta che noi {ec.} abbiamo anche divedere. {Desaguisar, desaguisado, aguisado
ec.} E che il participio visus da cui {è}
avvisare, divisare ec. (se
non sono da viso sost. o da guisa - visa ec. come altrove p. 3005) e così avisar, aviser ec. è proprio solo del latino e non
dell'italiano nè dello spagnuolo nè del francese. Abbiamo bensì anche avvistare da visto, nostro
participio, o da avvisto pur nostro, se non è da vista sostantivo. (16. Gen. 1824.). Avvistato (ch'è però in altro senso da avvistare nella Crus.) par certo venire da vista, come svistare (uso
ital.) da esso vista o da svista ec. (16. Gen. 1824.).
[4016,2]
Nascere per avvenire,
grecismo proprio anche dell'antico latino, come in quello o
fortunatam natam cioè γενομένην. V.
Forcell. ec. È proprissimo dell'italiano. Fra i mille esempi, hassi
nel Guicciardini lib. 1. t. 1. p. 111. edizione di
Friburgo 1775-6. nata la perdita di San Germano,
*
cioè
accaduta semplicemente. E in molti altri
modi e casi si usa da noi il verbo nascere come il
greco γίγνεσϑαι, p. e. nella frase di qui o da ciò o quindi nasce che
ec. il, la ec. ἐκ τούτου
γίγνεται o γίνεται. V. i franc. e gli spagn. e il Gloss. e i
Less. greci. (16. Gen. 1824.). {{v. p. seg. [p.
4017,2].}}
{Nascere per
procedere, provenire
ec. ne nacque un ec. questa
cosa nasce, nacque da ec. ne nascerà ec. per alcune
difficoltà nate nella consegnazione delle Fortezze, non era ancora
partito
*
. Guicc. 1. 280.
}
[4017,1]
4017 Grecismo dell'italiano. Lucian.
Timon.
opp. 1687. t. 1. p. 77-79 καὶ αὖϑις μὲν
σκέψομαι, ἐπειδὰν τὸν κεραυνὸν ἐπισκευάσω∙ πλὴν ἱκανὴ
*
ἐν τοσούτῳ καὶ αὕτη τιμωρία
ἔσται αὐτοῖς
*
, cioè in questo
mezzo. Noi appunto in tanto, fra tanto, in quel tanto,
in questo tanto ec. Vedi gli spagn. e i francesi.
Qui ἐν τοσούτῳ viene a essere ἐν ὅσῳ (χρόνῳ) ὁ κεραυνὸς ἐπεσκευασμένος ἔσταί
μοι. E di questo genere è ancora la propria significazione del nostro intanto, secondo i casi, e tale si è l'origine di
questo modo di dire preso nel senso d'interea, interim. (17. Gen. 1824.). {{Esempi simili al riferito di Luciano non mancano.}}
{{V. p. 4022.}}
[4022,3]
Bobo spagn. {co' derivati}
aggiungasi, se v'ha punto che fare, al detto altrove pp. 2703-705
pp.
2811-13 di baubari ec. (26. Gen.
1824.).
[4023,2] Alla osservazione del Mai
p. 2657 sopra il modo in cui ne' codici è scritto il gn indicante esser più vera la pronunzia spagnuola,
tedesca ec. cioè g-n, che l'italiana, osservisi, oltre
il detto altrove pp. 1342-44, che molte voci latine o dal latino venute
che hanno in latino il gn, in ispagnuolo si scrivono
ñ, cioè pronunziansi gn
all'italiana, come parmi aver detto altrove p. 3695
p. 3754 coll'esempio di cuñado (cognatus), a cui si può aggiungere leña (ligna) femin. eccetto
se tali voci non son prese in ispagnuolo dall'italiano o dal francese piuttosto
che dal latino a dirittura da cui hanno la prima origine. Infatti p. e. noi
appunto diciamo legna femmin. nel senso spagnuolo, ed
è voce propria nostra (lignum si dice in ispagnuolo
altrimenti, cioè madera ec. come in francese bois ec.) e cuñado sta nel
senso italiano per fratello o sorella della moglie o del marito ec. Ed è a
notare che la maggior parte forse delle voci spagnuole derivanti dal latino e
che in latino hanno il gn, si scrivono in ispagn. gn, pronunziando g-n, come
digno, ignorante, magnifico (però tamaño e quamaño ec.) ec. ovvero n
semplice per ellissi della n, che indica l'antica
pronunzia spagnuola in quelle voci essere stata g-n e
non all'
4024 italiana. (28. Gen. 1824.).
{{Señal co' derivati ec. è dal
latino o dall'italiano?}}
[4029,2] Grecismo. Colla - κόλλα e
κόλλη coi derivati e composti della voce ital. e della greca. E vedi Forc.
Gloss. i franc. gli spagn. Potrebbe però essere stata tolta
questa voce a dirittura dal greco, anche ne' bassi tempi, se si considera come
assolutamente tecnica, ma ella è in verità, almeno oggi, di volgarissimo uso,
come ciò che ella significa. (11. Feb. 1824.).
[4042,2] Eὐϑὺς γενόμενος ec. Questa forma è propria del
greco, ed usasi eziandio con molti altri avverbi o significanti il medesimo che
εὐϑύς, o d'altro significato, come ἅμα, μεταξύ (i quali ricevono anche il
participio presente, secondo la natura del loro significato, ed altri
participii, oltre i passati) ec. ed è chiamata, se non erro, propria degli
attici (benchè si trova anche in autori anteriori, per dir così, all'atticismo,
come in Anacr. od. 33. εὐϑὺς τραϕέντες
*
, od.
55. εὐϑὺς ἰδών
*
ec.) - subito nato, dopo nato, appena nato ec. né à peine
(vix natus) ec. despues de
nacido ec. V. i Diz. franc. e spagn. e il Forcell. negli avv. corrispondenti a subito, dopo ec. simul ec. (8. Marzo. 1824.).
[4044,3]
Menare, portare, {tirare} ec. pel naso - τῆς ῥινὸς ἕλκειν
*
nello stesso senso. Lucian.
Dial. Deor., Iov. et Iunon. t. 1. opp. 1687. p.
196. V. i Less. e la Crus. e il Forcell. e i francesi e gli
spagnuoli (9. Marzo. 1824.). {{Nóta che Luciano lo usa come proverbio o
modo di dire vulgato, colla voce ϕασὶ.}}
[4050,3]
Oὐκ ἔστι μαϑεῖν τοῦτο
ῥᾴδιον, συνϑέτους δύ᾽ ὄντας ῾Ηρακλέας, ἐκτὸς εἰ
μὴ ὥσπερ ἱπποκενταυρός τις ἦτε.
*
Lucian. in Dial. mort. Dial. Diog. et Herculis. Di questo italianismo del greco dico altrove p.
4035. (21. Marzo. 1824.). {{Vedilo ancora in Reviviscent. opp. 1687. t. 1. p. 393.
V. p.
4054.}}
[4061,3]
In tanto, gr. ἐν τοσούτῳ, del che altrove p.
4017
p.
4022. Aggiungi intantochè, fra tanto, tra tanto (Guicc.) infra
tanto, in quel tanto ec. E lo Spagn. en tanto que (Don Quij.), entre tanto ec. v. i Diz. spagn. V. pur la Crus. e
i Diz. franc.
(7. Aprile. 1824.)
{{V. p. seg. [p.
4062,2]. En este entretanto
*
.
D. Quij.
Madrid 1765. t. 4. p.
244.}}
[4067,2]
Eὐϑὺς ἐν ἀρχῇ
*
.
Lucian. opp. 1687. t. 1. p.
515. (9. Aprile, Venerdì di Passione. Festa di Maria SS.
Addolorata. 1824.).
[4073,2]
Senza per oltre (vedi i
franc. e gli spagn. i quali dicono anche nel senso stesso a
men de, oltre di, e viene a essere il
medesimo). {V. p. 4081.}
Così i greci ἄνευ. V. Lucian.
Ver. Hist. l. 1. opp. 1687. p. 647. t.
1 e lo Scap. in ἄνευ e ne' suoi sinonimi, e il Forcell. in absque che si usa per eccetto, ma ciò non è
precisamente il medesimo. (19. Aprile 1824. Lunedì di Pasqua.).
[4075,1] Percussare da percutio.
Crusca. V. il Gloss.
(20. Apr. 1824.)
[4088,6]
Eὐϑὺς ἐν ἀρχῇ τοῦ
λόγου.
*
Lucian.
opp. 1687. {t.}
1. p. 887. (15. Maggio. 1824.).
[4094,1]
4094
Periurus sembra esser contrazione di periuratus o peieratus che
pur si trovano, benchè in altro senso (per peiero si
disse anche periero e periuro). Così iuratus, coniuratus ec. in sensi analoghi. Exanimus e
inanimus debbono esser contrazioni di exanimatus e inanimatus, che
pur si trovano. Similmente semianimus di un semianimatus dal semplice animatus. Innumerus debb'esser contrazione
di un innumeratus dal semplice numeratus, con significato d'innumerabilis,
come invictus per invincibilis e tanti altri simili, di cui altrove p. 3949
p. 4016, e v. il Forc. in illaudatus. Queste contrazioni aggiungansi
al detto pp. 2757-58 d'inopinus
necopinus ec. dove si prova che anche in latino vi fu
il costume di contrarre il participio della prima colla detrazione delle lettere
at, costume frequentatissimo nell'italiano anche
in voci per niente latine di origine. (27.-28. Maggio. 1824.).
[4095,4] Ἔτι γὰρ τοῦτό μοι τὸ λοιπὸν ἦν ci mancherebbe questo. Idiotismo comune al greco e italiano. Lucian.
opp. 1687. t. 1. p. 787. init.
V. Crus. e Forcell. in supersum se hanno nulla. - παρ᾽ ὅσον in
quanto che. V. Lucian.
ib. 786. e lo Scap. ec. modo pur comune, e del quale o cosa simile ho detto
anche altrove p. 4035.
(31. Maggio. 1824.).
[4103,1]
4103
Tutto quanto, tutti quanti -
πᾶν ὅσον, πάντες ὅσοι, μικρὸν ὅσον, {{μύριοι ὅσοι.}}
ὀλίγοι ὅσοι, πλεῖστον ὅσον ec. ec. V. lo
Scapula ec. ec.
(20. Giugno. Domenica. 1824.).
[4105,1]
Dilettare - dileticare coi
derivati ec. frequentativo o diminutivo alla latina, e può anche aggiungersi
agli esempi delle forme frequentative italiane di verbi, da me altrove raccolte.
Avvertasi però che ha un significato diverso da dilettare, e forse è corruzione di solleticare, e così diletico, che altrimenti
sarà un diminutivo o frequentativo di diletto. {Farneticare.}
(29. Giugno. Festa di S. Pietro. giorno mio natalizio.
1824.).
[4108,1] Φρύσσω o ϕρύττω-frissonner. Notinsi in questo verbo due cose. La derivazione manifesta dal
greco, e la forma diminutiva o frequentativa. (30. Giugno. 1824.
Anniversario del mio Battesimo.)
[4110,4] Al detto altrove p. 4046
pp.
4083-85
p.
4099
p.
4103 circa l'uso latino conforme all'italiano di usare
pleonasticamente il pronome dativo sibi, v. anche il
Forcell. in mihi, tibi, nobis
e simili altri dativi di pronomi personali. (7. Luglio. infraottava della
Visitazione di Maria
Vergine Santissima. 1824.).
[4113,1]
4113
Entreabrir, entre oscuro
(Cervantes loc. cit. qui dietro, p. 588.) e simili (v. il
Diz. spagnuolo in entre ...) aggiungasi al detto altrove pp. 1071-72
dell'antico uso d'inter per fere ec., conservato ne volgari moderni. Così in francese entrevoir ec. ec. (16. Luglio.
1824.).
[4116,2]
Kαὶ τὸ δῆγμα λαϑραῖον,
ὅσῳ
*
(in quanto che, cioè poichè ἐπεί) καὶ
γελῶν ἅμα ἔδακνε.
*
Lucian.
opp. 1687. t. 2. p. 236. (10.
Agos. Festa di San
Lorenzo Martire. 1824.).
[4135,4] Φησί, ϕήσει, sottinteso τις, per ϕασί, ϕήσουσι. V. Toup. ad Longinum sect. 2.
init. sect. 9. init. {+sect. 29. fin.
44. p. 234. fin.} dove non approvo le sue emendazioni.
[4136,1] Aὐτίκα per luego. V. Toup. ad Longin. sect.
23. init.
[4138,1]
4138
Pauso as forse da un antico pauo o pavo (παύω, παύομαι), pausum. (7. Mag. 1825.).
[4141,1]
4141
Agresser, v. a. (verbe actif). Attaquer, être aggresseur. Jean
Molinet, Dicts et faits notables, p.
125.
*
Articolo dell'Archéologie
française par Charles
Pougens, appendice à la suite de la lettre a.
Paris 1821-25. tom. I. p. 48.
(Bologna. 6. Ottobre. 1825.).
[4161,3]
Νικίας δ᾽ ὁ ζωγράϕος
καὶ τοῦτο εὐϑὺς ἔλεγεν εἶναι τῆς γραϕικῆς
4162 τέχνης οὐ μικρòν μέρος, τὸ λαβóντα ὕλην
εὐμεγέϑη γράϕειν.
*
Demetr.
de Elocut. sect. 76. ed. Gale p. 53.
(Bologna. 22. Dic. 1825.). Eὐϑὺς οὖν πρώτη ἐστὶ χάρις ἡ ἐκ
συντομίας.
*
Ib. sect. 137. p. 85.
(24. Dic. 1825.).
[4163,5]
Παραϕυλακτέον
δὲ
*
(cavendum) καὶ τὸ παραλλήλους τιϑέναι
τὰς πτώσεις
*
(pares casus) ἐπὶ διαϕόρων
προσώπων∙ ἀμϕίβολον
*
(anceps, dubium) γὰρ
γίνεται τὸ ἐπὶ τίνα ϕέρεσθαι,
*
a chi riferire i detti casi. Τheo sophist.
Progymnasm. 2. hoc est de narrat. ed.
Basileae 1541. p. 36. L'infinito usato in
modo affatto italiano. (Bologna. 24. Gen.
1826.). {{V. p. seg. capoverso
3.}}
[4172,1]
Mando, mansum - mansare corrotto in mangiare, manger, manjar. V. Forc. e Gloss.
Manducare (che noi dicemmo anche manicare, quasi mandicare) sembra un
frequentativo di mandere, come fodicare di fodere ec. {+Credo però che l'u di manduco sia lungo. Del resto dello scambio
dell'u coll'i, ho
detto altrove pp. 3006-3007.}
[4173,6]
Sappiamo da Plinio che chiamavansi pernae dalla lor forma di presciutto alcune
conchiglie frequentissime nelle isole Ponticae, o come altri leggono Pontiae.
Da esse traevasi la madre
perla: e questo nome italiano di perla non viene certamente da altro che da perna o pernula.
*
(Diminutivo positivato.) Amati, Iscrizioni
antiche scoperte da non molto tempo, e meritevoli di esser poste a
notizia de' dotti. (Articolo del Giornale
arcadico, Roma Dicembre 1825. {N. 84.} tom. 28.) {num.}
25. p. 358.
(Bologna 7. Aprile. 1826.).
[4179,3]
᾽Aλλὰ τὶ καὶ
λέσχης
*
(confabulationis) οἶνος
*
(i.
e. potatio) ἔχειν ἐθέλει.
*
Ap. Athenęum. Vid. Casaub.
animadvers. l. 1. cap. ult. init. Volere per dovere.
(Bologna. 6. Maggio. 1826.). {{Non vogliono per non debbono. V. Rucellai, Api v. 621.}}
[4190,8] Πρóτερον per potius, come
noi prima, anzi, innanzi ec. {{Aristophan.
Nub. v. 24. (Act. 1. sc. 1.).}}
Dio
Chrysost.
Orat. 1. de Regno,
init., p. 2. A. ed. Lutet. 1604. Morell.
[4193,1]
Ὅτι δὲ αὐτὸς
*
(ὁ
Λουκιανός) τῶν μηδὲν ἦν ὅλως δοξαζóντων, καὶ τῷ τῆς
βίβλου ἐπίγραμμα δίδωσιν ὑπολαμβάνειν · ἔχει
γὰρ ᾧδε
*
. ec. Photius,
Biblioth. cod. 128. - Dare a vedere, dare a conoscere, ad intendere ec.
{{V. p. 4196.
fin.}}
[4209,1]
4209
Plat, sost. e aggettivo, piatto, (ingl. flat.) (v. gli spagn.) -
πλάτoς, πλατύς. Phot.
Biblioth. cod. 186. ed. gr. lat. col. 444.
πλατεῖ τῷ ξίϕει
*
οὐκ ἐϑέλοντα προιέναι, τύπτων τὰ νῶτα,
ἤλαυνεν
*
lo cacciava innanzi per forza, non volendo egli andar oltre, battendogli la
schiena colla spada piatta, col piatto della spada,
a forza di piattonate, battendolo
colla spada di piatto. (Bologna 2. Ott.
1826.). V. p. seg. [p.
4210,3]
[4217,2] Mέδω, μέδομαι, μήδω, μήδομαι, μηδέω ec. (dei quali
verbi dico altrove pp.
3352-60 , parlando di medeor, meditor ec.) debbono originariamente essere stati un
verbo solo e medesimo, non pur tra di loro, ma eziandio con μέλω, μελέω,
μέλομαι, μελέομαι, distinti solamente per la pronunzia, come δασύς - λασύς, {λάσιος} e come in ispagn. dexar (oggi si scrive dejar coll'iota, che
risponde al nostro sci e al franc. ch) da laxare, lasciare, laisser, lâcher. Δάκρυον - lacrima.
[4218,1] Nuovamente, novellamente, di novello, di nuovo, per
di fresco, di poco, poco innanzi, poco fa - ᾽Ως δ᾽ ὅτε Πανδαρέoυ κoύρη χλορηῒς ἀηδὼν Καλòν
ἀείδησιν ἔαρος νέoν ἱσταμένοιo.
*
{Odiss. τ. v. 518-9}
{νεῶτα cioè
νέον ἔτος- anno nuovo per prossimo venturo.}
(Bologn. 14. Ott. 1826.)
[4223,1] Ora, benchè il nostro rettorico abbia appena
osservata e accennata di scorcio la vera causa, non si può negare che questa non
sia una bella osservazioncella. E questa è forse quanto di buono o di notabile
v'ha nel suo libro. (Bolog. 17. Ott. 1826.).
{{v. p. 4224.}}
[4224,2]
Tondeo, tonsum - detonsare, tosare ec.
[4226,1]
Mία χελιδὼν ἔaρ οὐ
ποιεῖ.
*
Fragm.
Teletis ex commentario de
comparatione divitiarum et paupertatis ap. Stob. serm. 95. σύγκρισις πενίaς καὶ
πλούτoυ, ed. Basil. 1549. p. 522.
V. Mannuccii
Adagia, Venet. 1609.
{col. 469}. - Una
rondine non fa Primavera. V. la Crus. Proverbio
greco passato nel volgare e popolare italiano.
[4228,2] Ritorta - ritortola. {Primulus a um, e primulum per primus e primum avv. Osservisi che son voci dei Comici,
cioè del dir volgare.}
[4232,2]
Reperito
as. V. Forcellini.
[4234,2] Uso di porre il g avanti
la n (come in cognoso[cognosco], agnosco, agnatus, da nosco e natus), del quale in
questi pensieri altrove p. 3695
pp. 3727-28
pp. 3754-55. V. Maffei
Appendice all'Arte magica annichilata,
opp. ed. del Rubbi, vol. 2. p.
320.
[4239,4]
Misceo, mixtus, misto - mestare (quasi da
mesto per misto, come
meschio per mischio, e
meschiare, mescolare
ec.) rimestare - mesticare
(noi marchegiani diciamo più alla latina misticare,
misticanza ec.); coi derivati.
[4241,1]
4241 Brancicare. Zoppicare.
[4245,4] Attero, attritum - attritare, contritare. Crusca. V. Forcell.
Gloss. ec.
[4250,2]
A vóto per frustra. - εἰς
κενόν V. Casaubon.
ad Athenae. l. 11. c. 6. sul
mezzo.
[4259,4]
Entro a pochi dì, per fra
pochi dì. Bartoli, Missione al gran Mogol, ed.
Roma 1714. p. 72. Così diciamo dentro il termine di tanti giorni, e simili.
[4260,2] Quanto, in quanto, per poichè, perocchè ec. - παρ᾽
ὅσον, ovvero ὅσον ec. V. un
4261
esempio di παρ᾽ ὅσον in questo senso,
usato da Ateneo, ap. Casaubon.
ad Athenae. l. 15. c. 2. verso il
fine, e dallo scoliaste di
Pindaro, ap. eumd. ib. c. 19. fin.
[4280,4] Dico altrove p. 965
pp. 2869-75 che la
moderna pronunzia francese distrugge ed annulla bene spesso l'imitativo che
aveva il suono della parola in latino, {+e in cui spesso consisteva tutta la ragione di essa parola.} Il
simile si dee dire di altre voci che la lingua francese ha da altre lingue che
la latina, ovvero sue proprie ed originali. Miauler,
miaulement
{parole} espressive della voce del gatto, nella lor
forma scritta (e però primitiva) hanno una perfettissima imitazione, nella
pronunziata che ne rimane? Ognuno che abbia udito una sola volta il verso del
gatto, sa che esso è mià e non miò; e dirà imitativo l'italiano miagolare
(o sia questo originato dal francese, o viceversa, o l'
4281 uno e l'altro nati indipendentemente dalla natura), e corrotto
affatto il franc. miauler, miaulement (noi diciamo miao o gnao, come anche gnaulare, e
non già gnolare). Gli spagnuoli maullar o mahullar, maullido, maullamiento, mau. (16. Aprile. Lunedì di Pasqua. 1827.).
[4282,5] ᾽Eν τούτῳ (cioè in questa,
in questo, in questo
mezzo). Dione Cass. ed. Reimar, p. 65. lin. 98. p. 192.
lin. 5.
(Recanati. 20. Apr. 1827.).
[4286,2] Cuna, cunula, culla.
[4283,6]
Fra giorno, cioè di giorno,
nel giorno, dentro
giorno, dentro il corso del giorno.
[4288,1]
4288 Come ignotus, o notus per conoscente, così
viceversa conoscente
{spesso} per conosciuto; come: il
dolor della morte degli amici e de' conoscenti ec. ec.
(Firenze. 17. Sett. 1827.)
[4294,1]
4294 La differenza tra le voci di origine volgare, e
quelle di origine puramente letteraria nelle lingue figlie della latina, si può
vedere anche in questo, che spesso una stessissima voce latina, pronunziata e
scritta in un modo nelle nostre lingue, significa una cosa; in un altro modo,
un'altra, tutta differente, {+V. qui
sotto.} P. e. causa lat., corrotta
di forma e di significato dall'uso volgare, significa res (cosa: v. la pag. 4089.); usata incorrottamente nella letteratura
e scrittura, significa, come nel buon latino, cagione.
Ed è certo che causa ital. è voce, benchè ora
volgarmente intesa, (non però usata dal volgo), di origine letteraria; poichè
nel 300 non si trova, o è così rara, che i fanatici puristi de' passati secoli
dicevano ch'ella non è buona voce toscana, ma che dee dirsi cagione, voce pure storpiata di forma e di senso dalla lat. occasio, che pur si usa poi nella sua vera forma e
senso, come una tutt'altra (occasione), benchè in
origine sia la stessa. Franc. chose - cause, Spagn. cosa - causa ec. (Firenze. 21.
Sett. 1827.). {{Leale, loyal, leal (spagn.) -
legale, légal, legal.}}
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