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Editorial Annotations:

Correction Normalization

Volgare latino.

Vernacular Latin.

32,2.4 42,1 43,5 95,2 107,3.4 109,1 111,1 112,4 113,2 150,1 205,2 228,1 230,2 366,1 462,2 480,1.2 497,1 501,2 502,1 508,1 511,1.2 592,3 595,1 597,1 599,3 928,1 941,1 979,1.2 980,1.2 983,2 984,4983,4 1010,1.2 1012,2 1014,3 1015,1 1031,1 1055,1 1066,1 1071,1 1104,1 1155,4 1164,12 1165,3 1180,1.2 1230,1 1295,1 1361,2 1421,1 1456,1 1475,1 1499,1 1504,1.2 1533,1 1678,1 1679,1 1779,2 1818,1 1945,2 1970,3 1983,2 1993,1 2023,1 2070 2079,1 2137 2148,1 2197,2 2201-2 2221,2 2226,2 2236,1 2243,2 2244,1 2246,2 2247,1 2257,1 2258,2 2264,1 2267, marg. 2276,1 2279,1 2280,1 2283,1 2297,1 2299,2 2305,1 2312,2 2316,1 2323 2324,1.2 2324, marg. 2325,1 2267 2330,1 2345, marg. 2346,1 2355,2 2357,1 2360,1 2362,1.2.3 2364,1 2366,1.2 2368,1 2369,1 2374,1 2376,1 2386,1 2391,3 2442,1.2 2465,1 2474,1 2497,1 2556,1 2565,1 2587,1 2588,2 2592,1 2608,2 2624,1.2 2627,1 2629,2 2642,1 2643,2 2649,1 2653,1 2654,1 2655,1.3 2656,1.2 2657,1 2658,1 2662,1 2663,5 2674,1 2676,2 2685,1 2686,2.3 2688,1 2700,1 2703,1 2705,1.2 2715,1 2739,1 2757,1.2 2771,1.2 2793,1 2795,1 2809,1 2811,2 2812-3 2821,3 2823,1 2825,1 2835,3 2842,1 2864,1.2.3 2865,1.3 2882,1 2893,12 2894,1 2918,1 2919,1 2923,3 2925,2 2926,1.2 2930,1 2935,2 2947,1 2984,1 3001,2 3004,1 3005,1 3006,1 3018,2 3023,1 3032,1 3038,1 3051,1 3052,1 3053,1 3054,2.3 3057,1.2 3060,2 3061,2 3062,2.3 3071,1 3072,1.2 3073,3 3080,1 3095,1 3170,1.2.3 3172,1 3182,1 3262,3 3264,2 3283,2 3288,1 3289,2 3298,5 3312,1.2 3317,1 3340,1 3343,1 3344,1 3350,2.4 3361,1 3430,1 3460,1 3477,2.3 3488,1 3491,2 3514,1.2 3515,1 3542,2 3543,3 3548,1 3557,1.2.3 3558,2 3560,2 3568,13 3569,1.2 3584,1.32.4 3585,1 3587,1 3589,13588,1 3616,2 3617,2.3.5 3618,2.3 3620,2.3 3621,2 3625,1 3629,1 3636,1 3638,2 3684,2.3.5 3687,1 3694,2 3695,3 3698,1 3704,1 3710,1 3715,1 3729, marg. 3742,1.3 3751,1 3754,1 3755,1 3761,2.3 3764,3 3771,1 3772,1 3815,1.2.4 3816,4 3818,1 3825,1.2 3828,1 3834,1 3851,2 3852,4 3869,1 3872,1 3875,1 3881,3 3886,1 3893,1 3896,1 3897,1 3899,2 3900,5 3901,1.3.4 3902,1 3903,2 3904,5 3908,2 3927,2 3928,2.3 3937,1.2 3938,5 3939,1.3.4.5 3942,1 3946,1 3960,1.4 3961,1.2 3964,2 3967,1 3968,3 3970,1 3978,4 3979,3 3987,4 3989,2 3990,3 3996,2.3.5 3997,1 3998,3 3999,1.2 4001,2 4004,2.3.4 4006,4 4008,5 4009,6.7.9 4010,2 4011,2.3 4014,7 4015,4 4016,2 4017,1 4018,1.4 4020,3.6 4022,3 4023,2 4024,3.4 4025,2.5 4026,2.4 4029,2 4030,3.6 4033,2.4 4034,1.6 4035,3.4.5 4036,1.2.5.6.9 4037,1.3 4042,2 4044,3 4046,3.4.8 4049,2.3 4050,3 4053,1.2 4055,1.5 4061,3 4062,3.4 4067,2 4068,3.7 4073,2 4075,1 4082,3.6.7 4083,2.4.5 4085,2.4 4086,3.4 4087,4.7 4088,6 4089,3.4.5.6.7 4090,3.6 4093,3.4 4094,1 4095,4 4101,1.2.6.7.8 4102,1.4.6.7 4103,1 4104,1.3.5 4105,1 4108,1 4110,4 4113,1 4114,2.3.5.7.8 4115,3.5 4116,2 4117,3.5.8.10 4118,4.5.6.7.9.10.13 4119,3.5.7.8.10 4120,1.6.7.8.9.13.14.15.16.17.19 4121,3.4.10.11.13 4122,2.3.9.12.13.14.17 4123,5.7.8.12 4124,1.2.5.8 4125,4.6 4126,1.10.11 4127,2.4 4134,2.4 4135,4 4136,1 4138,1 4139,1.3.4.6.11.12 4140,4.5.7.8.9 4141,1 4143,1-3 4147,1.2.3 4148,2.7.8.11 4149,1.2 4150,2.3.8.9 4151,1.8.10-12 4152,1-5 4153,2-4 4154,2.5.11 4155,1.2 4156,1.5-7 4157,1.3 4158,1.3.8 4160,4.9 4161,3 4162,5.7.8 4163,5 4164,5.7.10.13 4165,2-5.12.13 4166,1.5 4167,1.7 4170,5.9.10.14 4172,1 4173,6 4177,3.4.5 4179,3 4182,3.4.5 4188,10.11 4190,8 4193,1 4196,1.3 4197,4.5 4200,2.5 4201,1.2.4.5.9 4209,1 4210,2.3 4211,1.3 4213,1.5 4217,2 4218,1 4223,1 4224,2 4226,1 4227,2.3 4228,32 4232,32 4234,2 4237,1.7.9 4239,4 4241,1 4245,4 4246,4.10.15 4248,4.6.7 4250,2 4255,3.5 4257,6.8.10 4259,4 4260,12 4273,1.2.3 4280,4 4282,5 4286,2 4283,6 4287,5.6.7 4288,1 4294,1

[42,1]  Un'altra prova dell'esser la nostra lingua italiana derivata dal volgare di Roma del buon tempo si trae dalle parole antichissime {Latine} poi andate in disuso presso gli scrittori, che ora si trovano nell'italiano, le quali è manifesto che con una successione continuata sono passate da quegli antichissimi tempi sino a noi, perchè nessuno certo l'è andato a pescare negli scrittori antichissimi latini perduti poi ancora prima del nascere della nr̃a[nostra] lingua, come Lucilio Ennio Nevio ec. Di maniera che tra questi antichi che le usavano e noi che le usiamo non bisogna lasciare nessun intervallo voto, perchè non sarebbero più rinate, se non vogliamo dire che sia un caso, il che non si lascerà credere appena agli Epicurei. Dunque non essendoci altra catena tra quegli scrittori e noi che il volgare Latino, giacchè gli scrittori le aveano dismesse, resta che questo si riconosca per conservatore e propagatore all'italiano di quelle voci. Come pausa usata dagli antichi scrittori latini, poi disusata, poi tornata in uso a' tempi bassi e quindi nell'italiano, (v. il Du Cange) certo non saltò da quei secoli antichi ai bassi così per miracolo, (giacchè certo quei miserabili scrittori Latino-barbari non la trassero dagli antichissimi autori forse già perduti e certo a loro o ignoti, o tutt'altro che letti e studiati) ma discese per una via continuata la quale non può esser altro che il popolare latino. E questo credo che si possa parimente dire di moltissime altre voci.

[43,5]  Non si trova in verun Dizionario italiano ch'io abbia potuto consultare ma è comune fra noi la parola {blitri o} blittri o blitteri che significa, un niente, cosa da nulla ec. Questa casa è un blitri; questa città è un blitri a misurarla con Roma ec. ec. Ora questa parola è totalmente e interamente greca: βλίτρι, che anche si diceva βλίτυρι e βλήτυρι e βλίτηρι (come {anche} noi) e forse anche βρίτυρι, e non significava nulla. V. Laerz. l. 7. segm. 57. e quivi le note del Casaub. e del Menag. e il Du Fresne Glossar. Gręc. in βλίτηρι, e nell'appendice 1. in βλίτηρι {parimente}. Tutti gli altri libri immaginabili che poteano fare al caso sono stati da me consultati scrupolosamente, senza trovarci ombra di questa voce, e nominatamente i Dizionari Greci tutti quanti n'ho, dove manca affatto, in tutte le sue maniere.

[95,2]  Bisognerebbe vedere se quell'oracolo della porca bianca da trovarsi da Enea all'imboccatura del Tevere per buono ed ultimo augurio secondo Virgilio [Aeneid 8. 42 ff.,] avesse qualche altro significato ed origine nota e verisimile, non fattizia e arbitraria, perchè non avendone, io suppongo che derivi dal nome di troia che noi diamo alle  96 porche, e che a cagione di questo oracolo mi par ben da sospettare che fosse anche voce antica e popolare latina nello stesso significato, e così la porca venisse popolarmente considerata come un emblema di Troia, nella stessa guisa che presentemente parecchie città e famiglie hanno per insegna quell'animale {o quell'oggetto materiale} ch'è chiamato con un nome simile al loro. {{V. la Cron. d'Euseb. l. 1. c. 46. e nota che quel racconto benchè da scrittor greco è preso anche quivi e attribuito intieramente a un latino. v. p. 511, capoverso 1.}}

[109,1]  Baggeo deriva altresì dal latino. V. il mio discorso sulla fama di Orazio. E il francese planer dal greco πλάνομαι[πλανάομαι], onde anche in latino le stelle erranti si chiamano planetę cioè errabundi, ed è ben verisimile che la parola francese sia derivata (non essendo probabile dal greco) da planari detto forse volgarmente in latino nello stesso senso. E nota in questo proposito i due participi palans, tis, e palatus, a, um errante, segno certo di un antico verbo palari, fatto da πλάνομαι colla metatesi della λ (come da ἅρπω rapio da μορϕὴ forma) e colla conseguente elisione della υ. Buonus per bonus è in Frontone e, e v. le ortografie del Cellario e del Manuzio.

[111,1]  Gridare a testa o quanto se n'ha in testa è frase antichissima e greca. Manca ne' Lessici gr. e lat. ma si trova in Arriano (Ind. c. 30.): ὅσον αἱ κεϕαλαὶ αὐτοῖσιν ἐχώρεον {ἀλαλάξαι} * : quantum capita ferre poterant acclamasse * interpreta il traduttore (30. Aprile 1820.)

[112,4]  Impertinente è una parola tutta latina, derivata da un verbo latino ec. però è naturale che gli antichi o volgari latini dicessero impertinens. (31 Maggio 1820)

[113,2]  Agevole viene da agere come facile da facere, e questo agere essendo ignoto alla nostra lingua, non è verisimile che il suo derivato agevole non ci sia venuto già bello e formato dagli antichi latini che avranno detto agibilis.

[150,1]  Quantum ad in vece di quod attinet ad, come noi diciamo quanto a, e i francesi quant à, è usato da Tacito Agricol. cap. 47. Et ipse quidem, quamquam medio in spatio integrae aetatis ereptus, quantum ad gloriam, longissimum aevum peregit. * Esempio e significato omesso nel Forcellini e nell'Appendice. (3. Luglio 1820.).

[205,2]  Oste albergatore, ed anche ospite, ossia albergato, appresso gli antichi italiani. V. la Crusca. Hostis aveva appunto questa seconda significazione appresso gli antichi latini. V. il Forcellini.  206 Ed ecco una parola {latina} disusata ai tempi di Cicerone, ricomparisce nei principii della nostra lingua. E forse hostis avrà avuto anche il significato di albergatore, come oste oggidì, e come hospes ed ospite in latino ed in italiano hanno lo stesso doppio senso di albergatore e albergato. (10. Agosto 1820.). {{Straniero ossia ospite si prendeva per nemico anche nell'antica lingua celtica. V. Cesarotti note al Fingal, Canto primo. Bassano 1789. t. 1. p. 17. E così appoco appoco si sarà cambiato il significato di hostis, cioè considerando lo straniero come nemico.}}

[228,1]  Torno, tornio, tornire, torno torno, intorno, attorno derivano dal greco τορνόω, τορνεύω, τόρνος, ec. da τερέω[τορέω]; onde anche in latino, tornus, tornare ec. (26. Agosto 1820.).

[230,2]  Intertenere è composto di una preposizione totalmente latina inter, che gl'italiani dicono tra, onde trattenere ch'è quasi una traduzione d'intertenere. E come trattenere manifesta origine italiana, così l'altro verbo si dimostra palesemente per derivato dal latino a noi, non essendo verisimile che gli antichi italiani inventassero una parola di questa forma. Interporre, intercedere, interregno, sono parimente derivate dall'antico latino.

[366,1]  Hanter frequentare, visitare spesso, aver familiarità ec. verbo che Girard nei Sinonimi fa derivare da hant (se ben mi ricordo) che nelle lingue del nord significa congiungere o darsi le mani, non potrebbe piuttosto derivare da ἀντάω? Ma bisognerebbe anche vedere se quella parola settentrionale abbia nessuna relazione con questo verbo greco.

[462,2]  Quanto a, preposizione italiana, usata anche in latino da Tacito, come ho detto in altro pensiero p. 150, deriva intieramente dal greco: ὅσον πρός, ὅσον μὲν πρός ec. {si dice} nello stesso significato, e negli stessi casi.

[497,1]  Favella e favellare derivano evidentemente da fabula e fabulari mutato al solito il b in v, come da fabula diciamo pure favola; onde è come se dicessimo fabella e fabellare. Qui non c'è niente di notabile o strano: la cosa va da se, e sarà stata notata da tutti gli Etimologi. Ma che ha da far la favella e il favellare col favoleggiare e colle favole? Qui appunto consiste il singolare e l'osservabile in questa derivazione. Perocchè l'antico e primitivo significato di fabula, non era favola, ma discorso, da for faris, quasi piccolo discorso, onde poi si trasferì al significato di ciancia  498 nugae, e finalmente di finzione e racconto falso. Appunto come il greco μῦϑος nel suo significato proprio, valeva lo stesso che λόγος verbum dictum oratio sermo colloquium, e da Omero non si trova, cred'io, adoperato se non in questa o simili significazioni, così esso come i suoi derivati. Poi fu trasferito alla significazione di favola. Il detto senso di fabula, fabulator, fabulo, fabulor, confabulor {etc.} è evidente negli scrittori latini di tutti i buoni secoli, massime però ne' più antichi e più puri. V. il Forcellini in tutte queste voci. Ma dopo, e massimamente ne' bassi tempi il significato usuale e comune di fabula {nelle scritture} non era altro che favola. E tuttavia la nostra lingua ha ritenuto espressamente questa parola (la quale, come ho detto, è la stessa nostra di favella) nel suo antichissimo, primitivo e proprio valore. Certo non è andata a pescare questo significato nelle antichissime memorie, e nei primi scrittori. Bisogna dunque che la detta significazione tal qual era da principio sia pervenuta di mano in mano, e conservata e continuata senza  499 interruzione fino alla nascita e alle origini della nostra lingua. Ora ciò non può essere stato se non per mezzo del volgo latino; tanto più che gli scrittori, quando anche avessero conservata in uso la detta significazione sino all'ultimo, non avrebbero mai potuto essi soli comunicarla al volgo, e renderla volgare, usuale, comune, propria e primitiva in una lingua nascente, quando il significato più comune di quella parola fose stato un altro. E tale era infatti appresso gli scrittori. Del resto come μῦϑος e fabula vuol dire al tempo stesso discorso e favola, e da quel primo significato fu trasferito al secondo così viceversa nella nostra lingua novella e novellare, dal significato di favola o racconto, trasferiti a quello di ciance o di favella, hanno parimente nel tempo stesso il valore di favola e di discorso. V. la Crusca. (13. Gen. 1821.). {{V. p. 871. fine.}}

[501,2]  Come gl'italiani per proprietà di lingua dicono muovere in maniera neutra per muoversi, andare, camminare ec. così fra' latini, oltre i citati dal Forcellini, Floro I. 13. Sed quod ius apud barbaros? ferocius agunt. Movent, et inde certamen. * Parla dei Galli Senoni conversis a Clusio, Romamque venientibus, * come  502 soggiunge immediatamente. E II. 8. quum ingenti strepitu ac tumultu movisset ex Asia * (Antiochus). (14. Gen. 1821.). {{Vedi Sveton. in D. Julio c. 61. 1. e quivi le note degli eruditi.}}

[502,1]  Come dice Dante Quinci si va, chi vuole andar per pace, * idiotismo assai comune e usitato nella nostra lingua, così anche i latini. Floro II. 15. sul principio: Atque si quis trium temporum momenta consideret, primo commissum bellum, profligatum secundo, tertio vero confectum est. * Parla delle 3. guerre Puniche. (14. Genn. 1821). {+Più manifesto, e conforme all'uso italiano è questo idiotismo (vero idiotismo, perchè non è locuzione regolare, anzi falsa secondo la dialettica e la costruzione) in Orazio Od. 16. l. 2, v. 13. Vivitur parvo bene, cui paternum * ec. cioè si cui (che neppur essa sarebbe locuzione regolarissima) ma è omesso il si, come appunto in italiano.}

[508,1]  Come noi diciamo in paragone in comparazione per rispetto, appetto, verso, appresso, così Floro II. 15. della terza Punica: et in comparatione priorum,  509 minimum labore. * Il Forcellini non ha esempio di questa locuzione, eccetto uno di Curzio che {la contiene} {materialmente,} ma non equivale {nel senso;} quas in comparatione meliorum, avaritia contempserat. * L'Appendice nulla. (15. Gen. 1821.).

[592,3]  Communicare per particeps fieri, essere, o venire a parte, del qual significato il Forcellini  593 non reca esempi, se non tre di cattiva lega, e di bassa latinità ed autorità (l'Appendice nulla) si trova presso Cicerone: (Lael. sive de Amicit. c. 7.) Itaque, si quando aliquod officium exstitit amici in periculis aut adeundis, aut communicandis, * (cioè nel prender parte ai pericoli dell'amico) quis est, qui id non maximis efferat laudibus? * {V. un non so che di simile nella Crusca.}

[595,1]  Quella frase o metafora nostra volgarissima e familiare di cuocere per molestare, travagliare, tormentare, e affligger l'animo (così la Crusca v. Cuocere §. 3.), fu parimente presso i latini nel verbo coquere, e ciò anche ne' più antichi.
O Tite, si quid ego adiuvero, curamque levasso,
Quae nunc te coquit, et versat in pectore fixa,
Ecquid erit pretii?
*
Ennio presso Cic. (Cato maior seu de Senect. c. 1.)
Il Forcellini ne porta anche altri due esempi, l'uno di Virgilio, l'altro di Stazio. L'Appendice nulla.

[597,1]  Stupeo, o stupesco, stupefacio, stupefio, stupidus, ec. coi composti, non solo si sono conservati materialmente nel verbo stupire, stupefare, stupidire ec. ec. ma se ben questi sono restati nella nostra lingua seccamente e nudamente, e senza il significato etimologico (che vuol dire, diventar di stoppa), come infinite altre parole delle quali resta {quasi} il corpo e non l'anima, tuttavia la nostra lingua conserva ancora per altra parte quella prima metafora, diventar di stoppa, e l'usa familiarmente per istupire ec. sebbene non sia registrata nella Crusca. (1. Feb. 1821.).

[599,3]  Qual cosa è più lontana dal noto e comune significato del verbo latino defendere, quanto il significato di proibire nel francese défendre {nello spagnuolo defender} e nel difendere italiano presso gli antichi? E pure il significato proprio e primitivo del latino defendere (admodum propria et Latina huius verbi significatio,  600 ut ait * Gell. l. 9. c. 1. dice il Forcellini) è molto simile, e si accosta moltissimo alla detta significazione francese, e antica italiana: ed è questa, arceo, prohibeo, depello, propulso, come dice il Forcellini, il quale ne porta molti esempi di diverse età di scrittori. Ora, come il verbo prohibeo, che ha questa medesima significazione, aveva ancora presso i latini espressamente quella di proibire o défendre {v. il Forcellini} così è ben verisimile che il verbo defendere unisse (se non presso i noti scrittori, presso gli antichissimi, e presso il volgo) questo significato al sopraddetto. In ogni modo è chiaro l'uso del defendere in francese e nel vecchio italiano, per proibire, deriva dall'antichissimo, primo, e proprio significato di quel verbo latino; {il quale} se anche è stato ridotto al significato di proibire, solamente nelle origini della nostra lingua, lo è stato però certo in forza della conservazione costante di quell'antichissimo significato, non più noto agli scrittori di quei tempi, e quindi necessariamente al solo volgo, e che si crederebbe perduto da lunghissimo tempo, se non  601 avessimo questa prova della sua costante conservazione fino all'ultima età della lingua latina. (2. Feb. 1821.).

[928,1]  Spegnere parola tutta propria oggi degl'italiani, non pare che possa derivare da altro che da σβεννύειν mutato, oltre la desinenza, il β in p, mutazione ordinaria per esser due lettere dello stesso organo, cioè labiali, e il doppio ν in gn, questo pure ordinario, e ordinarissimo presso gli spagnuoli che da annus fanno año ec. ec. Se dunque spegnere deriva dalla detta parola greca, è necessario supporre ch'ella fosse usitata nell'antico latino, {+(sia che le dette mutazioni, {o vogliamo, diversità} di lettere esistessero già nello stesso latino, sia che vi fossero introdotte, nel passare questa parola dal latino in italiano)}, tanto più che l'uso del detto verbo spegnere è limitato, {(cred'io)} alla sola italia. Il Forcellini non ha niente di simile nelle parole comincianti per exb, exp, exsb, exsp, sb, sp. Parimente il Ducange, che ho ricercato accuratamente. (10. Aprile 1821.).

[941,1]  A quello che ho detto altrove p. 228 della derivazione del verbo tornare, si aggiunga, che questo verbo è lo stesso che il tourner dei francesi, il quale significa la stessa cosa che in latino volvere. Giacchè appunto {nello stesso modo,} da volvere, gli spagnuoli hanno fatto bolver che significa tornare. (13. Aprile 1821).

[983,2]  Nelle Mémoires de l'Acad. des Inscriptions, Tom. 24. si trova: Bonamy, Réflexions sur la langue latine vulgaire. (25. Aprile 1821.). {+E son pur da vedere in questo proposito le memorie di Trévoux, anno 1711. p. 914.}

[983,4]  Che il verbo latino serpo sia lo stesso che il greco ἕρπω, è cosa evidente, {come pure i derivati, serpyllum etc.} Ma che gli antichi latini, e successivamente il volgo latino, usassero ancora, almeno in composizione, lo stesso verbo senza la  984 s, come in greco, lo raccolgo dal verbo neutro italiano inerpicare o innerpicare che significa appunto lo stesso che il greco ἀνέρπω, composto di ἕρπω, cioè sursum repo, come anche ἀνερπύζω. (Del verbo ἀνέρπω non ha esempio lo Scapula, ma lo spiega sursum repo. Ve n'è però esempio in Arriano, Expedit. l. 6. c. 10. sect. 6. e nell'indice è spiegato sursum serpo.) Il qual verbo siccome non ha radice veruna nella nostra lingua, nè nella latina conosciuta, così l'ha evidentissima nel detto verbo ἕρπω, dal quale non può esser derivato, se non mediante il latino, cioè mediante l'uso del volgo romano, {differente in questo dagli scrittori.} (25. Aprile 1821.).

[1012,2]  Che la lingua latina a' suoi buoni tempi, e quando ella era formata, si distinguesse in due lingue, l'  1013 una volgare, e l'altra nobile, usata da' patrizi, e dagli scrittori (i quali neppur credo che scrivessero come parlavano i patrizi) (Andrès, l. c. p. 256. nota), che Roma al tempo della sua grandezza avesse una lingua rustica, plebeia, vulgaris, * un sermo barbarus, pedestris, militaris, * (Spettatore di Milano, quaderno 97. p. 242.) è noto e certo, senza entrare in altre quistioni, per la espressa testimonianza di Cicerone. (Andrès, l. c.) {Del quale antico volgare latino parlerò forse quando che sia, di proposito.} Ora si veda quanto fosse impossibile che la lingua latina divenisse universale, mentre i soldati, i negozianti, i viaggiatori, i governanti, le colonie ec. diffondevano una lingua diversa dalla letterata, che sola avendo consistenza e forma, sola è capace di universalità; e mentre l'unicità di una lingua, come ho detto altrove pp. 321-22, è la prima condizione per poter essere universale. Laddove la latina, non solo non era unica nella sua costituzione e nella sua indole, dirò così, interiore, come lo è la francese; ma era divisa perfino esteriormente in lingue diverse, e, si può dir, doppia ec. (4. Maggio 1821). {{V. p. 1020. capoverso 1.}}

[1014,3]  L'u francese, del quale ho discorso in altro pensiero pp. 54-55, potè essere introdotto in Francia mediante le Colonie greche, come Marsiglia ec.

[1015,1]   1015 Mediante le quali colonie ec. la lingua e letteratura greca si stabilì, com'è noto, in varie parti delle Gallie. V. il Cellar. dove parla di Marsiglia. E le Gallie ebbero scrittori greci, come Favorino Arelatense, S. Ireneo (sebben forse nato greco) ec. ec. V. anche il Fabric. dove parla di Luciano, B. Gr. lib. 4. c. 16. §. 1. t. 3. p. 486. edit. vet.

[1031,1]  Che la lingua italiana massimamente e proporzionatamente la spagnuola ancora e la francese, come spiegherò poi, sieno derivate dall'{antico} volgare latino, si dimostra non solo coi fatti {oscuri,} e coll'erudizione {recondita,} ma col semplice ragionamento sopra i fatti notissimi e certi, e sopra la natura delle cose. La lingua italiana è derivata dall'antica latina, e questo è palpabile. La lingua italiana è una lingua volgare. Ma nessuna lingua volgare deriva da una lingua scritta e propria della letteratura, se non in quanto questa lingua scritta partecipa della medesima lingua parlata, e parlata volgarmente. La lingua latina scritta differiva moltissimo dalla parlata, e ciò si rileva sì dall'indole del latino scritto che non poteva mai esser volgare, sì dalla testimonianza espressa di Cicerone. Dunque se la lingua italiana è derivata dalla latina, e la italiana non è semplicemente scritta o letterata, ma volgare e parlata, non può esser derivata dal latino scritto, ma è derivata dal latino volgare.

[1055,1]   1055 Couper dee venire da κόπτειν. (16. Maggio 1821.).

[1066,1]  Lampa, lampo, lampare, lampante, come pure lampeggio, lampeggiare, lampeggiamento, derivano manifestamente dal greco λάμπειν ec. co' suoi derivati ec. del quale, e de' quali non resta nel latino scritto altro vestigio (ch'io sappia), fuorchè la voce lampas, gr. λαμπάς, ital. lampada, lampade, lampana, co' suoi derivati, lampada ae, lampadion, lampadias, lampadarius. V. il Forcellini, e il Du Cange. (20. Maggio 1821.).

[1071,1]  Un antichissimo significato della parola inter che ordinariamente è preposizione, e in questo caso sembra essere stata usata avverbialmente, significato non osservato dai Gramatici nè da' Lessicografi (il Forcellini non ne fa parola alla v. Inter, benchè citi molti gramatici), fu quello di quasi, mezzo, e simili. Del qual significato resta un evidente vestigio nelle parole intermorior, intermortuus, mezzo morto, che anche noi diciamo tramortire, tramortito, e quindi tramortigione, tramortimento. Ora questo antichissimo significato, dimenticato fino dai gramatici latini, e di cui negli scrittori latini non si trova, ch'io sappia, altra ricordanza che la sopraddetta, si conservò alla voce inter, nel latino volgare, sino a passar nella lingua francese, che nello stessissimo senso l'adopra nella composizione di alcuni verbi come entr'ouvrir, entrevoir ec. Elle signifie aussi dans la composition de quelques verbes une action diminutive, * dice l'Alberti della preposizione entre, che è lo stesso che inter. Nè si creda che questo significato sia rimasto in francese alla detta parola, solamente in alcuni verbi che questa lingua abbia presi dal latino, già così composti e formati, e colla detta significazione.  1072 Giacchè 1. i detti verbi così composti, e col detto senso non si trovano nel latino, se non ci volessimo tirare il verbo interviso, che ha veramente un altro significato da quello di voir imparfaitement ec. dell'entrevoir (v. l'Alberti.). Sicchè in ogni modo questi verbi non trovandosi negli scrittori latini, si verrebbero a dimostrar derivati dall'uso latino volgare. 2. La parola entre nel detto senso si trova anche, nella composizione, unita a parole non latine affatto, come {in} entre-baillé, mezzo chiuso, o socchiuso. Laonde è manifesto che il detto significato passò dall'antichissimo latino al francese, (certo non per altro mezzo che del volgare latino) come propriamente aderente alla parola entre, quantunque nella sola composizione. Si potrebbono anche riferir qua le nostre parole traudire, e travedere, (co' derivati) che vagliono ingannarsi nell'udire o nel vedere, cioè vedere a mezzo, vedere imperfettamente, come entrevoir, sebbene fissate ad un senso derivativo da questo primo. (21. Maggio 1821.). {{V. il Du Cange, se ha nulla al proposito.}}

[1104,1]   1104 Il verbo spagnuolo traher o traer che è manifestamente il trahere latino, si adopra alcune volte in significati somigliantissimi a quelli del latino tractare, e de' suoi composti attrectare, contrectare ec. Come traer con la mano, traer entre las manos e simili. Significati ed usi che non hanno niente che fare coi significati o usi noti del latino trahere, nè con quelli dell'italiano trarre o tirare (ch'è tutt'uno), nè del francese tirer. {+Traher vale alle volte dimenare e muovere dice il Franciosini in traher. Ora per dimenare appunto {o in senso simile} si adopra spesso il verbo tractare, o l'italiano trattare, come in Dante ec. v. la Crusca in Trattare e specialmente §. 5.} Ora io penso che questi significati gli avesse antichissimamente il verbo trahere, perduti poi nell'uso dello scrivere, e conservati però nel volgare, sino a passare ad una lingua vivente, figlia d'esso volgare. Ecco com'io la discorro.

[1155,4]  Alla p. 1128. Da queste osservazioni apparisce che la desinenza italiana della prima persona {attiva} singolare del perfetto indicativo, dico la desinenza in ai, è la vera e primitiva desinenza latina di detta persona, conservatasi per tanti secoli {dopo sparita dalle scritture, o senza mai esservi ammessa,} mediante il volgare latino; e per tanti altri, mediante la nostra lingua che gli  1156 è succeduta. Desinenza conservatasi anche nella scrittura francese, nostra sorella, ma perduta nella pronunzia, conforme alla qual pronunzia gli spagnuoli (altri nostri fratelli) scrivono e dicono amè ec. Voce senza fallo derivata dall'antichissimo amai, mutato il dittongo ai nella lettera e, forse a cagione del commercio scambievole ch'ebbero i francesi e gli spagnuoli, e le lingue e poesie loro ne' principii di queste e di quelle: commercio notabilissimo, {lungo, vivo, e frequente;} e conosciuto dagli eruditi, (Andrès t. 2. p. 281. fine, e segg.) e che in ordine alla {forma di} molte parole e frasi è la sola cagione per cui la lingua spagnuola somiglia alla latina meno della nostra, quantunque in genere somigli {e la latina e la nostra} assai più della francese. Così nel futuro amarè ec. ec. somiglia alla lingua francese pronunziata.

[1164,2]  A quello che ho notato altrove p. 111 dell'antichità della nostra frase gridare a testa, ec. aggiungi delle francesi, crier à pleine tête, à tue tête, du haut de sa tête, delle quali v. l'Alberti v. Tête, e v. pure i Diz. spagnuoli. (13. Giugno 1821.).

[1165,3]  Quante controversie sul significato di quelle parole di Orazio intorno a Cleopatra vinta nella battaglia Aziaca: (Od. 37. lib. 1. v. 23. seq.)
Nec latentes
Classe cita reparavit oras! *


 1166 V. il Forcellini e i comentatori. E nessuno l'ha bene inteso. Acrone: Nec latentes Classe cita reparavit oras: fines regni latentes: id est non colligit denuo exercitum ex intimis regni partibus. * Porfirione altro antico Scoliaste: Nec latentes C. c. r. oras: hoc est: Nec fugit in latentes, id est intimas Aegypti regiones ut vires inde repararet. * Nè mai s'intenderà e spiegherà perfettamente senza l'antico italiano, il quale c'insegna un significato del verbo reparare che non è conosciuto ai Lessicografi latini. Ed è quello di ricoverarsi, nel qual senso i nostri antichi dicevano, ed ancor noi possiamo dire, riparare o ripararsi a un luogo o in un luogo. Orazio dunque vuol dire, e dice espressamente: Non si ricoverò, non rifuggì alle recondite, alle riposte parti d'Egitto. Come se in luogo di reparavit avesse detto petiit, ma reparavit ha maggior forza di esprimere la fuga e il timore. (14. Giugno 1821.).

[1230,1]  Da repere che anche il Forcellini dice esser metatesi di ἕρπω, oltre l'inerpicare del quale ho detto altrove pp. 983-84, ed oltre il latinismo repere che nella Crusca ha un esempio di Dante, e uno del Soderini, ebbero i nostri antichi anche ripire, voce italiana d'uso, e volgare in quei tempi, come sembra, e adoprata anch'essa nel significato di inerpicarsi, ἀνέρπειν, o di salire, montar su, come puoi vedere ne' due esempi delle Storie Pistolesi nella Crusca, e in questi della Storia della Guerra di Semifonte scritta da M. Pace da Certaldo, Firenze 1753. il quale autore fu tra il 200 e il 300. Gli Fiorentini appoggiate le scale di già ripivano * (p. 37): e Videro... alcuni già avere appoggiate le scale, e far pruova di ripire. * (p. 46.) Esempi portati nella Lettera a V. Monti di Vincenzo Lancetti, Proposta di alcune Correzioni ed Aggiunte al Vocab. della Crusca, vol. 2. par. 1. Milano 1819. Appendice, p. 284. Quindi ripido, cioè Erto, Malagevole a salire, spiega la Crusca, e ripidezza astratto di ripido, voci non latine: e da repere, repente, per molto erto, ripido, dice la Crusca, che ne porta due  1231 esempi del trecento. Il Du Cange non ha niente in proposito. (27. Giugno 1821.).

[1295,1]  Alla p. 1138. fine, aggiungi - 4. La lingua latina ha prodotto tre figlie, che ancor vivono, che noi stessi parliamo, e le di cui antichità, origini, progressi ec. dal principio loro fino al dì d'oggi, si conoscono o si possono ottimamente o sempre meglio conoscere. Che in somma è quanto dire che la lingua latina ancor vive. E la considerazione di queste lingue fatta coi debiti lumi, ci può portare e ci porta a scoprire moltissime proprietà della lingua latina antichissima, che non si potrebbero, o non così bene dedurre dagli scrittori latini; e ciò stante l'infinita tenacità del  1296 volgo che mediante il parlar quotidiano, ha conservato dai primordi della lingua latina fino al dì d'oggi, e conserva tuttavia nell'uso quotidiano (e le ha pure introdotte nelle scritture) molte antichissime particolarità della lingua latina; come dimostrerò discorrendo dell'antico latino volgare. Sicchè lo studio comparativo delle tre lingue latino-moderne, fatto con maggior cura, di quello che finora sia stato, e con maggiore intenzione all'effetto di scoprire le antichità della favella materna, ci può condurre a conoscer cose latine antichissime, e primitive, o quasi primitive. La quale facoltà di uno studio comparativo sulla lingua greca parlata, non si ha, benchè la lingua greca viva ancora al modo che vive la latina. Oltre che non si hanno tante comodità di conoscere così bene il greco moderno, e le sue origini, e progressi, e generalmente la storia della lingua greca da un certo tempo in qua; come si hanno di conoscere quello che noi possiamo chiamare il latino moderno, e la storia della lingua latina dalla sua formazione e letteratura fino al dì d'oggi, come dirò poi.

[1361,2]  Oὐδὲν τοῦ ὅλου rien du tout. {+pas (che val propriamente nulla) du tout.} (21. Luglio 1821.).

[1421,1]  {Alla p. 512. marg.} Ancor noi oltre ove ch'è ubi, abbiamo pur dove che vale il medesimo, ma è quasi de ubi, cioè unde. Siccome gli spagnuoli per ubi dicono donde {(e adonde)} che è quasi de unde. E noi pure oltre onde cioè unde, abbiamo donde, che per altro vale, non ubi, ma unde. (31. Luglio 1821.).

[1456,1]  Frissonner ec. ϕρύττω o ϕρύσσω ec. (5. Agosto. 1821.).

[1475,1]   1475 Confrontando le lingue spagnuola francese e italiana, si trovano molte proprietà principalissime ed essenziali, che sono comuni a tutte tre. Or queste essendosi formate massime quanto al principale e fondamentale, l'una indipendentemente dall'altra, è necessario il dire che le dette proprietà derivino da un'origine comune, e questa non può esser che il latino, e s'elle non si trovano nel latino scritto, dunque vengono dal volgare. Nè si può dir che derivino dal latino corrotto de' bassi tempi, perchè, come ho detto pp. 1031-37 , egli si corruppe diversamente e indipendentemente secondo i luoghi ec. e le lingue che nacquero dal latino nacquero separatamente, e quasi in diverse parti. Quindi l'uso degli articoli e de' segnacasi, uniformi appresso a poco anche materialmente nelle tre lingue; l'uso de' verbi ausiliari pure uniformi, cioè essere e avere (eccetto che lo spagnolo non adopra essere), si debbono considerare come propri del volgare latino. Così l'uso del verbo finito colla particella che (franc. e spagn. que) in vece dell'infinito ec. del qual costume  1476 si hanno indizi anche nel buon latino (cioè del quod ec.) e molto più frequenti nel barbaro. I greci ebbero pur sempre lo stesso uso (ὅτι).

[1499,1]  Del resto gli scrittori antichissimi e primitivi, non meno italiani e greci, che latini e francesi, sono sempre sommamente propri, e scarseggiano di sinonimia. Ciò accade, perch'essi, ancorchè senza studio, pur possedevano assai bene e pienamente la lingua, ancorchè vastissima, ch'essi stessi creavano o formavano, tanto in ordine al generale e all'indole, tanto in ordine ai particolari, e alle parole e modi, e alla determinazione dei loro significati ec. e v. la pag. 1482.-84. la quale, stante questa riflessione, non contraddice alla pag. 1494.-96. (13-14. Agosto. 1821.).

[1533,1]  Chi non crederebbe che il significato francese della parola genio non fosse al tutto  1534 moderno? Eppure nel seg. passo di Sidonio (Panegyr. ad Anthem. v. 190. seqq.) io non so in qual altro senso, che in questo o simile, si possa intendere.
Qua Crispus brevitate placet, quo pondere Varro,
Quo genio Plautus, quo fulmine
*
{#(a) altri meglio, flumine} Quintilianus,
Qua pompa Tacitus numquam sine laude loquendus. *

Se pur non volesse dire piacevolezza, e una cosa simile a quella che esprime talvolta l'italiano genio, e in questo senso pure non si troverebbe presso gli antichi scrittori. V. però il Forcell. e il Ducange. (20. Agos. 1821.).

[1678,1]  È noto che anticamente il dittongo ae de' latini scrivevasi e pronunziavasi alla greca ai (v. i gramatici.) Or questa pronunzia e scrittura antichissima l'italiano la conserva  1679 anche oggi nel latino vae, greco οὐαί, ch'egli scrive e pronunzia guai, mutato il v in gu, come in guado, guastare, da vadum vastare. ec. I nostri contadini in alcune parti d'italia dicono golpe, (v. monti, Proposta ec. in Golpe, dove senza bisogno lo deriva dal francese) golo, sguelto, guerro per volpe, volo, svelto, verro (porco non castrato, verres) ec. ec. E viceversa vardare, valchiera per guardare, gualchiera ec. {+Noi diciamo vizzo e guizzo. (Crusca.) I nostri antichi diceano vivore per vigore. (Crusca.)} Il déguiser franc. è corruzione di déviser (v. la Crusca in Divisato: svisare è pur lo stesso, in rigore d'etimologia.) Non parlo della pronunzia del w inglese ec. ec. ec. (12. Sett. 1821.).

[1679,1]  L'italiano il francese lo spagnuolo i quali parlano (massime l'italiano) poco differentemente da quello che parlavano i latini, non perciò scrivono come i latini scrivevano. Vale a dire che delle due lingue Romane distinte da Cicerone, la rustica è sopravvissuta alla colta, l'una vive alterata, l'altra {è} morta del tutto. Tanta è la tenacità del popolo, tanta la difficoltà di conservare e  1680 perpetuare quello a cui la moltitudine non partecipa. Questo però per le mutazioni de' tempi per la barbarie, per la dimenticanza del buono scrivere ec. quello, non solo si conservò per la tenacissima natura del popolo, malgrado le tante vicende delle nazioni, influenze e inondazioni di forestieri ec. ma s'introdusse anche, e resta in luogo del latino scritto. E il ridurre a letteratura la lingua italiana ec. fu in certo modo un dare una letteratura al rustico latino, essendo perduta l'altra letteratura del latino colto. E malgrado gli sforzi fatti nel 400. e 500. per ravvivare questa seconda, (e ciò tanto in italia che altrove) ella s'è perduta, e l'altra s'è propagata, accresciuta, e vive. (12. Sett. 1821.).

[1779,2]  Noi diciamo agevole ec. i francesi aisé, la qual parola è manifestamente corrotta, e deriva da un'altra a cui la nostra s'avvicina molto più; cioè agibilis, quod agi  1780 potest, siccome facilis, quod fieri potest, onde viene a dir quasi lo stesso, come infatti agevole è sinonimo di facile. Si vede dunque che questa parola agibilis in senso di facile apparteneva al volgare latino, dal quale rimase in due diverse lingue che ne derivarono. Giacchè il latino barbaro de' bassi tempi era diversissimo non solo nelle diverse nazioni, ma quasi in ciascuna provincia, scrittore ec. Ed aisé deriva da agibilis o agevole, come poi da aise ec. derivò il nostro agio agiato agiatamente adagio ec. Tutte corruzioni moderne della radice ago. V. Forcellini e Ducange. (24. Sett. 1821.).

[1818,1]  Se gl'italiani i francesi e gli spagnuoli concordano nell'usare il verbo mittere nel senso di ponere (mettere, mettre, meter); se è certo che quest'uso antichissimamente proprio di tutte tre queste lingue, non è derivato da scambievoli comunicazioni del linguaggio latino corrotto in quella o in questa delle tre nazioni; se finalmente quest'uniformità  1819 di uso in tre lingue sorelle bensì, ma nate indipendentemente l'una dall'altra, benchè da una stessa madre, non si vuole attribuire al puro caso; sarà forza derivarlo da un'origine comune, e questa non può essere che il volgare latino da cui tutte tre derivarono; giacchè quest'uso non si trova nel latino scritto. V. Forcellini, e i Glossari. (1. Ott. 1821.).

[1945,2]  Alla p. 1660. Siccome le pronunzie variano secondo i climi e i popoli, così è verisimile che il latino passato {p. e.} nelle Gallie, o quando lo riceverono da' Galli i Franchi, cominciasse subito a pronunziarsi in modo simile a quello che si pronunzia il francese,  1946 scrivendolo però nel modo che l'avevano ricevuto, cioè come facevano i latini. Quindi la differenza tra la scrittura e la pronunzia, e i difetti della rappresentazione de' suoni. Infatti anche oggi i francesi gl'inglesi i tedeschi ec. leggono il latino come la loro lingua. Nel che è tanto verisimile che si accostino alla pronunzia latina, quanto è vero che i latini fossero inglesi ec. Laddove essi erano italiani, e questo clima e questo popolo che fu latino, è naturale che abbia conservata la massima parte della vera pronunzia delle scritture latine, non avendo nessun motivo di cangiarla. (18. Ott. 1821.). {{V. p. 1967.}}

[1970,3]  In tutte le congiugazioni, anzi in tutti i verbi di tutte tre le lingue figlie della latina, la caratteristica inseparabile dal futuro indicativo si è la r. Al contrario nelle congiugazioni latine che noi conosciamo, nel cui futuro indicativo la r non è mai caratteristica, e non entra  1971 mai nella desinenza. Or questa qualità delle dette tre lingue, non può attribuirsi alla corruzione particolare che ricevette la lingua latina in Francia, Spagna, italia, indipendentemente l'una dall'altra; ma essendo comune, e costantissima in tutte tre, manifesta chiaramente un'origine comune. Or questa non essendo la lingua latina scritta, non può essere altro che l'antica volgare ugualmente diffusa e comunicata alle tre nazioni. Mi par dunque evidente che nel latino volgare la caratteristica di tutti i futuri indicativi fosse la r. Questa proprietà del volgare latino, mi par che s'abbia da tenere per dimostrata. Credo verisimile che esso volgare in luogo del futuro indicativo, usasse il futuro congiuntivo, la cui caratteristica è sempre la r nel latino che noi conosciamo. Così p. e. il futuro congiuntivo legero, corrisponde appuntino all'italiano leggerò, e ne viene ad esser la fonte.  1972 Ed infatti osservo che sebbene regolarmente la r sia del tutto esclusa dalla desinenza del futuro indicativo nel latino scritto, nondimeno ella è caratteristica come presso noi in parecchi verbi latini anomali o difettivi ec. il cui futuro indicativo ha appunto la desinenza, che ha il futuro soggiuntivo negli altri verbi. Per esempio, ero, potero ec. ec. odero, meminero ec. {{odierò, potrò ec.}} Ora i verbi {(o nomi)} anomali o difettivi ec. sogliono essere i più antichi in ciascuna lingua, e certo indizio dell'antico costume, e delle proprietà di essa, siccome d'altronde il volgare di ciascuna lingua è il maggior conservatore delle sue antiche proprietà.

[1983,2]  A quanto ho detto p. 1678-79 del nostro guai venuto dal latino vae, aggiungi che in parecchi luoghi d'italia si suol dire ghel o ghelo per ve lo (ghel dissi, ghelo dico), o gh' per v' (gh'ho messo, per v'ho messo, cioè ho messo quivi) ec. Così mi par che usino massimamente i Veneziani.

[1993,1]  Dell'antico volgare latino V. Perticari, de' trecentisti ec. l. 1. c. 5. p. 22 segg. c. 6. 7. 8. (26. Ott. 1821.).

[2023,1]  Alla p. 1109. Di questi tali verbi di forma continuativa, propri delle lingue moderne,  2024 quelli che non hanno oggi alcun significato distintamente continuativo, o che s'usano indifferentemente come i positivi da cui derivano, o restano in luogo di questi già estinti, potranno credersi introdotti nelle nostre lingue ne' bassi tempi, o ne' bassi tempi trasportati dal significato continuativo al positivo o a qualunque altro, o sostituiti interamente ai positivi loro. Quelli però (e son parecchi) che hanno nelle stesse nostre lingue un evidente significato continuativo (esistano ancora {in esse} o non esistano i loro positivi), e tuttavia non si trovano negli scrittori della buona latinità, difficilmente m'indurrò a credere, che sieno di bassa epoca, e che non ci siano dirittamente pervenuti mediante l'antico volgare latino, padre delle nostre lingue, e conservatore ostinato delle antiche proprietà della favella. Giacchè non è verisimile  2025 che ne' bassi e corrotti tempi, si coniassero espressamente questi verbi, secondo tutta la proprietà dell'antichissimo latino, secondo tutte le regole della formazione e {{della}} significazione continuativa; quando queste regole, e questa tal proprietà, da sì lungo tempo, e nell'istesso fiore della latinità era stata dimenticata, o mal distinta, e confusamente sentita, o del tutto ignorata {{e violata}} dagli stessi scrittori latini e da' migliori gramatici, e conoscitori della regolata favella, e formatori di nuove parole. (31. Ott. 1821.).

[2069,1]  Alla p. 1126. marg. Quanto sia vero che il v è stato sempre, per natura della pronunzia umana, almeno ne' nostri climi, o considerato o confuso con una aspirazione, e questa lieve, si può vedere nella lingua italiana che spesso lo ha tolto via affatto o dalle parole derivate dal latino, o da altre. E in quelle stesse dove lo ha conservato, la pronunzia volgare spessissimo lo sopprime, e spesso anche la scrittura, come nella parola nativo dal latino nativus, che noi scriviamo indifferentemente natío, ed in molte altre simili, latine o no, che o si scrivono indifferentemente in ambo i modi, o sempre senza il v che prima avevano, come restío, che certo da prima si disse restivo, o restivus. { Giulío per giulivo, Poliz. l. 1. Stanza 6. v. 4. Bevo, beo, bee ec. Devo deve, deo dee ec. V. le gramatiche, e fra gli altri il Corticelli. Paone, pavone ec.} Viceversa il popolo molte volte in queste o altre  2070 voci, inserisce o aggiunge comunque, quasi per vezzo, il v, che non ci va, massimamente fra due vocali, per evitare l'iato, al modo appunto del digamma eolico, ch'io dico esser lo stesso che l'antico v latino. Del resto come i latini dicevano audivi e audii ec. ec. così è solenne proprietà della nostra lingua il poter togliere il v agl'imperfetti della 2. 3. e 4. congiugazione e dire tanto udia, leggea, vedea quanto udiva, leggeva, vedeva (cioè videbat ec. essendo il b latino un v presso noi in tali casi, come lo era spesso fra' latini, e viceversa, e come tra gli spagnoli queste due lettere, e ne' detti tempi e sempre si confondono.) Particolarità analoghe a queste che ho notate nella lingua italiana, si possono anche notare nella francese e più nella spagnola. Siccome l'analogia fra la f e il v si può notare nel francese vedendo dal masc. vif farsi il fem. vive ec. ec. (7. Nov. 1821.).

[2079,1]  Alla p. 1154. marg. I nostri antichi hanno anche un fremitare verbo italiano, formato però alla maniera latina da fremitus o fremitum di fremere, (che noi anticamente dicemmo pure fremire), e che si può molto verisimilmente credere di più antica origine, benchè non si trovi negli autori latini nè nel Glossario. (12. Nov. 1821.).

[2136,1]  Quello che dico degli autori dico degli stili, dei modi, dei linguaggi, dei costumi, della conversazione. La conversazione francese si dee tradurre nell'italiano parlato o scritto, in modo che ella non sia francese in italiano, ma tale in italiano qual è in francese; tale il linguaggio della conversazione in italiano, qual è in francese, e non però francese. (21. Nov. 1821.).

[2148,1]  Contrastare, contraster, contester, contrester, francese contrastar spagnolo sono verbi, o anzi un verbo ignoto alla buona latinità, ma comune ab antico e fin dall'origine loro alle tre figlie della lingua latina; e formato {{1.}} alla latina affatto, 2. di due parole latinissime  2149 contra e stare, delle quali l'una non esiste più nel francese ec. Questo che cosa denota se non un'origine comune di esso verbo, anteriore alla diramazione delle tre sorelle, cioè alla corruzione del latino, {+fatta ne' bassi tempi,} la quale non fu che parziale e diversa e indipendente nelle tre nazioni; {+(siccome esse nazioni furono allora indipendenti ec. l'una dall'altra, e separate politicamente ec.)} e un'origine latina? Or questa che altro può essere se non il volgare antico latino? V. il Ducange in Contrastare. E di questo genere, e nelle medesime circostanze sono infinite parole, proprie ab antico e primitivamente di tutte tre le nostre lingue sorelle. (22. Nov. 1821.).

[2197,2]  Solitas è voce latina antica dice il Forc. e significa solitudine. Or eccola ancora vivissima nello spagn. soledad collo stesso significato. V. il Gloss. se ha nulla. (30. Nov. 1821.).

[2221,2]  Non potui abreptum etc.?
Verum anceps pugnae fuerat fortuna.
Fuisset:
Quem metui moritura? *

Didone, Aen. 4. 600. 603. seg.
Fuerat qui significa espressamente sarebbe stata. {Puoi vedere p. 2321.} Fuera direbbero appunto gli spagnuoli. Quest'uso dell'indicativo preterito  2222 piucchè perfetto in luogo e in senso del piucchè perfetto dell'ottativo o soggiuntivo, è frequentissimo presso i latini massime allora quando esso va congiunto con altro più che perfetto del soggiuntivo, onde sarebbe stato bisogno il duplicar questo, come nel citato luogo, dove se in vece di fuerat poneste fuisset, raddoppiereste quel fuisset (fosse stata) che viene subito dopo. {V. anche Georg. 2. 132. 133. dove però si usa l'imperfetto indicativo {(v. p. 2348.)} V. pure Georg. 3. 563. seqq. e Oraz. l. 4. od. 6. v. 16-24. falleret per fefellisset.} Così in quell'altro di Virg. Aen. 2.:
Et si fata deum, si mens non laeva fuisset,
Impulerat
ec. *
{V. anche Oraz. Od. 17. l. 2. v. 28. seqq. {{e l. 3. 16. 3. seqq.}}}
Così in quel famoso perieram nisi periissem. *
Cioè sarei perito, se non fossi perito. Or da tali osservazioni io deduco due cose.

[2226,2]  Alla p. 2019. marg. fine. Abbiamo pure pattuire (corrottamente pattovire, come continovo ec.) il qual verbo non è già da pactum i, sostant. nè da pactus part. dai quali avremmo fatto pattare, (abbiamo anche questo infatti, ed impattare, v. i Dizionari spagnoli) ma dal sust. pactus us, di cui v. nel Dufresne pactibus da Plauto  2227 nella Cistellaria (sebbene il Forcell. nè l'Appendice non ne hanno nulla) e Pactus (non so se i, o us) di bassa latinità. E nota pertanto in questo moderno pattuire un chiaro vestigio, anzi un derivato dell'antico pactus us, manifesto nel luogo di Plauto (però vedilo), e obbliato poi dagli scrittori, e dagli stessi vocabolaristi. Giacchè il Forc. non la mette neppure fra quelle de' Lessici antichi da lui scartate. (5. Nov.[Dic.] 1821.). {+Il nostro eccettuare (v. nel Gloss. Exceptuare) io credo che venga da un ignoto exceptus us sostant. come captus us dal semplice capio, da cui viene excipio, onde exceptare (Gloss.) excepter franc. ed exceptuare. (V. i Dizionari spagnoli. Così conceptus us, deceptus us,receptus us, inceptus us, ec.}

[2236,1]  Spessissimo anzi quasi sempre, dalle voci latine comincianti per ex noi abbiamo tolto la e, e il c, e cominciatele per s, specialmente, anzi propriamente allora quando la ex era seguita da consonante, sicchè la nostra s viene ad essere impura. Nel qual caso che cosa soglian fare gli spagnuoli e i francesi, l'ho detto altrove pp. 812-14 parlando della s iniziale impura. Parrà che costoro, solendo conservare la e, si accostino  2237 più di noi al latino, e nondimeno chi vuol vedere che l'antico volgare latino, ed anche gli scrittori più antichi, usavano di far nè più nè meno quel che facciamo noi, osservi il Forc. in Stinguo (e forse anche in molti altri luoghi), verbo che anche noi anticamente dicemmo per estinguo, e così stremo per estremo, {+sperimento, esperimento; sperto, esperto; spremere da exprimere da cui pure abbiamo esprimere, sclamare da exclamare, onde pure esclamare;} e così altre tali voci che hanno {{pur}} conservata la e, la perdono o a piacer dello scrittore, o nei nostri antichi, o nella bocca del popolo ec. E forse l'avere gli spagnoli e i francesi la e in tali parole, non è tanto conservazione, quanto maggiore {e doppia} corruzione; vale a dire che, secondo me, essi volgarmente da principio dissero come noi, cioè colla s impura iniziale, e poi per proprietà ed inclinazione de' loro organi, che mal la soffrivano, o a cui riusciva poco dolce ec. v'aggiunsero, non  2238 prendendola dal latino ma del loro, la e iniziale. Infatti essa si trova sempre o quasi sempre nelle parole che anche nel latino scritto, e dell'aureo secolo, e per loro natura ed etimologia ec. cominciano colla s impura, siccome pur fanno sempre in italiano. {{V. p. 2297.}}

[2243,2]  In proposito di ciò che ho detto pp. 95-96 p. 511 circa la famosa scrofa apparsa ad Enea, v. la Vita di Virgilio attribuita a Donato, sul principio, dove racconta il miracolo di una verga accaduto alla madre ec. Il che ha rapporto col caso nostro, perchè dimostra le superstizioni popolari fondate  2244 sulla similitudine dei nomi, e come esse solessero credere rappresentato o simboleggiato (relativamente ai presagi, augurii ec.) il tal uomo, la tal cosa, dalla tal altra che le rassomigliava nel puro nome, come la troia a Troia, e come parecchi altri esempi si troverebbero negli antichi di augurii ec. tratti da pure combinazioni di nomi. Giacchè quella Vita di Virgilio di chiunque sia, e per quanto poca fede meriti, meriterà almeno fede in quanto all'avere semplicemente raccolte le tradizioni popolari e sciocche e mal fondate che correvano, e in quanto al render testimonianza del modo di pensare di que' tempi, sì in questo soggetto, come ne' soggetti analoghi. (11. Dic. 1821.).

[2244,1]  Alla p. 1563. principio. Il nostro urtare, francese heurter (v. gli spagn. Il Gloss. non ha nulla), viene evidentemente {da urgere} alla maniera de' continuativi, cioè da urtus, suo participio ignoto per se stesso, ma fatto manifesto da  2245 questo verbo comune a due lingue figlie della latina, e dalla voce urto, francese heurt, che non è altro che un verbale formato dal participio in us di urgere, alla maniera di tanti altri verbali latini, come dirò altrove p. 3557. (11. Dic. 1821.).

[2246,2]  Involare che presso noi vale solamente rubare ebbe in fatti questa significazione non presso i latini del secolo di Augusto, ma presso gli anteriori e i posteriori. (V. Forcell.) Fra' quali l'autor della Vita di Virgilio, innanzi  2247 alla metà, cioè cap. 11. V. il Gloss. se ha nulla. {{Voler dicono i francesi. {+ed è notabile perchè viene ad essere la radice d'involare in questo senso. V. il Gloss. anche in Volare se ha nulla.} V. i Diz. spagn.}}

[2247,1]  Nocchiero voce nostra usuale viene da ναυκλῆρος[ναύκληρος] mutato l'au in o e il cl in chi, come appunto da clericus chierico, da clamare chiamare ec. Nauclerus si trova negli scrittori latini ma rara, non usuale; e parrebbe ch'ella fosse stata per loro un grecismo: pure indubitatamente ella fu presso i latini volgarissima, sebben poco usata dagli scrittori, giacchè volgarissima è in italiano fino ab antico. V. il Forcell. e (se ha nulla) l'Append. e il Gloss. (12. Dic. 1821.).

[2257,1]   2257 Dico altrove {(p. 1970.)} del futuro congiuntivo adoperato probabilmente dal volgo latino in vece del dimostrativo. V. Virg. Georg. 2. 49-52. dove exuerint non vale se non se si spoglieranno, o cosa tanto simile, che ben si rende probabile lo scambio di questi due futuri nel dialetto volgare romano. (16. Dic. 1821.). {{V. pure Oraz. Epod. 15. 23-4. moerebis-risero, e p. 2340. e Virg. En. 6. 92.}}

[2258,2]  Puoi vedere il Forcell. in cilium ed osservare come anche presso gli antichi autori latini si trovi vestigio evidente e di questa voce, e del significato che essa {ha} nella nostra lingua. Voce e significato venuto dal volgare latino indubitatamente. E la voce buona latina supercilium dimostra l'esistenza del semplice  2259 cilium significante qualcosa che appartenesse all'occhio. V. pure il Gloss. e i Dizionari francesi e spagnoli (18. Dic. 1821.).

[2264,1]  Suole la lingua italiana de' nomi sostantivi retti dalla preposizione con, servirsi in modo di avverbi, come con verità per veramente, con gentilezza per gentilmente, {+con effetto per effettivamente, con facilità per facilmente (Casa, let. 43. di esortazione..} Molto più questa facoltà è adoperata dalla lingua spagnuola (dalla quale, almeno in parte, ell'è forse derivata nell'italiana). Tale usanza  2265 è poco o niente familiare ai latini, anzi si può giudicar quasi barbara in quella lingua. E nondimeno io son persuaso ch'ella fosse solenne al volgare latino. Eccovi Orazio, 3. 29. carm. v. 33. seqq.
cetera fluminis
Ritu feruntur, nunc medio alveo
cum pace *
(cioè pacificamente) delabentis Etruscum
In mare: nunc lapides adesos ec. *

Il qual esempio non portato dal Forcell. credo che difficilmente troverà il simile negli scrittori latini. Nel Forcell. non trovo alla voce Cum cosa che faccia al proposito, se non forse il §. Aliquando redundare videtur. * Vedilo, e l'Append. se ha nulla, e il Glossar. e i comentatori di Orazio. {+Solamente trovo nel Forcell. in Pax alquanto sopra la fine, un esempio di Livio citato, e un altro accennato, dove si legge cum bona pace * , e potrebbe riferirsi al mio proposito, ma propriamente non vale pacificamente, ma senza far guerra, senza molestare, in pace in somma, come noi diciamo.} Osservo ancora che questo costume proprio dell'italiano e dello spagnolo è anche proprio del greco, certo assai più di questo che del latino scritto. E siccome è certo che le dette lingue {moderne} non possono averlo derivato dal greco, così è ben verisimile  2266 che l'abbiano dal volgare latino, tanto più simile al greco che non è il latino scritto (per la qual cosa anche l'ĩdole[l'indole] dello spagnolo e dell'italiano somiglia più al greco che al latino scritto). E più simile per due cagioni 1. che egli è più antico, serba meglio i caratteri della sua origine, di quel tempo cioè in cui esso insieme col greco derivò da una stessa fonte, 2. che il greco scritto, cioè quel solo che noi {ben} conosciamo, fu senza paragone più simile al greco parlato, di quello che il latino parlato allo scritto. (21. Dic. 1821.).

[2276,1]  V. nel Forcell. in Non, principio, nell'esempio di Quintiliano una frase uguale al non plus ec. de' francesi. Vedilo anche in magis e in plus se ha nulla,  2277 v. anche il Gloss. (23. Dic. 1821.).

[2279,1]  Si trova in latino obsidium per assedio, obsidiare per insidiare. (V. e consulta il Forcell.) Parrebbe pur tuttavia ch'egli dovesse valere assediare. Fatto sta che questo verbo e quel nome sono composti. Dunque è naturale che una volta avessero i loro semplici. E quali? sidium, o sedium, e sidiare ec. Ora io credo che questi in realtà vivessero nel volgare latino benchè morti nelle scritture, e lo deduco dallo spagnolo sitio, e sitiar (assedio, assediare) mutato il d in t, scambio consueto. Osservate anche il francese siege, il Glossar. in Sedius il med. in Assedium, e Assediare, parole italiane e francesi formati[formate] dalla stessa radice di obsidium, obsidiari, ma con diversa preposizione. (23. Dic. 1821.).

[2280,1]  L'italiano mescolare, il francese mêler, anticamente mesler, lo spagnolo mezclar derivano evidentemente da un latino misculare o misculari, il quale è tanto ben formato da miscere (da cui abbiamo pur mescere) quanto joculari da jocari, speculari da specere, {+gratulari da gratari,} ed altri molti. E questo misculari trovandosi in tre diverse lingue figlie della latina, dovè per necessità trovarsi in quella fonte da cui tutte tre (ciascuna indipendentemente dall'altra) derivarono, cioè nel volgare latino. Massimamente che le dette voci sono proprissime ciascuna della sua lingua, fino da' principii di questa. V. il Forcell. il Glossar. ec. che non ho consultati. Aggiungete che il francese e lo spagnolo non hanno altro verbo che risponda a miscere, onde si vede che misculare prevalse nell'uso volgare latino come infatti prevale  2281 nel med.[medesimo] uso volgare, il mescolare italiano al mescere. {+Similmente prevale (e questo è veramente il più volgare), prevale dico il mischiare, e questo è in anima e in corpo il misculare, o misculari latino, cambiato per proprietà di nostra pronunzia il cul, in chi, del che v. p. 980. marg. Diciamo anche meschiare, ma è meno usuale, e l'adoprarlo non è senza qualche affettazione o d'eleganza o d'altro. V. il Gloss. se ha nulla, e p. 2385.}

[2283,1]  Antica pronunzia e scrittura del verbo che poi ordinariamente si disse claudere, fu cludere, conservata sempre ne' composti, recludere, includere, concludere, excludere e in tutti o quasi tutti gli altri. V. il Forcell. e Frontone sulla fine dei Principia Orationum (quem iubes cludi * ) il qual Frontone era studiosissimo dell'antica ortografia, e il codice che lo contiene è antichissimo. Or questa antica maniera, e ad esclusione della più moderna, si è conservata nell'italiano chiudere, mutato il cl in chi al nostro solito. Dunque il volgo latino  2284 continuò sempre (certo in italia) nell'antica pronunzia di quella voce. V. il Gloss. se ha nulla. (24. Dic. 1821.).

[2297,1]  Alla p. 2238. I preliminari di questo pensiero si applichino a quello che segue ora, perocchè quanto a stinguo esso non è aferesi di exstinguo, ma la radice del medesimo, e di restinguo ec: altrimenti si direbbe extinguo, e allora stinguo sarebbe per aferesi.-

[2299,2]  Lamia era una voce (dal greco, o comune al greco) e significava un'  2300 idea del tutto popolare nella grecia e nel Lazio, anzi popolare per sua natura, in qualunque popolo, e propriamente una di quelle voci e idee che non essendo adoperate mai dagli scrittori se non per ischerzo, o per filosofica riprensione, sono nondimeno tutto giorno in uso nella comune favella, e in questa sordamente si conservano e si perpetuano, come fanno i pregiudizi e le sciocchissime opinioni, e i più puerili errori della più minuta plebaglia, {e} delle ultime femminucce; pregiudizi ec. de' quali in particolare non s'ha notizia fuori di quella tal nazione perchè difficilmente vengono in taglio d'esser mentovati nella scrittura, o nella società, per poco civile che sia. E massimamente se ne perde la notizia, s'essi sono antichi (come appunto delle voci oscene delle quali avranno abbondato le lingue antiche, ne abbondano le moderne, nè però si conoscono da' forestieri.).  2301 Frattanto essi si conservano tradizionalmente di padre in figlio, e si perpetuano più che qualunque altra cosa volgare, e con essi le parole che loro appartengono specificatamente. Di tal natura è l'antichissima e volgarissima voce Lamia, λαμία, e l'idea ch'essa significa. V. il Forcell., i Diz. Greci, il Glossar. e il mio Saggio sugli errori popolari degli antichi.

[2305,1]   2305 Gl'italiani, i francesi, gli spagnoli usano il verbo sapio (sapere, saber, savoir) nel senso di scio. Che vuol dir ciò, se non che così adoperava quel volgare da cui e non d'altronde, tutte tre queste lingue son derivate? V. il Forc. e il Glossar. {{e Sapiens, Sapientia ec.}} (29. Dic. 1821.).

[2312,2]  Non so se possa fare al caso l'osservare che noi diciamo filo per nulla, il che potrebbe derivare non da filum, ma da hilum, mutato l'h in f, come viceversa gli spagnuoli, onde appunto per filum dicono hilo. E ricordati di quanto ho detto p. 1127 circa l'antica proprietà della f, cioè di essere aspirazione. Del resto v. la Crusca, il Glossar. i Dizionari francesi e spagnoli ec. e il Forc. in filum, se avesse nulla. (30. Dic. 1821.)

[2316,1]  Circa quello che ho detto altrove p. 65 del vir frugi de' latini, che significava uomo di garbo, e propriamente non voleva dir altro che utile, v. il Forcellini in Nequam, che significa cattivo, e propriamente non vale che inutile. Così in Nequitia ec. (31. Dic. 1821.).

[2323,1]  Alla p. 2019. marg. fine. Il quale exdorsuare (antico verbo) mi pare indizio di un perduto dorsus us in vece di dorsus i, o dorsum i, dal quale si sarebbe fatto non exdorsuare ma exdorsare, come infatti abbiamo noi sdossare (ch'è lo stesso: v. p. 2236. segg. 2297. segg. giacchè dosso è lo stesso che dorso, ed è maniera italiana, francese ec. di pronunziar questa parola, ma derivata da antichissima origine, perchè gli antichi latini dicevano infatti dossum i, cambiando al solito la r in s. V. il Forcell. in Dossuarius.), indossare, addossare ec. V. il Gloss. il Forcell. i Dizionari francesi e spagnoli in queste e simili voci. Il detto antico dorsus us è anche dimostrato, al parer mio, dai  2324 derivati dorsualis (da dorsum o dossum verrebbe dorsalis o dossali. Vedilo infatti con altre simili voci nel Gloss.), dossuarius, dorsuosus. {+Dorsuosus è da dorsus us come luctuosus da luctus us, fructuosus da fructus us, flexuosus da flexus us, sinuosus da sinus us, aestuosus da aestus us ec. ec., actuosus da actus us ec., portuosus da portus us ec. tortuosus da tortus us ec. (v. il Forcell. in monstruosus che forse viene esso stesso da un monstrus us.) adfectuosus da adfectus us ec. Ossuosus par che venga da os, o da ossum i, e pure a' bassi tempi, o volgarmente si disse ossuum, ossua. V. Forcell. e Gloss. impetuosus, tumultuosus, sumptuosus, untuoso.} V. la p. 2226. {e 2386.} (2. Gen. 1822.).

[2325,1]  Volgus, volpes dicevano gli antichi latini ec. ec. e cento mila altre voci similmente, adoperando l'o in cambio dell'u. (v. il Forc.  2326 in O, U ec. ec.) Uso proprio del volgo, proprio dell'antichità, e perciò amato anche recentemente da quelli che affettavano antichità di lingua, come Frontone ec. Or quest'uso appunto eccovelo nell'italiano, solito a scambiare in o l'u latino dei buoni tempi, e restituir queste voci nella primitiva loro forma ch'ebbero fra gli antichi latini, e nelle vecchie scritture. È noto che tal costume è più proprio dell'italiano che dello spagnuolo, e più assai che del francese. ec. ec. (4. Gen. 1822.)

[2267,1]  La considerazione dei dittonghi (fra' quali il qua que ec. non fu mai contato) mostra essa sola che i latini avevano realmente nella natura della loro pronunzia, massime anticamente, la proprietà di esprimere il suono delle vocali doppie in un solo tempo, cioè come una sola sillaba. Giacchè senza dubbio ai (antico) ae oe ec. si pronunziarono da principio sciolti, ma come una sola sillaba, dal che poi nacque, che si cominciassero a pronunziar legati, come accadde in grecia. {+Che l'antico dittongo ai si pronunziasse sciolto, e per conseguenza i dittonghi latini si pronunziassero così, ma che al tempo di Virgilio già si pronunziassero chiusi, osserva En. 3. 354. dove Virgilio avendo bisogno di una voce trisillaba, dice Aulai per aulae: e v. pure En. 6. 747. e p. 2367.} (L'italiano ha molti dittonghi e tutti si pronunziano sciolti: ma il volgo bene spesso li riduce ad una sola vocale, come in latino, dicendo p. es. celo p. cielo, sono per suono. {+Questo è anche costume de' poeti, e di altri ancora fra gli antichi. V. la p. seg.} ec. ec.) Sottoposta poi a regola la quantità delle sillabe, quelle vocali doppie che nell'uso eran divenute una sola (cioè ae ec.), si  2268 considerarono come formanti una sola sillaba, quelle che benchè in un sol tempo, tuttavia si pronunziavano tutte due (o fossero più di due) distintamente (come accade anche nell'italiano dove neppure il volgo, se non forse in qualche parte, dice pensero ec. e pure pensiero è per tutti 3sillabo[trisillabo]: gli antichi poeti, 500isti[cinquecentisti] ec. scrivevano anche volentieri pensero ec. v. le rime del Casa {e il Petr. di Marsand}), si considerarono come altrettante sillabe quante vocali erano ec. (21. Dic. 1821.). {+V. la Regia Parnassi in Aaron, e il Forcell. ibid.}

[2330,1]  Alla p. 1153. Tali versi de' comici, giambici, ec. erano quasi ritmici, cioè regolati e misurati piuttosto sul numero delle sillabe, e la disposizione degli accenti, (poco anche osservata) che sul valore e quantità di ciascuna sillaba. Dunque vuol dire che secondo il ritmo, tali vocali doppie si dovevano pronunziare piuttosto come monosillabe che dissillabe  2331 ec. Dunque pel volgo, anzi nella pronunzia quotidiana esse erano monosillabe, e non altrimenti, fino agli ultimi tempi della lingua latina (giacchè questo medesimo costume si può molto più notare ne' versi espressamente ritmici de' bassi tempi) ec. ec. (5. Gen. 1822.).

[2346,1]  Dell'uso invalso fra i latini fino da antichissimi tempi di contrarre i participii passati di moltissimi verbi, tanto che questi participii nella buona latinità non si trovano più se non contratti, come lectus, e non mai legitus ec., e non solo nella buona, ma in qualunque o anteriore o posteriore latinità, non si trovano più i veri e regolari participii, ma solo i loro vestigii ne scopre l'erudito; v. p. 1153. capoverso ult. ec..

[2355,2]  Noi diciamo leccare, i francesi lécher, (gli spagnuoli vedilo), i greci λείχειν, i latini nulla di simile. A primissima giunta è manifesto che il greco λείχω, cioè lecho, o licho è tuttuno col nostro lecco, che anche, volgarmente, si dice licco. E notate pure che il francese non dice léquer o lecquer, ma lécher, conservando il χ greco. Queste parole sono antichissimamente e primitivamente proprie delle nostre lingue. Sono volgarissime, anzi plebee; nè s'usa altra voce nel linguaggio familiare per dinotare la stessa azione.  2356 Antichissima e proprissima della lingua greca è la voce λείχω. Come dunque questa conformità fra l'antichissimo greco, e il modernissimo, vivente, ed usualissimo italiano, francese ec? Non è egli evidente che leccare, lécher ec. ci viene dal volgare latino? E da qual altra fonte che da un volgare ci può esser venuta una parola sì volgare, e propria del nostro più familiare discorso? E qual altro volgare che il latino può ed avere avuta questa parola greca, usandola volgarmente, ed averla comunicata a queste due lingue moderne, nate l'una separatamente dall'altra? Ma come potè nel volgare latino divenire sì familiare, e conservarsi poi sino all'ultimo, un'[un] antichissimo verbo greco? Certo il volgo latino non istudiava il greco, e più grecizzanti erano i nobili che la plebe. È dunque manifesto che tal verbo deriva niente meno che da quella primitiva sorgente da cui vennero il greco e il latino (volgari tutti due quando nacquero, come son tutte le lingue); e che perduto poi, o escluso dalle polite scritture, e dal linguaggio nobile, come tante altre,  2357 (e come accade appunto nell'italiano che parecchie voci volgari benchè derivate dalla purissima latinità, cioè dalla nostra madre, si escludono dalle polite scritture o discorsi, perchè appunto fatte troppo familiari dall'uso quotidiano della plebe, ec. e si antepongono altre d'origine o di forma corrottissima) si conservò perpetuamente nel popolare. Ed appunto qui possiamo osservare un esempio di ciò che ho detto nella parentesi, poichè lingo (v. il Forcell.) non è che corruzione di λείχω, o lecho, o licho; pur quello fu adottato nelle scritture, questo escluso, benchè certo esistesse nella lingua latina, come abbiamo veduto. V. il Ducange in Lecator, e nota anche Licator sì quivi in un esempio, come al suo luogo. (23. Gen. 1822.).

[2357,1]  Ho detto altrove p. 2279 che lo spagnuolo sitiar per assediare forse viene da un sidiari, o sidiare semplice di obsidiari ec. Aggiungo, se quivi non l'ho già detto, che parimente sitio per assedio non sembra esser altro che sidio sidionis, cioè obsidio tolta la preposizione ob la quale infatti non è che aggiunta ad una parola semplice, che non può essere se non  2358 sidio. E siccome il semplice è più antico del composto, così veniamo ad avere nello spagnolo (certo non per altro mezzo che del volgare latino) una parola più antica di obsidio, ignota alle scritture latine, che non riconoscono se non quest'ultima, e per conseguenza non potuta conservarsi se non nel volgare {fino} ab antichissimo. (24. Gen. 1822.). {{V. il Gloss. se ha nulla.}}

[2360,1]  Extremus, formaque ante omnes pulcher Julus,
Sidonio
est invectus equo: quem candida Dido
 2361 Esse sui dederat monumentum et pignus amoris
. *

En. 5. 570.-2
. Assolutamente per invehitur, locuzione simile al nostro volgare: è posto, è assiso; è portato da un cavallo Sidonio ec. Perocchè il nostro presente passivo è formato del verbo essere e del participio passato. Non così in latino. E tuttavia in questo luogo est invectus, non è preterito, ma presente. Ed in uno scrittore così elegante come Virgilio. {{v. i Comentatori. Del resto v. il contesto di Virgilio, e troverai che non può essere se non presente, quali sono prima e dopo, gli altri verbi da lui adoperati; portat, ducit, fertur, ec. (26. Gen. 1822.).}}

[2364,1]  È proprio della nostra lingua, della francese della spagnuola il far servire la preposizione senza col suo caso, come per aggettivo, p. e. dicendo luogo senz'acqua, vento senza umidità, casa senza luce ec. cioè priva di ec.  2365 Ciò non è frequente in latino e può parere un barbarismo. Pur vedilo in Virg. En. 6. 580. nel Forc. in sine, 1. esempio, nel detto di Caligola presso Svetonio, arena sine calce * ec. Così noi ci serviamo d'altre preposizioni allo stesso modo; uso non molto proprio del buono latino, ma di cui pur si troverebbero molti altri esempi. Ce ne serviamo pure a modo di avverbi, come ho detto p. 2264. segg. (28. Gen. 1822.).

[2368,1]  Tristis per cattivo all'italiana, mi par di trovarlo nell'En. 2. 548. V. gl'interpr. il Forcell. il Gloss. ec. (29. Gen. 1822.).

[2369,1]  Noi diciamo fare una cosa di buona gana, cioè alacriter. Presso gli spagnuoli gana vale alacritas. Gli scrittori latini non hanno parola da cui questa si possa derivare. E pure dove credete che rimonti la sua origine? Alle primissime sorgenti delle due lingue sorelle latina e greca. Γάνος in greco vuol dire lętitia, gaudium, voluptas. V. il Lessico co' suoi derivati. Come dunque questa voce nostra e spagnuola, volgarissima in ambo le lingue, anzi plebea, nè degna della scrittura sostenuta, può esser mai derivata dal greco? quando ne' tempi barbari in cui nacquero tali lingue,  2370 appena si sapeva in italia o in Ispagna che vi fosse al mondo una lingua greca? come può esser venuta questa voce se non dal volgare latino, e per mezzo di esso?

[2374,1]  Alla p. 2328. fine. (Così l'Alamanni, Coltivaz. lib. 6. v. 416-7. O se l'ingorde folaghe intra loro Sopra il secco sentier vagando stanno. * ). Ed è ben ragione perocchè il verbo essere è di sua natura in tutte le lingue applicabile a qualsivoglia  2375 cosa, qualità, azione ec. Ora il verbo stare è sostanzialmente {e originariamente} continuativo di essere (in latino in italiano in ispagnuolo), e partecipa della di lui natura, e viene al caso ogni volta che s'ha da significare continuazione o durata di qualunque cosa è. Osservate i latini, osservate Virgilio e vedrete che laddove essi congiungono il verbo stare co' nomi addiettivi, o co' participii d'altri verbi, esso verbo non tanto significa stare in piedi, ec. quanto continuazione o durata di ciò ch'è significato da' detti nomi o participii. Talia perstabat memorans * (En. 2. 650.), Stabant orantes * ec. (En. 6. 313.) Mi ricordo anche di altri di altri luoghi di Virgilio dove ciò ch'io dico è anche più manifesto, e l'uso del verbo stare si rassomiglia più decisamente a quello che noi e gli spagnuoli ne facciamo co' gerundii. V. gl'interpr. e il Forcell. (31. Gen. 1822.).

[2376,1]  È costume massimamente italiano di elidere e togliere il c dalle parole latine, specialmente e p. esempio avanti il t. Ora anche gli antichi ed ottimi scrittori e monumenti usano spesse volte lo stesso in molte parole, dicendo p. e. artus per arctus (dove il c è radicale, perchè arctus fu da principio arcitus participio di arcere), ec. {V. p. 1144. se vuoi.} (nel Virg. dell'Heyne trovi sempre artus, mai arctus) autor per auctor, autoritas ec. V. il Cellar. il Forcell. l'ortograf. del Manuzio ec. E nelle antiche iscrizioni medaglie ec. si troveranno infiniti esempi di ciò, come dire Atium, o Atius, o Atia, per Actium ec. ec. Il qual costume o sia buono o cattivo in riga di  2377 latinità, e di retta ortografia (che certo in molti casi sarà cattivo, perocchè detto modo di scrivere è incostante ma frequentissimo nelle dette iscrizioni medaglie, ne' codd. più antichi ec.), serve sempre a dimostrare che quel costume che il volgo italiano ha poi adottato, e comunicato finalmente per regola alle ottime scritture (che ne' primi secoli della nostra lingua adoperarono in questo e simili casi assai frequentemente l'ortografia latina), fu antichissimo nella pronunzia del volgo o non volgo, giacchè poteva cagionare ordinariamente tali vizi di scrittura negli amanuensi, lapidarii ec. La qual considerazione si dee generalizzare e riferire a tutti quei casi (che son molti) ne' quali (o spettino all'ortografia o ad altro) gli antichi monumenti codici ec. si trovano ordinariamente, e con decisa frequenza imbrattati d'errori che si accostano o s'agguagliano alla pronunzia o al costume qualunque sia della lingua italiana, o delle sue sorelle ec. (1. Feb. 1822.).

[2386,1]  Alla p. 2324. sul principio. V. pure il Forcell. in montuosus il quale inclino a credere che possa dinotare un vecchio ed antiquato, o popolare e corrotto dal volgo montus us. V. il Gloss. se ha nulla. (3. Feb. 1822.).

[2391,3]  Cogliere (che anche si dice corre) e coger non sono altro che colligere; scegliere (anche scerre) ed escoger dimostrano un excolligere latino detto volgarmente a preferenza e in vece di eligere 1. perchè la preposizione ex della quale sono composti questi due verbi moderni non significa niente in queste due lingue (oltre ch'ella è qui sfigurata in modo che anche  2392 significando per se, non significherebbe nulla in questi casi, non essendo più lei) bensì in latino. 2. perchè questi due verbi sono tanto simili che dimostrano l'unità dell'origine, e tanto diversi fra loro che danno ad intendere di non esser derivato nessuno di essi due dall'altro. (22. Feb. 1822.).

[2465,1]  I greci ϑεῖος, gli spagnuoli Tio, gl'italiani zio, esprimendo questi col Z, quelli col T, il suono dels saspirato che nè gli uni nè gli altri hanno. Donde questa parola così necessaria e usuale {e volgare} in tutti i linguaggi, e usualissima e volgarissima nello spagnuolo e nell'italiano; donde, dico, e per qual mezzo può esser passata dal greco a questi volgari moderni, se non per mezzo del volgare latino, non trovandosi nel latino scritto? L'avranno forse presa gli spagnuoli e gl'italiani dal greco moderno, o da quello de' bassi tempi (non si saprebbe con qual mezzo), e avrebbe potuto divenir usuale e volgarissima e scacciar la parola antica,  2466 una parola forestiera {significante una cosa} che tuttogiorno s'era nominata e si nomina? E siccome si potrebbe dubitare che alcune o tutte queste parole ch'io dimostro uniformi nel greco e ne' nostri volgari, ci fossero derivate per mezzo del francese ne' bassi tempi, e il francese l'avesse avute dalle colonie greche state anticamente in francia ec. del che ho discorso altrove pp. 1039-43 notate che questo ϑεῖος si trova in tutti i volgari derivati dal latino, fuorchè appunto nel francese che da avunculus dice oncle. Oltre che la qualità della cosa significata da questa voce, non permetterebbe, come ho detto, ch'ella fosse passata così tardi, e potuta stabilirsi ne' nostri volgari in luogo dell'antica denominazione; se questa, cioè, non fosse antica e antichissima. Vedi però il Forcell. il Gloss. Diz. franc. ec. (8. Giugno 1822.). {{V. anche calare a cui la Crusca pone per greco χαλᾶν. (9. Giugno 1822.).}}

[2474,1]  Diciamo tuttogiorno in volgare: venir voglia a uno d'una cosa, venirgli pensiero, talento, desiderio, ec. ec. V. la Crusca e i Diz. francesi e spagnuoli. Or chi ardirebbe di dir questo in latino? Chi non lo stimerebbe un barbaro italianismo o volgarismo? Or ecco appunto una tal frase parola per parola nel poema più perfetto del più  2475 perfetto ed elegante poeta latino, e in un luogo che dovea necessariamente esser de' più nobili, cioè nel principio e invocazione delle Georgiche: (l. 1. v. 37.) Nec tibi regnandi veniat tam dira cupido, Nè ti venga sì brutta voglia di regnare * cioè nell'inferno. V. il Forcell. e il Gloss. se hanno niente al proposito. (14. Giugno. 1822.).

[2497,1]  L'antichissima e propria significazione del verbo pareo, in luogo di cui vennero poi in uso i suoi composti adpareo, {compareo ec.} s'è conservata in uso familiarissimo e frequentissimo presso gl'italiani e gli spagnuoli (parere, parecer, si pare ec.) Per qual mezzo, se non del volgare antico latino? V. il Forc. e il Gloss. Così i francesi paroître, o paraître ec. (25. Giugno. 1822.).

[2556,1]   2556 Il grand'uso che gl'italiani (forse anche gli spagnuoli e i francesi) fanno della preposizione compositiva di o dis nel senso negativo (come disamore, disfavorire; e per apocope in questo e mill'altri casi, sfavorire; disutile, e mill'altre da formarsi anche a piacere: v. la Crusca), essendo molto poco e scarso nel latino scritto (come in dispar dissimilis discalceatus dove il dis nega: v. il Forcell. in di), e d'altra parte non significando niente in italiano, in francese in ispagnuolo la detta preposizione per se (la quale sembra venire dal greco δύς usata come in δυσέρως[δύσερως], δυσωπία, δυστυχής), par che dimostri d'essere stato molto più comune nel latino volgare di quello che nello scritto, e d'aver tenuto il luogo di vera particella negativa, così frequente e manuale nella composizione come la greca α privativa, e come lo è la detta particella presso di noi ad arbitrio del parlatore o scrittore che ha bisogno d'un  2557 qualunque composto che dica il contrario di quel che dice la tale o tal altra radice italiana. Del resto il dis latino nelle parole dissimilis, dispar, secondo me, ha più tosto una tal qual forza disgiuntiva, che veramente negativa. E in discalceatus, {discingo ec.} io credo che propriamente abbia piuttosto la forza del greco ἀπό in composizione (come qui appunto ἀποζωννύω discingo), e del latino ex pure in composizione, (come appunto excalceatus ch'è lo stesso), di quello che la vera forza privativa del greco α che tiene presso di noi, sebbene discalceatus ec. passò poi a significar privativamente senza scarpe. E forse in questa maniera, cioè dalla forza di ἀπὸ, e di ex composti, passò la particola dis presso di noi, al significato assoluto di privazione o negazione. {{Ma vedendosi p. e. dalla voce discalceatus (e v. il Forcell.  2558 in Dis...) che questo passaggio l'avea fatto la detta preposizione anche fra gli antichi latini, si dimostra quel ch'io dissi da principio, cioè che il suo uso negativo o privativo, così frequente e familiare come nel latino scritto non si trova, ci dev'esser venuto dal latino volgare. (9. Luglio 1822.).}} {{V. p. 2577.}}

[2565,1]   2565 Noi abbiamo oscuro da obscurus, e scuro. Obscurus è certo un composto, come dimostra la preposizione ob. Tolta la quale resta scurus. Che questa voce esistesse una volta, non si può dubitare, dovendo esistere il semplice prima del composto. V. il Forcell. Obscurus, principio. Ma questa voce ignota presso i latini, si conserva nell'italiano. E questa medesima è una prova ch'esistesse, come viceversa le cose dette sono una prova che la nostra voce sia antica, e venutaci col volgare latino. Osservate se credeste che scuro fosse fatto per apocope volgare da oscuro, che l'apocope dell'o iniziale, per quello che mi pare, non è punto in uso nel nostro popolo. (12. Luglio 1822.).

[2587,1]  È frequentissimo e amplissimo nell'Italiano e nello Spagnuolo l'uso della voce termine {nel suo plurale massimamente, la} quale piglia diversi significati, secondo ch'ell'è applicata. {+(Questi per lo più importano condizione, stato, essere sustantivo o cosa simile.)} V. la Crus. Non così nel latino scritto, dov'essa voce non ha che la forza di confine o limite ec. Pur vedi presso il Forcell. nell'ultimo esempio di questa voce, ch'è di Plauto, una frase tutta italiana e spagnuola, la qual può dimostrare che detta voce nel volgare latino avesse o tutti o in parte quegli usi appunto ch'ell'ha nelle dette lingue. V. du Cange, s'ha nulla. V. anche l'Alberti Diz. franc. Terme in fine. (29. Luglio. 1822.).

[2588,2]  Da coquere diciamo cocere (che per più gentilezza e per proprietà italiana si scrive cuocere) mutato il qu radicale, in c parimente radicale. Che questa lettera fosse radicale anche ab antico si può raccogliere dalla voce praecox (cioè praecocs) praecocis, la quale (spogliata della prep. {prae}) forse contiene la radice di coquere. E molte altre pronunzie volgari di voci derivate dal latino, si potrebbono forse dimostrare antichissime con simili osservazioni delle loro radici (o già note, o scopribili), delle voci loro affini ec. (30. Luglio. 1822.). {{V. Forcellini Coquo, Praecox ec. e il Glossario.}}

[2592,1]   2592 Intorno all'etimologia di favellare. L'altre due voci sono favellare e cicalare: l'una si è dir favole; e cicalare si è il cigolare degli uccelli. * Cellini Discorso sopra la differenza nata tra gli Scultori e Pittori circa il luogo destro stato dato alla Pittura nelle Essequie del gran Michelagnolo Bonarroti. fine. Opere di Benvenuto Cellini, Mil. 1806-11. vol. 3. p. 261. Parla di tre voci che s'usano in lingua toscana per esprimere il parlare, e la prima detta dal Cellini si è ragionare, il che egli dice che vuol fare, e non favellarecicalare. (2. Agosto, dì del perdono. 1822.).

[2608,2]  Sallustio, Catil. c. 23. Maria montesque polliceri. * Non si trova, ch'io sappia, questo proverbio, oggi volgarissimo in italia, se non in questo scrittore studiosissimo delle voci e maniere antiche, e {che} per conseguenza bene spesso declina alle voci e maniere popolari, come sempre accade agli scrittori studiosi dell'antichità della lingua, della quale antichità principal conservatrice è la plebe. (17. Agosto. 1822.).

[2627,1]  Pausa, posa, posare (per riposare), riposo, riposare (reposare) e simili vengono indubitatamente  2628 da παύω-παύσω-παῦσις ec. (28. Sett. 1822.)

[2629,2]  A ciò che ho detto altrove delle voci ermo, eremo, romito, hermite, hermitage, hermita ec. tutte fatte dal greco ἔρημος, aggiungi lo spagnuolo ermo, ed ermar (con ermador ec.) che significa desolare, vastare, appunto come il greco ἐρημόω. (3. Ottobre. 1822.). {+Queste voci e simili sono tutte poetiche per l'infinità o vastità dell'idea ec. ec. Così la deserta notte, e tali immagini di solitudine, silenzio ec.}

[2642,1]  Mania, smania, smaniare {e lo spagnuolo mania, e il francese manie, maniaque ec.} dal greco μανία, μαίνομαι ec. {cioè} furor, furere ec. furore frenesia ec. (22. Ottobre. 1822.).

[2643,2]  Cara spagnuolo cioè faccia, e così cera, e chère nello stesso senso, vengono dal greco. V. Perticari Apol. di Dante Part. 2. c. 5. not. 1. pag. 75. (28. Ott. 1822.)

[2649,1]   2649 Sopra i dialetti della lingua latina. Estratto da un articolo: Del Dialetto Veneto: Lettera di un Viaggiatore oltramontano (inglese), che sta nelle Effemeridi letterarie di Roma t. 2. p. 58-70. (Genn. 1821.) "L'antica lingua di questi popoli (Veneti) traspariva nel loro Latino, come è agevole di riconoscere dalle inscrizioni raccolte dal Maffei (1.): ed è probabile che gli originarj dialetti delle diverse nazioni che si stabilirono in Italia, sieno una rimota cagione della varietà de' linguaggi che vi si parlano presentemente. {#(1) Le lapidarie inscrizioni Latine ritrovate nelle città subalpine d'Italia ci fanno spesso consocere di quale provincial ne fossero gli autori. Così la lettera W che è uno de' segni più caratteristici dell'alfabeto oltramontano, si trova in quelle che appartengono alle Colonie Galliche."} * p. 58.

[2653,1]   2653 Da rullus cioè circulator, roule, rouler etc. (8. {Dic.} 1822. dì della Concezione di Maria SS.a)

[2654,1]  Codicis * (Vatic. Cic. de Repub.) orthographia miris laborat varietatibus et inconstantia. Est enim id fatum latinae scripturae {ac} pronunciationis, quod grammaticorum tot pugnantia praecepta infinitaeque quaestiones demonstrant. Hinc merito Cassiodorius (1): (1. Inst. praef.) orthographia apud Graecos plerumque sine ambiguitate probatur expressa; inter Latinos vero sub ardua difficultate relicta monstratur; unde etiam modo studium magnum lectoris inquirit. * Exempli gratia, labdacismus * (for. lambdacismus, sed in emendd. nihil) proprius Afrorum fuit; sicut colloquium pro conloquium, teste Isidoro (2) (2. Orig. I. 32.) Quid porro? nonne ipsa latinitas, uti observabat Hieronymus (3), (3. Prol. lib. II. comm. ad Gal.) * (scil. ad ep. S. Paul. ad Galat.) et regionibus quotidie mutabatur et tempore? postea praesertim quam tanta barbarorum peregrinitas in imperium rom. infusa est, lingua autem generis quarti esse coepit, quod Isidorus(4)(4. Orig. IX. 1.) mixtum appellat. * Maius. M. Tulli Cic. de Re pub. quae supersunt  2655 edente Ang. Maio Vaticanae Bibliothecae praefecto. Romae in Collegio Urbano apud Burliaeum 1822. Praefat. cap. 13. p. XXXVII. (Roma. 16. Dic. 1822.).

[2657,1]  Quoties g est ante n, toties memini me videre in antiquis codd. si quando vocabulum divideretur * (nel fine o della riga o della pag.), litteram g adhaerere priori vocabuli parti, n autem posteriori. Ergone Hispani Angli et Germani melius quam Itali pronunciare haec verba videntur? * Maius ad Cic. de re publ. II. 19. p. 165. v. 7. (dove la pagina del cod. finisce in mag, e la seguente comincia in na; cioè magna) not. b (20. Dic. 1822.). {+Bisogna però vedere in che paese sieno stati scritti questi codd. come p. e. in ispagna.} {{V. p. 3762.}}

[2658,1]   2658 Nella repubbl. di Cic. succitata, al c. 37. del lib. 2. p. 203. v. 1.-2. dove l'edizione ha res publica richiedendosi in fatti il nominativo, il Cod. ha republica, quasi fosse italiano. Dal che apparisce che anche anticamente s'usava di tralasciare l's finale nel pronunziare le voci latine, come si lascia nelle nostre lingue. (21. Dic. 1822.). {+Infatti è nota l'apocope della s nella fine delle voci presso gli antichi poeti latt. V. la p. 2656, marg.}

[2662,1]  Circa la mia opinione pp. 95-96 p. 511 pp. 2243-44 che troia nell'antico latino volesse dire come in italiano scrofa, vedi nel Forcellini troianus aggiunto di porcus, e che cosa ne dica. (Roma 28. Dicembre 1822.).

[2663,5]  Anticamente i latini dicevano maxilla axilla * etc. (Cic. Orator, n. 155.) indi fecero mala, ala ec. Or noi conserviamo l'antico: mascella, ascella, tassello. Dicevano anche siet per sit (v. ib. num. 159); or  2664 quello e non questo si dovette {sempre} conservare nell'uso del popolo, come apparisce da sia, soit, sea. (10. Gen. 1823.). {{Notisi il nostro uso simile, di aggiungere un'e alle vocali accentate: virtue, fue ec.}}

[2674,1]   2674 ῎Εμβραχυ per insomma, denique ec. come noi diciamo appunto in breve. Platone, Gorgia, ed. principe Ald. t.. p. 457. A. (19. Feb. 1823.).

[2676,2]  Gli scrittori greci più eleganti ed attici e antichi sogliono usare la voce ϕησί per ϕασί nel significato di aiunt, è fama, on dit, il singolare invece del plurale {+(forma ellittica per ϕησί τις uom dice, altri dice).} Così noi volgarmente tutto giorno, e non solo noi nel parlare, ma eziandio gli scrittori nostri, massime del trecento, usiamo dice per dicono, altri dice, l'uom dice, un dice (on dit). * Passavanti edizione Venez. del Bortoli p. 251. E così dice che fa il Leone. * Mi ricordo di aver trovato questa frase anche in altri trecentisti, e mi par senza fallo nelle Vite de[de'] Santi Padri. Quest'uso che noi abbiamo comune cogli antichissimi e più eleganti e puri scrittori greci, per qual mezzo ci può esser venuto se non per quello dell'antico  2677 volgar latino? Sempre ch'io trovo qualche conformità frappante fra il greco e l'italiano (massime l'italiano volgare, popolare, corrente e parlato) {e così il francese e lo spagnuolo,} conformità che non appartenga alla natura generale delle favelle, ma alle proprietà arbitrarie ed accidentali delle lingue, se quella tal qualità o parte ec. sopra cui cade questa conformità, non si trova negli scrittori latini, io tengo per fermo ch'ella si trovasse nel latino parlato, cioè nel volgar latino. Giacchè questo ebbe commercio col volgar greco, e quel ch'è più, venne da una medesima fonte col greco; e da esso volgar latino è venuto il nostro volgare. Ma qual commercio ebbe mai il nostro volgare col volgar greco, cioè col greco parlato, e massime coll'antico? qual commercio poi col greco scritto, e questo pure antichissimo? Quanto al nostro caso, io non credo che negli scrittori latini si trovi p. e. ait in vece di aiunt. Ma veggasi il Forcellini. (Roma 2. Marzo 1823.) {{V. p. 2987.}}

[2685,1]  ᾽Oλίγου δέω τοῦτο ποιεῖν ἢ παϑεῖν∙ ὀλίγου δεῖν καὶ ἀπόλωλα∙ ὀλίγου δεῖ τοῦτο γενέσϑαι∙ πολλοῦ γε καὶ δεῖ∙ πολλοῦ ἢ μικροῦ ἐδέησεν ἢ ἐδέησα∙ μικροῦ δεῖν ec. Peu s'en faut: beaucoup s'en faut: peu s'en fallut ec. {poco mancò che ec.} {+di poco fallò, per poco, per poco non, ec. V. p. 3817.} (1. Aprile. 1823.).

[2688,1]   2688 Il Perticari nell'Apolog. di Dante p. 207. not. 19. trovando in un'antica canzone provenzale il verbo arsare dice che questa è la radice della voce arso, la quale finora è sembrato vocabolo senza radice, giacchè dal verbo ardere dovrebbe derivare arduto e non arso. S'inganna: ed anzi il verbo arsare deriva da arso di ardere che n'è la radice. I participii de' nostri verbi sono per lo più i participii latini, quando il verbo è latino. Se in questi participii è qualche anomalia, la ragione e l'origine della medã[medesima], non si deve cercare nell'italiano nè nel provenzale, ma nel latino, sia che quest'anomalia esista anche nel latino, sia che quel participio (e così dico delle altre voci) ch'è anomalo per noi, non lo sia per li latini. Giacchè l'uso italiano, massime nel particolare dei participii, ha seguito ordinariamente l'uso latino senza guardare se questo corrispondesse o no alle regole o all'analogia della nuova lingua che si veniva formando. E moltissime irregolarità della nostra lingua e delle sue sorelle vengono dalla sua cieca conformità colla lingua madre. Da sospendere, prendere, accendere,  2689 discendere ec. secondo l'analogia della nostra lingua, verrebbe sospenduto, prenduto, accenduto, discenduto, difenduto ec. Ma i latini dicevano suspensus, prensus, defensus ec. Dunque anche gl'italiani sospeso, preso, acceso, disceso, difeso ec. Nè la radice p. e. di preso è il prensare (che anzi viene da prensus) ma il prehendere o prendere de' latini. Al contrario i latini da vendere facevano venditus; qui la nostra lingua segue la sua analogia e dice venduto da venditus, {#1. Puoi vedere la p. 3075.} non veso, perchè il latino non dice vensus. Credo anch'io che gli antichi latini dicessero suspenditus, prenditus, accenditus ec. ma se poi dissero diversamente, l'anomalia di preso, acceso ec. non è d'origine italiana nè provenzale, ma latina. Così da ardere noi dovremmo fare arduto. Ma sia che i primi latini dicessero arditus da ardeo, come dissero ardui per arsi, {sia che nol dicessero mai,} certo è che poi e comunemente dissero arsi, arsurus, arsus, supino arsum. Noi dunque non diciamo arduto ma arso, e diciamo arso  2690 perchè così dissero i latini, e l'origine di quest'anomalia si cerchi nel latino dov'ella pur fu e donde ella venne, non nell'italiano o nel provenzale o nella lingua romana o romanza; quando è chiaro ch'ell'è tanto più antica di tutte queste lingue. Similmente da audeo dovevasi fare audĭtus. Ma i latini a noi noti fecero ausus. Anomalia della stessa natura e condizione di arsus da ardeo, 2a congiugazione come audeo. Quest'ausus è il nostro oso nome: da questo nome oso viene osare, che i provenzali dissero o almeno scrissero anche ausar (Perticari l. c. p. 210. lin. 7.): ed infatti osare non è che un continuativo barbaro d'audere ch'è la sua radice prima, e l'immediata è ausus. Ma il Perticari viceversa direbbe che oso ed ausus viene da osare e da ausare, giacchè dice che arso viene da arsare. Quasi che, anche secondo l'analogia della nostra lingua, da arsare si potesse far arso: e non piuttosto arsato, ch'è il  2691 suo vero participio, e ben differente da arso ch'è participio d'un altro verbo.

[2700,1]  La cagione per cui negli antichissimi scrittori latini si trova maggiore conformità e di voci e di modi colla lingua italiana, che non se ne trova negli scrittori latini dell'aureo secolo, e tanto maggiore quanto sono più antichi, si è che i primi scrittori di una lingua, mentre non v'è ancora lingua illustre, o non è abbastanza formata, divisa dalla plebea, fatta propria della scrittura, usano un più gran numero di voci, frasi, forme plebee, idiotismi ec. che non fanno gli scrittori seguenti; sono in somma più vicini al plebeo da cui le lingue scritte per necessità incominciano, e da cui si vanno dividendo solamente appoco appoco, usano una più gran parte della lingua plebea ch'è la sola ch'esista allora nella nazione, o che  2701 non è abbastanza distinta dalla lingua nobile e cortigiana ec. sì perchè quella lingua che si parla (com'è la cortigiana) tien sempre più o meno della plebea; sì perchè allora i cortigiani ec. non hanno l'esempio e la coltura derivante dalle Lettere nazionali e dalla lingua nazionale scritta, per parlare molto diversamente dalla plebe. Ora l'unica lingua che possano seguire e prendere in mano i primi scrittori di una lingua, si è la parlata, giacchè la scritta ancor non esiste. E siccome la lingua italiana e le sue sorelle non derivano dal latino scritto ma dal parlato, e questo in gran parte non illustre, ma principalmente dal plebeo e volgare, quindi la molta conformità di queste nostre lingue cogli antichissimi e primi scrittori latini. Vedi un luogo di Tiraboschi appresso Perticari, Apologia di Dante, capo 43. pag. 430. (20. Maggio 1823).

[2703,1]  La voce popolare bobò che significa presso di noi uno spauracchio de' fanciulli simile al μορμώ ec. dei greci, alle Lammie de' latini ec.  2704 (V. il mio Saggio sugli errori popolari) non è altro che un sostantivo formato dalle due voci bau bau (colla solita mutazione dell'au in o), o piuttosto le stesse due voci sostantivate, e ridotte a significare una persona o spettro che manda fuori quelle voci bau bau. Le quali sono voci antichissime e comuni ai greci che con essi[esse] esprimevano l'abbaiare dei cani, e quindi fecero il verbo βαΰζειν; ai latini che ne fecero nello stesso senso il verbo baubari, e a noi che ne abbiamo fatto baiare e quindi abbaiare (se pur questi verbi non vengono dal suddetto latino), onde il francese antico abaïer e il moderno aboyer de' quali verbi vedi il Dizionario di Richelet. {Vedi anche la pag. 2811-13.} Ma dall'esprimere la voce de' cani, le parole bau bau passarono a significare una voce che spaventasse i fanciulli. {V. la Crusca in Bau.} Quindi il nostro Bobò sostantivo di persona. Presso i francesi bobo è voce {parimente} puerile che significa un petit mal, cioè quello che le nostre balie dicono bua, la qual  2705 voce fu pur delle balie latine, ma con altro significato, cioè con quello che le nostre dicono bumbù, o come ha la Crusca, bombo. V. Forcellini. I Glossari non hanno nulla al proposito. (20. Maggio 1823).

[2715,1]  Perticari, Degli Scritt. del 300. l. 2. c. 2. p. 106-7. fa derivare il nome italiano carogna da un'antica voce greca. (22. Maggio 1823.).

[2739,1]  Opra sincope di opera si trova in Ennio (ap. Forcell. v. opera, fin.), come nei nostri poeti opra e  2740 oprare e adoprare ec. Tan alla spagnuola per tam nel cod. antichissimo di Cic., de Repub. l. 1. c. 9. p. 26. ed. Rom. 1822. dove vedi la nota del Mai. (3 Giugno. 1823.).

[2793,1]  Traslatare, trasladar, translater continuativi barbari di transferre. (16. Giugno 1823.).

[2795,1]  Una delle proprietà comuni alle tre lingue figlie della latina, le quali proprietà si debbono per conseguenza credere originate dalla lingua madre di tutt'e tre, come ho detto altrove pp. 1475-76 , si è quella di  2796 usare causa (cosa, chose) per res. (18. Giugno 1823.).

[2809,1]  Io non so quali abbiano ragione intorno all'origine del verbo latino accuso, o quelli che lo derivano da causa, o quelli che lo fanno venire da un verbo cuso continuativo di cudere, del qual cuso non recano però nessuno esempio. (V. Forcell. v. accuso fin. e v. cuso) Forse a questi ultimi potrebbe esser favorevole il nostro antico cusare, il quale se venisse da cuso e non da causari, o se non fosse uno storpiamento d'accusare, sarebbe un antichissimo tema perduto {o disusato} nel latino scritto, e conservato nell'italiano; e sarebbe il semplice dei verbi composti accuso, incuso, {excuso,} recuso. È da notare però che il nostro volgo (almeno quello della Marca) usa il verbo causare nel significato appunto del nostro antico cusare, e del latino causari, cioè in senso, {non di cagionare, ma} di recare per cagione o come  2810 cagione, accagionare: l'usa dico in questa frase avverbiale causando che, cioè atteso che, poichè. Il qual significato di causare e il qual modo avverbiale non è notato dalla Crusca, ma trovasi pure usato da Lorenzo de' Medici nella famosa lettera a Gio. de' Medici Card. suo figliuolo, poi Papa Leone X, verso il fine, dove però nella raccolta di Prose, stampata in Torino 1753. vol. 2. p. 782. trovo cagionando che per causando che, che sta nelle Lettere di diversi eccellentissimi huomini, raccolte dal Dolce, Venez. appresso Gabriel Giolito de' Ferrari et fratelli 1554. p. 303. e nelle Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni stampate da Paolo Manuzio in Venez. 1544. carte 6. p. 2. (In ogni modo anche la frase avverbiale cagionando che manca nella Crusca) Nelle Lettere di XIII Huomini illustri, Ven. per Comin da Trino di Monferrato 1561. p. 485. trovo pensando che. Vedi il Magnifico di Roscoe, dove quella lettera è riportata.

[2811,2]  Institutum autem eius * (Moeridis in ᾽Aττικιστῇ) est annotare et inter se conferre voces quibus Attici, et quibus Graeci in aliis dialectis, maxime illa κοινῇ utebantur: interdum notat et κοινὸν vulgi, illudque diversum facit non modo ab Attico sed etiam ἑλληνικῷ, ut in ἐξίλλειν, εὐϕήμει, κάϑησο, λέμμα, οἰδίπουν, οἶσε, σχέατον. * Fabric. B. G. edit. vet. l. 5. c. 38. §. 9. num. 157. vol. 9 p. 420. (23. Giugno. 1823.).

[2811,3]  Alla p. 2776 margine. Lo stesso discorso si può fare di βαΰζω, il quale è pur verbo esprimente un suono, e fatto per imitazione di questo suono; il qual suono come è similissimo a quello di βαΰω, così non ha niente che fare con βαΰζω. Ma questa e simili interposizioni della lettera  2812 ζ e d'altre tali, sono {state} fatte o per evitare l'iato o per altre diverse cagioni, nel processo della lingua, quando già non v'era più bisogno che il vocabolo per essere inteso, esprimesse e rappresentasse collo stesso suo suono l'oggetto significato, ma egli era già inteso generalmente per se, e non per virtù della sua origine; e quando già nella lingua si guardava più alla dolcezza ec. che alla necessità ec. ne' quali modi le parole in tutte le lingue si sono allontanate dalla forma primitiva e hanno spesso perduto affatto quel suono rappresentativo che prima avevano e sul quale furono modellati e creati, e nel quale da principio consisteva la ragione della loro significanza. I latini dal tema βαΰω o bauare fecero baubari, interponendo un b (il quale in questo caso è più adattato all'imitazione) invece del ζ. Noi baiare, che per verità potrebb'essere appunto quello stesso originale βαΰω ch'è affatto perduto nella lingua greca e nella latina scritta: e ben si potrebbe credere che fosse totalmente  2813 voce antica latina, conservata nel volgare; dal che si dedurrebbe, primo, che l'antico latino, e di poi il suo volgare perpetuamente conservò puro il verbo originale βαΰω (giacchè l'υ greco in latino {antico} ora risponde a un u, ora ad un i), {quantunque non si trovi nel latino scritto;} verbo inusitato affatto nell'antica e moderna grecità nota; secondo, che questo antichissimo verbo, perduto, o vogliamo dire alterato nel greco, perduto ossia alterato nel latino scritto, conservasi ancora purissimo e senz'alterazione alcuna nell'italiano, e vedi la pag. 2704. {+Si potrebbe anche credere che i primi latini e il volgo, invece di baubari dicessero bauari (appunto βαΰειν), e che la mutazione dell'u in i (vocali che spessissimo si scambiano, per esser le più esili, come ho detto altrove pp. 1277-83 p. 2153 p. 2824) seguisse nell'italiano e nel francese ec. Ovvero che gli antichi dicessero bauari, e poi il volgo baiari.} (24. Giugno 1823.).

[2821,3]  Un altro futare dice Festo che fu usato da Catone per saepius fuisse. Questo dimostrerebbe un antico participio  2822 futus del verbo sostantivo latino. Dico del verbo sostantivo, e non dico del verbo sum. Questo è originalmente il medesimo che il greco εἰμί ovvero ἔω, e che il sascrito asham, e il suo participio in us dovette essere situs o stus o sutus (giacchè è notabile il nostro antico suto, {vero e proprio} participio del verbo essere, laddove stato che oggi s'usa in vece di quello, è tolto in prestito da stare), come ho detto altrove pp. 1120-21 pp. 2784-85. {Il franc. été è lo stesso che sté, giacchè gli antichi dicevano esté, e quell'e innanzi, è aggiunto per dolcezza di lingua avanti la s impura nel principio della parola, come in espérer, espouser (ora épouser), del che ho detto altrove p. 813. Ora il participio sté sarebbe appunto stus in latino.} Ma il participio futus, onde futare, non potè essere se non di quel verbo da cui il verbo sum tolse in prestito il preterito perfetto fui colle voci che da questo si formano, cioè fueram, fuero ec. Il qual verbo fuo non ha che far niente in origine con sum nè con εἰμί, ma è lo stesso che ϕύω, e v. Forcell. in fuam e in sum. Di questo dunque dovette esistere {anche} il participio futus, il quale dimostrasi col verbo futare che ne deriva. E nótisi che Festo dice il verbo futare essere stato usato da Catone per saepius fuisse, e non per saepius esse, onde pare che questo verbo appresso Catone conservasse una certa corrispondenza e similitudine e analogia colle voci fui, fuisse ec. tolte in prestito da sum, le quali tutte indicano il passato, e che anch'esso denotasse il passato di natura sua, ed avesse  2823 significazione preterita. Del resto come il verbo futare è diverso da stare, così il participio futus da cui quello deriva, è diverso da situs o stus da cui vien questo, e come futus è participio di fuo e stus di sum, così futare è continuativo di fuo e stare di sum. E l'esistenza del participio futus dimostrata dal verbo futare, non nuoce a quella che io sostengo del participio stus, giacchè sum e fuo che ora fanno un sol verbo anomalo composto e raccozzato di due difettivi, furono a principio due verbi ben distinti e per origine, e per forma materiale, e probabilmente completi tutti e due, e non difettivi come ora. (26. Giugno 1823.).

[2823,1]  È notabile come il nostro volgo e il nostro discorso familiare conservi ancora l'esattissima etimologia e proprietà de' verbi stupeo, stupesco, {stupefacio, stupefio,} ec. che diciamo anche stupire, stupefare, stupefarsi. In luogo de' quali verbi diciamo sovente restare, o rimanere o divenire o diventare di stoppa per grandemente maravigliarsi che sono precisissimamente il significato proprio e l'intenzione metaforica de' predetti verbi latini.  2824 Così penso assolutamente io, sebbene altri li derivano da stipes, e forse niuno ha pensato di derivarli da stuppa, che anche si dice stupa. Il che forse è avvenuto perchè non dovettero sapere o avvertire quella nostra frase familiare che ho notata. Che se in alcuni mss. si trova anche stipeo ed obstipeo, ciò non vale, perchè stupa si disse anticamente stipa, secondo Servio, {che lo} deriva da stipare. {Potrebbe anche esser la stessa voce che} στύπη da στύϕω. {Chi sa che lo stesso stipare non venga appunto da στύϕω piuttosto che da στείβω? V. Forcellini in stipa, stipo, stuppa ec. Certo s'egli ha che fare con stupa o stipa, esso viene da questa voce, e non al contrario come vuol Servio.} È[E] l'υ greco, siccome ho detto più volte p. 1277 cambiasi nel latino ora in i ora in u, e queste due vocali i ed u si scambiano sovente fra loro e nel latino e nelle altre lingue, come ho pur detto altrove p. 1277 pp. 2152-53 p. 2813: ed osservate infatti che {l'u} francese e bergamasco, e l'υ greco, è appunto un misto e quasi un composto d'ambedue queste vocali i ed u, e non si sa a qual più delle due rassomigliarlo; onde si vede quanto elle sieno affini e simili ed amiche tra loro, che s'accozzano insieme a fare (sulla bocca di molti e diversi popoli) una sola vocale, dove niuna delle due viene a prevalere. Quindi s'argomenti quanto è facile che queste due vocali si scambino l'una coll'altra nella pronunzia  2825 umana, anche in uno stesso tempo e popolo, non chè in diversi tempi e nazioni e climi. {+Simulare da similis, onde anche similare, e noi simigliare e somigliare. assimulare e assimilare. maximus, optimus e maxumus, optumus. amantissimus e amantissumus. V. Perticari Apolog. di Dante p. 156. cap. 16. verso il fine. lubens, decumus, reciperare e recuperare, carnufex.} (26. Giugno. 1823.).

[2825,1]  Fortunatianus in Honorii * (Augustodunensis, De luminaribus Ecclesiae) Codicibus lib. 1. cap. 98. vitiose Fortunatius, natione Afer, Aquilejensis Episcopus, interfuit Concilio Sardicensi An. 347. * et {{p. 179.}} teste Hieronymo * (De Scriptoribus Ecclesiasticis) cap. 97. scripsit Commentarios in Evangelia, titulis (ut apud Hilarium fit) ordinatis, brevique et rustico sermone. De rustico sermone Latino singularem se libellum conscribere proposuisse testatus est V. C. Christianus Falsterus ad Gellii XIII. 6. parte 3. Amoenitatum Philologicarum p. 286. De Fortunatiano hoc, qui ad Arianos denique deflexit, plura Tillemontius Tomo VI. memoriarum pag. 364. 419. * - Fabricius Bibl. lat. med. et inf. aetat. ed. Mansii, Patav. 1754. t. 2. p. 178.-179. lib. 6. art. Fortunatianus. (26. Giugno 1823.).

[2835,3]  Ho recato altrove pp. 1505-506 in proposito dei sinonimi, alcuni esempi di voci che nelle lingue figlie della latina son passati ad aver per proprii de' significati ben lontani da quelli che avevano nella latina, e tra queste il verbo quęrere (querer) che nella lingua spagnuola significa velle. Aggiungete l'esempio del verbo latino creare (criar) che in ispagnuolo significa allevare, educare, sì esso come i suoi derivati, crianza, criado ec. (28. Giugno 1823.).

[2842,1]  Continuativi delle lingue figlie della latina. Diventare ital. da devenio - deventus. Sepultar spagn. da sepelio - sepultus. Questo verbo sepultare trovasi usato da Venanzio Fortunato poeta e scrittore italiano del sesto secolo, Carm. lib. 8. Hymno de vitae aeternae gaudiis. (Glossar. Cang.) { Pressare, presser, prensar, oppressare, oppressé, soppressare, expressar ec. da premo - pressus. V. il Glossar. Tritare da tero - tritus. Il Gloss. Tritare, Frequenter terere, Ioh. de Ianua, cioè genovese del secolo 13.o, autore di un Lessico edito. Cautare, incautare da caveo - cautus. V. il Glossar.} Gozar spagnuolo da gaudeo - gavisus. Fecesi ne' bassi tempi di gavisus gausus, onde gosus, onde gosare, e gozar. Ovvero di gavisus gavisare, gausare, gosare, gozar. Trovasi nelle antiche glosse latino - greche gaviso - χαίρω. V. il Glossar. Cang. in Gavisci, ed anche in Gavisio, Gausida (goduta sostantivo) e Gausita. Vedi quivi anche Gauzita, dove trovi già il z di Gozar. Da questo, o da gavisio, gausio, gosio, {+anzi da gavisus us, gausus, gosus} credo io che sia fatto lo spagnuolo gozo godimento, piuttosto che da gaudium. Gozar assai spesso, {come} il nostro godere e il francese jouir, è vero continuativo di gaudere, non meno per il significato che per la forma, equivalendo a frui. Il verbo jouir, jouissons, jouissez, jouissent ec. dee esser venuto similmente da gavisare, prima che {questo} fosse mutato in  2843 gausare, {e ne sparisse la i, che manca in gozar,} ma contuttociò è più sfigurato. Così dite di joie, {jouissance, joyeux ec. e di} gioia, gioire, ec. {che di là vengono.} Pransare o pranzare ital. da pransus di prandeo onde il frequentativo latino pransitare. Incettare non da un barbaro incaptare, come pensa Giordani nel principio della lettera a Monti, Proposta vol. 1. parte 2., ma appunto da un inceptare mutato l'a di captare in e per virtù della composizione, come in attrectare, contrectare, detrectare, {obtrectare,} ec. da tractare o da detractus ec. di detraho, in affectare ec. da affectus di afficio il quale viene da facio, in coniectare, subiectare, obiectare ec. da coniectus di coniicio che viene da iacio, {+in descendo, ascendo ec. da scando, in occento da occentus di occino da cano, in aggredior ec. da gradior, in accendo, incendo, succendo da candeo o dall'inusitato cando, v. p. 3298.} e in {molti} simili, {+benchè più generalmente e regolarmente l'a della prima sillaba de' verbi dissillabi, {#1. V. p. 3351. si muti per la composizione in i. (e puoi vedere la p. 2890.)}} Incepto da inceptus d'incipio è tutt'altro verbo. Da capto, o certo da capio vengono excepto, recepto, {accepto, intercettare, discepto,} ec. i quali pure mutano l'a in e, e non fanno excapto, recapto ec. {V. p. 3350. fine. 3900. fine.} Avvisare nel suo senso proprio (vedi la Crusca in avvisare §. 1. 2. 3.) è verissimo continuativo di avvedere nel senso suo primitivo. Ma non può esser fatto da questo verbo italiano, il quale ha per participio avvisto e avveduto, non avviso. Conviene che sia fatto da advisus di advidere, il qual verbo {oggi} non si trova nella buona latinità. {Puoi vedere la p. 3034.} Trovasi però nella bassa il verbo advidere in senso di avvertire, che io credo metaforico,  2844 e in questo e simili sensi il verbo advisare e avisare. {V. il Glossar. Cang.} Anche i francesi e gli spagnuoli, che non hanno il verbo avvedere, hanno aviser e avisar, ma l'usano in quei sensi metaforici ne' quali l'usiamo anche noi. Nel senso proprio nel quale egli è più dirittamente continuativo del suo verbo originale advidere, non credo ch'egli si trovi se non nella nostra lingua, e principalmente nei nostri antichi autori. Noi diciamo anche avvistare, ed equivale a un di presso ad avvisare nel senso proprio, o nel più simile a questo. {+V. p. 3005.} Advidere dovette propriamente significare {adspicere,} oculos advertere, e quindi anche animum advertere. (Nell'esempio che ne porta il Glossario, non mi risolvo s'ei voglia dire animadvertere, o commonere, come il Glossario spiega). Nel qual senso, avvisare preso nel significato proprio, è suo vero continuativo, esprimendo la stessa azione, ma più durevole. {Si può dir simile ad adspectare.} Noi non usiamo advidere se non reciproco, cioè neutro passivo, sempre però in significato simile ai sopraddetti, o {che questo} sia relativo agli occhi che propriamente vedono, o all'animo che considera e conosce. Chi vuol ridere e nuovamente vedere quanti spropositi abbia fatto dir la poca notizia finora avutasi della formazion de' verbi  2845 latini e latinobarbari da' participii o supini d'altri verbi, vegga la bella etimologia di advisare che dà l'Hickesio presso il Cange nel Glossario. Vedi la Crusca anche in avvisamento §. 3. e in avvisatura. (29. Giugno, mio dì natale. 1823.) {{V. p. 3019.}}

[2882,1]   2882 È notabile come lo spagnuolo atar abbia conservato il proprio e primitivo significato di aptare cioè legare, significato che benchè proprio e primitivo, pur non è molto frequente negli autori latini, anzi un esempio che faccia veramente al caso non mi pare che sia se non quello d'Ammiano nel Forcell. v. aptatus. Ora Ammiano è pur di bassa latinità. Mostra che il volgo abbia sempre conservato il primo uso di questo verbo, più degli scrittori eleganti, che l'hanno {piuttosto} adoperato metaforicamente. Del resto se mai si potesse dubitare che il verbo aptare venisse da aptus, il cui proprio senso è legato ec. e che Festo dice essere participio di apo, lo spagnuolo atar {che vale legare congiungere,} finirebbe di mandare a terra qualunque dubbio. Il nostro {attare,} adattare, adapter ec. ha per proprio il significato metaforico ordinario di apto adapto ec. V. nel Forcell. esempi di coaptare, coaptatio, coaptatus, {(συνάπτειν)} in senso di collegato ec. tutti di S. Agostino, il quale certo non pigliava {questo} buono e primitivo uso di tali parole da' più antichi padri della scrittura latina, nè dagli scrittori aurei che non le usano, ma dal parlar del volgo, che tuttavia conservava quel significato, come ancora lo conserva in Ispagna. E così dite di Ammiano.  2883 E chi sa che aptare in questo senso, non sia l'origine di attaccare, attacher ec.? V. il Glossar. Cang. principalmente in attachiare cioè vincire ec. Ma siccome questa voce si trova massimamente usata nelle scritture latino-barbare d'inglesi e scozzesi così non voglio contrastare che la sua origine non possa probabilmente essere Teutonica ec. come si afferma nel medesimo Glossar. v. 2. Tasca. (3. Luglio 1823.). {{V. p. 2887.}}

[2893,2]  Circa quello che altrove pp. 2200-204 ho detto de' participii quaesitus e quaeritus e del verbo quęritare ec. I francesi hanno querir {da quęrere, e} quêter, anticamente quester, da quaesitus di quęsere, onde noi chiesto, e gli spagnuoli quisto. Chéri è il querido degli spagnuoli da quęritus di quęrere. E chérir è lo stesso querer spagnuolo nel significato, che questo pure ha, di voler bene. Il nostro cherere è il quaerere latino, in significato però di volere, come lo spagnuolo querer, e anche di domandare, come il nostro chiedere ch'è il latino quęrere {(v. p. 2995.),} siccome il suo participio chiesto è il latino quęsitus, per sincope quęstus. {+Malquerer, malquerido, malquisto, cioè volere e voluto male. Chesta, inchesta, richesta sust.i, per chiesta ec. richedere richesto; inchierere richierere cioè inquirere requirere; ec. acchiedere quasi acquaerere per acquirere, con altro senso.} Acquérir e conquérir francesi, adquirir spagnuolo sono i latini acquirere e conquirere. Acquêter, anticamente acquester, e l'antico conquêter o conquester francesi, lo spagnuolo conquistar, e l'italiano acquistare  2894 e conquistare sono continuativi fatti da acquisitus e conquisitus, detratta la seconda i. (V. il Glossario se ha nulla in tutte queste e simili voci). (5. Luglio 1823.).

[2894,1]  Questa detrazione fatta, come si vede, in tante voci o derivate o composte da quęsitus, o che non sono altra voce se non questa medesima, conferma la mia opinione che da situs particip. di sum si facesse stare, {detratta la i} come appunto da conquisitus conquistare, e così da quaesitus quisto e chiesto ec. {+Così da positus, postus repostus ec. ec. E della soppressione della i in moltissimi participii latini come docitus - doctus, legitus - legtus - lectus ec. soppressione divenuta, fino ab antico, comune, anzi universale, vedi ciò che dico altrove.} La qual detrazione non è solamente propria delle lingue moderne (dico circa questo vocabolo quaesitus appunto), giacchè la stessa lingua latina nè[ne] fa uso nella voce quęstus {us,} la quale, come altrove ho dato per regola circa tali verbali, e formato[è formata] appunto da quęsitus, e dovrebbe {regolarmente} dire quęsitus us, la qual voce ancora si trova effettivamente. Siccome vi sono le voci quaesitio, quęsitor, quaesitura, di cui sono contrazione quaestio, quaestor, quaestura, voci fatte da quelle per detrazione della i, come per tal detrazione son fatte quaestorius, quaestuosus ec. benchè non si trovi quaesitorius,  2895 quaesituosus ec. {{E vedi a questo proposito la p. 2932. e 2991-2. 3032. segg.}}

[2918,1]  Da quello che ho detto p. 2789-90. si rileva che il nostro aggettivo ratto, non è se non il participio raptus, e che questo dovette essere usato dagli antichi latini e volgarmente, in senso di veloce, come ratto fra noi. Perocchè dire che questo sia nato dall'avverbio italiano ratto, e quest'avverbio da raptim, onde ratto per veloce venga da raptim è derivazione o formazione priva d'ogni esempio. E per lo contrario è certissimo che ratto avverbio viene da ratto aggettivo, anzi è lo stesso aggettivo neutralmente e avverbialmente posto, il che è proprietà ed uso della nostra lingua di fare, come alto, forte, (anche i francesi fort avverbio e aggettivo) presto, tosto, {piano} e mill'altri, per altamente ec. Anzi è in libertà dello scrittore o parlatore italiano di far così de' nuovi avverbi dagli aggettivi,  2919 non già viceversa. V. il Forcell. in Rapio col. 1. fine, Rapto fine, Raptus l'esempio di Claudiano. Gli spagnuoli similmente hanno p. e. demasiado avv. e aggett. ec. (8. Luglio 1823.).

[2919,1]  Noi usiamo volgarmente il verbo volere applicandolo a cose inanimate, o ad esseri immaginari, e talvolta impersonalmente, in modo ch'egli o sta per potere, o ridonda e non fa che servire a una perifrasi, per idiotismo, e per proprietà di lingua. Per esempio, La piaga non se gli vuole rammarginare. Cioè, Non si può far che la piaga se gli rammargini, ossia La piaga non se gli può ancora rammarginare. Qui volere sta per potere. Se il cielo si vorrà serenare, se la stagione si vorrà scaldare, se il vento vorrà cessare, se il negozio vorrà camminar bene, se la pianta vorrà pigliar piede, l'erba non ci vuol nascere. Cioè, Se piglierà piede, Non ci nasce. Qui volere ridonda. Da più mesi non è voluto piovere. Cioè, non è piovuto. Qui volere ridonda ed è impersonale. {Anche in francese: cette machine ne veut pas aller, ce bois ne veut pas brûler * . Alberti. Così, mi pare, anche in ispagnuolo.}

[2923,3]  Il verbo avere in senso di essere, usato impersonalmente dagl'italiani da' francesi dagli spagnuoli, talora eziandio personalmente dagl'italiani (v. il Corticelli), non è altro che il latino se habere (il qual parimente vale essere) omesso il pronome. Il volgo latino dovette dire p. e. nihil hic se habet, qui non si ha nulla, cioè non v'è; poi lasciato il pronome, nihil hic habet, qui non v'ha nulla. Cicerone: Attica belle se habet * col pronome, e altrove: Terentia minus belle habet: * ecco lasciato figuratamente il pronome nella stessa frase. (Forcell. in Belle). Bene habeo, bene habemus, bene habent tibi principia sono  2924 tutte locuzioni ellittiche per l'omissione del pronome se, nos, me. Bene habet, {optime habet,} sic habet; ecco oltre l'omission del pronome se, anche quella del nome res. Onde avviene che in queste locuzioni, che intere sarebbono bene se res habet, sic se res habet, il verbo habere per le dette ellissi venga a trovarsi impersonale. Ed ecco nel latino il verbo habere in significato di essere, neutro assoluto, cioè senza pronome, e impersonale. Quis hic habet? chi è qui? In questo è[e] negli altri luoghi dove il verbo habere sta per abitare in significato neutro, esso verbo non vale propriamente altro che essere; e habitare altresì ch'è un frequentativo o continuativo di habere, sempre che ha senso neutro, sta per essere. E questa forma è tutta greca: giacchè presso i greci ἔχειν, la metà delle volte non è altro che un sinonimo di essere, e s'usa in questo senso anche impersonalmente, come in italiano, francese e spagnuolo, tutto dì. {V. p. 3907.} Così anche nel greco moderno a ogni tratto.  2925 Δὲν ἔχει, non ci è, non ci ha. (9. Luglio. 1823.).

[2925,2]  È uso della nostra lingua di porre l'avverbio male come particella privativa in vece di in avanti gli aggettivi, {i sostantivi, gli avverbi,} i participii ec. o facendo di questi tutta una voce con quella, o scrivendo quella separatamente. {Male per non o poco o difficilmente. V. la Crusca in male.} Il qual uso ci è così proprio, che sta in libertà dello scrittore di fare in questo modo de' nuovi accoppiamenti nel detto senso, sempre ch'ei vuole, siccome n'han fatto alcuni moderni,  2926 p. e. il Salvini, ad esempio degli antichi, e stanno segnati nella Crusca. I francesi similmente: mal-adresse, mal-adroit, mal-adroitement, mal-aisé, mal-gracieux, mal-plaisant, mal-habile, mal-honnête ec. ec. V. il Diz. del Richelet in Mal fine. Or quest'uso è tutto latino e degli ottimi tempi. V. Forcell. in male. (9. Luglio 1823.).

[2930,1]  Pinso pinsis pinsi et pinsui, pinsum et pinsitum et pistum. Da pinsus o da pinsitus, pinsitare appresso Plauto, se questa voce è vera. Da pistus pistare appresso il Forcellini e il Glossario (vedilo in Pistare e Pistatus), onde il nostro pestare che volgarmente si dice anche oggi più spesso pistare, siccome pisto per pesto. (V. il Glossar. in pestare). Pisto rimane eziandio nello spagnuolo, ed è un aggettivo neutro sostantivato che vale quello che noi diciamo il pollo pesto. {Tutti tre questi participii di pinso sono comprovati con esempi, e non da me congetturati. V. Forcell. in ciascuno di loro, e in pinso.}

[2935,2]  Cespicare, incespicare, incespare. Vedi il Forcellini in Caespitator e il Glossario in Cespitare. (10. Luglio. 1823.).

[2947,1]   2947 Intentare lat. da intendo, onde il francese intenter e quello che noi {pur} diciamo intentare un'accusa, un processo e simili. {+1. v. il Glossar. Cang.} Participio intentatus. Intentare de' nostri antichi (v. la Crus. in intentare e intentazione) e intentar spagnuolo, da tento colla prepos. in, e vale lo stesso che tentare. Questo composto, tutto alla latina, ma tutto diverso dall'altro intentare sopraddetto, io lo credo venuto, se non altro, dal latino volgare, poichè m'ha sapor di vera latinità, e non mi riesce verisimile che sia stato creato nelle lingue vernacole, pochissimo usate a crear nuovi composti con preposizione, il qual uso è tutto greco e latino. Participio intentato, {intentado,} o intentatus, cioè tentatus. {+Similmente obtento, se questa voce è vera, viene da ob-tineo, laddove ostento da os-tendo, antic. obs-tendo, [v. la p. 2996.]} Diverso da questo è l'altro participio intentatus che significa il contrario, cioè non tentatus, fatto non colla prep. in, ma colla particella privativa del medesimo suono in, il quale participio noi pure l'abbiamo, e viene ad essere un terzo participio intentatus diverso per origine e per significato, benchè di suono in ogni cosa conforme ed uguale, dai due sopraddetti. Similmente inauditus, insuetus ed  2948 altri tali, vagliono non auditus, non suetus, ed altresì l'opposto, cioè suetus, auditus, da insuesco ed inaudio. (12. Luglio. 1823.).

[2984,1]  Trapano, trapanare, trépan, trépaner - τρύπανον ec. (17. Luglio 1823.).

[3001,2]  Continuativi barbari. Dilatar spagn. da differo-dilatus. V. la Crusca. I franc. dilayer. {#1. Trovo nel moderno spagn. dilatar anche per denunziare, accusare, da defero - delatus.} Decretare, decretar, décréter da decerno - decretus. Diviser franc. da divido - divisus. {+Libertar spagn. quasi liberitare o liberatare.} {+Tal contrazione non è maravigliosa in questo caso, e fors'è antica. Libertus a non sembra che contrazione di liberatus a.} V. Forcell. e Glossar. se hanno nulla. (21. Luglio. 1823.).

[3004,1]  Frequentissimo nell'italiano scritto, e più nello spagn. scritto e parlato si è l'uso del verbo andare, andar (non ir), in senso di essere. Ecco Seneca tragico (ap. Forc. in eo is, col. 3. princip.), Non ibo inulta. * {Appo Oraz. Sat. II. 1. v. ult. tu missus abibis * è lo stesso che missus, cioè absolutus eris, cioè mittēris o absolvēris. {{i greci οἴχεσϑαι con participio: uso analogo al nostro ec. ec.}}} Notate che noi abbiam preso indubitatamente quest'uso dagli spagn. (infatti esso è frequentissimo nei nostri secentisti con cento altri spagnuolismi: nei 500[cinquecentisti] o 300isti[trecentisti], non si trova, ch'io mi ricordi, o mai o quasi mai). E Seneca appunto è spagnuolo. La frase dell'egizio Claudiano qui vindicet ibit, * cioè erit, è d'altro genere, perchè nè gli spagn. nè gl'italiani non usano andare per essere se non seguìto effettivamente o potenzialmente da un aggettivo che ha forza di predicato. Qua si deono forse riferire le frasi, andar la bisogna, la cosa ec. così andò il fatto, così va per così è, va bene, come va la salute ec. ec. V. i Diz. franc. e spagn. (21. Luglio. 1823.). {{V. p. 3008.}}

[3005,1]   3005 Alla p. 2844. Così lo spagn. avistar. - A questo discorso appartengono il franc. viser, {+deviser franc. antico, per s'entretenir familièrement etc. (V. il Gloss. Cang. in Visores 2.)} e l'ital. divisare, il quale però ancora, almeno in alcuni sensi, può esser continuativo barbaro di divido - divisus e lo stesso che il franc. diviser. V. la Crusca, e il Forc. e Gloss. s'hanno nulla.

[3006,1]   3006 Suso, giuso. Così i più antichi latini per sursum deorsum. V. Forcellini in Susum ec. e il Gloss. se ha nulla.

[3018,2]  Fatum da for faris. - Dicha spagn. (cioè detta) per fortuna (come desdicha sfortuna, dichoso, desdichada ec.) da dicta (femmin. come ἡ εἱμαρμένη, ἡ  3019 πεπρωμένη, la destinée) o da dictum, come da suspectus o suspectum (Gloss. Cang.) sospetto, gli spagn. in femminino sospecha in vece di sospecho. (23. Luglio 1823.).

[3023,1]  Necesso as è verbo di Venanzio Fortunato. V. Forcell. e Gloss. Cang. Si potrebbe però credere che fosse antico, e che necessus a um antico addiettivo fosse originariamente participio di qualche verbo di cui necesso fosse continuativo. In tal caso necessitare latino-barb. e italiano, necessitar spagn. nécessiter franc. sarebbe un frequentativo di questo tale ignoto verbo. In caso diverso, se non vorremo ch'ei venga da necessitas, necessità, nécessité ec., diremo ch'egli è fatto da necessatus di necesso, colla solita mutazione dell'a in i. Nótisi che nell'esempio di Venanz. Fortun. non è chiaro se necesso sia attivo, e vaglia cogo, come affermano il Forcell. e il Gloss. ovvero neutro, e vaglia abbisognare aver mestieri, indigere, poscere, come in ispagn. necessitar che si costruisce col genitivo. (24. Luglio. 1823.).

[3032,1]   3032 Visto ital. e spagn. participio di vedere, è manifesta contrazione di visitus, come quisto, chiesto ec. di quaesitus (v. p. 2893. sqq. ). Così vista sust. verbale ital. e spagn. è contrazione di visita voce latinobarbara per visitus us cioè visus us. Così i composti di vedere hanno p. e. avvisto, rivisto, provvisto ec. La voce vista per veduta, e con altri sensi simili, ch'ella ha pure appresso di noi, è latino-barbara. Vedila nel Glossario. E ch'ella sia contrazione di Visita, com'io dico, e quindi visto sia contrazione di visitus, vedi il Glossario med. in Vista 4. Ora consideriamo.

[3038,1]  Alla p. 2929. Così da vivo - vixi - victum si dovette fare anche vixum e vixus. Lo deduco dal nostro antico visso, il quale non è contrazione di vissuto perchè tal contrazione non è dell'indole e uso della nostra lingua. Bensì vissuto (che molti dicono e dissero più regolarmente vivuto, anche trecentisti, come ho trovato io medesimo, non altrimenti che da ricevere ricevuto) sembra venire da un altro, ed anche più antico e regolare participio lat. vixitus, cambiato l'i in u, come in latino a ogni tratto (v. p. 2824-5. principio, e 2895.), e come particolarmente in italiano ne' participii passivi per proprietà, costume e regola della lingua (venditus - venduto, redditus - renduto, perditus - perduto, seditus antico  3039 e regolare - seduto, debitus da altra coniugazione - devuto, tenitus, antico e regolare - tenuto, ceditus antico e regolare - ceduto.).

[3051,1]  Voce non esistente nel latino scritto, comune però alle tre lingue figlie. Speranza, espérance, esperança, cioè sperantia, verbale di  3052 spero, fatto secondo l'uso del buon latino, come constantia, instantia, redundantia ec. (27. Luglio. 1823.).

[3052,1]  Alla p. 3040. Qua io credo che si debba riferire il verbo posare (franc. poser onde déposer, {+opposer, supposer, composer, apposer, disposer, exposer, proposer, imposer ec. ec.}) in quanto ei significa por giù, deporre, con tutti i suoi derivati ec. in questo senso. Che riposare e posare per quiescere vengano da pausa pausare ec. (e così il franc. reposer ec.) l'ho detto in altro luogo pp. 2627-28, lo dimostra l'uso del verbo pausare ec. ec. nel Glossar. Cang. e va bene. Ma che posare, poser, déposer per deporre, vengano da pausare, non da ponere, e non siano quindi affatto diversi da posare ec. per quiescere, benchè suonino allo stesso modo; non posso in alcun modo persuadermelo, benchè trovi nel Gloss. un esempio dove pausare sta per deporre. Io credo che sia sbaglio di copista {+(o dello stesso autore, ignorante, come tutti allora erano, della lingua stessa barbara)} che ha scritto l'au per l'o, sillabe solite a confondersi, massime ne' bassi tempi, e massime avendovi un altro verbo similissimo, cioè pausare  3053 per riposare, a cui l'au veramente conveniva. Posare per deporre dee certo venire da positus, contratto in posus, come visitus - visus, pinsitus - pinsus, pisitus - pisus, onde viser, pisare. Da positus non contratto, viene depositare {e lo spagn. depositar,} di cui pure ho parlato altrove p. 1142. (27. Luglio. 1823.). {{V. qui sotto.}}

[3053,1]  Pausare poi potrà venir da pausa, la qual voce viene da παύω. Ma potrebbe anche (insieme con posare, cioè quiescere, reposare, reposer ec.) essere un vero continuativo fatto da un pausus participio di pauo o pavo o simil verbo pari al sopraddetto verbo greco. V. Forcell. e quello che altrove ho detto di tali voci in un pensiero separato pp. 2627-28, e il Glossar. (27. Luglio. 1823.).

[3060,2]  Porgo per porrigo is, sincope usata dagli antichi latini e volgare tra noi. V. Forcell. in Porgo e massime il luogo di Festo. (28. Luglio. 1823.).

[3061,2]  In proposito di favella, favellare, hablar ec. di cui molto distesamente ho ragionato altrove pp. 497-99 pp. 3054-55, veggansi le voci francesi habler, hablerie, hableur ec. Essi hanno anche fable ec. come noi pur favola ec. e gli spagnuoli fabula ec. dall'altro significato latino di fabula, fabulari ec. (29. Luglio. 1823.). {{Vedi pur lo spagn. habla e hablilla ec. ser habla o hablilla del pueblo. (29. Luglio. 1823.).}}

[3071,1]  Dompter da domitare, inseritoci il p, come in emptus, sumptus {(sumpsi ec.)} e simili, e come alcuni fanno in temptare che nel Cod. de Rep. di Cic. è scritto temtare, come anche si scrive emtus, sumtus, peremtus ec. {Veggasi la p. 3761. fine.} E il Richelet nel Diz. scrive domter con tutti i suoi derivati similmente, {+e vuol che si pronunzi donter, dontable ec. così anche altri Dizionari mod.ni.[moderni]} Così dompnus e domnus contratto da dominus. E a questo discorso appartiene la voce somnus fatta da ὕπνος, e, come dice Gellio, da sypnus - o supnus - sumnus - somnus. {+V. il Glossar. se ha niente che faccia a proposito.} (31. Luglio. 1823.).

[3073,3]  Aborto as da aborior - abortus, o dal semplice orior. Il nostro abortire e il lat. abortio is (se questo verbo è vero) sarebbero continuativi anomali. Il franc. avorter è il lat. abortare. V. lo  3074 spagn. e il Gloss. se ha nulla. (1. Agosto. dì del Perdono. 1823.)

[3080,1]   3080 Assaltare da assalire, come il semplice salto lat. da salio. (1. Agos. dì del Perdono. 1823.). {{V. p. 3588.}}

[3095,1]   3095 Futuri del congiuntivo usati da' lat. in vece di quelli dell'indicativo, del che altrove pp. 1970-73 p. 2656. Odero, meminero, credo anche {coepero} novero. Forse ero coi composti potero, subero ec. furono originariamente futuri del congiuntivo. (5. Agosto. 1823.).

[3172,1]  Al proposito di habeo e di ἔχω usati per essere pp. 2923-25 spettano i verbali habitus e σχῆμα, ἕξις etc. P. e. habitus corporis, cioè modus habendi o se habendi, modus quo corpus habet  3173 o se habet, vale propriamente modo di essere del corpo ec. (12. Agos. dì di S. Chiara. 1823.).

[3182,1]  Trembler, temblar sono verbi diminutivi, cioè fatti da un tremulare, il quale è da tremere, come misculare (onde mesler, cioè mêler, mezclar, mescolare, meschiare, mischiare) da miscere, secondo che ho notato altrove pp. 2280-81 pp. 2385-86. Ma essi verbi trembler e temblar hanno il senso del positivo tremere che nel franc. e nello spagn. non si trova. Noi abbiamo e tremare e tremolare, quello positivo, e questo, così di forma come di significazione, diminutivo. Diciamo anche tremulare, o piuttosto lo dicevano i nostri antichi, più alla latina, benchè questo verbo nel buon latino non si trovi. Trovasi però nel  3183 basso latino: v. il Glossar. Cang. Gli spagnoli dicono pure tremolar (Solìs Hist. de Mexico, l. 1. capit. 7. princip.), ma attivamente per agitare, dimenare, sventolare (come tremolar unas vanderas nel cit. luogo del Solìs), alla qual significazione par che appartenga l'ult. esempio del Gloss. Cang. in Tremulare. (17. Agos. 1823. Domenica.) {Il Franciosini scrive tremular, lo chiama vocabolo barbaro, e lo spiega tremare.}

[3262,3]  Movere neutro, o in forma ellittica per movere se o movere castra, come tra noi muovere  3263 neutro o ellittico (e così trarre), del che mi sembra avere altrove notato un esempio di Floro pp. 501-502, vedilo appo Svetonio, in Divo Iulio, Cap. 61 §. 1. e quivi le note degli eruditi. Vedi pure, se ti piace, a questo proposito il Poliziano Stanze I. 22. dove troverai muovere neutro, senza l'accompagnamento del sesto caso, come {ancora} in latino. (25. Agos. dì di S. Bartolomeo. 1823.)

[3264,2]  Francesismi familiarissimi, usitatissimi e volgarissimi in quella nazione, tant mieux, tant pis, frasi ellittiche o irregolari, e che paiono veri idiotismi francesi, non sono che latinismi, anzi idiotismi, cioè volgarismi, latini. Vedi gli eruditi alla favola 5. lib. 3. di Fedro, Aesopus et Petulans. V. anche il Forcellini se ha nulla, la Crusca ec. Noi pur diciamo volgarmente {+e scriviamo} tanto meglio, tanto peggio, ma in senso meno ellittico, più naturale e regolare, {+anzi per lo più regolarissimo,} e meno sovente assai de' francesi. (26. Agos. 1823.)

[3283,2] Fissare o fisare, ficcare, fixar, fixer, {+ficher,} da figo - fixus. Affissare o affisare, {+afficher} da affigo. Conficcare da configo. ec. Forse anche fitto sust. e affittare non d'altronde vengono che da fictus altro participio di figo, traendo il nome dall'avviso pubblico che suole affiggere alla sua casa, o a' cantoni della città ec. chi vuole affittare essa casa, o possessioni, terre ec.; il quale avviso o avvisi pubblicamente affitti si chiamano in francese affiches, da noi volgarmente affissi. Sebbene la prep. a in affittare sembra essere espressamente aggiunta al sost.[sostantivo] fitto per esprimere il dare a fitto, come in franc. affermer da ferme, e tra noi volgarmente annolare  3284 da nolo. {Veggasi per tutte le suddette voci il Gloss. se ha nulla.} (27. Agos. 1823.).

[3288,1]  Ajouter quasi adiunctare, aggiuntare, spagn. juntar, da adiungere. Anche il nostro giuntare è da iungere. V. la Crusca in Giugnere §.7 e il Gloss. in iunctare, adiunctare ec. se ha nulla. (28. Agosto. 1823.).

[3289,2]  Alla p. 3246. Fatigo as da ago is (v. Forcell.) se questa etimologia è vera. (Noi abbiamo fatica, volgarmente fatiga, franc. fatigue, {+spagn. fatiga }. Che questa sia la radice di tal verbo? {+Certo ella è voce commune a tutte tre le lingue figlie.} Ma in tal caso dovrebb'{ella} esserlo ancora di fatisco per venir meno? il che non {parrebbe} probabile. V. il Gloss. se ha nulla). Ago ha dal participio actus il frequentativo actito, e dall'antico e regolare agitus l'usitato continuativo {o frequentativo} agito. {+Non so se mitigo as possa aver nulla che fare con questo discorso.} (28. Agos. 1823.).

[3298,5]  Pattare, impattare, {empatar,} non so s'abbiano a far nulla con paciscor - pactus. Veggasi il Gloss. in proposito. (29. Agos. 1823.).

[3317,1]  Italianismi nell'uso della voce unus. Vedi Svetonio, in Iul. Caes. cap. 32. §. 1. e quivi il Pitisco ec. col Forcellini ec. (1. Sett. 1823.).

[3340,1]  I francesi amano di usare il numero ordinale pel cardinale. Louis catorze, livre deux etc.  3341 Pretto idiotismo e sgrammaticatura. Or vedilo altresì, se non fallo, appo Svetonio in Iul. Caes. c. 39. §. 4. e appo gli autori quivi allegati dal Pitisco ec. (2 Settembre. 1823.). {{V. p. 3544. 3557.}}

[3343,1]  Tapino donde se non da ταπεινός? (3. Settembre 1823.)

[3344,1]   3344 Scrissero, vissero, dissero, videro, diedero, tennero e simili innumerabili, quasi da scripsĕrunt, vixĕrunt, dixĕrunt, vidĕrunt, dedĕrunt, tenuĕrunt. Così veramente dissero molti poeti, massime i più antichi, e che tal pronunzia fosse {o restasse} propria del volgo romano, il quale conservasse anche in questo l'antichità e {+la trasmettesse fino a noi,} si può raccogliere da certi versi popolari portati da Svetonio in Jul. Caes. cap. 80 §. 3. (dove si veggano le note del Pitisco ec.), {che correvano in Roma} sugli ultimi tempi di Giulio Cesare. Dico popolari, {#1. lo dice Svetonio nello stesso cit. luogo: vulgo canebantur.} e in fatti si paragonino con quelli riportati dal medesimo Svetonio ib. cap. 49. §. 7., ch'erano cantati dalla soldatesca di Cesare. (3. Sett. 1823.).

[3361,1]  Constater franc. continuativo di consto as, non mutato l'a di constatus in i, il che dimostra che questo continuativo dev'essere latino-barbaro, o d'origine francese. Il simile dicasi dello spagn. horadar (anticamente foradar) da foro as. V. il Gloss. se ha nulla in proposito. (5. Sett. 1823.)

[3430,1]   3430 Altronde per altrove, e indi fors'anche quasi ivi o colà, delle quali cose ho detto altrove pp. 511-12 p. 1421 p. 2865. Vedi Petrarca Son. Io sentia dentr'al cor già venir meno * . (15. Sett. 1823.)

[3460,1]  Relatar spagnuolo, cioè riferire, raccontare, da relatus di refero. Relater francese antico, vale il medesimo. (18. Sett. 1823.).

[3488,1]  Alla p. 2928. marg. fine. Da falsus di {{fallere (fatto}} {aggettivo)} gli spagnuoli falto (seppur e' non fosse contrazione di fallito, ma non credo, e in tal caso gli spagn. direbbero anzi faldo da un falido), e falta sostant. per falsa, e così il francese faute, cioè falte. E da falto o da falta il verbo spagn. faltar per falsare che noi diciamo, e che si disse ancora in latino (v. Forcell.), e che i francesi dicono fausser; e per fallare o fallire ital., faillir franc., fallere lat. Faltar la palabra spagn. fausser sa parole, franc. falsare la fede, Speroni Orazz. Venezia 1596. Or. 8. contra le Cortegiane, par. 2. p. 195. ovvero fallire la promessa, ib. p. 198. fine. {#1. falseggiar l'amore per mancar delle promesse fatte in amore, abbandonando una donna per amare un'altra, o amando un'altra insieme, malgrado delle parole date. Speroni Dial. 1. Ven. 1596. p. 9. principio. V. p. 3772 (1). {+(1.) Esempi analoghi di frasi vedili nell'Alberti in faillir.}} V. la Crusca e il Glossar. (21. Sett. Festa di Maria Santissima Addolorata. 1823.)

[3491,2]  Rasito as da rado is - rasus, frequentativo. Il continuativo si trova in francese, cioè raser, che resta in luogo del positivo, mancante in quella lingua. (22. Settembre 1823.). {{V. ancora nello spagnuolo, arrasar.}}

[3515,1]  A quello che altrove ho detto pp. 980-81 p. 2358 di occhio e di ojo {formati regolarmente} da oculus, non da ocus, come potrebbe parere, aggiungasi che anche œil viene manifestamente da oculus (v. la pag. qui dietro [p. 3514,2]), e non potrebbe venire da ocus. Aggiungi ancora a quello che ho detto in tal proposito, che da somniculosus abbiam fatto oltre sonnacchioso e sonnocchioso, anche sonnoglioso e sonniglioso, mutato il cul in gli, come in vermiglio da vermiculus, di cui v. pur la pag. antecedente [p. 3514,2], {+e in periglio da periculum, e in coniglio (conejo) da cuniculus. Quindi i diminutivi spagn. in illo, da iculus.} (25. Sett. 1823.). {{Abbiamo anche sonnoloso.}}

[3542,2]  Continuativo o frequentativo. Perpetuito as da perpetuo as - perpetuatus. Vedi Forcell. in Perpetuitassint.  3543 Se già questa voce non fosse fatta (che nol credo) da perpetuitas, come forse necessitare ital. ec. da necessitas, di che ho detto altrove p. 3023. (28. Sett. 1823.).

[3543,3]  Intorno allo spagn. pintar ho detto altrove p. 1155 che il primitivo e regolare participio di pingo, tingo e simili, fu pingitus, tingitus ec. Poi pingtus, tingtus ec., poi pinctus, (e quindi pintar, quasi pinctare);  3544 e in questo {3.o} stato molti di tali participii rimasero, come tinctus, cinctus ec. Molti altri passarono a un quarto stato, ove si fermarono, come pictus, fictus. {ec.} Ma noi li conserviamo per lo più nel 3.o stato: pinto, finto. {#1. francese peint, feint. Abbiamo anche pitto, fitto, ma antichi o poett. ec.} Lo spagn. (regolarissimo ne' participii passivi sopra ogni altra sorella, e sopra la stessa latina ec. nel modo che altrove ho detto {#2. p. 3074. segg.}) conserva il primitivo fingitus in fingido. (28. Sett. 1823.).

[3548,1]  Insetare (che noi volgarmente ma più correttamente diciamo insitare, e forse così tutti fuor di Toscana, come anche diciamo insito per innesto) è continuativo di insero-insevi-insitus (diverso da insero erui ertum); e ben s'ingannerebbe chi lo facesse tutt'uno coll'altro insetare (da seta) come par che faccia la Crusca. Il francese enter forse ha la stessa origine, se non è fatto dal nome ente. Gli spagnuoli hanno {+in questo significato} il verbo originale enxerir (insero, {insitum o} ertum), come ancor noi l'abbiamo oltre al sopraddetto, ma tra noi è tutto poetico, cioè introdotto da' poeti, e da loro usato; benchè da essi pigliandolo, anche in prosa ben l'useremmo. (29. Sett. 1823.).

[3558,2]  Dalle cose altrove dette (nel principio della  3559 teoria de' continuativi pp. 1105-106) intorno al verbo aspettare si può dedurre con verisimiglianza che nel volgare latino aspecto as avesse il significato che ha oggi in italiano, come l'ebbe in lat. expecto; massime considerando il corrispondente greco προς-δοκάω che letteralmente si renderebbe appunto ad-spectare, e lo spagn. a-guardar ec. Attendere attendre per aspettare, è traslazione fatta appunto nello stesso modo, cioè dalla significazione di osservare a quella di aspettare (e notate anche in attendere la preposizione ad in conferma della sopraddetta congettura); siccome all'incontro può vedersi nel Forcell. un esempio di Tacito, dove aspectare è preso per attendo is (il che potrebbe anche in certo modo confermare la stessa congettura). I quali dati possono farci ancora congetturare che attendere nel significato d'aspettare ch'egli ha nelle due lingue figlie ital. e franc. abbia la sua origine nel volgare latino ec. V. il Gloss. in aspectare, attendere ec. se ha nulla. (30. Sett. 1823.).

[3560,2]  Francesismo ed italianismo (fors'anche spagnolismo)  3561 del genitivo plurale invece dell'accusativo del medesimo numero, appresso Aristot. Polit. l. 3. ed. Flor. ap. Iunt. 1576. p. 209. mezzo, e veggasi quivi il commento di Pier Vettori. (30. Sett. 1823.). {Noi ed i francesi usiamo il genititvo plurale anche in vece del nominativo plurale. Anche in caso terzo ec. a di molti, con di molti, à des femmes ec.}

[3568,3]  A ciò che ho detto p. 2194 del nostro usare, usar, user continuativo di utor-usus, aggiungi  3569 il nostro abusare, abusar, abuser, continuativo di abutor - abusus, e v. il Gloss. se ha nulla. Oltre disusare, ausare {o} adusare ec. (1. Ott. 1823.).

[3585,1]  Alla p. 2821. Che tutto ciò sia vero, e della derivazione di confutare ec. da fundo, e del participio futus per fusus ec. osservisi il nostro rifiutare, ossia il latino refutare (che significa sovente lo stesso), dirsi nel francese, refuser e nello spagnuolo, refusar {o} rehusar, come da refusus o da fusus, noti participii di fundo o refundo. Eppur tanto sono i verbi francese e spagn. quanto l'italiano e il latino. I francesi hanno anche réfuter  3586 in altro senso, (ch'è il proprio di refuto e il più frequente) ma questo è certamente molto meno volgare e più moderno (benchè non moderno) di refuser, e non conservato ma ricuperato per mezzo degli scrittori ec. non del popolo, e non continuatamente pervenuto dalla lingua latina nella francese.

[3587,1]  Diciamo volgarmente e con eleganza scriviamo, senz'altro pensare, senz'altro dire o fare, senz'altro preparativo, senz'altra cura, senz'altro curarsene e simili, per senza nulla pensare, senza niun preparativo, niuna cura ec. Nelle quali frasi la voce altro ridonda, e {s'usa} per pleonasmo, venendo in somma quelle locuzioni a dire senza pensare (anche il nulla è inutile qui, perchè il senza privativo, unito a pensare, comprende il detto vocabolo, giacchè chi non pensa, nulla pensa), senza preparativo, cura, (e qui pure sarebbe pleonastico il niuno, sebben s'usa, come il nulla nel caso sopraddetto) senza curarsene ec. Veggasi lo Speroni, solertissimo raccoglitore, e larghissimo spenditore delle più fine e più varie e moltiplici eleganze di nostra lingua; nel Discorso o lettera Del tempo del partorire delle donne, che tiene il terzo luogo  3588 fra' suoi Dialoghi Ven. 1596. p. 53. lin. penultima. Or confrontisi questo mero idiotismo italiano, e proprio tutto della lingua, e perciò elegante collo stessissimo idiotismo usitato nella lingua greca ed attica da' più eleganti e studiati scrittori. V. Creuzer Meletemata ex disciplina antiquitatis, par. 1. Lips. 1817. p. 83. not. 62. e Platone nel Convito ed. Astii Lips. 1819. sqq. t. 3. p. 472. B. v. 1. e p. 532. v. 7. Ai quali esempi è anche più conforme quello del Petrarca recato dalla Crusca alla voce Altro dalla Canz. 18. 6. dove altra parimente e manifestissimamente ridonda, anzi pare affatto fuor di luogo e contraddittorio, come {appunto} in alcuni de' passi greci che son da vedere ne' luoghi accennati. {+E così un altro esempio dello Speroni nel Dialogo della Retorica. Diall. Ven. 1596. p. 153. lin. 26. e Dial.o 10. p. 207. lin. ult.} Vedi ancora il Forcellini se ha nulla. Senz'altro vale similmente alcune volte senza nulla, semplicemente, onninamente ec. V. p. 3885. Così ἄλλως, del che vedi le mie Annotazioni all'Eusebio del Mai. (3. Ott. 1823.).

[3588,1]  Alla p. 3080. Assaltare, assaltar è un continuativo latino - barbaro di assalire pur latino - barbaro, ed è nella stessa significazione di questo. (V. il Glossar. in Assaltare, Assalire, Adsalire ec.) Laddove sobresaltar è in significato diverso da sobresalir (saltar conserva il significato latino, ma salir non  3589 già, se non alla lontana o in parte ec. V. il Forcell.), e non ha con esso niuna analogia di significazione. Così risaltare e risalire; da ambedue i quali è affatto diverso e lontano di significato il nostro risultare o resultare (resultar, résulter), e da questo e da quelli il latino resulto (v. il Glossar.). Resulto però e risultare ec. sono per origine gli stessi che risaltare, e vengono entrambi da resilire, che noi diciamo risalire con corrotta significazione. (rejallir forse è lo stesso che resilire, e jallir per origine lo stesso che saillir, e salire lat. come anche, in parte, per significato.) Così assaltare è per origine lo stesso che assultare (vera forma latina di questo verbo), il quale ha anche talvolta una significazione o uguale o simile a quella di assaltare, come pure assilire. (V. Forc. in assilio ed assulto, e il Gloss. in adsalire e assultare ec.) {Divenire-diventare fa a questo proposito.} Continuativo affatto italiano di un verbo affatto italiano, ma pur continuativo formato alla latina, cioè dal participio del verbo originale, si è scortare (coll'o largo) da scorto di scorgere in significato di guidare ec. (se pur non fosse  3590 da scorta sostantivo: i francesi hanno escorte ed escorter). Il qual verbo scorgere fratello di accorgere (e s'altro n'abbiamo di cotali) {+è tutto italiano, non men che accorgere ec. ma forse questi verbi vengono originariamente per corruzione di forma e traslazione di significato ec.} dal latino corrigere. V. il Gloss. se ha niente in proposito. Forse vi fu un excorrigere (scorgere), un adcorrigere (accorgere) ec. E la metafora sarebbe al contrario di avvisare, che dal vedere è passato all'ammonire ec. (v. il detto altrove di questo verbo avvisare pp. 2843-45 p. 3019). Laddove scorgere dall'ammonire (correggere) sarebbe passato al vedere. Ma l'uno e l'altro significato si troverebbe appresso a poco in accorgere (accorgimento, accortezza ec.), come appunto in avvisare (avviso per opinione, accortezza; avvisamento; avvisato per accorto ec. ec.). Del resto scorgere sarebbe contratto da corrigere come porgere da porrigere, e simili. (3. Ott. 1823.).

[3616,2]  Tostar spagn. da torreo-tostus. (6. Ott. 1823.).

[3621,2]  Participii in us di verbi neutri in senso neutro. V. Forcell. in Desitus confrontando quegli esempi col quarto esempio di Desino appresso il medesimo Forcellini. (7. Ott. 1823.).

[3625,1]  Alla p. 2821. fine. Nótisi il significato continuativo di confuto nell'esempio di Titinnio appo il Forcell. dove questo verbo sta nel senso proprio, e questo si è quello di confundo, ma continuato, come excepto in un luogo di Virgilio da me altrove esaminato p. 1107, per excipio. Nótisi ancora che nell'improprio suo ma più comune significato, confuto è vero continuativo di confundo. Anche noi diciamo (e così i francesi ec.) confondere uno colle ragioni, confondere le ragioni di uno, confondere l'avversario ec. e ciò vale confutare, ma questo esprime azione e quello è quasi un atto, e quasi il termine e l'effetto del confutare ec. Le quali osservazioni confermano la derivazione di confuto da noi e dagli etimologi stabilita. Così mi par di spiegare la traslazione del suo significato da quel di mescere insieme a quel di confutare, e così mi par di doverlo intendere; non ispiegarlo per compescere e derivar la metafora da questo lato, come fa il Vossio (ap. Forcell.) il quale anche  3626 par che derivi confuto da futum nome (dunque da questo anche futo?), per la solita ignoranza in materia de' continuativi. E se tal derivazione egli dà (come è anche più naturale ch'ei faccia) anche al confuto di Titinnio, e lo spiega pure per compesco, s'inganna assai. {V. p. 3635} Significazioni analoghe a quella nostra metaforica di confondere gli avversari ec. vedile nel Forcell. in confundo, confusio, confusus, {#1. e nel Gloss. in Confundere,} avvertendo che la lingua latina antichissima aveva delle metafore e degli usi di parole molto più simili ai moderni che non ebbe poi l'aurea latinità, o piuttosto il latino più illustre scritto; e n'ebbe in grandissima copia; e che queste parole e questi usi, e generalmente le proprietà del volgare o familiar latino, più si veggono negli scrittori de' bassi tempi (or v. gli esempi di Sulpicio Severo nel Forc. in confundo e confusus), e ne' volgari moderni che negli aurei scrittori, perchè questi seguivano più l'illustre, e quelli il familiare, questi fuggivano il volgo, e quelli o per ignoranza o  3627 per elezione, gli andavan dietro, questi avevano una lingua illustre e una parlata, quelli non avevano già più una lingua illustre che fosse per essere intesa quando anche l'avessero saputa scrivere, ma lingua scritta e parlata era per loro una cosa sola, o tra se molto meno diversa che non nell'aureo secolo e ne' prossimi a quello. Siccome eziandio tra gli scrittori aurei, i più antichi e i più familiari, semplici e rimessi di stile, più conservano dell'antico latino, più rappresentano della frase volgare e parlata, {+più hanno delle voci e locuzioni, e delle significazioni ed usi di voci, conformi ai volgari. Così Cornelio, Fedro, Celso ec.} più somigliano quella degli scrittori bassi e de' volgari moderni. I più antichi (coi quali vanno quelli che più si tennero all'antico per loro instituto, come Varrone, Frontone ec.) perchè il linguaggio illustre e scritto non era ancor ben formato e determinato, nè molto nè ben distinto dal parlato e familiare. I più semplici e rimessi perchè o per istituto o per un poco meno di abilità nello scrivere {e minore studio fatto della lingua, o minor diligenza posta nel comporre,} non vollero o non seppero troppo scostarsi dal linguaggio più noto e succhiato da loro col latte, cioè dal familiare e parlato. Onde a noi  3628 paiono amabilissimi e pregevolissimi per la loro semplicità ec. ma certo a' contemporanei dovettero riuscire poco colti. Osservo infatti che fra gli scrittori dell'aureo secolo quelli che fra noi tengono le prime lodi per la semplicità e dello stile e della lingua (la quale in loro è sempre notabilmente affine alla frase italiana e moderna, ed anche a quella de' tempi bassi), o non si trovano pur nominati dagli antichi, o appena, o in modo che la loro stima si vede essere stata come di autori, al più, di second'ordine. Tali sono Corn. Nepote, Celso, Fedro, giudicato dal Le Fevre il più vicino alla semplicità di Terenzio (v. Desbillons Disputat. II. de Phaedro, in fine), e simili. De' quali gli stessi moderni, vedendo la diversità della loro frase da quella degli altri aurei, e giudicandola non latina (perchè non molto illustre) hanno disputato se appartenessero al secol d'oro, ed anche se fossero antichi, ed hanno penato a riconoscerli per autori dell'aurea latinità; e le Vite di Cornelio sono state attribuite ad Emilio Probo {+(autore assai basso)} per ben lungo tempo e in molte edizioni ec., Celso è stato creduto più moderno di quello che è, ec. Fedro è stato attribuito al Perotti,  3629 e negato da molti che la sua latinità fosse latina ec. (v. la cit. Disput. del Desbillons). Non così è accaduto nè anticamente accadde agli scrittori greci più semplici. Effetto e segno che il linguaggio illustre in Grecia era, come altrove ho sostenuto pp. 844. sgg., assai men diviso dal volgare e parlato, e che la lingua e lo stile greco per sua natura e per sua formazione e circostanze è più semplice ec. Onde lo stile e la lingua p. e. di Senofonte fu subito acclamata, non men che fosse quella di Platone ch'è lavoratissima, ec. e gli scrittori greci più semplici e familiari non hanno aspettato i tempi moderni a divenir famosi e lodati ec. Senofonte e Platone nel loro secolo sono i due estremi quello della semplicità e bella sprezzatura, questo dell'eleganza, diligenza e artifizio. Pur l'uno e l'altro furono sempre quanto allo stile quasi parimente stimati da' Greci e contemporanei e posteri, e così da' latini e dagli altri in perpetuo ec. (8. Ott. 1823.).

[3629,1]  A proposito del detto da me altrove p. 3023 sopra il verbo necessitare, notinsi i verbi felicitare, {#1. debilitare, nobilitare, impossibilitare, facilitare, difficultare,} ereditare e simili che son fatti evidentemente da  3630 felicità, eredità e simili, ovvero da felicitas, hereditas ec. (8. Ott. 1823.).

[3636,1]  L'uso de' diminutivi positivati {(sì verbi che nomi ec.)} o che i positivi non s'usino o non esistano ec., o che s'usino collo stesso valore o equivalente, è comune alle nostre lingue anche in vocaboli che non derivano dal latino, {+donde ch'egli abbiano origine. V. p. 3946. 3998..} Come in francese {fardeau (it. fardello), marteau, martel (martello, martillo), roseau,} berceau, tonneau ec. ec. diminutivi per forma, sono tutti positivi di significato. {fromba e frombola coi derivati dell'uno e dell'altro. {+Puoi ved. la p. 3968-9. 3992. capoverso 1. 3993. capov. ult.; 3994. fin. 4000. fin. - 4001. 4003.} paquet empaqueter ec. Noi volgarmente pacco e pacchetto. v. l'Alberti e gli spagnuoli.} {fourreau diminutivo di un fourre, onde fourrer, che rispondesse al nostro fodero o fodera. Infatti in spagn. si ha aforro onde aforrar ec. come noi da fodera, foderare. L'aggiunta dell'a nel principio delle voci è usitata assai in spagn. come in italiano (Monti Propos. in ascendere). Sicchè aforro è fourre. V. {+p. 3852.}} A proposito di berceau, anche noi diciamo positivamente culla, ch'è altresì diminutivo, fatto da cuna (che noi pure abbiamo), o ch'e' sia corruzione moderna di cunula (che si trova in Prudenzio), o ch'e' sia forma antica latina, diminutiva anch'essa, e contratta da cunula, o indipendente da questo. Vedi il Forcellini in trulla diminutivo di trua. (9. Ott. 1823.). {{V. p. 3897. 3993.}}

[3638,2]  Léser o lézer da laesus di laedo. (9. Ott. 1823.).

[3687,1]  Sella è certamente un diminutivo positivato di sedes (o di sedia, di cui altrove p. 3350), come tra noi seggiola e seggetta sono diminutivi positivati di seggia, corruzione di sedia, {+che parimente abbiamo, cioè seggia e sedia, siège ec.} Gli spagn. silla, pur diminutivo positivato. Sella it. selle franc. in uno de' significati del lat. sella. Gli spagn. anche qui silla. Sella per sedia, sede, è di Dante. Sella in senso lordo, v. la Crusca. Sella {lat.} è diminutivo come trulla e simili. Diminutivo del diminutivo, sellula. Quindi sellularius, il cui senso si può dir positivo. Così bene spesso formula lat. formola ec. per forma. (14. Ott. 1823.).

[3694,2]  Aiguille, aguglia, aguja, guglia (co' lor derivati ec.) diminutivo sovente positivato, dal lat. aculeus altresì diminutivo come equuleus. Anche il greco ὀβελίσκος quando significa guglia è un diminutivo positivato. ᾽Οβελίσκος e aguglia o guglia, aiguille, aguja, suonano cose simili tra loro anche nel senso proprio. (15. Ott. 1823.).

[3695,3]  Obsoleto as da obsolesco - obsoletus. (15. Ott. 1823.). Ma questo non è continuativo. Esso significa obsoletum reddere, significato alienissimo della sua formazione. Ei non è che di Tertulliano e d'altri d'inferior latinità (Forcell. e Gloss.). La sua barbarie è maggiormente manifesta per la nostra  3696 teoria de' continuativi la quale fa vedere l'improprietà e disanalogia totale (perchè niuno altro esempio ve n'ha, ch'io sappia, nel buon latino) del suo significato ed uso. {V. Forc. in oleto.} Completare, compléter ec. voce moderna, sarebbe di simile genere di significazione perocch'ella propriamente vale far completo; benchè questo viene a coincidere col senso del verbo originario complere, il che non accade in obsoletare, {#1. perchè obsolesco è neutro e obsoleto attivo.} Di completare mi ricordo aver detto altrove p. 2035. Questi tali verbi son fatti da' rispettivi participii (come obsoletus, completus) già passati in aggettivi, e non come participi ma come aggettivi, onde e' non spettano alla nostra teoria. E' sono assaissimi. Forse ve n'ha anche nel buon latino, sotto questo aspetto. Ma meno, cred'io, che nel basso latino, e fra' moderni. (15. Ott. 1823.).

[3698,1]  Del resto chi volesse dire che il proprio preterito perfetto di oleo, adoleo e simili fosse e dovesse essere olui, adolui ec. onde adolevi inolevi ec. non sieno propri di adoleo, inoleo (ignoto), ma di adolesco veramente e di inolesco ec., osservi che anche l'altro oleo ne' composti fa olevi per olui (Forc. in oleo); {# 1. neo - nevi, fleo - flevi ec. ec.} e che queste desinenze evi ed ui, sono in verità una sola, cioè varie solamente di pronunzia, perchè gli antichi latini massimamente, e poi anche i non antichi, o meno antichi, ed anche i moderni ec., confondevano spessissimo l'u e il v {#2. V. p. 3708..} (che già non ebbero se non un solo e comune carattere): sicchè olevi è lo stesso che olui, interposta la e per dolcezza, ovvero olui è lo stesso che olevi, omessa la e per proprietà di pronunzia. Giacchè il v di questo e l'u di quello non furono mai considerate  3699 da' latini se non come una stessa lettera. Così nell'ebraico, così nelle lingue moderne, sino agli ultimi tempi, e dura ancora ne' Dizionari delle nostre lingue (come ne' latini) il costume di ordinar le parole come se l'u e il v nell'alfabeto fossero una lettera stessa, ec. ec. ec. Dunque non saprei dire, nè credo che si possa dire, se il vero e regolare e primitivo perfetto della seconda coniugazione abbia la desinenza in evi o in ui, se sia docui o docevi: e piuttosto si dee dire che, se non ambo primitive, ambo queste desinenze son regolari, anzi che sono ambo una stessa. Io per me credo che la più antica sia quella in evi, anticamente ei (conservata nell'italiano: potei, sedei ec. che per adottata corruzione e passata in regola, si dice anche sedetti {#1. Tutti i nostri perf. in etti sono primitivamente e veramente in ei, quando anche questa desinenza in molti verbi non si possa più usare, e sia divenuta irregolare, perchè posta fuori dall'uso, da quell'altra benchè corrotta e irregolare in origine, come appunto lo fu evi introdotta per evitar l'iato, come etti. E qui ancora si osservi la conservazione dell'antichissimo e vero uso fatta dal volgar latino sempre, sino a trasmettere a noi i perf. della 2.a in ei. Puoi vedere la p. 3820.} ec.), poi per evitar l'iato eϜi, e poi evi (come ho detto altrove pp. 1126. sgg. del perfetto della prima: amai, conservato nell'italiano ec. ama ϝ i, amavi), indi vi (docvi) o ui (docui), ch'è tutt'uno, e viene a esser contrazione di quella in evi (docevi). Ed è ben consentaneo che da doceo si facesse {primitivamente} nel perfetto, docei,  3700 conservando la e, lettera caratteristica della 2.da coniugazione come l'a nella prima, onde l'antico amai. Ma l'u com'ebbe luogo nella desinenza de' perfetti della seconda, essendo una lettera affatto estranea alle radici (come a doceo) ec.? {Impleo (compleo ec.) - deleo (v. la p. 3702.) es evi etum. Perchè dunque p. e. dolui e non dolevi? come delevi che v'è sola una lettera di svario. {+Perchè dolĭtum e non doletum?} O se dolui, perchè delevi e non delui? (v'ha però forse abolui, ed anche adolui ec. p. 3702. e ivi marg.) V. p. 3715.} Si risponde facilmente se si adottano le cose sopraddette: altrimenti non si può spiegare. L'u ebbe luogo nella seconda, come il v, ch'è la stessa lettera, ebbe luogo nella prima e nella quarta: per evitar l'iato. L'u e il v ne' perfetti di queste coniugazioni e nelle dipendenze de' perfetti sono dunque lettere affatto accidentali, accessorie, estranee, introdotte dalla proprietà della pronunzia, contro la primitiva forma d'essi verbi, benchè poi passate in regola nel latino scritto. Passate in regola nelle due prime. La quarta è l'unica che conservi ancora il suo perfetto primitivo (come la terza {generalmente e regolarmente,} che non patì nè poteva patire quest'alterazione) insieme col corrotto: audii, audivi. Il latino volgare per lo contrario non conservò, e l'italiano non conserva, che i primitivi: amai, dovei, udii. Queste osservazioni mostrano l'analogia (finora,  3701 credo sconosciuta) che v'ebbe primitivamente fra la ragion grammaticale, la formazione la desinenza de' perfetti della 1. 2. e 4. e che v'ha effettivamente fra l'origine delle forme e desinenze di tutti e tre. Analogia oscurata poscia e resa invisibile dalle alterazioni che dette desinenze variamente ricevettero nella pronunzia, nell'uso ec., le quali alterazione[alterazioni] passate in regola, furono poi credute forme primitive ec. {#2. Forse la coniugazione in cui più verbi si trovino che abbiano il perfetto (e sue dipendenze) veramente primitivo, {+e ciò} senz'averlo doppio come que' della quarta, {+ne' quali l'un de' perfetti non è primitivo,} si è la 3.a}

[3704,1]  Alla p. 3702. Queste osservazioni, e i confronti di fletum, netum e tali altri supini tutti della seconda, confermano che suetum, exoletum, e simili, non sono di suesco, exolesco ec. verbi della terza, alla quale punto non conviene questa desinenza, ma di altri della seconda da cui cui essi derivano. Cretum da cerno {#2. e suoi composti} è corrottissimo, {{per cernitum,}} {ch'è il vero,} e la desinenza in etum v'è accidentale ec. (15. Ott. 1823.). {#3. V. p. 3731.} Altresì quel che s'è detto de' perfetti della seconda, e il confronto di nevi, flevi ec. mostra che suevi, crevi, adolevi ec. non sono di suesco ec. verbi della terza. (15. Ott. 1823.). {#4. V. p. 3827.} La desinenza {de' perfetti} in evi o  3705 in vi, propria della prima coniugazione e, come abbiamo mostrato pp. 3698-99, della seconda, che ora ha più sovente ui ch'è il medesimo, e finalmente eziandio della quarta che conserva però anche quella in ii, è al tutto aliena da' verbi della terza, se non se per qualche rara anomalia, come in crevi da cerno, {#1. e suoi composti} perfetto irregolarissimo, per cerni, e in sevi da sero, {#2. e suoi composti} verbo d'altronde ancora irregolarissimo, come si vede nel suo supino satum, {#3. ne' composti situm, solita mutazione in virtù della composizione ec. v. p. 3848. ec.} Ovvero per qualche altra ragione come dal verbo no (di cui p. 3688.) che dovette essere della terza, il perfetto novi per evitare la voce poco graziosa ni, che sarebbe stata il suo perfetto regolare, e che d'altronde concorreva colla particella ni: oltre che niun perfetto latino, se ben mi ricordo, è monosillabo, ancorchè fatto da tema monosillabo: eccetto ii da eo, e da fuo, fui, i quali {{furono}} monosillabi, {+e forse ancora lo sono talvolta presso i poeti latini del buon tempo ec.} secondo il mio discorso altrove fatto pp. 1151-53 pp. 2266-68 della antica monosillabia di tali dittonghi ec. Da' monosillabi do, sto ec. si fece il perfetto dissillabo per duplicazione: dedi, steti, ec. Onde avrebbe da no potuto anche farsi neni. O forse il verbo da cui viene nosco, non fu no, ma noo (νοῶ), onde il perfetto  3706 novi invece del regolare noi sarà stato fatto (come que' della 1. in avi per ai, della 2. in evi per ei, della 4. in ivi per ii) per evitare l'iato; il quale iato però {+non può essere che} affatto accidentale ne' perfetti di questa coniugazione. {V. p. 3756.} Così per fui, regolare perfetto dell'antico fuo, verbo della terza, il qual perfetto anche oggidì si conserva, e solo esso, e tutto regolare, Ennio disse fuvi, non metri causa, come crede il Forcellini, (in fuam), ma secondo me, per evitare l'iato. {#1. V. p. 3885.} {Suo is ha sui, e non ha che questo. Abluo - Diluo ec. lui. Veggasi la p. 3732. Assuo assui ec. e gli altri composti di suo.} L'evitazion del quale stette a cuore principalmente agli scrittori (come anche in altre lingue), e ad essi, cred'io, si deve attribuire l'esser passate in regola le desinenze avi ed evi (poi ui) della 1. e 2. ne' perfetti e lor dipendenze, ed in parte la desinenza ivi nella quarta, in vece delle primitive ai, ei, ii. E quelle in avi, evi, ivi, secondo me, non furon proprie che della scrittura, o certo del linguaggio illustre, o di esso principalmente, e nulla o poco le adottò il plebeo, perocch'esso conservò le primitive ai, ei, ii, come lo dimostra l'italiano (e anche il francese  3707 aimai, onde lo spagn. amè, come ho detto nella mia teoria de' continuativi). Tornando a proposito la desinenza in vi, fuori de' detti casi, amalie[anomalie] ec. non è propria punto, anzi impropria, de' perfetti della terza, se non per puro accidente, come in solvi, volvi e simili. Ne' quali casi il v non è di tal desinenza, nè del perfetto, {+nè dell'inflessione ordinaria de' verbi della 3.a nel perfetto ec.} ma del tema (solvo, volvo), ed è lettera radicale di tutto il verbo ec. Trovansi però molti verbi della 3.a che (per anomalia) fanno il perfetto in ui (come il più di quelli della seconda): e questi sono in {molto} maggior numero che quelli della 3.a che facciano il perfetto in vi. (siccome anche nella 2.a oggi son più quelli in ui che quelli in vi). Per esempio l'altro sero (diverso dal sopraddetto a p. 3705.) che ha il supino sertum, nel perfetto fa serui, e così i suoi composti. Così colo is ui. Ed altri molti. {{Ma questa desinenza è pure affatto impropria della 3. e vi è sempre anomala, come quella in vi o}} {+in evi ec. che originalmente son tutt'una con quella in ui.}

[3710,1]  Viviturus regolare, per victurus del buon latino, dimostrante il vero supino vivitum {(vivuto)} secondo le nostre teorie (v. fra l'altre, p. 3709. fine), vedilo in una carta del secolo del mille nel Gloss. Cang. (16. Ott. 1823.).

[3715,1]  Alla p. 3700. marg. Che la desinenza ui nel perfetto della 2,da, sia stata introdotta nel modo che abbiam detto p. 3698, mostrasi ancora col considerarla in alcuni verbi della 1.a. Della quale niuno dubita che il perfetto regolare e proprio non sia quello in avi. Ma pur parecchi suoi verbi l'hanno in ui: domui, secui, vetui, necui, {{crepui}} ec. co' loro composti enecui, perdomui ec. {#1. Puoi vedere p. 2814-5. e 3570.} Or da che è venuta quest'anomalia? Dalla stessa cagione che l'ha introdotta ne' verbi della 2.da,  3716 nella quale ella, per esser più comune assai che nella prima, e più comune che non è ciascuna dell'altre desinenze, non si chiama anomalia, anzi regola; e piuttosto chiamasi anomalia quella in evi perchè divenuta più rara, e una di quell'altre meno comuni. Ma parlando esattamente e guardando all'origine, quella in ui è anomalia o alterazione nella seconda non meno che nella prima, e quella in evi è così regolare nella 2. come nella prima quella in avi. E più comune si è la desinenza in ui nella seconda che nella prima, perchè l'ommissione della vocale, da cui essa deriva, era ed è più facile e naturale circa la e che circa la a, lettera più vasta, per servirmi dell'espressione di Cicerone in altro proposito (Orat. c. 45. circa l'x.). Del resto, come parecchi della seconda hanno il perfetto così in evi come in ui, qualunque de' due sia più comune, così tutti o quasi tutti quelli della 1. che l'hanno in ui, conservano pur quello in avi, o che questo sia in essi il più usitato, o viceversa.  3717 { Plico as (v. Forc.) plicatus. Adplico, explico ec. avi atum, ui ĭtum. Frico as ui ctum, fricatum. perfrico ec. Sono as avi atum, ui, sonitus us. V. p. 3868. Mico as ui, micatus us. Emico as ui, emicatio, emicatim.} E tutti altresì, se non erro, hanno il supino in ĭtum, come quelli della seconda ch'hanno il perfetto in ui (mentre quelli che l'hanno in evi conservano altresì il vero supino in etum, credo, tutti); ovvero in ctum contratto da cĭtum (nectum, sectum ec.) come appunto lo sogliono avere quelli della seconda che hanno il perfetto in ui, come docui-doctum contratto da docĭtum {#1. V. p. 3723..} Ma {molti di} que' della 1. che hanno il supino in ĭtum, conservano altresì, come il vero perfetto in avi, così il vero supino in atum (o il participio in atus o in aturus ec. ch'è tutt'uno, e lo dimostra) {+più o meno usitato di quello in ĭtum,} non altrimenti che alcuni della seconda conservino forse accanto del supino in ĕtum il vero in ētum. Dico, forse, perchè ora non me ne soccorre esempio. (17. Ott. 1823.).

[3751,1]  Diminutivi positivati. Novello, nouveau, Novella, rinnovellare ec. ec. V. il Forc. in Novellus (quasi iuvenculus) e {i} derivati sopra e sotto la detta voce: gli spagnuoli ec. (22. Ott. 1823.).

[3754,1]  Alla p. 3728. Quest'uso latino di mutare {alle volte} il primo n in g, quando concorrerebbero due n, uso che si vede in agnatus, cognatus, cognosco, ignosco, ignotus, ignobilis, ignarus, ignavus ec. per annatus, connatus, (che anche si trova), connosco, innosco, innotus (v. Forc.) innobilis, innarus innavus (che sarebbero come innocens, innumerus, innobilitatus) ec. ec. (p. 3695.) {Agnomen, agnomentum ec. cognomen ec. ignotitia (p. innotitia), tutti derivati da noo. Ignoro ec.} corrisponde all'uso della pronunzia spagnuola che suol mutare in gn il doppio n delle parole latine o qualunque (come año, caña per canna ec.), e che generalmente  3755 rappresenta il suo gn col carattere ñ che è il segno di un doppio n. (Se però i latini pronunziavano ig-navus ec. come a p. 2657., l'uso spagnuolo di dir agno per annus ec. non ha che far niente col lat. ig-navus per innavus. Tuttavia può pur avervi che fare, in quanto anche appo gli spagnuoli quell'año ha sempre una pronunzia di g).

[3755,1]  Del resto non solo nel concorso delle due n, ma anche fuor di questo caso, i latini usavano di preporre o frapporre avanti la n il g. Come in prognatus per pronatus (che anche si trova), {+adgnascor per adnascor,} adgnatus per adnatus ec. (i quali perciò dimostrano un semplice gnascor), e in gnarus, gnavus, gnavo, gnosco, gnobilis ec. (sicchè forse ignarus ec. non sono per innarus ec. ma più probabilmente per i-gnarus, i-gnavus ec. cioè per ingnavus, ingnarus ec.). Onde resta fermo quel ch'io[ho] detto p. 3695. che i latini usavano, come gli Eoli, il g veramente protatico (perchè anche in pro-gnatus per pro-natus, in i-gnobilis per in-nobilis ec. ei viene a esser protatico.). E quest'uso ancora  3756 avrebbe qualche corrispondenza coll'uso spagnuolo di mutare alle volte, se non erro, anche l'n semplice delle voci latine ec. in ñ. (22. Ott. 1823.).

[3764,3]  Disperser da dispergo-dispersus. (24. Ott. 1823.).

[3771,1]  Alla p. 3729 marg. Trovansi eziandio ne' nostri antichi parecchie voci {o} significazioni ec. proprie del latino noto, ma che ora non potremmo in alcun modo usare, ben sono usate e familiari appo gli spagnuoli: il che  3772 {pare che} provi ch'elle fecero parte di quel volgare che precedette ambo le lingue, del volgar latino ec. se non vogliamo supporre che l'antico italiano allo spagnuolo, o l'antico spagnuolo all'antico italiano le comunicasse, che nè l'uno nè l'altro è molto verisimile. (25. Ott. 1823.).

[3772,1]  Alla p. 3488. marg. Trovo in un cinquecentista spagnuolo, ma di poca autorità, falsar la paz per rompere frodolentemente la pace, o violar le condizioni della pace, mancare ai trattati ec. Del resto falsare in questi sensi è quasi un continuativo di fallere. Falsar la fede nell'esempio dello Speroni è lo stesso che il fallire, cioè fallere, la promessa nell'altro esempio. E anche in se stesso, falsare nelle dette significazioni ha un certo senso d'ingannare, cioè fallere, benchè forse si vorrà piuttosto dargli quello di mancare. Ma in questo senso non si vede come nè fallirefalsarefaltar ec. possano essere attivi ec. ec. (25. Ott. 1823.). Falsare in altri sensi, (come in falsatus e falsatio ap. Forc.) è bensì da falsus di fallere ma preso in senso di aggettivo; laddove ne' detti significati falsare sarebbe da falsus in senso di participio ec. (25. Ott. 1823.).

[3816,4]  Mestare, rimestare ec. da misceo - mixtus o mistus, quasi mistare o mixtare. V. il Gloss. i Diz. franc. e spagn. ec. (2. Nov. dì de' morti. 1823.). Expulser franc. da expellere - expulsus, come da pello - pulsus, pulso as ec. V. Forcell. in expulso ed expulsatus. (2. Nov. dì de' morti. 1823.).

[3818,1]  Alla p. 3573. Questa proposizione è molto azzardata. Bisogna intenderla lassamente. Per rispetto alla lingua francese è vera, parlando generalmente. Ma per rispetto all'italiana, dubito che sia vero neppur generalmente, ben compensate che sieno insieme le conformità estrinseche che hanno le lingue italiana e spagnuola colla latina. Il suono della lingua spagnuola ha più del latino, ma questa è quasi un'illusione de' sensi. Perchè quei tali suoni latini non sono nello spagnuolo a quei luoghi in cui erano nel latino. Per esempio la moltitudine degli s contribuisce, e forse principalmente, a rassomigliare il suon dell'una lingua a quello dell'altra. Ma lo spagn. abbonda di s, principalmente perchè in essa  3819 lingua tutti i plurali terminano in quella lettera. Non così in latino. (Vero è però che in latino la terminazione in s è propria di tutti gli accusativi plurali non neutri. Ora, secondo Perticari, i nomi latini trasportati nelle lingue figlie, son tutti fatti dagli accusativi delle declinazioni rispettive latine. Quindi che nello spagn. la terminazione in s sia caratteristica de' plurali, potrebb'esser preso dal latino, e cosa anch'essa latina. E quest'osservazione può essere di non poco peso a confermare l'opinione di Perticari; {(sebben ei parla solamente de' singolari, i quali fatti dall'accusativo latino generano poi i plurali al modo nostro)} mentre altri con più apparenza di ragione, ma forse men verità, vogliono che i nostri nomi sieno gli ablativi latini. P. e. amore ec. Ma veramente non si vede perchè, dovendosi perder l'uso degli altri casi, e restare un solo per tutti, com'è avvenuto nelle lingue moderne, e come, certo in gran parte, dovette avvenire anche nell'antico latino volgare e parlato, avesse a prevaler l'uso dell'ablativo. Ben è consentaneo che l'accusativo si usasse in vece degli altri casi ec. {v. p. 3907.}) L'aggiunger {sempre} la es ai singolari terminati in consonante non è uso latino, se non in certi casi, e nella terza declinazione. (Noi per la terminazione de' plurali imitiamo i nominativi {latini} della seconda e della prima. {#1. Sicchè quanto alla terminazione de' plurali, la conformità dello spagn. col latino, supposta eziandio e conceduta, come sopra, non si può dire che superi punto quella dell'italiano. Del resto quel continuo s che si sente nello spagnuolo fa un suono che tutto insieme considerato è così poco, o tanto, latino, quanto le continue terminazioni vocali dell'italiano. Il latino è temperato di queste e di quelle, ed eziandio insieme d'altre molte terminazioni; sicchè veramente il suo suono, parlando pure in generale e astrattamente non è nè quello dell'italiano nè anche quello dello spagnuolo. Ben è vero che nello spagnuolo le terminazioni consonanti sono miste come in latino, alle vocali, laddove in italiano non v'ha quasi che le vocali; e nello spagnuolo, benchè la terminazione in s sia, almeno tra le consonanti, la più frequente, pur v'ha diverse terminazioni consonanti, come in latino; e niuna terminazione in consonante, che non sia propria, credo, anche del latino (al contrario che in francese in tedesco ec.), benchè non sempre, anzi non il più delle volte, ne' casi stessi; e le terminazioni vocali son piane come in latino e non acute ossia tronche come in francese. Sotto questi aspetti il suono dello spagnuolo è veramente più conforme al latino che non è non solo il francese ma neppur l'italiano. E da queste ragioni nasce che udendo lo spagnuolo si possa più facilmente confonderlo col latino che non fa il francese nè anche l'italiano. E questo effetto, sotto questi aspetti, non è un'illusione, nè una cosa che non meriti esser considerata, e che non abbia un principio e una ragione di conformità o simiglianza reale. La terminazione consonante in d frequente nello spagnuolo è rara in latino ma pur v'è, come in ad, illud, id, istud, sed ec.).} Del resto anche in francese (bensì nel solo francese scritto) la terminazione in s (e a' singolari terminati in consonante, si aggiunge talvolta la es, se non m'inganno) è caratteristica del plurale (quella in x vien pure a essere in s); sicchè lo spagnuolo in questa parte non prevarrebbe al francese se non in quanto ei pronunzia sempre la s, e il francese solo talvolta, e piuttosto per accidente che per altro. Quanto all'  3820 italiano, anche nelle forme regolari delle coniugazioni, esso in molte cose assai più conforme al latino che non è lo spagnuolo. V. p. e. le pag. 3699-701. e la mia teoria de' continuativi dove si parla del digamma eolico in amaFi ec pp. 1126-27. E basti osservare che lo spagn. non ha che tre coniugazioni; l'italiano le ha tutte quattro, e tutte, in molti caratteri, corrispondenti alle rispettive latine, come negl'infiniti āre, ēre, ĕre, īre (lo spagnuolo manca del 3.o e gli altri non gli ha che tronchi), e in altre cose. Anche il francese ha 4. coniugazioni, ma non corrispondono alle latine (eccetto quella in ir quanto all'infinito ec.), e la conformità del numero {(cioè l'esser 4. come in latino)} sembra, ed è forse, un puro caso; il che non si può certo dire dell'italiano. E quanto alla conservazione della latinità in mille e mille altre sì regole, sì voci particolari materialmente considerate, sì frasi considerate pure materialmente (chè ora parliamo dell'estrinseco), {significati ed usi delle parole e frasi, anche propri originalmente o sempre del popolo e del parlato, non del solo illustre ec.} dubito assai che lo spagnuolo possa esser preposto, anzi pure agguagliato all'italiano. Questa e quell'altra voce {ec.} sarà più latina in ispagnuolo che in italiano (così avverrà alcune volte che nello stesso francese una voce ec. sia più latina che nelle due sorelle, {o in una di loro,} o che queste {o l'una di esse,} non abbiano una voce ec. nel francese conservata, {+nè pertanto sarà chi dica la latinità conservarsi più nel francese che nelle sorelle, o che nell'una di esse}); questa e quella voce latina resterà nello spagnuolo, e all'italiano mancherà; ma, raccolti i conti {e computati i casi contrarii, e posto tutto insieme,} io credo che in tutte queste cose l'italiano soverchi lo spagnuolo di grandissima lunga. (3. Novembre 1823.).

[3828,1]  Irascor sta nel Forcell. senza supino nè perfetto. Trovasi iratus. Vero participio, benchè {forse,} almeno in certi casi, aggettivato, come tanti altri. Or donde viene questo participio? Non dimostra egli un verbo della prima? un verbo onde venga sì egli sì irascor? Cioè un antico iror, conservato nell'italiano (irare, adirare, {airare} ec. con lor derivati ec.), e v. gli spagn. (4. Nov. 1823.).

[3834,1]  Dico altrove p. 1279 pp. 2152-53 p. 2824 che noi sogliamo cangiare l'i de' participii latini in us, usitati o inusitati, nella lettera u. Che questa mutazione dell'i in u (mutazione propria della voce umana, come ho detto altrove in più d'un luogo) ci sia naturale segnatamente in questo caso, veggasi che noi diciamo concepito (regolare lat. ant. concepitus), e conceputo (diciamo anche concetto voce tolta dal latino dagli scrittori e dalla letteratura). Ma questo secondo è più italiano ed elegante. Così empiuto, compiuto, riempiuto ec. rispetto ad empíto, compíto (in alcuni sensi però non si potrebbe dir compiuto per compito ma questi sono anzi forestieri che no) ec. Così forse altri ec. Nótisi però che i grammatici distinguono empiere ec. ed empire (meno elegante) ec.; concepere e concepire; e ad empiere danno empiuto ec., a concepere conceputo; ad empire empíto ec. (5. Nov. 1823.).

[3851,2]  Participii passivi di verbi attivi o neutri, in senso attivo o neutro ec. Ho detto altrove p. 3072 dello spagn. parida participio sovente (o sempre; v. i Diz.) attivo intransitivo di senso. Simili ne abbiamo ancor noi parecchi, e molto elegantemente gli usiamo, in luogo de' participii veramente attivi di forma, il cui uso è poco grato alla nostra lingua, non altrimenti che alla francese e spagnuola. Uomo considerato, avvertito, avvisato vagliono considerante, avvertente ec. cioè che considera ec. {veri} attivi di significato, benchè intransitivi. Simili credo che si trovino ancora nel francese e più nello spagnuolo che se ne servono parimente in luogo de' participii di forma attiva poco accetti a esse lingue {#1. Avisado per prudente, accorto, e anche dello spagn. ma dubito che in ispagn. avisar abbia quel tal senso attivo analogo a questo di accorto ec., il quale egli ha tra noi. V. p. 3899.} La detta sorta di participii passivi attivati, fatti da' verbi attivi ec. (ed infatti essi o sempre o per lo più, hanno ancora il proprio lor significato, cioè il passivo) è massimamente usata da' nostri antichi del 300. e del 500. che ne hanno in molto più copia che noi oggidì non sogliamo usare o punto, o solo in senso passivo. La nostra lingua somigliava anche in questo alla spagnuola la quale mi pare che anche oggidì conservi quest'uso più  3852 frequente che non facciam noi, accostatici ora ai francesi, a' quali esso è men frequente che agli altri, siccome esso pare singolarmente proprio della lingua spagnuola ec. ec. (10. Nov. 1823.).

[3852,4]  Contracter francese per contrarre, come in contrario lo spagn. traher alle volte nel senso di tractare, secondo che ho detto nel principio della teoria de' continuativi pp. 1104. sgg. (10. Nov. 1823.).

[3869,1]  Al detto altrove p. 3543 di tosare, tonsito ec. aggiungi detonso as da detondeo. (12. Nov. 1823.).

[3872,1]  Alla p. 3854. Nondimeno i supini contratti della 2. poterono anche direttamente venire dai rispettivi supini in ētum senza passare per la forma in ĭtum, cioè p. e. doctum esser contratto da docētum, non da docĭtum, soppressa la ē, come nei perfetti in ui della stessa coniugazione, cioè p. e. docui ossia docvi, ch'è contrazione di docēvi. Onde adultum cioè adoltum, potrebbe benissimo venire da adolevi senza adolui, cioè essere una contrazione {immediata} di adoletum fatto da adolevi. Anzi siccome per una parte non suole l'ē passare in ĭ, dall'altro[altra] non veggo ragion sufficiente per cui da' perfetti in ui sì della seconda sì della prima, si debba fare un supino in ĭtum, io dico che tutti i supini in ĭtum {+usitati o no} della 2. e della 1. vengono bensì da' perfetti in ui, ma non immediatamente. Da' perfetti in ui che sono contratti, p. e. domvi da domavi, mervi da merevi, vennero dei supini contratti, cioè domtum, mertum (che noi {infatti} ancora abbiamo, e i franc. domter ec.), ne' quali era soppresso l'ē e l'ā come ne' perfetti. Da questi supini poi, interpostavi per più dolcezza la lettera ĭ, solita (com'esilissima ch'ella è tra le vocali) sì nel latino sì altrove ad interporsi tra più consonanti, quando non si cerca altro che un appoggio e un riposo momentaneo e passeggero alla pronunzia, {+riposo fuor di regola e originato ed autorizzato solo dalla comodità della pronunzia, onde quella vocale non ha che far col tema, ed è accidentale affatto, e un semplice affetto e accidente di pronunzia;} vennero i supini in ĭtum come domĭtum, merĭtum. Sicchè al contrario di quel ch'io ho detto per lo passato pp. 3701-702 p. 3708 p. 3717,  3873 i supini contratti precederono quelli in ĭtum, e questi vengono da quelli, e li suppongono e dimostrano, ma non viceversa. Sicchè doctum non dimostra nè esige che vi fosse un docitum, bensì meritum un mertum; sectum non dimostra un secitum, bensì domitum un domtum (simile ad emtum ec. onde domter ec.). Bensì i supini contratti, e per conseguenza anche quelli in ĭtum, che ne derivano, suppongono e dimostrano i perfetti in ui. Da' quali immediatamente e regolarmente vengono i supini contratti, e mediatamente e irregolarmente quelli in ĭtum (specie di pronunzia de' contratti, e però contratti essi stessi; avendo l'esilissima i e breve, in cambio dell'ā o ē): e non viceversa, come per l'addietro io diceva. (12. Nov. 1823.). {{V. p. 3875.}}

[3875,1]  Ho detto altrove p. 3312 che patulus sembra diminutivo positivato di un patus. Male. Non tutti i nomi in ulus, nè tutti i verbi in ulare sono diminutivi {neppur per origine e regola di formazione}: p. e. iaculum da iacio, speculum e specula da specio, vehiculum, curriculum, adminiculum, amiculum da amicio, periculum da πειράω, iaculari, speculari, famulus, famulor ec., {+retinaculum, miraculum, obstaculum, stimulus, stimulo, stabulum, stabulo, pabulum, poculum, fabula, fabulor ec. (v. la p. 3844.), crepitaculum, sustentaculum, baculum, baculus, osculum, ec.} Patulus è di questi, fatto a dirittura da pateo ec. (13. Nov. 1823.). {+Fors'anche oculus è di questi, contro il detto altrove pp. 980-81 p. 2281 p. 2358 p. 3557. V. Forc. ec.}

[3881,3]  Alla p. 3850. fine. Buo è andato in disuso restando il composto imbuo. Se però imbuo è da in e buo (v. Forc.) e non piuttosto corruzione e pronunzia d'imbibo (che pur sussiste) pronunziato imbivo (imbevere, imbevo {+che vale appunto imbuo, ed è certo da bibo, e v. i francesi e spagnuoli}) - imbiuo - imbuo, come lavo ne' composti e nel greco è luo, e per lo contrario da pluere noi facciamo piovere, llover ec. {Puoi vedere la p. 3885.} E mille esempi in questi propositi si potrebbero addurre. Così exbuae sarebbe corruzione {o pronunziazione} di exbibae, vinibuae di vinibibae, fors'anche bua (bumba) di biba. Di tali cangiamenti {{nati dall'}}affinità ec. tra il v e l'u, ho detto altrove p. 3235 pp. 3698-99 pp. 3731-32. Ovvero Imbuo può esser fatto direttamente da in e da bua (bevanda), sia che questa voce sia alterazione di biba, o che sia un antico monosillabo significante bevanda, restato poi solo per usi puerili, sia anche in origine una voce puerile. (14. Nov. 1823.).

[3886,1]   3886 Altrove osservo pp. 980-81 pp. 2281-83 pp. 2375-76 pp. 3514-15 p. 3557 che il cul de' latini si cangia assai sovente nell'italiano in chi o cchi (o-cu-lus, o-cchi-o) o gli (pe-ri-cul-um, peri-gli-o), nello spagnuolo in i (o-cu-lus, oj-o) nel francese in ill o il o eil o eill {+o ail o aill} ec. (péril, abeille, vermeil, ouaille, o-cul-us, o-eil ec.). Nótisi che tali cangiamenti non sono certo direttamente stati fatti da cul, ma da cl contratto nella volgar pronunzia latina, come si vede anche non di rado nel latino illustre e scritto, massime appo i poeti; come seclum, periclum ec. (17. Nov. 1823.).

[3893,1]  Tio spagn. Zio ital. ϑεῖος grec. p. 2465 (19. Nov. 1823.).

[3896,1]   3896 D'emblée viene evidentemente dal greco ἐμβάλλω. Grecismi del volgare italiano vedine ap. il Vettori Commentar. in Aristot. Polit. Lib. 7. fin. Florent. 1576. p. 646 fin.- 647 princip. Il luogo di Aristot. quivi citato è ib. p. 641. fine. (21. Nov. 1823.).

[3897,1]   3897 La negativa francese ne è l'antichissima de' latini, i quali dicevano ne e nec per non, {ne quidem per nec quidem.} come ho discorso in proposito di nihilum parlando della voce silva e della sua origine pp. 2306-12 , e mostrato ancora che ne serviva in composizione di particella privativa, {nequam ec. dove il ne è privativo, ec.} come in greco νη, νε, ν, e per conseguenza sì essa che le dette greche originariamente dovettero certo essere particelle negative, {cioè} assolutamente servienti alla negazione ec. E v. il Forc. in Ne, Nec ec. e i Lessici greci in νη ec. (22. Nov. 1823.).

[3899,2]  Voce comune alle tre lingue: Ciabatta, zapato, savate (è noto che il nostro c molle, in ispagnuolo è z, in francese vale s), savaterie, savetier, zapatero, ciabattino, acciabattare ec. ec. Anche le metafore di tali voci, come di saveter e acciabattare, di ciabattino e savetier per mauvais ouvrier ec. ec. sono conformi, almeno tra l'italiano e il francese, giacchè il significato di ciabatta, savate, zapato, benchè simile, è alquanto diverso nello spagnuolo ec. (23. Nov. Domenica. 1823.).

[3900,5]  Alla p. 2843. Che inceptare in questo senso d'incettare, cioè  3901 come composto di capto, non sia alieno dall'antica latinità, secondo che ho detto in una delle pagg. citate in quella a cui questo pensiero appartiene pp. 3350-51, me lo persuade eziandio il vedere che detto senso è tutto latino, e alla latina ec. e quasi è lo stesso che quello del semplice captare, se non che è determinato ad un certo modo di far quello che si denota col verbo captare. Del resto che la mutazione dell'a in e ne' composti, e l'altre tali, usitate regolarmente nell'antico e buon latino, fossero trascurate ne' composti de' tempi bassi e delle lingue moderne, ne può essere una prova appunto accattare (acheter). Vedi Glossar. in accaptare. {#1. Anche abbiamo accettare (accepter ec.) da acceptare, ma non di capto bensì di accipio - acceptus ec..} (23. Nov. 1823.).

[3902,1]   3902 Andare per essere del che altrove p. 3004 p. 3617. Petr. Sestina 1. verso penult. E 'l giorno andrà (sarà) pien di minute stelle Prima ch' * ec. (24. Nov. dì di San Flaviano. 1823.)

[3903,2]  A ciò che ho detto altrove p. 1155 pp. 3543-44 in proposito di pintar e dell'antico participio latino di pingo e de' verbi simili, aggiungasi dipinto (non dipitto) sostantivo e aggettivo o participio, dipintura ec. peint, e quindi peintre, peinture ec. dépeint ec. Pitto per pinto, non è che degli scrittori. Abbiamo però pittura, pittore ec. Ma anche pintore, pintura. Gli spagnuoli pintor ec. Fitto per finto (universale tra noi) non so se mai fosse del volgo e della lingua parlata. Da finto, e non da fictus o fitto, finzione, fintamente ec. {+infinto. fractus franto infranto, enfreint ec.} Abbiamo però anche fizione ec. I franc. feint ec. Gli spagnuoli fingido (fingitus primitiva forma) ec. Vinto, non vitto (victus) se non poeticamente, ed or neanche ben si direbbe in poesia. Gli spagnuoli vencido, i francesi vaincu, che rispondono al  3904 primitivo vincitus di vinco, secondo il detto altrove pp. 3075-76 della mutazione dell'itus latino in u, nella desinenza di {molti} participii francesi ec. (24. Nov. 1823.).

[3904,5]  Ho detto altrove pp. 1031-37 che tutte le lingue nascendo dai volgari, le nostre sono nate dal latino volgare e parlato e non dal latino scritto. Da questo principio segue, fra gli altri molti, questo corollario che tutte le voci, frasi, significazioni ec. italiane, francesi spagnuole, e tutte le proprietà di queste tre lingue, o di qualunque di  3905 esse, che si trovano ancora, in qualsivoglia modo, nel latino scritto di qualunque età, e che nelle dette lingue non sono state introdotte dagli scrittori, dalla letteratura, da' letterati, dalla favella de' dotti o colti ec. nè passati dall'una di esse lingue nell'altra per qualunque mezzo, dopo essere in quella stati introdotti dagli scrittori o dal parlar letterato ec., ma che vengono originariamente dal semplice uso del favellare ec.; furono tutte proprie del latino volgare e parlato, non meno che dello scritto; e quindi chi cerca l'antico volgar latino, ha diritto di considerarle come sue parti e qualità ec. (24. Nov. 1823.).

[3908,2]  Causare per accusare, accagionare, del che altrove in proposito dell'antico latino cuso pp. 2809-10. Machiavelli Vita di Castruccio Castracani, non molto avanti il mezzo, tutte le Opere, 1550, parte 2.a p. 73. principio. Occorse in questi tempi che il popolo di Roma cominciò a tumultuare per il vivere caro, causandone l'assenza del Pontifice che si trovava in Avignone, et biasimavono i governi Tedeschi. * (26. Nov. 1823.).

[3927,2]  Vedi al proposito di questo pensiero le pagg. 3905-6. (27. Nov. 1823.). {{e la p. 3929. lin. 11. 12.}}

[3938,5]  Al detto altrove p. 3283 di fictus, fixus ec. aggiungi confitto da configgere o configere (non da conficcare, come dice la Crusca). Non si dice confisso. Per lo contrario affisso e non affitto participio. {+V. però la Crus. in affitto aggett., se quello non è un luogo male scritto, come pare.} ec. (1 Dec. 1823.).

[3942,1]  Scambio del g e del v. Nivis - neige - ningit o ninguit (onde il nostro negnere) e nivit, onde il nostro nevicare, quasi nivicare, come da vello vellico ec. frequentativi, di cui vedi la p. 2996. marg.: e vedi il Gloss. se vuoi. (6. Dec. 1823.).

[3946,1]  Alla stessa pag. margine. Alcune di queste voci potrebbero anche venire dal latino o ignoto, o volgare, o barbaro ec. e se ne vegga il Gloss. ed anche il Forcell. ec. (6. Dec. 1823.).

[3964,2]  Dico altrove pp. 3586-87 p. 3637 che bisogna esattamente distinguere tra' vocaboli e modi latini conservati nelle lingue moderne, o ricuperati per mezzo della letteratura, scienze, diplomatica, politica, canoni, giurisprudenza, cose ecclesiastiche, liturgie ec. (o conservati ancora per questi mezzi, ma non per l'uso della favella ordinaria ec.). La stessa distinzione bisogna fare circa le forme delle parole ec. atteso massimamente che le ortografie moderne sono state da principio ed anche in seguito lungo tempo modellate sul latino, peccarono assai e lungamente per latinismo che nella rispettiva lingua parlata non si trovava, furono inesattissime ec. di tutte le quali cose ho detto in più luoghi pp. 1659-60 pp. 2458-63 pp. 2884-85 p. 3683 pp. 3959-60. (9. Dec. Vigilia della Venuta. 1823.).

[3967,1]   3967 L'infinito per l'imperativo, del che altrove pp. 2686-87. Hippocrates in fine libri de aere aquis et locis. ᾽Απὸ δὲ τουτέων τεκμαιρόμενος, τὰ λοιπὰ ἐνϑυμέεσϑαι, καὶ {οὐχ} ἁμαρτήσῃ. * Sono le ultime parole del libro. (10. Dec. dì della Venuta della S. Casa. 1823.). {Questo modo è frequentissimo in Ippocrate da per tutto, come precettista ch'egli è.}

[3968,3]  Ho detto, non mi ricordo il dove pp. 2280-81, di un diminutivo, mi pare, italiano che la sua inflessione in ol (sia verbo o sia nome ec. che non mi sovviene) dimostrava lui essere originariamente latino. Ma si osservi che la diminuzione in olo, olare ec. è non men propria dell'italiano moderno di quel che sia del latino quella in ulus, ulare, olus (come in filiolus) ec. Ben è vero ch'essa deriva onninamente da  3969 questa latina, anzi è la medesima con lei. Del resto l'aggiunta dell'u in questa nostra inflessione (come in figliuolo ec.). 1. è una gentilezza della scrittura e ortografia, un toscanesimo, non è proprio della favella, seppur non lo è della toscana, e in tal caso, che non credo neanche in toscana sia troppo frequente e' sarebbe un accidente della pronunzia. 2. non si trova nelle più antiche scritture, nè in moltissime delle meno antiche, benchè esatte, anzi fuorchè nelle moderne, {forse} nel più delle scritture ella manca, {+e credo ancora che manchi regolarmente anche oggidì, almeno secondo l'ortografia della Crusca, in molte parole dove l'olo è pur lungo.} 3. ella svanisce regolarmente (per la regola de' dittonghi mobili) sempre che l'accento non è sull'o: quindi da figliuolo figliolanza ec. 4. essa è veramente una proprietà italiana onde anche da sono, bonus e tali altri o semplici, facciamo uo, come suono, buono ec. siccome gli spagnuoli ue, che pur si risolve, o ritorna, in o sempre che l'accento non è sull'e, come da volvo buelvo e poi bolver ec. {V. p. 4008.} {+E anche quando la desinenza ec. in olus o ulus ec. non è diminutiva, noi ne facciamo sovente uolo {ec.} come da phaseolus, fagiuolo ec.} 5. Essa manca sempre in moltissime parole {italiane,} come in tanti verbi diminutivi o frequentativi ec. in olare de' quali ho detto altrove pp. 2280-81 pp. 1116-17 p. 1241, che sarebbe sproposito scrivere in uolare. Insomma essa giunta non è propria di questa tale italiana inflessione diminutiva derivante dal latino, ma è un accidente di pronunzia o di ortografia italiana o toscana, che ha luogo anche in infiniti altri casi alienissimi da questa inflessione, e che in questa medesima non ha sempre luogo ec. (10. Dec. dì della Venuta della S. Casa di Loreto. 1823.). {{V. p. 3984. 3992. 3993.}}

[3970,1]  Ho detto altrove pp. 2925-26 che male nelle nostre lingue spesso si usa per non, per particella privativa, ec. Questo è proprio particolarmente dell'antico delle nostre lingue, e fors'anche più in particolare, dell'antico francese. I francesi ora dicono mal-ora mé-, ch'è lo stesso (médire dir male), e così il nostro mis (misdire, misfare). Le quali particelle corrotte da mal e destinate alla composizione, ora significano veramente male, ora sono assolutamente negative o privative, come in mépriser, mépris, miscredente, misleale ec. Questa particella mis (o simile) collo stesso uso è anche comune agl'inglesi, il che conferma il sopraddetto, cioè ch'ella {+e così mal ec. ond'ella è corrotta,} fosse specialmente propria dell'antico delle nostre lingue, e particolarmente dell'antico francese. V. gli spagnuoli i quali se ne mancassero, sarebbero nuova prova di ciò, perchè lo spagnuolo non ha forse tanto tolto dal provenzale ec. quanto il nostro antico linguaggio, massimamente scritto ec. ec. {#1. Salvo sia sempre che mis ec. non si trovi essere di origine settentrionale, e di là venuta nell'inglese e nel francese ec.} (10. Dec. Festa della Venuta. 1823.).

[3978,4]  Fusa e fusi plur. lat. sostant. di cui altrove pp. 1180-82. Così locus - loci e loca. Il che è segno di un ant. locum. Così fusa di un fusum.  3979 Così, credo, altri nomi vi sono che hanno diversi generi o in ambo i numeri o in un solo, senza diversa significazione. Così caelus onde caeli, e caelum che oggi non ha plurale siccome il singolare di caelus è antiquato. (14. Dec. 1823.).

[3979,3]  Quanto alla {particella} negativa o privativa ne o nec per non, del che altrove pp. 2306. sgg. p. 3897, dà un'occhiata nel Forcellini a tutte le voci  3980 comincianti massimamente per ne, e così nello Scapula alle voci comincianti massimamente per νη e νε. (14. Dec. 1823.).

[3987,4]  A proposito dello spirito denso dei greci mutato in s ec. p. 1127 pp. 2195-96 si può notare lo spagn. sombra (coi derivati) cioè ombra da umbra. E forse qua spetta anche il francese sombre. V. il Gloss. ec. ec. (16. Dec. 1823.).

[3989,2]  Sculpter da sculpto - ptum. (16. Dec. 1823.).

[3990,3]  Teschio non è certamente altro che un testulum o testulus da testa per capo, mutato al solito l'ul in i, e il t in ch per proprietà della nostra lingua, massime antica e toscana che dice {p. e.} schiantare e stiantare, schiacciare e stiacciare, e mastio per maschio (mutando per lo contrar. il ch in t) ec. ec. Come da vetulus, vecchio, del che altrove {Puoi ved. la p. 3992. capoverso 3. e la p. 3753. marg.} così da testulum teschio; e se vecchio è da un veculus o contrazione di vetusculus ec. (e così viejo, vieil) nello stesso modo da testa potrà essersi fatto tesculum (come da vetus veculus) o teschio esser contrazione di testiculum ec. Testula si trova da testa femmin. Or avvi anche testum e  3991 testu neutro. V. Forc. E pel latino testa noi diciamo testo masch. V. il Gloss. i franc. spagn. ec. La parola teschio par che mostri che la voce testa nel volg. lat. si usava particolarmente per denotare il cranio ec. e ciò rende tanto più verisimile la metafora da testa (coccia) a testa (capo) e l'analogia ec. Siccome viceversa le cose da me dette p. 32 p. 3516 intorno a testa ec. confermano le presenti. Da teschio ben si può argomentare a testa e viceversa, essendosi già dimostrato con tanti esempi l'uso de' diminutivi in vece e nel senso appunto de' positivi in latino e nelle lingue moderne. Teschio o {{testulum}} dovette forse essere in principio un mero diminutivo positivato cioè significare il medesimo che testa preso o per capo o per cranio particolarmente ec. Del resto circa questa voce v. il Gloss. i francesi e spagnuoli ec. (17. Dec. 1823.).

[3997,1]  Al detto altrove pp. 2865-66 p. 3901 intorno all'uso dell'avv. spagn. luego aggiungi un esempio d'Ippocr. nel principio del {libello} de flatibus. Αὐτίκα γὰρ λιμὸς νοῦσος ἐστίν * Verbigrazia la fame si è un'infermità. * Scioccamente {la versione emendata dal} Mercuriale: Quare statim ubi fames molestat, morbus fit. * E più scioccamente quanto quel quare non può ragionevolmente aver relazione a niuna delle cose precedenti. (22. Dec. 1823.). {In simil senso di verbigrazia ec. o analogo a questo, mi par che si usi eziandio lo spagn. luego.}

[3998,3]  Al detto altrove pp. 2842-43 di gozar, aggiungi gozoso, cioè gaudiosus, quasi gavisosus. (24. Dec. Vigil. del Santo Natale. 1823.).

[4001,2]  Delle colonie greche in italia, sicilia ec. e antico commercio ec. greco in italia, avanti il dominio de' romani, la diffusione o formazione di quella lingua latina, che noi conosciamo, cioè romana ec. e del grecismo che per tali cagioni può esser rimasto nel volgare latino {in} quelle parti, e quindi ne' volgari moderni {+in quelle parti,} e quindi nel comune italiano eziandio, massime che la formazione e letteratura di questo ebbe principio in Sicilia e nel  4002 regno, come mostra il Perticari nell'Apologia, ec. ec., discorrasene proporzionatamente nel modo che altrove s'è discorso pp. 1014-16 p. 2655 delle Colonie greco - galliche, di Marsiglia ec. in rispetto ai grecismi della lingua francese non comuni al latino noto ec. (24. Dec. 1823. Vigil. del S. Natale.).

[4006,4]  Appellito as, apellidar ec. (30. Dec. 1823.).

[4008,5]  Al detto altrove pp. 2757-58 d'inopinus, necopinus ec. aggiungi odorus, il quale non mi sembra altro che contrazione di odoratus, e in fatti è voce propria de' poeti come le sopraddette ec. V. Forcell. (6. Gen. 1824.).

[4010,2]  Male per non ec. di cui altrove pp. 2925-26 p. 3970. V. il pensiero precedente e gli spagnuoli ec. (10. Gen. 1824.).

[4014,7]  Intorno al verbo italiano rotolare frequentativo o diminutivo ec. di rotare, (rotolone ec.) del quale mi pare aver detto altrove p. 1241, osservisi il francese rouler. Se questo verbo co' suoi molti derivati (o anche voci originarie e anteriori ad esso) di cui v. il Diz. e colla voce rôle {+e derivati} (ruotolo o rotolo) non vengono originariamente dall'italiano, {+come poi noi dal francese ruolo, arruolare ec.} ne segue che la diminuzione {latina} in ol {o ul} dovesse anche esser propria in certo modo del francese, non solo dell'italiano come s'è dimostrato altrove pp. 3969-70 pp. 3993-94 p. 4003, giacchè non pare che queste voci francesi vengano immediatamente dal latino. V. però Forcell. il Gloss. ec. Esse sono {certo} originariamente diminutive o frequentative ec. {+Rouler è frequentativo anch'oggi in certo modo ec.} (15. Gen. 1824.).

[4015,4]  Al detto altrove pp. 2843-45 p. 3928 di avvedere - avvisare ec. aggiungi divisar spagn. (D. Quij. par. 1. cap. 51. e v. i Dizionari)e nóta che noi {ec.} abbiamo anche divedere. {Desaguisar, desaguisado, aguisado ec.} E che il participio visus da cui {è} avvisare, divisare ec. (se non sono da viso sost. o da guisa - visa ec. come altrove p. 3005) e così avisar, aviser ec. è proprio solo del latino e non dell'italiano nè dello spagnuolo nè del francese. Abbiamo bensì anche avvistare da visto, nostro participio, o da avvisto pur nostro, se non è da vista sostantivo. (16. Gen. 1824.). Avvistato (ch'è però in altro senso da avvistare nella Crus.) par certo venire da vista, come svistare (uso ital.) da esso vista o da svista ec. (16. Gen. 1824.).

[4016,2]  Nascere per avvenire, grecismo proprio anche dell'antico latino, come in quello o fortunatam natam cioè γενομένην. V. Forcell. ec. È proprissimo dell'italiano. Fra i mille esempi, hassi nel Guicciardini lib. 1. t. 1. p. 111. edizione di Friburgo 1775-6. nata la perdita di San Germano, * cioè accaduta semplicemente. E in molti altri modi e casi si usa da noi il verbo nascere come il greco γίγνεσϑαι, p. e. nella frase di qui o da ciò o quindi nasce che ec. il, la ec. ἐκ τούτου γίγνεται o γίνεται. V. i franc. e gli spagn. e il Gloss. e i Less. greci. (16. Gen. 1824.). {{v. p. seg. [p. 4017,2].}} {Nascere per procedere, provenire ec. ne nacque un ec. questa cosa nasce, nacque da ec. ne nascerà ec. per alcune difficoltà nate nella consegnazione delle Fortezze, non era ancora partito * . Guicc. 1. 280. }

[4017,1]   4017 Grecismo dell'italiano. Lucian. Timon. opp. 1687. t. 1. p. 77-79 καὶ αὖϑις μὲν σκέψομαι, ἐπειδὰν τὸν κεραυνὸν ἐπισκευάσω∙ πλὴν ἱκανὴ * ἐν τοσούτῳ καὶ αὕτη τιμωρία ἔσται αὐτοῖς * , cioè in questo mezzo. Noi appunto in tanto, fra tanto, in quel tanto, in questo tanto ec. Vedi gli spagn. e i francesi. Qui ἐν τοσούτῳ viene a essere ἐν ὅσῳ (χρόνῳ) ὁ κεραυνὸς ἐπεσκευασμένος ἔσταί μοι. E di questo genere è ancora la propria significazione del nostro intanto, secondo i casi, e tale si è l'origine di questo modo di dire preso nel senso d'interea, interim. (17. Gen. 1824.). {{Esempi simili al riferito di Luciano non mancano.}} {{V. p. 4022.}}

[4022,3]  Bobo spagn. {co' derivati} aggiungasi, se v'ha punto che fare, al detto altrove pp. 2703-705 pp. 2811-13 di baubari ec. (26. Gen. 1824.).

[4023,2]  Alla osservazione del Mai p. 2657 sopra il modo in cui ne' codici è scritto il gn indicante esser più vera la pronunzia spagnuola, tedesca ec. cioè g-n, che l'italiana, osservisi, oltre il detto altrove pp. 1342-44, che molte voci latine o dal latino venute che hanno in latino il gn, in ispagnuolo si scrivono ñ, cioè pronunziansi gn all'italiana, come parmi aver detto altrove p. 3695 p. 3754 coll'esempio di cuñado (cognatus), a cui si può aggiungere leña (ligna) femin. eccetto se tali voci non son prese in ispagnuolo dall'italiano o dal francese piuttosto che dal latino a dirittura da cui hanno la prima origine. Infatti p. e. noi appunto diciamo legna femmin. nel senso spagnuolo, ed è voce propria nostra (lignum si dice in ispagnuolo altrimenti, cioè madera ec. come in francese bois ec.) e cuñado sta nel senso italiano per fratello o sorella della moglie o del marito ec. Ed è a notare che la maggior parte forse delle voci spagnuole derivanti dal latino e che in latino hanno il gn, si scrivono in ispagn. gn, pronunziando g-n, come digno, ignorante, magnifico (però tamaño e quamaño ec.) ec. ovvero n semplice per ellissi della n, che indica l'antica pronunzia spagnuola in quelle voci essere stata g-n e non all'  4024 italiana. (28. Gen. 1824.). {{Señal co' derivati ec. è dal latino o dall'italiano?}}

[4029,2]  Grecismo. Colla - κόλλα e κόλλη coi derivati e composti della voce ital. e della greca. E vedi Forc. Gloss. i franc. gli spagn. Potrebbe però essere stata tolta questa voce a dirittura dal greco, anche ne' bassi tempi, se si considera come assolutamente tecnica, ma ella è in verità, almeno oggi, di volgarissimo uso, come ciò che ella significa. (11. Feb. 1824.).

[4042,2]  Eὐϑὺς γενόμενος ec. Questa forma è propria del greco, ed usasi eziandio con molti altri avverbi o significanti il medesimo che εὐϑύς, o d'altro significato, come ἅμα, μεταξύ (i quali ricevono anche il participio presente, secondo la natura del loro significato, ed altri participii, oltre i passati) ec. ed è chiamata, se non erro, propria degli attici (benchè si trova anche in autori anteriori, per dir così, all'atticismo, come in Anacr. od. 33. εὐϑὺς τραϕέντες * , od. 55. εὐϑὺς ἰδών * ec.) - subito nato, dopo nato, appena nato ec. né à peine (vix natus) ec. despues de nacido ec. V. i Diz. franc. e spagn. e il Forcell. negli avv. corrispondenti a subito, dopo ec. simul ec. (8. Marzo. 1824.).

[4044,3]  Menare, portare, {tirare} ec. pel naso - τῆς ῥινὸς ἕλκειν * nello stesso senso. Lucian. Dial. Deor., Iov. et Iunon. t. 1. opp. 1687. p. 196. V. i Less. e la Crus. e il Forcell. e i francesi e gli spagnuoli (9. Marzo. 1824.). {{Nóta che Luciano lo usa come proverbio o modo di dire vulgato, colla voce ϕασὶ.}}

[4050,3]  Oὐκ ἔστι μαϑεῖν τοῦτο ῥᾴδιον, συνϑέτους δύ᾽ ὄντας ῾Ηρακλέας, ἐκτὸς εἰ μὴ ὥσπερ ἱπποκενταυρός τις ἦτε. * Lucian. in Dial. mort. Dial. Diog. et Herculis. Di questo italianismo del greco dico altrove p. 4035. (21. Marzo. 1824.). {{Vedilo ancora in Reviviscent. opp. 1687. t. 1. p. 393. V. p. 4054.}}

[4061,3]  In tanto, gr. ἐν τοσούτῳ, del che altrove p. 4017 p. 4022. Aggiungi intantochè, fra tanto, tra tanto (Guicc.) infra tanto, in quel tanto ec. E lo Spagn. en tanto que (Don Quij.), entre tanto ec. v. i Diz. spagn. V. pur la Crus. e i Diz. franc. (7. Aprile. 1824.) {{V. p. seg. [p. 4062,2]. En este entretanto * . D. Quij. Madrid 1765. t. 4. p. 244.}}

[4067,2]  Eὐϑὺς ἐν ἀρχῇ * . Lucian. opp. 1687. t. 1. p. 515. (9. Aprile, Venerdì di Passione. Festa di Maria SS. Addolorata. 1824.).

[4073,2]  Senza per oltre (vedi i franc. e gli spagn. i quali dicono anche nel senso stesso a men de, oltre di, e viene a essere il medesimo). {V. p. 4081.} Così i greci ἄνευ. V. Lucian. Ver. Hist. l. 1. opp. 1687. p. 647. t. 1 e lo Scap. in ἄνευ e ne' suoi sinonimi, e il Forcell. in absque che si usa per eccetto, ma ciò non è precisamente il medesimo. (19. Aprile 1824. Lunedì di Pasqua.).

[4075,1]  Percussare da percutio. Crusca. V. il Gloss. (20. Apr. 1824.)

[4088,6]  Eὐϑὺς ἐν ἀρχῇ τοῦ λόγου. * Lucian. opp. 1687. {t.} 1. p. 887. (15. Maggio. 1824.).

[4094,1]   4094 Periurus sembra esser contrazione di periuratus o peieratus che pur si trovano, benchè in altro senso (per peiero si disse anche periero e periuro). Così iuratus, coniuratus ec. in sensi analoghi. Exanimus e inanimus debbono esser contrazioni di exanimatus e inanimatus, che pur si trovano. Similmente semianimus di un semianimatus dal semplice animatus. Innumerus debb'esser contrazione di un innumeratus dal semplice numeratus, con significato d'innumerabilis, come invictus per invincibilis e tanti altri simili, di cui altrove p. 3949 p. 4016, e v. il Forc. in illaudatus. Queste contrazioni aggiungansi al detto pp. 2757-58 d'inopinus necopinus ec. dove si prova che anche in latino vi fu il costume di contrarre il participio della prima colla detrazione delle lettere at, costume frequentatissimo nell'italiano anche in voci per niente latine di origine. (27.-28. Maggio. 1824.).

[4095,4]  Ἔτι γὰρ τοῦτό μοι τὸ λοιπὸν ἦν ci mancherebbe questo. Idiotismo comune al greco e italiano. Lucian. opp. 1687. t. 1. p. 787. init. V. Crus. e Forcell. in supersum se hanno nulla. - παρ᾽ ὅσον in quanto che. V. Lucian. ib. 786. e lo Scap. ec. modo pur comune, e del quale o cosa simile ho detto anche altrove p. 4035. (31. Maggio. 1824.).

[4103,1]   4103 Tutto quanto, tutti quanti - πᾶν ὅσον, πάντες ὅσοι, μικρὸν ὅσον, {{μύριοι ὅσοι.}} ὀλίγοι ὅσοι, πλεῖστον ὅσον ec. ec. V. lo Scapula ec. ec. (20. Giugno. Domenica. 1824.).

[4105,1]  Dilettare - dileticare coi derivati ec. frequentativo o diminutivo alla latina, e può anche aggiungersi agli esempi delle forme frequentative italiane di verbi, da me altrove raccolte. Avvertasi però che ha un significato diverso da dilettare, e forse è corruzione di solleticare, e così diletico, che altrimenti sarà un diminutivo o frequentativo di diletto. {Farneticare.} (29. Giugno. Festa di S. Pietro. giorno mio natalizio. 1824.).

[4108,1]  Φρύσσω o ϕρύττω-frissonner. Notinsi in questo verbo due cose. La derivazione manifesta dal greco, e la forma diminutiva o frequentativa. (30. Giugno. 1824. Anniversario del mio Battesimo.)

[4110,4]  Al detto altrove p. 4046 pp. 4083-85 p. 4099 p. 4103 circa l'uso latino conforme all'italiano di usare pleonasticamente il pronome dativo sibi, v. anche il Forcell. in mihi, tibi, nobis e simili altri dativi di pronomi personali. (7. Luglio. infraottava della Visitazione di Maria Vergine Santissima. 1824.).

[4113,1]   4113 Entreabrir, entre oscuro (Cervantes loc. cit. qui dietro, p. 588.) e simili (v. il Diz. spagnuolo in entre ...) aggiungasi al detto altrove pp. 1071-72 dell'antico uso d'inter per fere ec., conservato ne volgari moderni. Così in francese entrevoir ec. ec. (16. Luglio. 1824.).

[4116,2]  Kαὶ τὸ δῆγμα λαϑραῖον, ὅσῳ * (in quanto che, cioè poichè ἐπεί) καὶ γελῶν ἅμα ἔδακνε. * Lucian. opp. 1687. t. 2. p. 236. (10. Agos. Festa di San Lorenzo Martire. 1824.).

[4135,4]  Φησί, ϕήσει, sottinteso τις, per ϕασί, ϕήσουσι. V. Toup. ad Longinum sect. 2. init. sect. 9. init. {+sect. 29. fin. 44. p. 234. fin.} dove non approvo le sue emendazioni.

[4136,1]  Aὐτίκα per luego. V. Toup. ad Longin. sect. 23. init.

[4138,1]   4138 Pauso as forse da un antico pauo o pavo (παύω, παύομαι), pausum. (7. Mag. 1825.).

[4141,1]   4141 Agresser, v. a. (verbe actif). Attaquer, être aggresseur. Jean Molinet, Dicts et faits notables, p. 125. * Articolo dell'Archéologie française par Charles Pougens, appendice à la suite de la lettre a. Paris 1821-25. tom. I. p. 48. (Bologna. 6. Ottobre. 1825.).

[4161,3]  Νικίας δ᾽ ὁ ζωγράϕος καὶ τοῦτο εὐϑὺς ἔλεγεν εἶναι τῆς γραϕικῆς  4162 τέχνης οὐ μικρòν μέρος, τὸ λαβóντα ὕλην εὐμεγέϑη γράϕειν. * Demetr. de Elocut. sect. 76. ed. Gale p. 53. (Bologna. 22. Dic. 1825.). Eὐϑὺς οὖν πρώτη ἐστὶ χάρις ἡ ἐκ συντομίας. * Ib. sect. 137. p. 85. (24. Dic. 1825.).

[4163,5]  Παραϕυλακτέον δὲ * (cavendum) καὶ τὸ παραλλήλους τιϑέναι τὰς πτώσεις * (pares casus) ἐπὶ διαϕόρων προσώπων∙ ἀμϕίβολον * (anceps, dubium) γὰρ γίνεται τὸ ἐπὶ τίνα ϕέρεσθαι, * a chi riferire i detti casi. Τheo sophist. Progymnasm. 2. hoc est de narrat. ed. Basileae 1541. p. 36. L'infinito usato in modo affatto italiano. (Bologna. 24. Gen. 1826.). {{V. p. seg. capoverso 3.}}

[4172,1]  Mando, mansum - mansare corrotto in mangiare, manger, manjar. V. Forc. e Gloss. Manducare (che noi dicemmo anche manicare, quasi mandicare) sembra un frequentativo di mandere, come fodicare di fodere ec. {+Credo però che l'u di manduco sia lungo. Del resto dello scambio dell'u coll'i, ho detto altrove pp. 3006-3007.}

[4173,6]  Sappiamo da Plinio che chiamavansi pernae dalla lor forma di presciutto alcune conchiglie frequentissime nelle isole Ponticae, o come altri leggono Pontiae. Da esse traevasi la madre perla: e questo nome italiano di perla non viene certamente da altro che da perna o pernula. * (Diminutivo positivato.) Amati, Iscrizioni antiche scoperte da non molto tempo, e meritevoli di esser poste a notizia de' dotti. (Articolo del Giornale arcadico, Roma Dicembre 1825. {N. 84.} tom. 28.) {num.} 25. p. 358. (Bologna 7. Aprile. 1826.).

[4179,3]  ᾽Aλλὰ τὶ καὶ λέσχης * (confabulationis) οἶνος * (i. e. potatio) ἔχειν ἐθέλει. * Ap. Athenęum. Vid. Casaub. animadvers. l. 1. cap. ult. init. Volere per dovere. (Bologna. 6. Maggio. 1826.). {{Non vogliono per non debbono. V. Rucellai, Api v. 621.}}

[4190,8]  Πρóτερον per potius, come noi prima, anzi, innanzi ec. {{Aristophan. Nub. v. 24. (Act. 1. sc. 1.).}} Dio Chrysost. Orat. 1. de Regno, init., p. 2. A. ed. Lutet. 1604. Morell.

[4193,1]  Ὅτι δὲ αὐτὸς * (ὁ Λουκιανός) τῶν μηδὲν ἦν ὅλως δοξαζóντων, καὶ τῷ τῆς βίβλου ἐπίγραμμα δίδωσιν ὑπολαμβάνειν · ἔχει γὰρ ᾧδε * . ec. Photius, Biblioth. cod. 128. - Dare a vedere, dare a conoscere, ad intendere ec. {{V. p. 4196. fin.}}

[4209,1]   4209 Plat, sost. e aggettivo, piatto, (ingl. flat.) (v. gli spagn.) - πλάτoς, πλατύς. Phot. Biblioth. cod. 186. ed. gr. lat. col. 444. πλατεῖ τῷ ξίϕει * οὐκ ἐϑέλοντα προιέναι, τύπτων τὰ νῶτα, ἤλαυνεν * lo cacciava innanzi per forza, non volendo egli andar oltre, battendogli la schiena colla spada piatta, col piatto della spada, a forza di piattonate, battendolo colla spada di piatto. (Bologna 2. Ott. 1826.). V. p. seg. [p. 4210,3]

[4217,2]  Mέδω, μέδομαι, μήδω, μήδομαι, μηδέω ec. (dei quali verbi dico altrove pp. 3352-60 , parlando di medeor, meditor ec.) debbono originariamente essere stati un verbo solo e medesimo, non pur tra di loro, ma eziandio con μέλω, μελέω, μέλομαι, μελέομαι, distinti solamente per la pronunzia, come δασύς - λασύς, {λάσιος} e come in ispagn. dexar (oggi si scrive dejar coll'iota, che risponde al nostro sci e al franc. ch) da laxare, lasciare, laisser, lâcher. Δάκρυον - lacrima.

[4218,1]  Nuovamente, novellamente, di novello, di nuovo, per di fresco, di poco, poco innanzi, poco fa - ᾽Ως δ᾽ ὅτε Πανδαρέoυ κoύρη χλορηῒς ἀηδὼν Καλòν ἀείδησιν ἔαρος νέoν ἱσταμένοιo. * {Odiss. τ. v. 518-9} {νεῶτα cioè νέον ἔτος- anno nuovo per prossimo venturo.} (Bologn. 14. Ott. 1826.)

[4223,1]  Ora, benchè il nostro rettorico abbia appena osservata e accennata di scorcio la vera causa, non si può negare che questa non sia una bella osservazioncella. E questa è forse quanto di buono o di notabile v'ha nel suo libro. (Bolog. 17. Ott. 1826.). {{v. p. 4224.}}

[4224,2]  Tondeo, tonsum - detonsare, tosare ec.

[4226,1]  Mία χελιδὼν ἔaρ οὐ ποιεῖ. * Fragm. Teletis ex commentario de comparatione divitiarum et paupertatis ap. Stob. serm. 95. σύγκρισις πενίaς καὶ πλούτoυ, ed. Basil. 1549. p. 522. V. Mannuccii Adagia, Venet. 1609. {col. 469}. - Una rondine non fa Primavera. V. la Crus. Proverbio greco passato nel volgare e popolare italiano.

[4228,2]  Ritorta - ritortola. {Primulus a um, e primulum per primus e primum avv. Osservisi che son voci dei Comici, cioè del dir volgare.}

[4232,2]  Reperito as. V. Forcellini.

[4234,2]  Uso di porre il g avanti la n (come in cognoso[cognosco], agnosco, agnatus, da nosco e natus), del quale in questi pensieri altrove p. 3695 pp. 3727-28 pp. 3754-55. V. Maffei Appendice all'Arte magica annichilata, opp. ed. del Rubbi, vol. 2. p. 320.

[4239,4]  Misceo, mixtus, misto - mestare (quasi da mesto per misto, come meschio per mischio, e meschiare, mescolare ec.) rimestare - mesticare (noi marchegiani diciamo più alla latina misticare, misticanza ec.); coi derivati.

[4241,1]   4241 Brancicare. Zoppicare.

[4245,4]  Attero, attritum - attritare, contritare. Crusca. V. Forcell. Gloss. ec.

[4250,2]  A vóto per frustra. - εἰς κενόν V. Casaubon. ad Athenae. l. 11. c. 6. sul mezzo.

[4259,4]  Entro a pochi dì, per fra pochi dì. Bartoli, Missione al gran Mogol, ed. Roma 1714. p. 72. Così diciamo dentro il termine di tanti giorni, e simili.

[4260,2]  Quanto, in quanto, per poichè, perocchè ec. - παρ᾽ ὅσον, ovvero ὅσον ec. V. un  4261 esempio di παρ᾽ ὅσον in questo senso, usato da Ateneo, ap. Casaubon. ad Athenae. l. 15. c. 2. verso il fine, e dallo scoliaste di Pindaro, ap. eumd. ib. c. 19. fin.

[4280,4]  Dico altrove p. 965 pp. 2869-75 che la moderna pronunzia francese distrugge ed annulla bene spesso l'imitativo che aveva il suono della parola in latino, {+e in cui spesso consisteva tutta la ragione di essa parola.} Il simile si dee dire di altre voci che la lingua francese ha da altre lingue che la latina, ovvero sue proprie ed originali. Miauler, miaulement {parole} espressive della voce del gatto, nella lor forma scritta (e però primitiva) hanno una perfettissima imitazione, nella pronunziata che ne rimane? Ognuno che abbia udito una sola volta il verso del gatto, sa che esso è mià e non miò; e dirà imitativo l'italiano miagolare (o sia questo originato dal francese, o viceversa, o l'  4281 uno e l'altro nati indipendentemente dalla natura), e corrotto affatto il franc. miauler, miaulement (noi diciamo miao o gnao, come anche gnaulare, e non già gnolare). Gli spagnuoli maullar o mahullar, maullido, maullamiento, mau. (16. Aprile. Lunedì di Pasqua. 1827.).

[4282,5]  ᾽Eν τούτῳ (cioè in questa, in questo, in questo mezzo). Dione Cass. ed. Reimar, p. 65. lin. 98. p. 192. lin. 5. (Recanati. 20. Apr. 1827.).

[4286,2]  Cuna, cunula, culla.

[4283,6]  Fra giorno, cioè di giorno, nel giorno, dentro giorno, dentro il corso del giorno.

[4288,1]   4288 Come ignotus, o notus per conoscente, così viceversa conoscente {spesso} per conosciuto; come: il dolor della morte degli amici e de' conoscenti ec. ec. (Firenze. 17. Sett. 1827.)

[4294,1]   4294 La differenza tra le voci di origine volgare, e quelle di origine puramente letteraria nelle lingue figlie della latina, si può vedere anche in questo, che spesso una stessissima voce latina, pronunziata e scritta in un modo nelle nostre lingue, significa una cosa; in un altro modo, un'altra, tutta differente, {+V. qui sotto.} P. e. causa lat., corrotta di forma e di significato dall'uso volgare, significa res (cosa: v. la pag. 4089.); usata incorrottamente nella letteratura e scrittura, significa, come nel buon latino, cagione. Ed è certo che causa ital. è voce, benchè ora volgarmente intesa, (non però usata dal volgo), di origine letteraria; poichè nel 300 non si trova, o è così rara, che i fanatici puristi de' passati secoli dicevano ch'ella non è buona voce toscana, ma che dee dirsi cagione, voce pure storpiata di forma e di senso dalla lat. occasio, che pur si usa poi nella sua vera forma e senso, come una tutt'altra (occasione), benchè in origine sia la stessa. Franc. chose - cause, Spagn. cosa - causa ec. (Firenze. 21. Sett. 1827.). {{Leale, loyal, leal (spagn.) - legale, légal, legal.}}

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