F, lettera.
F, letter.
1136,marg. 1139,1 1276,1 2069,1 2195,1 2242,1 2312,2 2321 2327,1 2744 4035,4 4290,2[1135,1] 2. Le diversissime relazioni ch'ebbero i popoli
greci con popoli stranieri d'ogni sorta, mediante il commercio, le guerre, le
colonie, le spedizioni d'ogni genere ec. ec. relazioni antichissime ed anteriori
a quei primi tempi che noi possiamo conoscere della lingua greca; relazioni che
hanno certo influito assaissimo su detta lingua, e moltiplicate le sue ricchezze
per l'una parte, per l'altra mandate molte sue {proprie ed
antichissime} radici in disuso, ed altre svisatene ed alteratene (V.
in questo proposito il luogo di Senofon. della lingua
Attica); recano altro gravissimo impedimento al nostro fine. Trattandosi
massimamente di relazioni con popoli le cui lingue sono quali del tutto
sconosciute, quali malissimo note. I latini ebbero altrettante e forse maggiori
relazioni con {forse} maggior numero di popoli, ma in
tempi più moderni. Il che 1.o diminuisce la difficoltà delle ricerche: 2.o la
lingua latina essendo già formata, anzi sul punto di essere la più colta del
mondo dopo la greca, (dico quando incominciarono
1136
le grandi ed estese relazioni de' latini cogli stranieri) era meno soggetta ad
esserne alterata, se non altro, nel suo fondo principale: 3.o Conoscendo noi
bastantemente i tempi della lingua latina anteriori a dette relazioni, le
alterazioni che poterono poi sopravvenire a essa lingua non pregiudicano alle
nostre ricerche, le quali riguardano gli antichissimi elementi di quella lingua
che si parlava quando Roma o non era ancor nata, o era
fanciulla. Infatti gli eruditi inglesi che hanno cercato di provare l'affinità
del sascrito colle lingue antiche Europee, sebben credono la greca derivata
dall'origine stessa che la latina, hanno tuttavia scelto piuttosto questa per le
loro osservazioni, dicendo che la penisola
d'Italia vorrà probabilmente riputarsi più
favorevole (della grecia) alla pura trasmissione della lingua originale, potendo essa essersi tenuta
più lontana dalla mescolanza di nazioni circonvicine, e di linguaggi
diversi. (Edinburgh Review. Annali di Scienze e
lett.
Milano 1811. Gennaio. n. 13. p. 38. fine.)
{+E si trova effettivamente maggiore
analogia fra certe voci ec. latine e sascrite, che fra le stesse greche e
sascrite, e pare che la lingua lat. ne abbia meglio conservate le prime
forme. L'H derivata dall'Heth dell'alfabeto fenicio, samaritano ed Ebraico,
il quale Heth era un'aspirazione densa o aspra (Encyclop. planches des
caractères) simile all'j spagnuolo (Villefroy), ha conservata nel latino la sua qualità di
carattere aspirativo, laddove è passata a dinotare una e lunga nel greco, dove antichissimamente era pur segno
d'aspirazione o spirito. La f {e il v} mancanti
all'alfabeto Fenicio (Encyclop. l. c.) mancarono pure come vedemmo
all'antico alfabeto latino.}
{{V. p. 2004.
2329. (e la p. 2371.
fine.}}
[1139,1]
Alla p.
1127. E lo pronunziavano così leggermente, che ora sebbene ne resta un
vestigio nella scrittura, convertito nel segno dell'aspirazione, è svanito però
deltutto dalla pronunzia, anche come semplice aspirazione. {+Similmente i francesi, per quello che noi diciamo fuori o fuora e gli
spagnuoli fuera dal lat. foras, o foris, dicono hors, aspirando però l'h. In luogo di voce i Veneziani dicono ose dileguato il v.} Il ϕ greco,
non è, come si sa, che un π aspirato, come si vede anche nelle mutazioni
gramaticali e sostituzioni dell'una di tali lettere all'altra. Mancava, come si
dice, al primitivo alfabeto greco detto Cadmeo o Fenicio, e vi fu aggiunto, come
dicono, da Palamede
(Plin.
7. 56.)
{+insieme col χ e col θ che sono un κ ed
un τ aspirati (Servius
ad Aen. 2. vers.
81.).}
V. Fabric.
B. G. 1. 23. §. 2.
{e il
Lessico dell'Hofmanno, v. Literae.}
È anche probabile che mancasse all'Alfabeto ebraico e che il פ non fosse che
un p, {lettera che oggi manca a
detto alfabeto. V. p.
1168.} L'alfabeto {chiamato} Devanagari
ossia quello della lingua sascrita, {(dalla
quali[quale] alcuni dotti inglesi fanno
derivar la latina)} sebbene composto di 50 lettere, manca della f, e invece {la detta lingua}
adopera un b, {o un p} aspirati. (Annali di Scienze e
lettere. Milano 1811. N. 13. p.
43.) ec. ec. (5. Giugno 1821). {{Considera ancora il nome greco di
Giapeto, da Jafet, ebreo o fenicio
ec.}}
[1276,1]
1276 Voglio portare in conferma di ciò un altro
esempio, oltre ai già riferiti, per mostrare quanto giovino i lumi archeologici
alla ricerca delle antichissime radici. Silva è radice
in latino, cioè non {nasce} da verun'altra parola
latina {conosciuta.} Osservate però quanto ella sia
mutata dalla sua vecchia {e forse prima} forma. ῞Yλη è
lo stesso che silva per consenso di quasi tutti gli
etimologi. Or come la parola latina ha una s e un v davantaggio che la greca? Quanto alla s vedi quello che ho notato altrove p.
1127, vedi Jul. Pontedera
Antiquitt. Latinn. Graecarumq. Enarrationes
atque Emendatt. Epist. 2. Patav. Typis
Seminar. 1740. p. 18. (le due prime epistole meritano di esser lette
in questi propositi archeologici della lingua latina) ed ella è cosa già nota
agli eruditi. {+Nelle stesse antiche
iscrizioni greche si trova sovente il sigma
innanzi alle parole comincianti per vocale, in luogo dell'aspirazione. Anzi
questa scrittura s'è conservata in parecchie delle stesse voci greche, (come
nelle latine): p. e. σῦκον pronunziavasi da principio ὗκον o ὖκον
coll'aspirazione aspra o dolce, giacchè gli Eoli ne fecero Ⅎῦκον e i latini
ficus. V. l'Encyclop. in S.} Quanto al v ecco com'io la
discorro.
[2069,1]
Alla p. 1126.
marg. Quanto sia vero che il v è stato
sempre, per natura della pronunzia umana, almeno ne' nostri climi, o considerato
o confuso con una aspirazione, e questa lieve, si può vedere nella lingua
italiana che spesso lo ha tolto via affatto o dalle parole derivate dal latino,
o da altre. E in quelle stesse dove lo ha conservato, la pronunzia volgare
spessissimo lo sopprime, e spesso anche la scrittura, come nella parola nativo dal latino nativus,
che noi scriviamo indifferentemente natío, ed in molte
altre simili, latine o no, che o si scrivono indifferentemente in ambo i modi, o
sempre senza il v che prima avevano, come restío, che certo da prima si disse restivo, o restivus. {
Giulío per giulivo, Poliz. l. 1. Stanza 6. v. 4. Bevo, beo, bee ec. Devo
deve, deo
dee ec. V.
le gramatiche, e fra gli altri il Corticelli.
Paone, pavone ec.}
Viceversa il popolo molte volte in queste o altre
2070
voci, inserisce o aggiunge comunque, quasi per vezzo, il v, che non ci va, massimamente fra due vocali, per evitare l'iato, al modo appunto del digamma eolico, ch'io dico
esser lo stesso che l'antico v latino. Del resto come
i latini dicevano audivi e audii ec. ec. così è solenne proprietà della nostra lingua il poter
togliere il v agl'imperfetti della 2. 3. e 4.
congiugazione e dire tanto udia, leggea, vedea quanto udiva, leggeva, vedeva (cioè videbat ec. essendo il b latino un v presso noi in
tali casi, come lo era spesso fra' latini, e viceversa, e come tra gli spagnoli
queste due lettere, e ne' detti tempi e sempre si confondono.) Particolarità
analoghe a queste che ho notate nella lingua italiana, si possono anche notare
nella francese e più nella spagnola. Siccome l'analogia fra la f e il v si può notare nel
francese vedendo dal masc. vif farsi il fem. vive ec. ec. (7. Nov. 1821.).
[2195,1]
2195
Alla p. 1127. prima
del mezzo. Altri esempi di ciò gli ho notati altrove p.
983
p. 1127, altri se ne ponno vedere nell'Encycl.,
Grammaire, non mi ricordo a quale articolo, ma credo
all'H. presi da Prisciano, altri p. 1276. e quivi in marg. A' quali tutti aggiungi sulcus fatto da ὅλκος (tractus), che però
dovette da prima dirsi solcus, come volgus, volpes, come solpur per sulphur
pretende il Pontedera, come forse per lo contrario supnus o sumnus ec. Questa
etimologia di sulcus da ὅλκος è riconosciuta dal Forcell. Vedilo in principio di Sulcus. V. anche sisto
p. 2143. fine-seg.
[2242,1]
Alla p. 1128. sotto
il principio. Volete ancora vedere la fratellanza e il facile scambio
tra la f e il v? Osservate
il nostro schifare e schivare che son lo stesso, e non si sa qual de' due sia il vero, se
non che schifare può sostenersi col sostantivo schifo che forse è sua radice (Crus.
Schifo add. §. 3.), e che non si dice schivo; così schifezza ec.
(10. Dic. 1821.).
[2312,2] Non so se possa fare al caso l'osservare che noi
diciamo filo per nulla, il
che potrebbe derivare non da filum, ma da hilum, mutato l'h in f, come viceversa gli spagnuoli, onde appunto per filum dicono hilo. E
ricordati di quanto ho detto p. 1127 circa l'antica proprietà
della f, cioè di essere aspirazione. Del resto v. la
Crusca, il Glossar.
i Dizionari francesi e spagnoli ec. e il Forc. in filum, se avesse nulla. (30. Dic. 1821.)
[2320,1] Altra prova e dell'usanza latina di pronunziar più
vocali in modo di una sola sillaba, e dell'essere stato originariamente il v latino una semplice aspirazione, e questa essere
stata leggera (come l'h), {+e della dissillabìa della 1. e 3. persona sing. perfetta
indicativa delle congiugazioni 1. e 4. ec. ch'è appunto quello che s'ha a
dimostrare,} e della somiglianza tra l'antichissimo latino
conservatosi nel volgare, e le moderne figlie del latino; eccola. Amaverunt, amaverat ec. si diceva spessissimo
2321
amarunt, amarat ec. Donde venne questa contrazione
usualissima? Le contrazioni non nascono già, e molto meno diventano comunissime
(più spesso troverete amarunt che amaverunt ec.) senza una ragione di pronunzia. Anticamente si disse
amaerunt, amaerat trisillabe, senza però che l'ae si pronunziasse e, ma
sciolto. Poi coll'aspirazione eufonica, per fuggire l'iato si disse ec. amaϝerunt. Ma il volgo continuò a considerarli come
trissillabi; e perciò saltando facilmente una lettera, e conservando la parola
trisillaba, disse amarunt, amarat ec. {+E non fece caso dell'aspirazione (ossia
del v) non più di quello che in nil per nihil ec. V. disopra.} Che il volgo solesse
pronunziare così contratto piuttosto che sciolto lo dimostra il nostro amarono, amaron, aimerent. (E quanto ad amarat vedi la p. 2221. fine - segg. ) Quest'uso essendo comune a tutte
tre le lingue figlie, dimostra un'origine comune cioè il volgare latino. E
viceversa le dette considerazioni provano che detto uso moderno, è di
antichissima origine, e proprio (forse esclusivamente dell'altro) del volgare
latino, com'era pur
2322 proprio della scrittura, e lo
fu, sino ab antico, per sempre.
[2327,1]
Alla p. 1128.
principio. Da chef (come da cabo acabar in ispagnuolo e noi
pure diciamo condurre ec. a capo,
venire a capo ec.) si fa in francese achever mutata la
f in v. Scambio (come
altrove
2328 ho detto {cioè p. 2070.
fine,}) frequentissimo anche in francese, e
frequentissimo per regola come nel caso addotto, e non già per arbitrio, come
schifare che si può dire ugualmente schivare. (4. Gen. 1822.). {+Da clavis
clef, da cervus
cerf, da nervus
nerf, ec. ec. ec. Cioè tolta la desinenza al
solito, in vece di pronunziare nerv,
pronunziarono nerf ec.}
[2740,1] Per esempio d'uno dei tanti modi in cui gli
alfabeti, ch'io dico esser derivati tutti o quasi tutti da un solo, si
moltiplicarono e diversificarono dall'alfabeto originale, secondo le lingue a
cui furono applicati, può servire il seguente. Nell'alfabeto fenicio, ebraico,
samaritano ec. dal quale provenne l'alfabeto greco, non si trova il ψ, carattere
inutile perchè rappresenta due lettere; inventato, secondo Plinio, da Simonide; proccurato vanamente dall'Imperatore Claudio d'introdurre nell'alfabeto latino, che parimente
ne manca, sebbene derivi dall'origine stessa che il greco; e in luogo del quale
si trovano negli antichi monumenti greci i due caratteri π σ. {+(Secondo i grammatici il ψ vale ancora βσ e ϕσ; ma
essi lo deducono dalle inflessioni ec. come ἄραψ ἄραβος, ἄραβες ἄραψι
ec. Non so nè credo che rechino alcun'antica inscrizione ec.)
V. p. 3080.}
Ora ecco come dev'esser nato questo carattere che distingue l'alfabeto greco dal
fenicio. Nella lingua greca,
2741 per proprietà sua, è
frequentissimo questo suono di ps: ed ogni lingua ha
di questi suoni che in lei sono più frequenti e cari che nelle altre. Gli
scrivani adunque obbligati ad esprimerlo bene spesso, incominciarono per fretta
ad intrecciare insieme quei due caratteri π σ ogni
volta che occorreva loro di scriverli congiuntamente. Da quest'uso, nato dalla
fretta, nacque una specie di nesso che rappresentava i due sopraddetti
caratteri; e questo nesso che da principio dovette conservare parte della forma
d'ambedue i caratteri che lo componevano, adottato generalmente per la comodità
che portava seco, e per la brevità dello scrivere, appoco appoco venne in tanto
uso che occorrendo di scrivere congiuntamente il π e
il σ, non si adoperava più se non quel nesso, che
finalmente per questo modo venne a fare un carattere proprio, e distinto dagli
altri
2742 caratteri dell'alfabeto, destinato ad
esprimere in qualunque caso quel tal suono: ma destinato a ciò non
primitivamente, nè nella prima invenzione o adozione dell'alfabeto greco, e
nella prima enumerazione de' suoni elementari di quella lingua o della favella
in genere; ma per comodità di quelli che già si servivano da gran tempo del
detto alfabeto. Di modo che si può dire che questo carattere non sia figlio del
suono ch'esso esprime, come lo sono quelli ch'esprimono i suoni elementari, ma
figlio di due caratteri preesistenti nell'alfabeto greco, e quindi quasi nepote
del suono che per lui è rappresentato. La grammatica e le regole dell'ortografia
ec. non esistevano ancora. Venute poi queste, e prendendo prima di tutto ad
esaminare e stabilire l'alfabeto nazionale, trovato questo nesso già padrone
dell'uso comune, e sottentrato in luogo di carattere distinto {e} non doppio
2743 ma unico, lo
considerarono come tale, gli diedero un posto proprio nell'alfabeto greco tra i
caratteri elementari, e fissarono per regola che quel tal suono ps si esprimesse, come già da tutti si esprimeva, col
ψ, e non altrimenti. Ed eccovi questo nesso,
introdotto a principio dagli scrivani per fretta e per comodo; non
riconoscendosi più la sua origine, o anco riconoscendosi, ci viene nelle
grammatiche antiche e moderne come un carattere proprio dei greci, e come uno
degli elementi del loro alfabeto. Lo stesso accadde allo ξ, che non è fenicio, introdotto come nesso per rappresentare due
caratteri, cioè γσ, o κσ,
{+o χσ}: e ciò
per essere questi suoni, frequentissimi nella lingua greca, siccome anche nella
lingua latina, nel cui alfabeto pertanto ha pure avuto luogo questo medesimo
nesso, considerato come carattere. In luogo del quale gli antichi greci
scrivevano γσ, o κσ. Lo
stesso dicasi
2744 del ϕ,
carattere (originariamente nesso) che non si trova nell'alfabeto fenicio
(perciocchè il ף
{+o פ} è veramente il Π, {+lat. P, giacchè l'Ϝ è il digamma eolico)}, e
che fu introdotto in vece del ΠH che si trova negli antichi monumenti greci,
dove pur si trova il KH in vece del X, carattere non fenicio. Questi due suoni
composti, anzi doppi, ph e ch, frequentissimi nella lingua greca, non si udivano nella latina.
Dunque l'alfabeto latino non ebbe questi due segni. I tre caratteri ξ, ϕ, χ
s'attribuiscono presso Plinio (7. 56.) a Palamede, aggiunti da lui all'alfabeto Cadmeo o
Fenicio. Lo stesso dite dell'ω, che s'attribuisce presso il medesimo a Simonide ec.
[4035,4] Σίλλος, σίλλοι o σιλλοί si fa derivare da ἴλλος occhio
παρὰ τὸ διασείειν τοὺς
ἴλλους
*
. V. Scap. e
Menag. ad Laert. in Timon.
IX. 111. Consento che venga da ἴλλος, ma non che ci abbia a fare il
σείειν, formazione d'altronde molto inverisimile. Io credo che σίλλος sia lo
stesso affatto che ἴλλος in origine, aggiuntoci il sigma in luogo dello spirito,
benchè lene, all'uso latino circa lo spirito denso e al modo che gli Eoli
usavano il digamma, ossia il v latino (e quindi i
latini il v) in vece anche dello spirito lene, nel
principio delle parole. Veggasi il detto altrove p. 1276
p. 3815 di σῦκον ch'io credo essere venuto da un ὗκον o ὖκον. Da σίλλος occhio la metafora trasportò il significato a derisione ec. quasi dicesse, come diciamo noi, occhiolino ec. onde σιλλαίνειν sarebbe quasi far l'occhiolino, in
senso però di deridere ec. La metafora è naturale,
perchè il riso generalmente, ma in ispezieltà la derisione risiede e si esprime
cogli occhi principalmente e molte volte con essi unicamente. (22.
Febbraio. 1824. Domenica di Sessagesima.).
[4290,2] Io non credo vero quel che dicono i critici che gli
antichi, p. e. Ebrei, Greci, Latini Orientali ec. non avessero nelle loro lingue
il suono del v consonante, ma solo l'u vocale. Credo che il vau
dell'alfabeto ebraico non sia veramente altro che un uau o u, credo che gli antichi latini non
avessero segno nel loro alfabeto per esprimere il v
consonante, e che il V non fosse in origine che un u;
ma con ciò non si prova altro se non che gli antichi non ebbero il v nel loro alfabeto, il che non prova che non
l'avessero nella lingua. Considerato come un'aspirazione (non altrimenti che
l'f, il quale ancor manca negli antichi alfabeti,
giacchè il fe ebraico fu anticamente pe, e il ϕ greco è una lettera aggiunta all'alfabeto
antico, {e} considerata come doppia o composta, cioè di
π e di Η, ossia come un π aspirato), esso v, per
l'imperfezione degli antichi alfabeti, mancò di segno proprio, giacchè non si
ebbe bastante sottigliezza per separarlo dalle lettere su cui esso cadeva, per
avvedersi che esso era un suono per se, un elemento della favella. Perciò da
4291 principio esso non fu scritto in niun modo, come
nel lat. amai per amavi; poi
scritto come aspirazione, digamma ec. p. e. amaFi ec.;
finalmente, sempre privo di segno proprio, esso fu scritto con quel medesimo
segno che serviva all'u, ond'è avvenuto che nel latino
maiuscolo il V sia ora vocale ora consonante, e così l'u nel latino minuscolo, la qual confusione dura ancora, non ostante
che i moderni abbiano fatto di quest'u due caratteri,
u e v; giacchè si vede,
ciò non ostante, nei dizionari l'u e il v considerarsi come un solo elemento diversamente
modificato, ed abbiamo e impariamo fin da fanciulli la irragionevole distinzione
tra u vocale e u consonante,
distinzione che non ha ragione alcuna naturale, ma solo storica ec. ec. Il
simile dirò dell'f ec. ec. (20. Sett. 1827.
Firenze.)
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