1. Gen. 1822.
[2316,2]
Alla p. 2250.
marg.
Nihil, vehemens ec. sono
adoperati più volte da' poeti quello come monosillabo, questo come dissillabo
ec. V. il Forcellini. Così Nihilum dove appunto devi vedere
il Forcell. in
fine della voce. E quel fare di nihil nil,
di vehemens vemens
(v. il Forc.
Vehemens fine), di prehendo prendo ec. cose usitate nelle buone scritture latine anche in
prosa, che altro significa se
2317 non che quelle
vocali successive, benchè secondo le regole della prosodia si considerassero per
altrettante sillabe, nondimeno nella pronunzia quotidiana equivalevano o sempre
o bene spesso a una sola? Altrimenti queste tali contrazioni sarebbero state
sconvenientissime: e come poi sarebbero elle venute in uso generale, anche
presso chi non ne aveva bisogno (quali erano i prosatori), come nil detto indifferentemente per nihil? Ed osservate che qui v'è anche di mezzo l'aspirazione ch'è
quasi una consonante, ed oggi la pronunziano per tale. E nondimeno le dette
vocali si tenevano per componenti una sola sillaba, e così si pronunziavano.
(Come appunto ne' nostri antichi poeti, anche, se non erro, nel Petrarca, noja,
gioia ec. monosillabi, Pistoia dissillabo ec.
e così mostra che si pronunziassero.) Mihi parimente
si contraeva nelle scritture, e massime ne' poeti, in mi. {+E non è apocope come dice
il Forcell. ma contrazione, come nil ec.} Che dirò di eburnus per
eburneus e di tante altre simili contrazioni di
più vocali; mediante le quali contrazioni
2318
(autorizzate dall'uso) il considerar quelle vocali come formanti una sola
sillaba diveniva alla fine affatto regolare (in ogni genere di scrittori) e
conforme alle stesse regole della prosodia? Non dimostra ciò quello ch'io dico?
{+
Queis monosillabo, o così scritto o contratto in
quis, non è posto fra i dittonghi latini. V.
il Forcell. e la Regia Parn. L'i
terminativo dei nominat. plur. 2. declinazione ch'è sempre lungo dovette
esser da prima un dittongo, come l'οι greco nei corrispondenti nominativi
plurali della 3za.} Lascio stare i nomi greci, dove quelli che in
greco sono dittonghi, a talento del poeta latino ora diventano dissillabi ec.
ora monosillabi come Theseus, Orphea, Orphei dativo, ec. Nè solo i nomi, ma ogni sorta di
parole.
[2318,1] Lascio ancora che l'ablativo della prima
declinazione singolare, da principio, e forse sempre {a'
buoni tempi,} si pronunziò (cred'io, e v. i gramatici) coll'a doppia, (musaa, o musâ) e pur fu sempre considerata quell'a come monosillaba. E che si pronunziasse coll'a doppia me ne fa fede il veder che se ciò non fosse,
molte volte ne' poeti si troverebbe una brutta cacofonia e consonanza, quando
tali ablativi concorrono con altre parole terminate in a, ch'è frequentissimo. Lascio l'antica scrittura di heic per hic, sapienteis,
sermoneis ec. ec. dove l'ei fu pur
2319 sempre avuto per monosillabo. {+Lascierò ancora che tutte o quasi tutte le contrazioni
usitate in latino, o per licenza o per regola, dimostrano il costume di
pronunziar più vocali in una sola sillaba. P. es. Deum,
virum per deorum, virorum, venne dal
costume di elidere la r, onde deoum, viroum, dissillabi, e quindi deum,
virum, genitivi contratti, forma usitatissima specialmente presso
gli antichi, più conformi al volgare. V. p. 2359. fine.}
[2319,1] Ma il vedere che i latini poeti per costumanza
regolare, tanto che il contrario sarebbe stato irregolare (come in quel di Virgilio
fœmineo
ululatu
*
) elidevano costantemente l'ultime vocali delle parole
seguite da altre parole cominciãti[comincianti] per vocale, e ciò anche da un verso all'altro spesse
volte (come in Orazio
animumque moresque
Aureos educit in astra, nigroque
Invidet Orco
*
ec. e in Virg.
Georg. 2. 69. Inseritur vero et foetu nucis arbutus horrida: Et steriles
platani
*
ec. ec.); e non solo le vocali, ma anche
le sillabe am, em, im, um; e sì le vocali che queste
sillabe le elidevano anche seguendo una parola cominciante per vocale aspirata
(come Virg.
Georg. 3. 9. Tollere
humo
*
: v. p. 2316.-17); e non solo elidevano una vocale, ma
anche più d'una ec. tutto ciò non dimostra evidentemente che l'indole della
pronunzia latina formava in fatti una sola sillaba delle vocali concorrenti?
Giacchè questo solo vuol dire eliderle:
non già ch'esse
2320 nella pronunzia si tacessero (ciò
forse avveniva alla sola m in simili casi); altrimenti
non le avrebbero scritte, ma posto in luogo loro l'apostrofo, come facevano i
greci quando le elidevano in verso o in prosa, che quando non ponevano
l'apostrofo in luogo loro, non le elidevano mai; e come gli stessi latini
ponevano l'apostrofo in luogo di quelle vocali o consonanti che non s'avevano
effettivamente da pronunziare, come aiu', Sisyphu',
confectu' ec. o non ponendo l'apostrofo, tralasciavano di scriver
quelle lettere che non s'avevano da pronunziare, come appunto la s in ain' per ais ne, ec. ec.
[2320,1] Altra prova e dell'usanza latina di pronunziar più
vocali in modo di una sola sillaba, e dell'essere stato originariamente il v latino una semplice aspirazione, e questa essere
stata leggera (come l'h), {+e della dissillabìa della 1. e 3. persona sing. perfetta
indicativa delle congiugazioni 1. e 4. ec. ch'è appunto quello che s'ha a
dimostrare,} e della somiglianza tra l'antichissimo latino
conservatosi nel volgare, e le moderne figlie del latino; eccola. Amaverunt, amaverat ec. si diceva spessissimo
2321
amarunt, amarat ec. Donde venne questa contrazione
usualissima? Le contrazioni non nascono già, e molto meno diventano comunissime
(più spesso troverete amarunt che amaverunt ec.) senza una ragione di pronunzia. Anticamente si disse
amaerunt, amaerat trisillabe, senza però che l'ae si pronunziasse e, ma
sciolto. Poi coll'aspirazione eufonica, per fuggire l'iato si disse ec. amaϝerunt. Ma il volgo continuò a considerarli come
trissillabi; e perciò saltando facilmente una lettera, e conservando la parola
trisillaba, disse amarunt, amarat ec. {+E non fece caso dell'aspirazione (ossia
del v) non più di quello che in nil per nihil ec. V. disopra.} Che il volgo solesse
pronunziare così contratto piuttosto che sciolto lo dimostra il nostro amarono, amaron, aimerent. (E quanto ad amarat vedi la p. 2221. fine - segg. ) Quest'uso essendo comune a tutte
tre le lingue figlie, dimostra un'origine comune cioè il volgare latino. E
viceversa le dette considerazioni provano che detto uso moderno, è di
antichissima origine, e proprio (forse esclusivamente dell'altro) del volgare
latino, com'era pur
2322 proprio della scrittura, e lo
fu, sino ab antico, per sempre.
[2322,1] Gli stessi motivi mi fanno credere che p. es.
trovando noi nelle tre lingue figlie amammo, amamos,
aimâmes, si debba concludere che il volgo latino diceva parimente amamus contratto per amavimus, come abbiamo veduto ch'egli diceva amai (che gli spagnoli e i francesi dicono aimai, amè mutato l'ai in e); e come pur diceva amasti, amastis per amavisti ec. (del che discorrete come sopra) onde amasti amaste, amaste amastes, aimas aimâtes
(anticamente aimastes.). (1. Gen.
1822.).