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Infinito, usato da' Greci per l'imperativo.

Infinitive, used in place of the imperative by the Greeks.

2686,3 3967,1 4087,7

[2686,3]  Usano i buoni scrittori greci elegantemente l'infinito dei verbi in luogo della seconda e della terza persona dell'imperativo. Tοῦτο ποιεῖν invece di τοῦτο ποίει σύ, o di τοῦτο ποιείτω  2687 ἐκεῖνος, o di τοῦτο ποιείσϑω (hoc fiat) o di τοῦτο ποιητέον o di τοῦτο ποιεῖν δεῖ la quale ultima parola si sottintende in questa formola ellittica di τοῦτο ποιεῖν. Simile a quest'uso è quello degl'italiani di usare l'infinito in vece della seconda persona singolare dell'imperativo, quando precede una particella negativa ossia vietativa. Non fare, non dire per non fa, non dì. Il qual uso viene dal comune rustico romano, ossia da quella lingua in cui degenerò il latino d'europa ne' bassi tempi, che si parlò in tutta l'Europa latina, e da cui nacquero le lingue italiana, francese, spagnuola, portoghese, e i loro dialetti. V. il Perticari, Apologia di Dante p. 170. Ma quest'uso {figurato} è rimasto ai soli italiani, benchè già fosse proprio anche dei provenzali, come dimostra il Perticari, loc. cit. I greci dicevano ancora μὴ τοῦτο ποιεῖν per μὴ τοῦτο ποίει. Così ancora invece delle seconde e terze persone imperative plurali, cioè invece di μὴ τοῦτο ποιεῖτε o ποιείτωσαν. {+V. Senofonte Πόροι, c. 4. num. 40. Platon. Sophist. t. 2. Astii p. 346. v. 11. E.} (12. Maggio 1823.).

[3967,1]   3967 L'infinito per l'imperativo, del che altrove pp. 2686-87. Hippocrates in fine libri de aere aquis et locis. ᾽Απὸ δὲ τουτέων τεκμαιρόμενος, τὰ λοιπὰ ἐνϑυμέεσϑαι, καὶ {οὐχ} ἁμαρτήσῃ. * Sono le ultime parole del libro. (10. Dec. dì della Venuta della S. Casa. 1823.). {Questo modo è frequentissimo in Ippocrate da per tutto, come precettista ch'egli è.}

[4087,7]  Non è forse cosa che tanto consumi ed abbrevi o renda nel futuro infelice la vita, quanto i piaceri. E da altra parte la vita non è fatta che per il piacere, poichè non è fatta se non per la felicità, la quale consiste nel piacere, e senza di esso è imperfetta la vita, perchè manca del suo fine, ed è una continua pena, perch'ella è naturalmente e necessariamente un continuo e non mai interrotto desiderio e bisogno di felicità cioè di piacere. Chi mi sa spiegare questa contraddizione in natura? (11. Maggio. 1824.).

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