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12. Maggio 1823.

[2686,3]  Usano i buoni scrittori greci elegantemente l'infinito dei verbi in luogo della seconda e della terza persona dell'imperativo. Tοῦτο ποιεῖν invece di τοῦτο ποίει σύ, o di τοῦτο ποιείτω  2687 ἐκεῖνος, o di τοῦτο ποιείσϑω (hoc fiat) o di τοῦτο ποιητέον o di τοῦτο ποιεῖν δεῖ la quale ultima parola si sottintende in questa formola ellittica di τοῦτο ποιεῖν. Simile a quest'uso è quello degl'italiani di usare l'infinito in vece della seconda persona singolare dell'imperativo, quando precede una particella negativa ossia vietativa. Non fare, non dire per non fa, non dì. Il qual uso viene dal comune rustico romano, ossia da quella lingua in cui degenerò il latino d'europa ne' bassi tempi, che si parlò in tutta l'Europa latina, e da cui nacquero le lingue italiana, francese, spagnuola, portoghese, e i loro dialetti. V. il Perticari, Apologia di Dante p. 170. Ma quest'uso {figurato} è rimasto ai soli italiani, benchè già fosse proprio anche dei provenzali, come dimostra il Perticari, loc. cit. I greci dicevano ancora μὴ τοῦτο ποιεῖν per μὴ τοῦτο ποίει. Così ancora invece delle seconde e terze persone imperative plurali, cioè invece di μὴ τοῦτο ποιεῖτε o ποιείτωσαν. {+V. Senofonte Πόροι, c. 4. num. 40. Platon. Sophist. t. 2. Astii p. 346. v. 11. E.} (12. Maggio 1823.).