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Editorial Annotations:

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[1104,1]   1104 Il verbo spagnuolo traher o traer che è manifestamente il trahere latino, si adopra alcune volte in significati somigliantissimi a quelli del latino tractare, e de' suoi composti attrectare, contrectare ec. Come traer con la mano, traer entre las manos e simili. Significati ed usi che non hanno niente che fare coi significati o usi noti del latino trahere, nè con quelli dell'italiano trarre o tirare (ch'è tutt'uno), nè del francese tirer. {+Traher vale alle volte dimenare e muovere dice il Franciosini in traher. Ora per dimenare appunto {o in senso simile} si adopra spesso il verbo tractare, o l'italiano trattare, come in Dante ec. v. la Crusca in Trattare e specialmente §. 5.} Ora io penso che questi significati gli avesse antichissimamente il verbo trahere, perduti poi nell'uso dello scrivere, e conservati però nel volgare, sino a passare ad una lingua vivente, figlia d'esso volgare. Ecco com'io la discorro.

[1504,1]  Ogni volta che si troverà citato in questi fogli il Du Cange, Glossario latino-barbaro, si avverta che nella mia edizione, non è tutto del Du Cange. Vi sono parecchie giunte e correzioni de' Monaci Maurini editori, contrassegnate nei modi che si specificano nella loro prefazione p. 8. dopo il mezzo. (15. Agosto, dì dell'Assunzione di Maria Santissima. 1821.).

[1970,3]  In tutte le congiugazioni, anzi in tutti i verbi di tutte tre le lingue figlie della latina, la caratteristica inseparabile dal futuro indicativo si è la r. Al contrario nelle congiugazioni latine che noi conosciamo, nel cui futuro indicativo la r non è mai caratteristica, e non entra  1971 mai nella desinenza. Or questa qualità delle dette tre lingue, non può attribuirsi alla corruzione particolare che ricevette la lingua latina in Francia, Spagna, italia, indipendentemente l'una dall'altra; ma essendo comune, e costantissima in tutte tre, manifesta chiaramente un'origine comune. Or questa non essendo la lingua latina scritta, non può essere altro che l'antica volgare ugualmente diffusa e comunicata alle tre nazioni. Mi par dunque evidente che nel latino volgare la caratteristica di tutti i futuri indicativi fosse la r. Questa proprietà del volgare latino, mi par che s'abbia da tenere per dimostrata. Credo verisimile che esso volgare in luogo del futuro indicativo, usasse il futuro congiuntivo, la cui caratteristica è sempre la r nel latino che noi conosciamo. Così p. e. il futuro congiuntivo legero, corrisponde appuntino all'italiano leggerò, e ne viene ad esser la fonte.  1972 Ed infatti osservo che sebbene regolarmente la r sia del tutto esclusa dalla desinenza del futuro indicativo nel latino scritto, nondimeno ella è caratteristica come presso noi in parecchi verbi latini anomali o difettivi ec. il cui futuro indicativo ha appunto la desinenza, che ha il futuro soggiuntivo negli altri verbi. Per esempio, ero, potero ec. ec. odero, meminero ec. {{odierò, potrò ec.}} Ora i verbi {(o nomi)} anomali o difettivi ec. sogliono essere i più antichi in ciascuna lingua, e certo indizio dell'antico costume, e delle proprietà di essa, siccome d'altronde il volgare di ciascuna lingua è il maggior conservatore delle sue antiche proprietà.

[1972,1]  Intendo sempre parlare delle congiugazioni attive, non delle passive che le nostre lingue non hanno. Sicchè se la r è caratteristica del passivo futuro indicativo latino, ciò non fa punto al caso nostro, oltre ch'ella occupa quivi un altro luogo, cioè chiude la desinenza {della prima persona,} laddove ne' nostri futuri precede  1973 l'ultima vocale {nella stessa persona.} (22. Ott. 1821.).

[2138,2]  2. Noi troviamo apere, ed aptus come si vede in una infinità di es. nel Forcell. è un evidente participio di un verbo significante alligare connectere ec. Questo medesimo participio non è primitivo, ma contratto (forse da apitus) come ho mostrato altrove pp. 1153-54. Da questo  2139 participio ridotto ad aptus, è venuto il verbo aptare, secondo gl'infiniti esempi che ho addotti, e nella maniera e andamento che ho dimostrato circa la formazione de' verbi in are da' participi in us di altri verbi.

[2195,2]  Osservo che questi nomi greci che passando in latino hanno mutato lo spirito in s, (siccome quelli che l'hanno mutato in h, e di questi è naturale perchè più recentemente fatti latini) conservano in latino le proprietà, e quasi la forma intera che hanno nel greco p. e. il genere maschile neutro ec. Non così quelli che hanno mutato lo spirito in v  2196 i quali hanno mutato il genere, la forma ec. in modo che appena o certo più difficilmente si ravvisano. Ho detto nomi, e intendo parole d'ogni sorta. Ciò fa credere o 1. che tal pronunzia di v o f in luogo dello spirito sia più antica, che quella in s, e perciò quelle parole più anticamente fatte proprie del latino 2. o ch'elle venendo forse dall'Eolico, avessero in esso dialetto forma diversa dalla greca comune. 3. o che in verità sieno passate dal latino al greco, o piuttosto (ed è verisimilissimo) siano di quelle parole primitivamente comuni ad ambe le lingue, e derivate da comune madre, il che conferma l'opinione della fratellanza del greco e latino. Bisogna però notare che quello che si cambia nel latino in s (o in h) è lo spirito denso, e quello che in v (o forse talvolta in f) il lene. Onde si potrebbe anche concludere che l'uso dello spirito denso, sebbene antichissimo, sia però nelle voci greche più recente, che quello del lene. Che l'uso greco  2197 (e quindi anche il latino) del σ per lo spirito, sia più recente di quello dell'H, mutato nel latino in v, o del digamma  ec. Che forse quelle parole greche scritte oggi collo spirito denso, che nel latino hanno il v, anticamente si scrissero o pronunziarono col lene (come ῾Εστία ec.), o che così passarono agli Eoli ec.

[2221,2]  Non potui abreptum etc.?
Verum anceps pugnae fuerat fortuna.
Fuisset:
Quem metui moritura? *

Didone, Aen. 4. 600. 603. seg.
Fuerat qui significa espressamente sarebbe stata. {Puoi vedere p. 2321.} Fuera direbbero appunto gli spagnuoli. Quest'uso dell'indicativo preterito  2222 piucchè perfetto in luogo e in senso del piucchè perfetto dell'ottativo o soggiuntivo, è frequentissimo presso i latini massime allora quando esso va congiunto con altro più che perfetto del soggiuntivo, onde sarebbe stato bisogno il duplicar questo, come nel citato luogo, dove se in vece di fuerat poneste fuisset, raddoppiereste quel fuisset (fosse stata) che viene subito dopo. {V. anche Georg. 2. 132. 133. dove però si usa l'imperfetto indicativo {(v. p. 2348.)} V. pure Georg. 3. 563. seqq. e Oraz. l. 4. od. 6. v. 16-24. falleret per fefellisset.} Così in quell'altro di Virg. Aen. 2.:
Et si fata deum, si mens non laeva fuisset,
Impulerat
ec. *
{V. anche Oraz. Od. 17. l. 2. v. 28. seqq. {{e l. 3. 16. 3. seqq.}}}
Così in quel famoso perieram nisi periissem. *
Cioè sarei perito, se non fossi perito. Or da tali osservazioni io deduco due cose.

[2236,1]  Spessissimo anzi quasi sempre, dalle voci latine comincianti per ex noi abbiamo tolto la e, e il c, e cominciatele per s, specialmente, anzi propriamente allora quando la ex era seguita da consonante, sicchè la nostra s viene ad essere impura. Nel qual caso che cosa soglian fare gli spagnuoli e i francesi, l'ho detto altrove pp. 812-14 parlando della s iniziale impura. Parrà che costoro, solendo conservare la e, si accostino  2237 più di noi al latino, e nondimeno chi vuol vedere che l'antico volgare latino, ed anche gli scrittori più antichi, usavano di far nè più nè meno quel che facciamo noi, osservi il Forc. in Stinguo (e forse anche in molti altri luoghi), verbo che anche noi anticamente dicemmo per estinguo, e così stremo per estremo, {+sperimento, esperimento; sperto, esperto; spremere da exprimere da cui pure abbiamo esprimere, sclamare da exclamare, onde pure esclamare;} e così altre tali voci che hanno {{pur}} conservata la e, la perdono o a piacer dello scrittore, o nei nostri antichi, o nella bocca del popolo ec. E forse l'avere gli spagnoli e i francesi la e in tali parole, non è tanto conservazione, quanto maggiore {e doppia} corruzione; vale a dire che, secondo me, essi volgarmente da principio dissero come noi, cioè colla s impura iniziale, e poi per proprietà ed inclinazione de' loro organi, che mal la soffrivano, o a cui riusciva poco dolce ec. v'aggiunsero, non  2238 prendendola dal latino ma del loro, la e iniziale. Infatti essa si trova sempre o quasi sempre nelle parole che anche nel latino scritto, e dell'aureo secolo, e per loro natura ed etimologia ec. cominciano colla s impura, siccome pur fanno sempre in italiano. {{V. p. 2297.}}

[2257,1]   2257 Dico altrove {(p. 1970.)} del futuro congiuntivo adoperato probabilmente dal volgo latino in vece del dimostrativo. V. Virg. Georg. 2. 49-52. dove exuerint non vale se non se si spoglieranno, o cosa tanto simile, che ben si rende probabile lo scambio di questi due futuri nel dialetto volgare romano. (16. Dic. 1821.). {{V. pure Oraz. Epod. 15. 23-4. moerebis-risero, e p. 2340. e Virg. En. 6. 92.}}

[1970,3]  In tutte le congiugazioni, anzi in tutti i verbi di tutte tre le lingue figlie della latina, la caratteristica inseparabile dal futuro indicativo si è la r. Al contrario nelle congiugazioni latine che noi conosciamo, nel cui futuro indicativo la r non è mai caratteristica, e non entra  1971 mai nella desinenza. Or questa qualità delle dette tre lingue, non può attribuirsi alla corruzione particolare che ricevette la lingua latina in Francia, Spagna, italia, indipendentemente l'una dall'altra; ma essendo comune, e costantissima in tutte tre, manifesta chiaramente un'origine comune. Or questa non essendo la lingua latina scritta, non può essere altro che l'antica volgare ugualmente diffusa e comunicata alle tre nazioni. Mi par dunque evidente che nel latino volgare la caratteristica di tutti i futuri indicativi fosse la r. Questa proprietà del volgare latino, mi par che s'abbia da tenere per dimostrata. Credo verisimile che esso volgare in luogo del futuro indicativo, usasse il futuro congiuntivo, la cui caratteristica è sempre la r nel latino che noi conosciamo. Così p. e. il futuro congiuntivo legero, corrisponde appuntino all'italiano leggerò, e ne viene ad esser la fonte.  1972 Ed infatti osservo che sebbene regolarmente la r sia del tutto esclusa dalla desinenza del futuro indicativo nel latino scritto, nondimeno ella è caratteristica come presso noi in parecchi verbi latini anomali o difettivi ec. il cui futuro indicativo ha appunto la desinenza, che ha il futuro soggiuntivo negli altri verbi. Per esempio, ero, potero ec. ec. odero, meminero ec. {{odierò, potrò ec.}} Ora i verbi {(o nomi)} anomali o difettivi ec. sogliono essere i più antichi in ciascuna lingua, e certo indizio dell'antico costume, e delle proprietà di essa, siccome d'altronde il volgare di ciascuna lingua è il maggior conservatore delle sue antiche proprietà.

[2264,1]  Suole la lingua italiana de' nomi sostantivi retti dalla preposizione con, servirsi in modo di avverbi, come con verità per veramente, con gentilezza per gentilmente, {+con effetto per effettivamente, con facilità per facilmente (Casa, let. 43. di esortazione..} Molto più questa facoltà è adoperata dalla lingua spagnuola (dalla quale, almeno in parte, ell'è forse derivata nell'italiana). Tale usanza  2265 è poco o niente familiare ai latini, anzi si può giudicar quasi barbara in quella lingua. E nondimeno io son persuaso ch'ella fosse solenne al volgare latino. Eccovi Orazio, 3. 29. carm. v. 33. seqq.
cetera fluminis
Ritu feruntur, nunc medio alveo
cum pace *
(cioè pacificamente) delabentis Etruscum
In mare: nunc lapides adesos ec. *

Il qual esempio non portato dal Forcell. credo che difficilmente troverà il simile negli scrittori latini. Nel Forcell. non trovo alla voce Cum cosa che faccia al proposito, se non forse il §. Aliquando redundare videtur. * Vedilo, e l'Append. se ha nulla, e il Glossar. e i comentatori di Orazio. {+Solamente trovo nel Forcell. in Pax alquanto sopra la fine, un esempio di Livio citato, e un altro accennato, dove si legge cum bona pace * , e potrebbe riferirsi al mio proposito, ma propriamente non vale pacificamente, ma senza far guerra, senza molestare, in pace in somma, come noi diciamo.} Osservo ancora che questo costume proprio dell'italiano e dello spagnolo è anche proprio del greco, certo assai più di questo che del latino scritto. E siccome è certo che le dette lingue {moderne} non possono averlo derivato dal greco, così è ben verisimile  2266 che l'abbiano dal volgare latino, tanto più simile al greco che non è il latino scritto (per la qual cosa anche l'ĩdole[l'indole] dello spagnolo e dell'italiano somiglia più al greco che al latino scritto). E più simile per due cagioni 1. che egli è più antico, serba meglio i caratteri della sua origine, di quel tempo cioè in cui esso insieme col greco derivò da una stessa fonte, 2. che il greco scritto, cioè quel solo che noi {ben} conosciamo, fu senza paragone più simile al greco parlato, di quello che il latino parlato allo scritto. (21. Dic. 1821.).

[2277,3]  Alla p. 2079. principio. I verbi latini semplici derivarono certo, almeno per la massima parte, dai nomi: antichissimamente  2278 però, ed in modo che grandissima parte delle loro radici nominative è ignota, e passano essi per radici. In altri verbi si trova la radice nominativa, ed alcuni, anzi non pochi di questi si veggono formati dai latini di {mano in} mano, anche in tempi recenti, cioè a' secoli di Cicerone, degli Antonini, ec. Ma da poi che la lingua formandosi e ordinandosi, adottò il costume de' verbi composti, essa inclinò sempre a formarli da' verbi semplici, unendoli alle opportune preposizioni avverbi, particelle, {nomi,} ec. Pochissimo si compiacque di trar fuori di netto un verbo nuovo, composto di preposizioni ec. e di un nome nuovamente e appostatamente ridotto a conjugazione (Bella facoltà del greco italiano spagnolo) Se ne trovano alcuni di questi, ma pochissimi (massime fatti da nomi sustantivi) in confronto specialmente della immensa quantità degli altri verbi composti da verbi semplici. Dealbare (per altro la radice è aggettiva) è fra questi  2279 pochi. (23. Dic. 1821.).

[2297,1]  Alla p. 2238. I preliminari di questo pensiero si applichino a quello che segue ora, perocchè quanto a stinguo esso non è aferesi di exstinguo, ma la radice del medesimo, e di restinguo ec: altrimenti si direbbe extinguo, e allora stinguo sarebbe per aferesi.-

[2306,1]  Alla p. 1283. principio. Io sospetto di aver trovato effettivamente questa radice hil nell'antichissimo latino. Osservate. Nihilum, è quasi ne hilum, dice il Forc. e seco gli etimologi. {V. anche il Forcell. in Per hilum.} E non v'è questione perocchè Lucrezio dice neque hilo ec. rompendo il composto, in vece di nihiloque, come solevano gli antichi latini, massime i poeti, (come Plauto disque trahere per et distrahere) e questi anche a' buoni secoli: e così i greci. Nè solo Lucrezio ma altri che v. nel  2307 Forc. in Hilum. Della particella privativa ne (cambiata nella composizione in ni) v. il Forcell. in ne, e in nego. Potrebbe anche essere un nec, come necopinans ec. significa non opinante ec. e il nec non è che particella privativa come l'ἀ dei greci. V. anche lo Scapula in νή, particella parimente privativa nell'antichissimo greco, del che v. pure Helladii Besantinoi Chrestomathia, colle note del Meursio.

[2316,1]  Circa quello che ho detto altrove p. 65 del vir frugi de' latini, che significava uomo di garbo, e propriamente non voleva dir altro che utile, v. il Forcellini in Nequam, che significa cattivo, e propriamente non vale che inutile. Così in Nequitia ec. (31. Dic. 1821.).

[2329,1]   2329 Alla p. 1136 fine. Fra le molte prove che si potrebbero addurre di ciò, cavate dalla veramente profonda e non superficiale investigazione della più remota antichità, v'è anche questa. Noi diciamo che lo spirito denso dei greci fu bene spesso trasformato dai latini in una s. Ma il fatto sta che gli antichissimi monumenti greci hanno essi medesimi il sigma, dove poi si costumò di porre lo spirito denso, e forse anche in luogo del lene. V. Iscriz. antiche illustrate dall'Ab. Gaetano Marini, p. 184. e soprattutto il Lanzi, della lingua Etrusca. Questo che cosa dimostra? dimostra secondo me, che l'antichissima forma di quelle tali parole comuni {ab} antichissimo al greco e al latino, era infatti colla s in principio, e non collo spirito; che questo per indole di loro pronunzia fu coll'andar del tempo sostituito dai greci parlatori, e poi dagli scrittori, al sigma, e non viceversa la s allo spirito dai latini; che per conseguenza la forma latina è più antica della greca, la pronunzia cioè e la scrittura latina di tali parole; e che quindi in esse i latini hanno conservato l'antichità e il primitivo più dei  2330 greci. V. p. 2143. segg. {2307-8,} ed altri miei passi su questo punto di antichità. E quante altre simili osservazioni si potrebbono fare sulle antichissime parole, proprietà, ortografie ec. delle due lingue: osservazioni le quali mostrerebbero che quello che comunemente crediamo venuto dalla grecia nel Lazio, o è tutto al rovescio, o vien da origine comune; e che quelle differenze che in tali cose s'incontrano fra il greco e il latino, e che da noi sono attribuite a corruzione sofferta da quelle parole ec. passando nel Lazio, si debbono invece attribuire a corruzione sofferta in Grecia; e nel Lazio conservano la loro forma antichissima, e non differiscono dalla greca, se non perchè questa s'è allontanata essa stessa dal primitivo assai più della latina. (5. Gen. 1822.). {{V. p. 2351. fine. e 2384.}}

[2339,1]  La cagione poi per cui dalle voci della quarta congiugazione si facevano i verbi in uare {(o uere ec.)} e non in are semplicemente come da quelli della seconda, io credo che fosse questa, che le dette voci anticamente e propriamente terminassero in uus, giacchè anche oggi, almeno nel genitivo singolare, o ne' nominativi e accusativi plurali, si suole scrivere metûs fluctûs, {actûs} ec. col circonflesso. V. i gramatici, e gli eruditi. {+Infatti contro il costume della lettera u, nella prosodia latina, essa lettera è lunga nella desinenza del genitivo e ablativo singolare, nominativo e accusativo plurale della quarta Declinazione. Dove appunto io credo che l'u anticamente fosse doppio, e quindi poi lungo, come l'a dell'ablativo singolare 1. declinazione per la stessa causa. V. la p. 2360. 2365.} (Ed osserva che questa è un'altra prova dell'essersi dagli antichi pronunziate le vocali doppie come sillabe semplici, giacchè metus ec. presso tutti i poeti è dissillabo, e metum seguito da vocale, resta monosillabo ec.) Laonde togliendo ad esse voci la terminazione in us come nè più nè meno a quelle della seconda, restava un altro u, ed aggiungendo la desinenza in are, conveniva dire fluctu-are, e non fluct-are ec. Come appunto da continuus, ch'essendo della seconda, pur finisce in uus, si fa (togliendo la desinenza in us) continu-are, da perpetuus pertu-are{, da cernuus cernu-are, ec.} {+da vacu-us evacu-are, da Febru-us o da Febru-a, orum, februare ec. da obliquus obliquare ec. da viduus viduare ec.} (9. Gen. 1822.) {{, da Fatua fatuari, da fatuus infatuare.}}

[2369,1]  Noi diciamo fare una cosa di buona gana, cioè alacriter. Presso gli spagnuoli gana vale alacritas. Gli scrittori latini non hanno parola da cui questa si possa derivare. E pure dove credete che rimonti la sua origine? Alle primissime sorgenti delle due lingue sorelle latina e greca. Γάνος in greco vuol dire lętitia, gaudium, voluptas. V. il Lessico co' suoi derivati. Come dunque questa voce nostra e spagnuola, volgarissima in ambo le lingue, anzi plebea, nè degna della scrittura sostenuta, può esser mai derivata dal greco? quando ne' tempi barbari in cui nacquero tali lingue,  2370 appena si sapeva in italia o in Ispagna che vi fosse al mondo una lingua greca? come può esser venuta questa voce se non dal volgare latino, e per mezzo di esso?

[2442,2]  Ho detto altrove pp. 2221-24 pp. 2348-50 d'una grande incertezza e di molti scambi che si trovano nell'uso latino circa i tempi dell'ottativo o soggiuntivo, ora scambiati fra se, ora sostituiti a quelli dell'indicativo: ed ho mostrato come questi usi che si tengono per pure eleganze degli scrittori latini, fossero comuni anche al volgare, e si conservino nelle lingue derivate, non certo dal latino elegante, ma da esso volgare. A questo proposito si può notare il presente ottativo latino, usato spessissimo ed elegantemente in vece dell'imperfetto ottativo, e in certo modo anche del futuro indicativo, come in Orazio Sat. 1. v. 19. l. 1 nolint per nollent, o nolent;  2443 od. 3. v. 66. e 68. l. 3. pereat, ploret, per periret, ploraret, o peribit, plorabit. E ciò massimamente (come appunto ne' due luoghi citati), precedendo la condizionale si o simile, espressa o sottintesa: nel qual caso appunto ho notato altrove la detta varietà, e figurato uso dell'ottativo, e suoi diversi tempi. E vedi, fra gli altri pensieri relativi a questo, pag. 2221. fine, e 2257. (24. Maggio 1822.).

[2475,1]  Dell'antica fratellanza della lingua greca colla latina, ossia della comune origine d'ambedue, e come in principio l'una non differisse dall'altra, ma fossero in Italia e in Grecia una lingua sola, vedi un bel luogo di Festo portato dal Forcellini v. Graecus in fine. (14. Giugno. 1822.)

[2572,1]  Dire che la lingua latina è figlia della greca, perchè vi si trovano molte parole e modi greci introdottivi parte dalla letteratura, parte dal commercio e vicinanza delle colonie greco-italiane, parte dall'antico commercio avuto colla nazione greca sempre mercatrice, parte derivanti dalla stessa comune origine d'ambe le lingue, è lo stesso appunto che vedendo la nostra presente  2573 lingua italiana piena di francesismi, e modellata sulla francese, conchiudere che la lingua italiana è figlia della francese. Anzi v'ha più di francese nella presente lingua italiana (che è quasi una traduzione, e una scimia della francese) di quel che v'abbia di greco nella lingua latina, massime poi dell'antica. Del resto la parità va molto bene a proposito, perchè infatti le lingue italiana e francese sono appunto sorelle, come la greca e la latina. (20. Luglio 1822.).

[2588,2]  Da coquere diciamo cocere (che per più gentilezza e per proprietà italiana si scrive cuocere) mutato il qu radicale, in c parimente radicale. Che questa lettera fosse radicale anche ab antico si può raccogliere dalla voce praecox (cioè praecocs) praecocis, la quale (spogliata della prep. {prae}) forse contiene la radice di coquere. E molte altre pronunzie volgari di voci derivate dal latino, si potrebbono forse dimostrare antichissime con simili osservazioni delle loro radici (o già note, o scopribili), delle voci loro affini ec. (30. Luglio. 1822.). {{V. Forcellini Coquo, Praecox ec. e il Glossario.}}

[2649,1]   2649 Sopra i dialetti della lingua latina. Estratto da un articolo: Del Dialetto Veneto: Lettera di un Viaggiatore oltramontano (inglese), che sta nelle Effemeridi letterarie di Roma t. 2. p. 58-70. (Genn. 1821.) "L'antica lingua di questi popoli (Veneti) traspariva nel loro Latino, come è agevole di riconoscere dalle inscrizioni raccolte dal Maffei (1.): ed è probabile che gli originarj dialetti delle diverse nazioni che si stabilirono in Italia, sieno una rimota cagione della varietà de' linguaggi che vi si parlano presentemente. {#(1) Le lapidarie inscrizioni Latine ritrovate nelle città subalpine d'Italia ci fanno spesso consocere di quale provincial ne fossero gli autori. Così la lettera W che è uno de' segni più caratteristici dell'alfabeto oltramontano, si trova in quelle che appartengono alle Colonie Galliche."} * p. 58.

[2656,1]  Quod quantae fuerit utilitati post videro * (onninamente per videbo) Cic. de re publ. l. 2. c. 9. Rom. 1822. p. 142. v. ult. Luogo da aggiungersi a quelli che ho recati altrove pp. 1970-73 per dimostrare l'uso antico del futuro ottativo in vece del futuro indicativo; uso da cui sono nati tutti i futuri di tutti i verbi Italiani francesi e spagnuoli, distintiva de' quali futuri e caratteristica è sempre la r. (19. Dic. 1822.)

[2657,1]  Quoties g est ante n, toties memini me videre in antiquis codd. si quando vocabulum divideretur * (nel fine o della riga o della pag.), litteram g adhaerere priori vocabuli parti, n autem posteriori. Ergone Hispani Angli et Germani melius quam Itali pronunciare haec verba videntur? * Maius ad Cic. de re publ. II. 19. p. 165. v. 7. (dove la pagina del cod. finisce in mag, e la seguente comincia in na; cioè magna) not. b (20. Dic. 1822.). {+Bisogna però vedere in che paese sieno stati scritti questi codd. come p. e. in ispagna.} {{V. p. 3762.}}

[2656,2]  Ad Cic. de re publ. II. 10. p. 143. v. ult. ubi legitur septem, haec Maius editor ib. not. c. Cod. septe. Iam m finalem omitti interdum in antiquis codicibus exploratum est. An vero illud septe e lingua rustica est? Certe ita fere nunc loquuntur Itali. * (19. Dic. 1822.). {+Nel Conspectus Orthographiae Codicis Vaticani aggiunto dal Niebuhr a questa edizione, si legge p. 352. col. 2. septe (II. 10.) et mortus (II. 18.) a desciscente in vulgarem sermone tracta sunt. * Le sillabe finali am em ec. s'elidevano ne' versi. Dunque l'm infatti non si pronunziava. V. i miei pensieri sulla sinizesi.} p. 1124 pp. 1151-53 pp. 2247-50 p. 4354 {{V. la pag. 2658.}}

[2658,1]   2658 Nella repubbl. di Cic. succitata, al c. 37. del lib. 2. p. 203. v. 1.-2. dove l'edizione ha res publica richiedendosi in fatti il nominativo, il Cod. ha republica, quasi fosse italiano. Dal che apparisce che anche anticamente s'usava di tralasciare l's finale nel pronunziare le voci latine, come si lascia nelle nostre lingue. (21. Dic. 1822.). {+Infatti è nota l'apocope della s nella fine delle voci presso gli antichi poeti latt. V. la p. 2656, marg.}

[2659,1]  Il verbo sum ebbe antichissimamente un participio presente e questo non fu il più moderno ens entis, conservato ancora nella nostra lingua, e nella spagnuola, ma sens sentis. Testimonio le voci prae-sens, ed ab-sens, e con-sens, la quale ultima in verità non è altro che la preposizione cum congiunta al participio presente di sum, e vale qui simul est, onde Dii Consentes, Dii qui simul sunt. V. Forcell. in Consens, praesens ec. Quindi si fortifica la mia conghiettura pp. 1120-21 pp. 2142-45 {e} che il verbo sum avesse anche un participio passato, in us, come anticamente l'avevano gli altri neutri, ed anche gli attivi in senso attivo (p. e. peragratus, cioè qui peragravit, da peragro attivi), e che questo incominciasse per s, onde da esso fosse  2660 formato il verbo sto. (Roma 22. Dic. 1822.).

[2757,2]  È proprietà della nostra lingua di contrarre i participii de' verbi della prima congiugazione, togliendo dalla loro desinenza in ato, le due prime lettere, cioè at: i quali participii così contratti, e serbano il loro valore di participii, servendo {pure} alla congiugazione de' loro verbi coll'ausiliare; e bene spesso passano a fare uffizio di  2758 aggettivi; e molti semplici aggettivi della nostra lingua non sono altro che participii {così} contratti o di verbi italiani originati dal latino o d'altronde, o di verbi pur latini ec. {V. Bartoli Il Torto e 'l diritto del non si può. capo 137. e la pag. 3060-1. 3035-6. ec.} Ora questo medesimo costume di contrarre in questo medesimo modo i participii in atus della prima, togliendo loro le due lettere at caratteristiche della desinenza, si vede essere stato anche fra' latini, fra' quali Virgilio ed altri fecero inopinus per inopinatus, e da necopinatus, necopinus, e così d'altri participii, o aggettivi così formati, di molti de' quali forse non si riconosce ora più la prima origine e forma di participii in atus, {+mancando loro le caratteristiche at. Odorus per odoratus.} E tanto maggiormente si dee credere che questa sorta di contrazione familiarissima a noi, fosse anche più familiare al volgo latino che agli scrittori, quanto che il popolo ama sempre le contrazioni e accorciamenti. (10. Giugno. 1823.).

[2771,3]  Come la lingua latina abbia conservato l'antichità più della greca, si dimostra ancora con queste considerazioni. 1. La lingua latina conserva nell'uso comune de' suoi buoni tempi e de' seguenti (non solo degli anteriori) i temi, o altre voci regolari di verbi che tra' greci, avendo le stesse radici che in latino, ma essendo però difettivi o anomali, non conservano i loro primi temi o quelle tali voci regolari, o non le usano se non di rarissimo,  2772 o talmente ch'essi temi ed esse voci non si trovano se non presso gli antichissimi autori, o presso i poeti soli, i quali in ciascuna lingua che ha favella poetica distinta, conservano sempre gran parte d'antichità per le ragioni che ho detto altrove pp. 2639. sgg. Dovechè la lingua latina usa essi temi ed esse voci universalmente sì nella prosa come nel verso, ed usale ne' secoli in ch'ella era già formata e piena, ed usale eziandio non come rare, nè come quasi licenze o arcaismi, ma tutto dì e regolarmente e come temi e voci proprie e debite di quei verbi a' quali appartengono. Per esempio il verbo do, si è il tema di δίδωμι (e nota che questo verbo in greco non è neppure anomalo nè difettivo, {+ma l'uso l'ha cangiato interamente dal suo primo stato, a differenza del verbo latino do.).} Il qual tema conservasi nel latino in tutti i composti d'esso verbo, come {credo, edo, trado,} addo, {subdo, prodo, vendo, perdo,} indo, condo, reddo, dedo, {ec.} {+(ne' quali per istraordinaria anomalia è mutata la coniugazione di do dalla prima nella terza: non così in circumdo as, venundo as, pessundo as ec.).} Ma in nessun composto del verbo δίδωμι comparisce nel greco il suo vero tema. ῎Eδω voce e tema di verbo anomalo o difettivo, non si troverà,  2773 credo, in greco se non presso i poeti, ma tra' latini edo e il suo composto comedo sono voci e verbi di tutti i secoli e di tutte le scritture. Eo ἔω tema da cui nascono in greco tanti verbi, non si trova nè fra' poeti greci nè fra' prosatori ma egli è comune e proprio ai latini, e ne nasce un verbo usitatissimo, co' suoi composti, che tutti conservano il tema intatto {e conservano altresì tutta la sua coniugazione perfettamente,} redeo, abeo, exeo, ineo, subeo, coeo, {adeo, circumeo, pereo, intereo, obeo, prodeo, introeo, veneo, prętereo, transeo,} ec. Nessun composto greco conserva il tema ἔω. Lateo è il medesimo che λήϑω, voce, {e} tempo ben raro negli scrittori greci, e verbo difettivo in greco, ma {tema} comune e usitatissimo, e verbo quasi perfetto e regolare in latino. {Il tema λήϑω trovasi espressamente in Senofon. Simpos. c. 4. §. 48.} I Dori e gli Eoli dicevano probabilmente λάϑω. Patior che sta in luogo dell'attivo patio (il quale pur si trova nell'antica latinità) è più vicino al πήϑω, (Dor. ed Eol. πάϑω) inusitato in greco, che non è l'usitato πάσχω. {Composti, per-petior ec.} Il verbo fero, s'io non m'inganno, ha più voci in latino che in greco. Del tema sto equivalente all'inusitato στάω, altrove pp. 2142. sgg. {+Il tema στάω non si trova, ch'io sappia in greco. Il verbo si trova, cioè ἔστην ἕστηκα στήσας, στάς ec. ma è difettivo. Il verbo sto è intero.}

[2779,2]  Che il proprio tema de' verbi ἱστάω, ἵστημι ἵσταμαι fosse στάω, come forse ho detto nella mia teoria de' continuativi pp. 2142-45 parlando di sisto, e che l'iota sia una giunta fatta al tema per proprietà di lingua, si conosce sì dalle molte voci di questi verbi che mancano di quell'ι paragogico, e da tutti i loro derivati che parimente  2780 ne mancano, sì dal verbo ἵπταμαι il quale colla medesima paragoge (ch'esso perde in molte voci) è fatto dall'inusitato πτάω (v. la Gramm. di Pad. p. 210.) {+o πετάω, onde πετάομαι, πέταμαι, πέτομαι che vagliono altresì volare, e che in origine non debbon esser altro che il verbo πετάω pando explico che ancora esiste, trasportato alla significazione del volare per lo spiegar delle ali ec. e vedi la pag. 2826.}

[2811,1]   2811 Alla p. 2775. Il verbo δείδω che oggi si pone come tema, non è certamente altro che reduplicazione di un tema più semplice, il che è dimostrato si[sì] dalla voce δέος, sì dal verbo δίω presso Omero, sì dalla voce δεῖσϑαι usata più volte da Plutarco per temere. {κάρχαρος, χαρχαρέοι, καρχαρίας da χαράσσο per reduplicazione. ὀπιπτεύω da ὀπτεύω. βέβαιος da βαίνω o da βέβαα. V. p. 4109.} {+Anche in latino titillo è fatto per duplicazione da τίλλω. E altre tali duplicazioni alla greca si trovano pure in latino (come quelle de' perfetti memini, cecidi ec.), sieno veramente latine di origine, o greche, o comuni anticamente ad ambe le lingue, ec. ec.} (23. Giugno. 1823.).

[2811,3]  Alla p. 2776 margine. Lo stesso discorso si può fare di βαΰζω, il quale è pur verbo esprimente un suono, e fatto per imitazione di questo suono; il qual suono come è similissimo a quello di βαΰω, così non ha niente che fare con βαΰζω. Ma questa e simili interposizioni della lettera  2812 ζ e d'altre tali, sono {state} fatte o per evitare l'iato o per altre diverse cagioni, nel processo della lingua, quando già non v'era più bisogno che il vocabolo per essere inteso, esprimesse e rappresentasse collo stesso suo suono l'oggetto significato, ma egli era già inteso generalmente per se, e non per virtù della sua origine; e quando già nella lingua si guardava più alla dolcezza ec. che alla necessità ec. ne' quali modi le parole in tutte le lingue si sono allontanate dalla forma primitiva e hanno spesso perduto affatto quel suono rappresentativo che prima avevano e sul quale furono modellati e creati, e nel quale da principio consisteva la ragione della loro significanza. I latini dal tema βαΰω o bauare fecero baubari, interponendo un b (il quale in questo caso è più adattato all'imitazione) invece del ζ. Noi baiare, che per verità potrebb'essere appunto quello stesso originale βαΰω ch'è affatto perduto nella lingua greca e nella latina scritta: e ben si potrebbe credere che fosse totalmente  2813 voce antica latina, conservata nel volgare; dal che si dedurrebbe, primo, che l'antico latino, e di poi il suo volgare perpetuamente conservò puro il verbo originale βαΰω (giacchè l'υ greco in latino {antico} ora risponde a un u, ora ad un i), {quantunque non si trovi nel latino scritto;} verbo inusitato affatto nell'antica e moderna grecità nota; secondo, che questo antichissimo verbo, perduto, o vogliamo dire alterato nel greco, perduto ossia alterato nel latino scritto, conservasi ancora purissimo e senz'alterazione alcuna nell'italiano, e vedi la pag. 2704. {+Si potrebbe anche credere che i primi latini e il volgo, invece di baubari dicessero bauari (appunto βαΰειν), e che la mutazione dell'u in i (vocali che spessissimo si scambiano, per esser le più esili, come ho detto altrove pp. 1277-83 p. 2153 p. 2824) seguisse nell'italiano e nel francese ec. Ovvero che gli antichi dicessero bauari, e poi il volgo baiari.} (24. Giugno 1823.).

[2813,1]  I continuativi latini, tutti (se non forse visere da visus di video, {co' suoi composti inviso reviso ec.,} e forse qualche altro, che io chiamerò continuativi anomali) appartenenti alla prima congiugazione, sono fatti dal participio o dal supino del verbo originale come ho dimostrato pp. 1104. sgg. pp. 1112-1113 pp. 1118. sgg.. Nondimeno io trovo alcuni pochi verbi, pur della prima maniera, i quali sono evidentemente fratelli o figli di altri verbi della terza, ed hanno una significazione evidentemente continuativa della significazione di questi, ma non sono fatti da' loro participii. Quelli che io ho osservati sono {1.} cubare, co' suoi composti accubare, incubare {decubare, secubare, recubare,} ec. il significato de' quali è manifestissimamente  2814 continuativo di quello di cumbere (inusitato, fuorchè nelle voce[voci] cubui {ec.} e cubitum che ora s'attribuiscono a cubare), incumbere, accumbere ec. tanto che ogni volta che si dee esprimere azione continuata, si usano immancabilmente quelli e non questi, {(come anche viceversa nel caso opposto)} e appena si troverà buono esempio del contrario, quale potrebb'esser quello di Virgilio Aen. 2. {513-14}. Ingens ara fuit; juxtaque veterrima laurus Incumbens arae, * invece d'incubans. 2. educare continuativo di educere quanto al significato. 3. jugare parimente di jungere, e così conjugare, {abiugare, deiugare,} e s'altro composto ve n'ha. 4. dicare similmente di dicere, e così i composti {judicare, di ius dicere; dedicare,} praedicare, abdicare ec. {V. p. 3006.} 5. labare di labere inusitato, cioè labi deponente. {Forse a questo discorso appartengono eziandio suspicor o suspico, ed auspico o auspicor, da specio, seppur quello non viene piuttosto da suspicio onis, e questo da auspicium o da auspex auspicis. Forse ancora, qua si dee riferire plico da plecto, de' quali verbi mi pare aver ragionato altrove in altro modo p. 1167. Da plecto - plexus si fanno anche i continuativi amplexor e complexo. E notare che si trova anche amplector aris in luogo di amplector eris, il che per altra parte confermerebbe che plecto is fosse in continuativo anomalo di plico, come mi pare aver detto altrove p. 1167 p. 2226 V. p. 2903.} È nóto che questi verbi della terza hanno anche i loro continuativi formati regolarmente da' loro participii, ma con significato diverso da quello de' soprascritti verbi della prima, sebbene anch'esso continuativo; come dicere ha pur dictare e dictitare; ducere, onde educere, ha ductare e ductitare; jungere ha nel basso latino e nello spagnuolo junctare, (noi volgarmente aggiuntare, {{i franc. ajouter}}); labi o labere ha pur lapsare. Cubitare, accubitare ec. possono venire da accubatus  2815 inusitato e da accubitus, {ec.} e quindi essere derivativi così di accumbere come di accubare. Ma questo, con tutti i suoi fratelli e col suo semplice cubo, non ha del proprio nè il preterito perfetto nè i tempi che da questo si formano, nè il participio in us, nè il supino, ma li toglie in prestito da accumbere, recumbere, incũbere ec. facendo, nè più nè meno come fan questi, accubui, accubitus {i,} accubitum ec. {#2. Vedi però la p. 3570. 3715-7.} Incubare ha anche incubavi, incubatum. Cubare ha anche cubavi, o certo cubasse. Notate che se talvolta troverete ne' lessici o ne' grammatici ec. degli esempi di accubare, incubare ec. adoperati nel preterito o nel supino ec. che non vi paiano di senso continuativo, dovete credere ch'essi sieno male attribuiti a quei verbi, e spettino ad incumbere, accũbere, occumbere ec. {#1. V. a questo proposito p. 2930. 2935.} (24. Giugno, dì del Battista 1823.). {{V. p. 2996.}}

[2826,1]  È da notare che la nostra ben distinta teoria della formazione grammaticale de' continuativi e frequentativi, giova ancora a dimostrare evidentemente l'antica esistenza ed uso de' participii o supini di {moltissimi} verbi che ora ne mancano affatto, mentre però esistono ancora i loro continuativi o frequentativi {come fugitare dimostra fugitus o fugitum di fugio, che altrimente non si conoscerebbe, e così cent'altri}; ovvero di participii e supini diversi da quelli che ora si conoscono, come agitare dimostra il part. agitus diverso da actus, {noscitare noscitus diverso da notus,} {+futare e funditare futus e funditus, ambedue diversi da fusus, (v. la p. 2928 sgg. 3037.)} quaeritare quaeritus, diverso da quaesitus che non è di quaero, ma di quaeso, {benchè a quello s'attribuisca, e simili.} E serve ancora ad illustrare e mettere in chiaro l'antico uso e regola seguíta  2827 da' latini nella formazione de' participii in us e de' supini, come ho fatto vedere altrove pp. 1153-54 in proposito di agitare; e la vera origine di molti participii più moderni, come actus, e la loro ragione grammaticale; e spiega e scioglie molte anomalie apparenti {ec.} ec. {{ec.}} (27. Giugno. 1823.).

[2842,1]  Continuativi delle lingue figlie della latina. Diventare ital. da devenio - deventus. Sepultar spagn. da sepelio - sepultus. Questo verbo sepultare trovasi usato da Venanzio Fortunato poeta e scrittore italiano del sesto secolo, Carm. lib. 8. Hymno de vitae aeternae gaudiis. (Glossar. Cang.) { Pressare, presser, prensar, oppressare, oppressé, soppressare, expressar ec. da premo - pressus. V. il Glossar. Tritare da tero - tritus. Il Gloss. Tritare, Frequenter terere, Ioh. de Ianua, cioè genovese del secolo 13.o, autore di un Lessico edito. Cautare, incautare da caveo - cautus. V. il Glossar.} Gozar spagnuolo da gaudeo - gavisus. Fecesi ne' bassi tempi di gavisus gausus, onde gosus, onde gosare, e gozar. Ovvero di gavisus gavisare, gausare, gosare, gozar. Trovasi nelle antiche glosse latino - greche gaviso - χαίρω. V. il Glossar. Cang. in Gavisci, ed anche in Gavisio, Gausida (goduta sostantivo) e Gausita. Vedi quivi anche Gauzita, dove trovi già il z di Gozar. Da questo, o da gavisio, gausio, gosio, {+anzi da gavisus us, gausus, gosus} credo io che sia fatto lo spagnuolo gozo godimento, piuttosto che da gaudium. Gozar assai spesso, {come} il nostro godere e il francese jouir, è vero continuativo di gaudere, non meno per il significato che per la forma, equivalendo a frui. Il verbo jouir, jouissons, jouissez, jouissent ec. dee esser venuto similmente da gavisare, prima che {questo} fosse mutato in  2843 gausare, {e ne sparisse la i, che manca in gozar,} ma contuttociò è più sfigurato. Così dite di joie, {jouissance, joyeux ec. e di} gioia, gioire, ec. {che di là vengono.} Pransare o pranzare ital. da pransus di prandeo onde il frequentativo latino pransitare. Incettare non da un barbaro incaptare, come pensa Giordani nel principio della lettera a Monti, Proposta vol. 1. parte 2., ma appunto da un inceptare mutato l'a di captare in e per virtù della composizione, come in attrectare, contrectare, detrectare, {obtrectare,} ec. da tractare o da detractus ec. di detraho, in affectare ec. da affectus di afficio il quale viene da facio, in coniectare, subiectare, obiectare ec. da coniectus di coniicio che viene da iacio, {+in descendo, ascendo ec. da scando, in occento da occentus di occino da cano, in aggredior ec. da gradior, in accendo, incendo, succendo da candeo o dall'inusitato cando, v. p. 3298.} e in {molti} simili, {+benchè più generalmente e regolarmente l'a della prima sillaba de' verbi dissillabi, {#1. V. p. 3351. si muti per la composizione in i. (e puoi vedere la p. 2890.)}} Incepto da inceptus d'incipio è tutt'altro verbo. Da capto, o certo da capio vengono excepto, recepto, {accepto, intercettare, discepto,} ec. i quali pure mutano l'a in e, e non fanno excapto, recapto ec. {V. p. 3350. fine. 3900. fine.} Avvisare nel suo senso proprio (vedi la Crusca in avvisare §. 1. 2. 3.) è verissimo continuativo di avvedere nel senso suo primitivo. Ma non può esser fatto da questo verbo italiano, il quale ha per participio avvisto e avveduto, non avviso. Conviene che sia fatto da advisus di advidere, il qual verbo {oggi} non si trova nella buona latinità. {Puoi vedere la p. 3034.} Trovasi però nella bassa il verbo advidere in senso di avvertire, che io credo metaforico,  2844 e in questo e simili sensi il verbo advisare e avisare. {V. il Glossar. Cang.} Anche i francesi e gli spagnuoli, che non hanno il verbo avvedere, hanno aviser e avisar, ma l'usano in quei sensi metaforici ne' quali l'usiamo anche noi. Nel senso proprio nel quale egli è più dirittamente continuativo del suo verbo originale advidere, non credo ch'egli si trovi se non nella nostra lingua, e principalmente nei nostri antichi autori. Noi diciamo anche avvistare, ed equivale a un di presso ad avvisare nel senso proprio, o nel più simile a questo. {+V. p. 3005.} Advidere dovette propriamente significare {adspicere,} oculos advertere, e quindi anche animum advertere. (Nell'esempio che ne porta il Glossario, non mi risolvo s'ei voglia dire animadvertere, o commonere, come il Glossario spiega). Nel qual senso, avvisare preso nel significato proprio, è suo vero continuativo, esprimendo la stessa azione, ma più durevole. {Si può dir simile ad adspectare.} Noi non usiamo advidere se non reciproco, cioè neutro passivo, sempre però in significato simile ai sopraddetti, o {che questo} sia relativo agli occhi che propriamente vedono, o all'animo che considera e conosce. Chi vuol ridere e nuovamente vedere quanti spropositi abbia fatto dir la poca notizia finora avutasi della formazion de' verbi  2845 latini e latinobarbari da' participii o supini d'altri verbi, vegga la bella etimologia di advisare che dà l'Hickesio presso il Cange nel Glossario. Vedi la Crusca anche in avvisamento §. 3. e in avvisatura. (29. Giugno, mio dì natale. 1823.) {{V. p. 3019.}}

[2879,1]   2879 Notate la radice monosillaba di caput, {+For-ceps.} secondo quello che {ne} ho congetturato altrove pp. 1131-32 p. 1691, e di tutti i suoi derivati, ancora in dein-ceps, della qual voce v. Forcellini. (2. Luglio. 1823.).

[2882,1]   2882 È notabile come lo spagnuolo atar abbia conservato il proprio e primitivo significato di aptare cioè legare, significato che benchè proprio e primitivo, pur non è molto frequente negli autori latini, anzi un esempio che faccia veramente al caso non mi pare che sia se non quello d'Ammiano nel Forcell. v. aptatus. Ora Ammiano è pur di bassa latinità. Mostra che il volgo abbia sempre conservato il primo uso di questo verbo, più degli scrittori eleganti, che l'hanno {piuttosto} adoperato metaforicamente. Del resto se mai si potesse dubitare che il verbo aptare venisse da aptus, il cui proprio senso è legato ec. e che Festo dice essere participio di apo, lo spagnuolo atar {che vale legare congiungere,} finirebbe di mandare a terra qualunque dubbio. Il nostro {attare,} adattare, adapter ec. ha per proprio il significato metaforico ordinario di apto adapto ec. V. nel Forcell. esempi di coaptare, coaptatio, coaptatus, {(συνάπτειν)} in senso di collegato ec. tutti di S. Agostino, il quale certo non pigliava {questo} buono e primitivo uso di tali parole da' più antichi padri della scrittura latina, nè dagli scrittori aurei che non le usano, ma dal parlar del volgo, che tuttavia conservava quel significato, come ancora lo conserva in Ispagna. E così dite di Ammiano.  2883 E chi sa che aptare in questo senso, non sia l'origine di attaccare, attacher ec.? V. il Glossar. Cang. principalmente in attachiare cioè vincire ec. Ma siccome questa voce si trova massimamente usata nelle scritture latino-barbare d'inglesi e scozzesi così non voglio contrastare che la sua origine non possa probabilmente essere Teutonica ec. come si afferma nel medesimo Glossar. v. 2. Tasca. (3. Luglio 1823.). {{V. p. 2887.}}

[2889,2]  A quello che altrove p. 2019 ho detto circa la formazione dei verbi in uo o in uor dai nomi verbali, o qualunque, della quarta declinazione, o dai nomi della seconda desinenti in uus, e circa i nomi in uosus fatti da simili radici, e agli avverbi ec. aggiungi praesumptuosus, praesumptuose; presuntuoso, presontuoso, prosuntuoso, prosontuoso, presuntuosamente, presuntuosità ec.; presumptuoso ec. spagnuolo, da sumptus us. Mutuor aris da mutuus. A quel che in questo proposito ho detto p. 2324 di monstruosus, mostruoso ec. aggiungi che gli spagnuoli in verità dicono monstruo non monstro, onde ben si deduce, non monstrosus, ma monstruosus. {Quaestuosus da quaestus us. Ructuo, ructuosus da ructus us. Eructuo v. Forcell. in Eructo fin. Evacuo da vacuus, e così vacuo as.} (4. Luglio. 1823.). {{V. p. 3263.}}

[2894,1]  Questa detrazione fatta, come si vede, in tante voci o derivate o composte da quęsitus, o che non sono altra voce se non questa medesima, conferma la mia opinione che da situs particip. di sum si facesse stare, {detratta la i} come appunto da conquisitus conquistare, e così da quaesitus quisto e chiesto ec. {+Così da positus, postus repostus ec. ec. E della soppressione della i in moltissimi participii latini come docitus - doctus, legitus - legtus - lectus ec. soppressione divenuta, fino ab antico, comune, anzi universale, vedi ciò che dico altrove.} La qual detrazione non è solamente propria delle lingue moderne (dico circa questo vocabolo quaesitus appunto), giacchè la stessa lingua latina nè[ne] fa uso nella voce quęstus {us,} la quale, come altrove ho dato per regola circa tali verbali, e formato[è formata] appunto da quęsitus, e dovrebbe {regolarmente} dire quęsitus us, la qual voce ancora si trova effettivamente. Siccome vi sono le voci quaesitio, quęsitor, quaesitura, di cui sono contrazione quaestio, quaestor, quaestura, voci fatte da quelle per detrazione della i, come per tal detrazione son fatte quaestorius, quaestuosus ec. benchè non si trovi quaesitorius,  2895 quaesituosus ec. {{E vedi a questo proposito la p. 2932. e 2991-2. 3032. segg.}}

[2895,1]  Del resto il nostro antico suto è lo stesso che lo spagnuolo sido, e che il latino situs da me supposto pp. 1120-21 pp. 2821-23: è lo stesso, dico, considerato il solito scambio e la solita affinità fra la lettera u e l'i, del che ho detto più volte, e fra l'altre pp. 2824-5. principio (e se n'ha appunto un esempio nella voce quaesumus di quaesere, detta per quęsimus. V. Forcellini.). Stante il quale scambio e affinità si può credere {o} che gli antichi latini dicessero così sutus come situs (maxumus e maximus, lubens e libens), o prima l'una di queste, e poi col tempo l'altra, o che l'italiano antico mutasse la pronunzia latina facendo suto da situs, o viceversa lo spagnuolo facendo sido da sutus, giacchè questo scambio tra u ed i ebbe luogo frequentemente anche nei principii delle moderne lingue (v. Perticari Apolog. di Dante c. 16. verso il fine p. 156.) siccome lo ha tutto dì. (5. Luglio 1823.). {{V. p. 3027.}}

[2923,3]  Il verbo avere in senso di essere, usato impersonalmente dagl'italiani da' francesi dagli spagnuoli, talora eziandio personalmente dagl'italiani (v. il Corticelli), non è altro che il latino se habere (il qual parimente vale essere) omesso il pronome. Il volgo latino dovette dire p. e. nihil hic se habet, qui non si ha nulla, cioè non v'è; poi lasciato il pronome, nihil hic habet, qui non v'ha nulla. Cicerone: Attica belle se habet * col pronome, e altrove: Terentia minus belle habet: * ecco lasciato figuratamente il pronome nella stessa frase. (Forcell. in Belle). Bene habeo, bene habemus, bene habent tibi principia sono  2924 tutte locuzioni ellittiche per l'omissione del pronome se, nos, me. Bene habet, {optime habet,} sic habet; ecco oltre l'omission del pronome se, anche quella del nome res. Onde avviene che in queste locuzioni, che intere sarebbono bene se res habet, sic se res habet, il verbo habere per le dette ellissi venga a trovarsi impersonale. Ed ecco nel latino il verbo habere in significato di essere, neutro assoluto, cioè senza pronome, e impersonale. Quis hic habet? chi è qui? In questo è[e] negli altri luoghi dove il verbo habere sta per abitare in significato neutro, esso verbo non vale propriamente altro che essere; e habitare altresì ch'è un frequentativo o continuativo di habere, sempre che ha senso neutro, sta per essere. E questa forma è tutta greca: giacchè presso i greci ἔχειν, la metà delle volte non è altro che un sinonimo di essere, e s'usa in questo senso anche impersonalmente, come in italiano, francese e spagnuolo, tutto dì. {V. p. 3907.} Così anche nel greco moderno a ogni tratto.  2925 Δὲν ἔχει, non ci è, non ci ha. (9. Luglio. 1823.).

[2996,1]  Alla p. 2815. A questa categoria di verbi {(che forse si potrebbero chiamare continuatt. irregolari, tutti, come viso is)} spettano senza dubbio i seguenti. Occupo da ob e capio. {Veggasi la pag. 3006-7.} Obstino da ob e teneo, interposta la s, come in ostendo che anticamente dovette dirsi obstendo ed esser lo stesso che il {{più moderno}} verbo obtendo. Nè è maraviglia che la prep. ob sia fatta seguire da una s nella composizione per proprietà di lingua, o ch'esistesse anche anticamente una prep. obs p. ob; giacchè vediamo appunto ab e abs, e nella composizione preporsi sempre alle voci comincianti per t la prep. abs e non ab. Così anche fuor di composizione, quando non s'usi la prep. a: perocchè convien dire p. e. o a te, o abs te, non ab te. V. Forcell. in A, ab, abs, e in Abs. {+ V. p. 3001. fine.; 3696.} {Vellico il Forc. lo chiama frequentat. di vello. E ha ragione. Così fodico di fodio, ec. albico, nigrico (biancheggiare) da albeo, {{nigreo, o da nigro.}} {{usurpare è un frequent. o contnuat. da utor - usus. Medico e medicor - V. p. 3264. - nutrico e nutricor da nutrio is: vindico, candico. V. p. 3695. e la pag. 4004.}}} Tornando al proposito, è manifesto  2997 che obstino, obstinatus vien da teneo, come ne viene pertinax, pertinacia ec. che spettano alla stessa significazione. {#1. La e è cangiata in i come appunto in pertinax e ne' composti ordinari contineo, obtineo ec.} Ed è notabile che laddove gli altri verbi di questa categoria son fatti, come ho detto, da verbi della terza, questo che indubitatamente appartiene a essa categoria, {+e non può esser di senso più continuativo,} è fatto da un verbo della seconda. {+V. p. 3020.} Aucupo ed aucupor da avis e capio, come occupo, e come - Nuncupo da nomen e capio, se però non si vuole che vengano da auceps aucupis quanto alla derivazione immediata. Anticipo da ante e capio. Participo da pars e capio, come anticipo, se non si vuol che venga da particeps cipis. Vociferor aris (forse anche vocifero as) da vox e fero fers. Opitulo e opitulor da {+ops e} tuli di fero o di tollo di cui {forse} è propriamente questo perfetto, (v. Forcell. in Tollo fin.), o piuttosto dall'antico tulo tulis tetuli latum, verbo della terza, di cui v. Forcell. in tulo.

[3001,3]  Alla p. 2996. fine. Che obstino venga da obs e teneo v. Forcell. in obstinatus princip. e in obscenus princip. Se anche obscenus viene da obs, notisi l'analogia. Perocchè nella composizione, alle parole  3002 comincianti p. c, q, t non si premette mai la prep. a o ab ma sempre abs. Così dunque se obscenus viene da cano o da caenum, bene sta che non si dica obcenus ma obscenus. {#1. Oscillo, secondo me, è da obs e cillo as, e vale quasi obciere, obmovere, obcire. Dico poi cillo as, non cillo is come il Forc., perchè è chiaro che nel luogo di Festo cillent (optativ.) è voce della prima; perchè cillo dev'essere stato un diminutivo di cio o di cieo, come conscribillo ec. (v. la p. 2986.) che sono della prima, benchè conscribo ec. sieno della 3.a; perchè veggo oscillans, oscillatio, e il nostro oscillare ec. e lo stesso Forc. dice oscillo as, non is. V. in Forc. tutte queste voci e oscillum e cilleo. Se oscillo as fosse fatto da cillo is o cilleo es, esso apparterrebbe a questa nostra categoria, come obstino as, da teneo es, ec. Non pare che il Forc. si sia accorto che cilleo o cillo spetta indubitatamente a cio, o cieo.} E così dunque altresì ben si dice ostendo cioè obstendo, obstino non obtino. I {più} moderni trascurarono questa regola e dissero obtendo, obtineo ec. In luogo del qual ultimo verbo pare che gli antichi dicessero obstineo, in significato però di ostendo. V. Forcell. in obstinet. E forse molti verbi o voci latine composte comincianti per os, le quali si dicono formate dal nome os, non lo sono infatti che da obs, come p. e. oscen inis che si dice fatto da os e cano (quasi si cantasse {mai} con altro che con la bocca), viene {forse} veramente da obs e cano. Infatti occinere cioè obcinere (che secondo l'antica regola sarebbe stato obscinere, e quindi oscinere come ostendere, il quale anch'essi[esso] da taluno è scioccamente derivato da os, in manifesto dispetto del significato) si diceva degli uccelli d'augurio, e dal modo in cui Livio l'adopra par che questa voce fosse solenne in tal  3003 proposito. V. Forcell. in occino, occento, occentus, {occano, obcantatus, obcanto.} Io dubito anche molto che quelle voci che si dicono derivate da sursum contratto in sus (eccetto susque) come sustineo, sustollo, suspendo, suspicio ec. ec. vengano infatti da sub (terza prepos. terminata in b, come ob ed ab), e sieno originariamente substineo, substollo ec. introdotta la s per proprietà di lingua; e vagliano tener di sotto, innalzar di sotto, cioè esprimano l'azione che si fa di sotto in su, come in ispagn. subir non vale già scendere o andar sotto, ma salire, cioè andare di sotto in su. Così spesso il latino subire. V. Forcell. nel quale troverai ancora subvenio per supervenio. {{V. p. 3558.}} {Subrepere nel luogo di Plinio cit. dal Forc. v. Sauroctonus, non è propriamente altro che repere di sotto in su, poichè questo è (s'io ben mi ricordo) quel che fa la lucerta nell'Apollo Saurottono del museo pio-clement., la quale non repit clam, ma scopertamente, {e non iscende, ma} salisce su per un albero. Plinio poi usò il tema repere come appropriato alla lucerta, ch'è quasi un reptile. Il detto Apollo è certo una copia di quel di Prassitele, di cui Plinio.} Del resto l'inserimento della s trovasi ancora dopo altre preposizioni, ed appunto al caso nostro fanno destino e praestino fratelli carnali di obstino, fatti da de o prae e da teneo (v. Forc. in Destino e Praestino) e non già da un sognato stino, come vogliono alcuni. E questi due verbi eziandio, spettano alla categoria di cui parliamo, massime che essi, e  3004 specialmente destino hanno forza tutta continuativa. (21. Luglio. 1823.).

[3080,1]   3080 Assaltare da assalire, come il semplice salto lat. da salio. (1. Agos. dì del Perdono. 1823.). {{V. p. 3588.}}

[3095,1]   3095 Futuri del congiuntivo usati da' lat. in vece di quelli dell'indicativo, del che altrove pp. 1970-73 p. 2656. Odero, meminero, credo anche {coepero} novero. Forse ero coi composti potero, subero ec. furono originariamente futuri del congiuntivo. (5. Agosto. 1823.).

[3246,1]   3246 A quei pochi monosillabi latini da me altrove raccolti pp. 1129. sgg., aggiungi pax, voce ch'esprime una cosa che dovette esser delle prime {+o delle più antiche} nominate; onde pacare, pacisci, pactum ec. Il greco corrispondente è trisillabo: εἰρήνη. {#1. Similmente dicasi di nex, onde neco, eneco ec.} (23. Agos. 1823.).

[3284,2]  {Ciò per la varietà de'dialetti, o per altro, in modo però che le voci formate per tali alterazioni sono generalmente proprie degli scrittori greci o de' poeti; onde a noi partoriscono la stessa difficoltà, qual se ne fusse la cagione {e l'origine;} e quando questa pur fusse particolare, la difficultà che a noi ne viene è ordinaria e generale ec.} La lingua greca, secondo che si può vedere a pagg. 2774. - 2777 , e più largamente e distintamente per capi presso i grammatici, ebbe in costume di alterare notabilmente le sue radici, p. e. i temi de' suoi verbi, anche fuori affatto dei casi di derivazione e di composizione, e senza punto alterarne il significato, ma  3285 semplicemente la forma estrinseca e gli elementi del vocabolo. Onde i verbi in ω li trasmutavano in verbi in μι; {+dei temi} ad altri aggiungevano le lettere αν, e li facevano terminare in ανω, ad altri αιν, e li terminavano in αινω, ad altri σκ e li finivano in σκω (ma questi non erano sempre alterati dal tema, ma da un altro tempo del verbo: v. i Grammatici), {+ad altri duplicavano la prima conson., interponendo una vocale, come l'iota (πιπράσκω), ec. Spesso si mutava la desinenza, volgendola in ίζω ec. senza mutazione di significato: νεμεσάω-νεμεσίζω, βάπτω-βαπτίζω ec. ec..} {Da ὄϕλω o da ὀϕείλω, ὀϕλισκάνω, doppia alterazione.} E di questi verbi e temi così alterati materialmente senz'alcun'alterazione di significato, altri restarono soli, {venendo a mancare} il tema o verbo primitivo e incorrotto, altri {restarono} insieme con questo, altri insieme con altri verbi fatti per tali alterazioni dal medesimo tema ec. ec. Ed altri interi, altri difettivi, suppliti dal verbo primitivo in molte voci, anomali, regolari ec. ec. del che vedi i Grammatici. E queste alterazioni de' verbi primitivi e de' temi (e così dell'altre radici), alterazioni affatto diverse {+distinte e indipendenti} dalla derivazione e {dalla} composizione, che anche nelle altre lingue hanno luogo; alterazioni che per niun conto influivano nè modificavano il significato (come influisce e modifica, o suole per lo più e regolarmente fare, la composizione e la derivazione), non furono  3286 già nella lingua greca quasi casuali, rare, fuor di regola e di costume e d'ordine, quasi anomalie, aberrazioni, non proprie della lingua, ma frequentissime, ordinarie, usitate, {abituali,} e regolari, ossia fatte per regola, come apparisce dal gran numero di temi e verbi che si trovano alterati in questo o quello de' suddetti modi e degli altri che si potrebbero dire; onde i grammatici distinguono siffatte alterazioni o modificazioni affatto materiali in molti diversi generi, e sotto ciascun genere radunano un gran numero di verbi o temi, in quella tal guisa uniformemente alterati {dal primo loro essere.} Questa tal sorta di alterazione, questo modo di alterare le voci, indipendente e diverso affatto dal derivare e dal comporre, e del tutto scompagnato dalla mutazione o pur modificazione di senso, non si trova punto nel latino; certo non vi si trova per costume nè per regola, nè d'assai così frequente, nè così vario ec. Perlochè anche di qui si faccia ragione quanto più nel greco che nel latino sia difficile il rintracciare le origini, l'antichità, il primitivo o l'antico stato delle voci e della lingua e della  3287 grammatica, le radici, l'etimologie ec. Massime considerando che detta materialissima alterazione si fa non mica in uno o in due, ma in molti diversissimi modi, tutti però frequentissimi e usitatissimi; che {moltissimi} verbi o vocaboli così alterati hanno mandato in disuso i non alterati ec. {+che naturalmente moltissimi verbi così alterati, essendo perduti quelli della primitiva forma, saranno da noi creduti aver la forma primitiva, e pigliati per radici, quando non saranno che alterazioni di queste, più o men lontane, mediate o immediate, maggiori o minori ec. ec.}

[3344,1]   3344 Scrissero, vissero, dissero, videro, diedero, tennero e simili innumerabili, quasi da scripsĕrunt, vixĕrunt, dixĕrunt, vidĕrunt, dedĕrunt, tenuĕrunt. Così veramente dissero molti poeti, massime i più antichi, e che tal pronunzia fosse {o restasse} propria del volgo romano, il quale conservasse anche in questo l'antichità e {+la trasmettesse fino a noi,} si può raccogliere da certi versi popolari portati da Svetonio in Jul. Caes. cap. 80 §. 3. (dove si veggano le note del Pitisco ec.), {che correvano in Roma} sugli ultimi tempi di Giulio Cesare. Dico popolari, {#1. lo dice Svetonio nello stesso cit. luogo: vulgo canebantur.} e in fatti si paragonino con quelli riportati dal medesimo Svetonio ib. cap. 49. §. 7., ch'erano cantati dalla soldatesca di Cesare. (3. Sett. 1823.).

[3350,1]  Verbi in uo. Heluor o helluor aris da helluo o heluo onis. Mutuo as e mutuor aris da mutuus. Cernuo as da cernuus. (4. Sett. 1813[1823.]).

[3359,1]  Ecco come la nostra teoria de' continuativi rischiara mirabilmente le origini della lingua latina, rettifica l'etimologie, mostra le vere e primitive proprietà delle voci, le analogie scambievoli delle lingue. Come qui, coll'osservazione che meditor debba venire da un participio in us ec. 1. trovasi il perduto participio o supino di medeor. 2. scopresi la vera etimologia di meditor. 3. correggesi e dichiarasi quella di medeor. 4. trovasi e dimostrasi il primitivo e proprio significato di questo verbo. 5. osservasi l'analogia tra la lingua greca e la latina nelle paragonate derivazioni di meditor e di μελετάω (verbi equivalenti) rispetto al significato. (3.[4.] Sett. 1823.). - Come i re antichissimamente erano quello che dovevano, {{cioè}} tutori e curatori della repubblica (Cic. de rep.),  3360 o tali erano riputati ben più che poscia non furono {#2. Così pure i ministri dei re, i capitani e tutti quelli che comandavano e governavano. Anche poscia assai sovente in tutte le lingue, ed oggi nè più nè meno, il governo fu chiamato e si chiama cura, e il governare aver cura, come de' negozi pubblici, della cosa pubblica ec.} non è maraviglia che il re fosse chiamato curatore (μέδων) e il regnare curare, o viceversa. Insomma fu ben facile e naturale la traslazione dall'uno all'altro di questi significati, qualunque de' due si fosse il primitivo e proprio del verbo μέδω. {#1. Io per me credo indubitatamente quello di curare.} -Medeor, meditor sono deponenti. Così μήδομαι è medio. Ed è ben naturale che in senso di curo, curam gero si dicesse piuttosto μεδέομαι o μέδομαι che μέδω attivo, perchè questo significato è di quelli che hanno un non so {che} di reciproco, i quali sogliono esprimersi in greco col verbo medio. Ond'è altresì naturalissimo che medeor sia deponente, venuto cioè da μέδομαι o μεδέομαι, quantunque esista anche l'attivo di questo verbo. Il quale non esiste in μήδομαι. Ma ciò, per la detta ragione, non fa gran forza a provare che medeor sia piuttosto μήδομαι che il verbo μέδω - μέδμαι. (5. Settembre. 1823.).

[3372,2]  Dialetti della lingua latina. Vedi Cic. pro Archia poeta, c. 10. fine, dove parla de' poeti di Cordova pingue quiddam sonantibus atque peregrinum. * Non avevano certamente questi poeti scritto nella lingua indigena di Spagna, che i romani mai non intesero, siccome niun'altro[niun altro] idioma forestiero, eccetto il greco; ma in un latino che sentiva di Spagnolismo, come quel di Livio parve  3373 sapere di Patavinità. E le parole di Cic., chi ben le consideri anche in se stesse, non possono significare altro. Perocchè era fuor di luogo la nota di peregrino se si fosse trattato di una lingua forestiera, che non in parte, o per qualche qualità, ma tutta è peregrina; nè questo in lei sarebbe stato difetto, e volendolo considerar come tale, soverchiamente leggiera e sproporzionata sarebbe stata quella semplice espressione che la lingua e lo stile di quei poeti sapeva di forestiero. Oltrechè l'una e l'altro sarebbero stati barbari, e per le orecchie romane affatto strani, rozzi, insolenti, insopportabili, non così solamente macchiati d'un non so che di pingue e di peregrino. Era in Cordova introdotta già (siccome in altre parti della Spagna già soggiogate, perchè quella provincia non fu sottomessa che appoco appoco, e con grandissimo intervallo una parte dopo l'altra, e, come osserva Velleio, {Vell. II. 90. 2. 3. Flor. II. 17. 5. Liv. 28. 12.} fu di tutte la più renitente, e tra le romane conquiste la più lunga e difficile e per lungo tempo incertissima); era, dico, introdotta già in Cordova la lingua e la letteratura latina, siccome  3374 dimostra l'aver essa poi potuto produrre i Seneca e Lucano, l'esempio dello stile de' quali, può (quanto allo stile) servire pur troppo di copioso commento alle parole di Cicerone, che, s'io non m'inganno, della lingua non meno che dello stile si debbono intendere. (6. Settem. 1823.).

[3541,3]  Monosillabi latini. Pes, {spes, {#1. V. p. 3571.} dies, nox, fax, nix,} res. Nótisi che questi e tutti gli altri monosillabi da me raccolti, sono radici (anche rex, lex ec. come ho mostrato pp. 1129-30). E che i nomi greci corrispondenti, bene spesso, oltre al non essere monosillabi, non sono radici: come ἥλιος (lat. sol monosillabo) si deriva da ἅλς  3542 ec. ec. e πρᾶγμα {(res)} viene da πράσσω indubitabilmente. Ed essendo verisimile che i nomi delle cose più necessarie e frequenti a nominarsi, più materiali ec., delle cose che sembrano dover essere state le prime nominate ec. (come sono, almeno in gran parte, quelle significate ne' monosillabi latini da me raccolti ec.) fossero radici, non meno che monosillabi; par che ne segua che in greco, ove tali nomi non sono radici, essi non siano i nomi primitivi greci delle dette cose, e che questi sieno perduti, e che il latino all'incontro gli abbia conservati; e così si confermi la maggior conservazione dell'antichità nel latino che nel greco. E probabilmente i detti nomi latini saranno stati una volta anche greci, {e saranno} venuti da quella lingua onde il greco e il latino scaturirono, ma il latino gli avrà sempre conservati, sino a trasmettergli alle lingue oggi viventi, e nel greco si saranno poi perduti o disusati ec. ec. (27. Sett. 1823.).

[3542,1]  Verbi in uare. Perpetuo as da perpetuus. (28. Sett. Domenica. 1823.). {+1. Continuo as, Obliquo as.} {{V. p. 3571.}}

[3569,2]  Curtare (cortar spagn. accortare, scortare coll'o stretto, accorciare ec. ital. accourcir ec. franc.) viene da curtus. Così decurtare ec. Ma curtus che cos'è? forse un semplice aggettivo? Signor no, ma egli è senza fallo originariamente un participio (come insinua {anche} la sua forma materiale {#1. e il modo della sua significazione e del suo uso assolutamente e generalmente considerato}) di un verbo di cui curtare è continuativo. E questo verbo perduto era un curo o cero {o ciro} o simile da {κουρεύω o da} κείρω tondeo, scindo, abscindo. Curtare per tondere vedilo nell'ultimo esempio del Forcellini; il qual luogo non sarebbe stato tentato dai critici, o forse guasto dagli amanuensi se avessero saputo e considerato questa certissima etimologia {e formazione} di curtare che, secondo le norme della nostra teoria de' continuativi, qui dichiariamo. La qual etimologia indica ancora il proprio significato di curtare  3570 ch'è appunto tondere, creduto finora al più metaforico, {e il proprio significato di curtus che è tonsus.} Questo verbo originario di curtare, e affatto conforme a un verbo greco della stessa significazione è da riporsi insieme con quelli che abbiamo dimostrato pp. 2146-48 per mezzo di gustare, potare e s'altri tali n'abbiamo accennati, conformi ai greci πόω, γεύω {#2. γεύω propriamente è gustare facio. Trovasi però in Erodoto p. gusto ch'è (o dicesi da' Lessicografi) il proprio di γεύομαι. Così ἵζω e ἱζάνω co' composti loro, che propriamente sono attivi, e valgono sedere facio ec. s'usano a ogni tratto in senso neutro, p. sedere ec. che è il proprio de' loro passivi. E così, credo, avviene in altri tali verbi. Onde guo in lat. potè ben essere propriamente gusto neut.} che altrettanto vagliono quanto essi verbi ignoti, e quanto i loro noti continuativi, non altrimenti che κείρω vaglia il medesimo che curto. E il discorso e le ragioni addotte per li suddetti verbi, si ripetano in proposito di questo. La forma di questo verbo doveva essere, s'io non m'inganno, e s'è lecito il congetturare, curo is, cursi, curtum, ovvero cureo es ui tum, ovvero anche curo as curui curtum, come neco as ui ctum, seco as ui ctum, eneco as ui ctum, reseco ec. i quali supini sembrano contratti da necitum, secitum (non già necatum, secatum), fatti alla forma di domitum da domo as ui, cubitum di cubo as ui {#1. Puoi vedere la p. 2814-5. e 3715-7.} ec. Onde il primitivo e intero sarebbe curitum, curitus p. curtus. (1. Ott. 1823.).

[3572,1]  Alla p. 3077. È da notare che gli argomenti ch'io traggo da tali participii spagnuoli a dimostrare  3573 gli antichi participii latini regolari ec. (e così sempre che dallo spagnuolo io argomento all'antico latino, al volgare ec.), sono tanto più valevoli, quanto siccome la lingua francese è nell'estrinseco e nell'intrinseco, fra tutte le figlie della latina, la più remota e alterata dalla lingua madre (secondo ho detto altrove pp. 965. sgg. pp. 1499. sgg. pp. 2989-90 p. 3395), così la spagnuola è nell'estrinseco la più vicina, {#1. V. p. 3818.} mentre però nell'intrinseco lo è la italiana, come altrove ho distinto pp. 1499-504. Ma dell'intrinseco poco ha che fare il nostro discorso. La lingua spagnuola che per la forma esteriore delle parole ha più di tutte le sue sorelle ereditato dalla latina, e che più di tutte {le lingue,} a sentirla leggere o a vederla scritta, rappresenta l'esterna faccia e il suono della latina e può con essa esser confusa; dev'esser considerata come speciale e principale conservatrice dell'antichità, della latinità, del volgar latino ec. quanto alla material forma delle parole e alla proprietà delle loro inflessioni ec. che è quello che ora c'importa. La qual conformità particolare col latino si può notar nello spagnuolo da per tutto, ma nominatamente e singolarmente  3574 e forse più ch'altrove, nelle coniugazioni de' verbi, il che fa appunto al nostro caso. AMO, AMAS, AMAt, AMAMVS (lo spagn. muta l'u in o, e questa è la sola mutazione in tutto questo tempo), AMAtIS, AMANt. Leggansi le sole maiuscole, e s'avrà la coniugazione spagnuola. La quale in questo tempo è tutta latina, salvo l'omissione del t in tre soli luoghi, {#1. È naturale agli organi degli spagn. di non amare la pronunzia del t, onde nelle voci venute dal lat. spessissimo lo mutano in d ch'è più dolce (come fanno anche gl'italiani in alcuni luoghi intorno alle voci italiane), spessissimo lo tralasciano, come in questo nostro caso fanno, in parte anche gl'italiani e i francesi} e la mutazione dell'u in o in un luogo, mutazione pur tutta latina (vulgus - volgus ec. ec. ec.) e propria senz'alcun dubbio, {anche in questo caso,} o di tutto l'antico volgo che parlò latino, o di molte parti e dialetti di esso. Infatti tal mutazione non solo è propria e dell'italiano e del francese in questo medesimo caso sempre, ma ordinarissima e quasi perpetua (massime nell'italiano) in quasi tutti o nella più parte degli altri casi, sì nelle desinenze, sì nel mezzo delle parole o nel principio. V-u-lg-u-s - V-o-lg-o. {#2. Sicché amamos p. amamus non si dee neppure chiamar mutazione quanto allo spagnuolo, non essendo stata fatta da esso ma nel latino medesimo, anzi non essendo stata neppur in latino altro che un'[un] accidente, una qualità, una maniera di pronunzia. Insomma amamos è latino; e lo spagn. in questa voce è puro (ed antico e non men che moderno) latino conservato nel lat. volgare. ec.} La congiugazione italiana è ben più mutata, e molto più dell'italiana la francese. Basta a noi che le regole e le inflessioni della coniugazione latina sieno specialmente conservate nella spagnuola, ancorchè gli elementi del verbo che non toccano l'inflessione  3575 e la regola della coniugazione sieno alterati, o soppressi ec. Come leo è mutato da lego. Ma la coniugazione di quello essendo similissima alla coniugazione di questo, l'omissione del g, in cui consiste l'alterazione di quello, non indebolisce punto l'argomento che dal suo participio leido si cava a dimostrare il latino corrispondente legitus. E così discorrete degli altri casi e argomenti, o sieno dintorno a' participii, o a checchessia ch'appartenga alle forme generali della congiugazione o d'altro ec.

[3586,1]  Al qual proposito, parlando delle lingue moderne figlie, rispetto alla lingua madre, e volendo argomentare da questa a quelle, o viceversa, o tra loro ec. in materia di antichità ec. bisogna nelle lingue moderne molto accuratamente distinguere tra voci e frasi latine conservate, e voci {e frasi} ricuperate, {+per mezzo della letteratura, filosofia, politica, giurisprudenza, diplomatica ec. ec.} che sono infinite, e possono anche essere molto antiche; ma da queste alle latine sarà sempre o nullo o debolissimo l'argomento, per chi pretenda investigarvi le antichità della lingua ec. Al contrario nelle voci e frasi conservate cioè trasmesse per continua e perpetua successione dall'antico {+e talora dall'antichissimo e primitivo.} latino fino alle lingue moderne per mezzo del latino volgare. {+V. p. 3637.} Simile distinzione è quella che convien fare nella lingua  3587 latina rispetto alle voci greche, cioè tra quelle introdotte dagli scrittori ec. e quelle antiche e veramente popolari ec. Così nell'inglese rispetto alle voci francesi ec. (3. Ott. 1823.).

[3617,2]  Nomi in uosus ec. Impetuosus, da impetus us. Se quella voce, e impetuose, non sono veramente nel buon latino (v. Forcell.) certo elle sono nelle lingue figlie. (V. il Gloss.) Tortuosus, tortuose ec. da tortus us. (6. Ott. 1823.)

[3620,2]  Relictos atque desertos habere espressamente per reliquisse ac deseruisse. Frammenti dell'epistola di Cornelia madre de' Gracchi, sulla fine; i quali frammenti, come antichi, e come di donna (che men si sapeva allontanare dal modo di parlar familiare e usitato in voce), in alcune parti sanno di frase italiana o vogliamo dir moderna. (7 Ott. 1823.).

[3621,3]  Materia per legno, legname. Del qual significato ho detto altrove pp. 1281-83 in proposito della voce silva e d'ὕλη. V. Forc. in materiarius, materiatio, materiatura, materiatus, materio, materior. In ispagn. oltre madera per legno, v'è maderamen per legname, ec. ec. (7. Ott. 1823.).

[3625,1]  Alla p. 2821. fine. Nótisi il significato continuativo di confuto nell'esempio di Titinnio appo il Forcell. dove questo verbo sta nel senso proprio, e questo si è quello di confundo, ma continuato, come excepto in un luogo di Virgilio da me altrove esaminato p. 1107, per excipio. Nótisi ancora che nell'improprio suo ma più comune significato, confuto è vero continuativo di confundo. Anche noi diciamo (e così i francesi ec.) confondere uno colle ragioni, confondere le ragioni di uno, confondere l'avversario ec. e ciò vale confutare, ma questo esprime azione e quello è quasi un atto, e quasi il termine e l'effetto del confutare ec. Le quali osservazioni confermano la derivazione di confuto da noi e dagli etimologi stabilita. Così mi par di spiegare la traslazione del suo significato da quel di mescere insieme a quel di confutare, e così mi par di doverlo intendere; non ispiegarlo per compescere e derivar la metafora da questo lato, come fa il Vossio (ap. Forcell.) il quale anche  3626 par che derivi confuto da futum nome (dunque da questo anche futo?), per la solita ignoranza in materia de' continuativi. E se tal derivazione egli dà (come è anche più naturale ch'ei faccia) anche al confuto di Titinnio, e lo spiega pure per compesco, s'inganna assai. {V. p. 3635} Significazioni analoghe a quella nostra metaforica di confondere gli avversari ec. vedile nel Forcell. in confundo, confusio, confusus, {#1. e nel Gloss. in Confundere,} avvertendo che la lingua latina antichissima aveva delle metafore e degli usi di parole molto più simili ai moderni che non ebbe poi l'aurea latinità, o piuttosto il latino più illustre scritto; e n'ebbe in grandissima copia; e che queste parole e questi usi, e generalmente le proprietà del volgare o familiar latino, più si veggono negli scrittori de' bassi tempi (or v. gli esempi di Sulpicio Severo nel Forc. in confundo e confusus), e ne' volgari moderni che negli aurei scrittori, perchè questi seguivano più l'illustre, e quelli il familiare, questi fuggivano il volgo, e quelli o per ignoranza o  3627 per elezione, gli andavan dietro, questi avevano una lingua illustre e una parlata, quelli non avevano già più una lingua illustre che fosse per essere intesa quando anche l'avessero saputa scrivere, ma lingua scritta e parlata era per loro una cosa sola, o tra se molto meno diversa che non nell'aureo secolo e ne' prossimi a quello. Siccome eziandio tra gli scrittori aurei, i più antichi e i più familiari, semplici e rimessi di stile, più conservano dell'antico latino, più rappresentano della frase volgare e parlata, {+più hanno delle voci e locuzioni, e delle significazioni ed usi di voci, conformi ai volgari. Così Cornelio, Fedro, Celso ec.} più somigliano quella degli scrittori bassi e de' volgari moderni. I più antichi (coi quali vanno quelli che più si tennero all'antico per loro instituto, come Varrone, Frontone ec.) perchè il linguaggio illustre e scritto non era ancor ben formato e determinato, nè molto nè ben distinto dal parlato e familiare. I più semplici e rimessi perchè o per istituto o per un poco meno di abilità nello scrivere {e minore studio fatto della lingua, o minor diligenza posta nel comporre,} non vollero o non seppero troppo scostarsi dal linguaggio più noto e succhiato da loro col latte, cioè dal familiare e parlato. Onde a noi  3628 paiono amabilissimi e pregevolissimi per la loro semplicità ec. ma certo a' contemporanei dovettero riuscire poco colti. Osservo infatti che fra gli scrittori dell'aureo secolo quelli che fra noi tengono le prime lodi per la semplicità e dello stile e della lingua (la quale in loro è sempre notabilmente affine alla frase italiana e moderna, ed anche a quella de' tempi bassi), o non si trovano pur nominati dagli antichi, o appena, o in modo che la loro stima si vede essere stata come di autori, al più, di second'ordine. Tali sono Corn. Nepote, Celso, Fedro, giudicato dal Le Fevre il più vicino alla semplicità di Terenzio (v. Desbillons Disputat. II. de Phaedro, in fine), e simili. De' quali gli stessi moderni, vedendo la diversità della loro frase da quella degli altri aurei, e giudicandola non latina (perchè non molto illustre) hanno disputato se appartenessero al secol d'oro, ed anche se fossero antichi, ed hanno penato a riconoscerli per autori dell'aurea latinità; e le Vite di Cornelio sono state attribuite ad Emilio Probo {+(autore assai basso)} per ben lungo tempo e in molte edizioni ec., Celso è stato creduto più moderno di quello che è, ec. Fedro è stato attribuito al Perotti,  3629 e negato da molti che la sua latinità fosse latina ec. (v. la cit. Disput. del Desbillons). Non così è accaduto nè anticamente accadde agli scrittori greci più semplici. Effetto e segno che il linguaggio illustre in Grecia era, come altrove ho sostenuto pp. 844. sgg., assai men diviso dal volgare e parlato, e che la lingua e lo stile greco per sua natura e per sua formazione e circostanze è più semplice ec. Onde lo stile e la lingua p. e. di Senofonte fu subito acclamata, non men che fosse quella di Platone ch'è lavoratissima, ec. e gli scrittori greci più semplici e familiari non hanno aspettato i tempi moderni a divenir famosi e lodati ec. Senofonte e Platone nel loro secolo sono i due estremi quello della semplicità e bella sprezzatura, questo dell'eleganza, diligenza e artifizio. Pur l'uno e l'altro furono sempre quanto allo stile quasi parimente stimati da' Greci e contemporanei e posteri, e così da' latini e dagli altri in perpetuo ec. (8. Ott. 1823.).

[3684,6]  Nomi in uosus, verbi in uare ec. ec. come altrove in più luoghi p. 2019 p. 2324 p. 2339 p. 2889 p. 3617. {Casuale. Exercitualis. Casuiste, franc. Luctuosus. Fructuosus. Fatuité. fortuitus. mortualia, mortuarius, mortuosus. manualis. manuarius.} Aggiungi amanuensis. Questi nomi o verbi o avverbi ec. ch'essendo fatti da' nomi della quarta declinazione (come da manus) conservano sempre l'u, mentre quelli fatti da' nomi della  3685 seconda, sempre (o regolarmente) lo perdono, mostrano chiaramente che il genitivo ec. de' nomi della quarta, ch'ora è in us lungo ec. o in u lungo ne' neutri, anticamente fu in uus o in uu ec. {#1. V. p. 3752.} {Giacchè si vede che i derivati da' nomi della quarta si formano al modo istesso che i derivati delle voci nelle quali il doppio u ancor si conserva ed è manifesto e fuori di controversia, come dire i derivati de' nomi in uus ec.} I quali due u valsero per una sola sillaba, come il doppio a degli ablativi singolari della prima. Sia che questo, e il doppio u, si pronunziassero doppi, o pur semplici, strascinando in certo modo la voce ec. In tutti i modi quest'osservazione si riferisca al mio discorso sui dittonghi latini pp. 1151-53 pp. 1158-60 pp. 2266-68 non considerati da' grammatici, o ch'essi nella pronunzia fossero monottonghi, o dittonghi veramente, o trittonghi ec. che tutto fa egualmente a quello ch'io voglio dimostrare in detto discorso. Perocchè s'anche e' divennero col tempo monottonghi, e ciò fino nella migliore età della lingua latina (come i comuni ae oe ec.), ciò tuttavolta, anzi più che mai, dimostra che gli antichi latini (de' quali nel detto discorso si parla) pronunziavano {} rapidamente le vocali successive e concorrenti, {ch'}e' le tenevano tutte insieme (o due o più che fossero) per una sillaba sola, e tale le facevano essere nella pronunzia, e sovente nella scrittura  3686 e ne' versi più o men regolari, più o men rozzi e informi, e massime ne' ritmici, {+che certo furono propri de' più antichi, come poi de' più moderni, invece de' metrici, o più di questi ec.} ma eziandio ne' metrici, ec. ec. (14. Ott. 1823.).

[3698,1]  Del resto chi volesse dire che il proprio preterito perfetto di oleo, adoleo e simili fosse e dovesse essere olui, adolui ec. onde adolevi inolevi ec. non sieno propri di adoleo, inoleo (ignoto), ma di adolesco veramente e di inolesco ec., osservi che anche l'altro oleo ne' composti fa olevi per olui (Forc. in oleo); {# 1. neo - nevi, fleo - flevi ec. ec.} e che queste desinenze evi ed ui, sono in verità una sola, cioè varie solamente di pronunzia, perchè gli antichi latini massimamente, e poi anche i non antichi, o meno antichi, ed anche i moderni ec., confondevano spessissimo l'u e il v {#2. V. p. 3708..} (che già non ebbero se non un solo e comune carattere): sicchè olevi è lo stesso che olui, interposta la e per dolcezza, ovvero olui è lo stesso che olevi, omessa la e per proprietà di pronunzia. Giacchè il v di questo e l'u di quello non furono mai considerate  3699 da' latini se non come una stessa lettera. Così nell'ebraico, così nelle lingue moderne, sino agli ultimi tempi, e dura ancora ne' Dizionari delle nostre lingue (come ne' latini) il costume di ordinar le parole come se l'u e il v nell'alfabeto fossero una lettera stessa, ec. ec. ec. Dunque non saprei dire, nè credo che si possa dire, se il vero e regolare e primitivo perfetto della seconda coniugazione abbia la desinenza in evi o in ui, se sia docui o docevi: e piuttosto si dee dire che, se non ambo primitive, ambo queste desinenze son regolari, anzi che sono ambo una stessa. Io per me credo che la più antica sia quella in evi, anticamente ei (conservata nell'italiano: potei, sedei ec. che per adottata corruzione e passata in regola, si dice anche sedetti {#1. Tutti i nostri perf. in etti sono primitivamente e veramente in ei, quando anche questa desinenza in molti verbi non si possa più usare, e sia divenuta irregolare, perchè posta fuori dall'uso, da quell'altra benchè corrotta e irregolare in origine, come appunto lo fu evi introdotta per evitar l'iato, come etti. E qui ancora si osservi la conservazione dell'antichissimo e vero uso fatta dal volgar latino sempre, sino a trasmettere a noi i perf. della 2.a in ei. Puoi vedere la p. 3820.} ec.), poi per evitar l'iato eϜi, e poi evi (come ho detto altrove pp. 1126. sgg. del perfetto della prima: amai, conservato nell'italiano ec. ama ϝ i, amavi), indi vi (docvi) o ui (docui), ch'è tutt'uno, e viene a esser contrazione di quella in evi (docevi). Ed è ben consentaneo che da doceo si facesse {primitivamente} nel perfetto, docei,  3700 conservando la e, lettera caratteristica della 2.da coniugazione come l'a nella prima, onde l'antico amai. Ma l'u com'ebbe luogo nella desinenza de' perfetti della seconda, essendo una lettera affatto estranea alle radici (come a doceo) ec.? {Impleo (compleo ec.) - deleo (v. la p. 3702.) es evi etum. Perchè dunque p. e. dolui e non dolevi? come delevi che v'è sola una lettera di svario. {+Perchè dolĭtum e non doletum?} O se dolui, perchè delevi e non delui? (v'ha però forse abolui, ed anche adolui ec. p. 3702. e ivi marg.) V. p. 3715.} Si risponde facilmente se si adottano le cose sopraddette: altrimenti non si può spiegare. L'u ebbe luogo nella seconda, come il v, ch'è la stessa lettera, ebbe luogo nella prima e nella quarta: per evitar l'iato. L'u e il v ne' perfetti di queste coniugazioni e nelle dipendenze de' perfetti sono dunque lettere affatto accidentali, accessorie, estranee, introdotte dalla proprietà della pronunzia, contro la primitiva forma d'essi verbi, benchè poi passate in regola nel latino scritto. Passate in regola nelle due prime. La quarta è l'unica che conservi ancora il suo perfetto primitivo (come la terza {generalmente e regolarmente,} che non patì nè poteva patire quest'alterazione) insieme col corrotto: audii, audivi. Il latino volgare per lo contrario non conservò, e l'italiano non conserva, che i primitivi: amai, dovei, udii. Queste osservazioni mostrano l'analogia (finora,  3701 credo sconosciuta) che v'ebbe primitivamente fra la ragion grammaticale, la formazione la desinenza de' perfetti della 1. 2. e 4. e che v'ha effettivamente fra l'origine delle forme e desinenze di tutti e tre. Analogia oscurata poscia e resa invisibile dalle alterazioni che dette desinenze variamente ricevettero nella pronunzia, nell'uso ec., le quali alterazione[alterazioni] passate in regola, furono poi credute forme primitive ec. {#2. Forse la coniugazione in cui più verbi si trovino che abbiano il perfetto (e sue dipendenze) veramente primitivo, {+e ciò} senz'averlo doppio come que' della quarta, {+ne' quali l'un de' perfetti non è primitivo,} si è la 3.a}

[3704,1]  Alla p. 3702. Queste osservazioni, e i confronti di fletum, netum e tali altri supini tutti della seconda, confermano che suetum, exoletum, e simili, non sono di suesco, exolesco ec. verbi della terza, alla quale punto non conviene questa desinenza, ma di altri della seconda da cui cui essi derivano. Cretum da cerno {#2. e suoi composti} è corrottissimo, {{per cernitum,}} {ch'è il vero,} e la desinenza in etum v'è accidentale ec. (15. Ott. 1823.). {#3. V. p. 3731.} Altresì quel che s'è detto de' perfetti della seconda, e il confronto di nevi, flevi ec. mostra che suevi, crevi, adolevi ec. non sono di suesco ec. verbi della terza. (15. Ott. 1823.). {#4. V. p. 3827.} La desinenza {de' perfetti} in evi o  3705 in vi, propria della prima coniugazione e, come abbiamo mostrato pp. 3698-99, della seconda, che ora ha più sovente ui ch'è il medesimo, e finalmente eziandio della quarta che conserva però anche quella in ii, è al tutto aliena da' verbi della terza, se non se per qualche rara anomalia, come in crevi da cerno, {#1. e suoi composti} perfetto irregolarissimo, per cerni, e in sevi da sero, {#2. e suoi composti} verbo d'altronde ancora irregolarissimo, come si vede nel suo supino satum, {#3. ne' composti situm, solita mutazione in virtù della composizione ec. v. p. 3848. ec.} Ovvero per qualche altra ragione come dal verbo no (di cui p. 3688.) che dovette essere della terza, il perfetto novi per evitare la voce poco graziosa ni, che sarebbe stata il suo perfetto regolare, e che d'altronde concorreva colla particella ni: oltre che niun perfetto latino, se ben mi ricordo, è monosillabo, ancorchè fatto da tema monosillabo: eccetto ii da eo, e da fuo, fui, i quali {{furono}} monosillabi, {+e forse ancora lo sono talvolta presso i poeti latini del buon tempo ec.} secondo il mio discorso altrove fatto pp. 1151-53 pp. 2266-68 della antica monosillabia di tali dittonghi ec. Da' monosillabi do, sto ec. si fece il perfetto dissillabo per duplicazione: dedi, steti, ec. Onde avrebbe da no potuto anche farsi neni. O forse il verbo da cui viene nosco, non fu no, ma noo (νοῶ), onde il perfetto  3706 novi invece del regolare noi sarà stato fatto (come que' della 1. in avi per ai, della 2. in evi per ei, della 4. in ivi per ii) per evitare l'iato; il quale iato però {+non può essere che} affatto accidentale ne' perfetti di questa coniugazione. {V. p. 3756.} Così per fui, regolare perfetto dell'antico fuo, verbo della terza, il qual perfetto anche oggidì si conserva, e solo esso, e tutto regolare, Ennio disse fuvi, non metri causa, come crede il Forcellini, (in fuam), ma secondo me, per evitare l'iato. {#1. V. p. 3885.} {Suo is ha sui, e non ha che questo. Abluo - Diluo ec. lui. Veggasi la p. 3732. Assuo assui ec. e gli altri composti di suo.} L'evitazion del quale stette a cuore principalmente agli scrittori (come anche in altre lingue), e ad essi, cred'io, si deve attribuire l'esser passate in regola le desinenze avi ed evi (poi ui) della 1. e 2. ne' perfetti e lor dipendenze, ed in parte la desinenza ivi nella quarta, in vece delle primitive ai, ei, ii. E quelle in avi, evi, ivi, secondo me, non furon proprie che della scrittura, o certo del linguaggio illustre, o di esso principalmente, e nulla o poco le adottò il plebeo, perocch'esso conservò le primitive ai, ei, ii, come lo dimostra l'italiano (e anche il francese  3707 aimai, onde lo spagn. amè, come ho detto nella mia teoria de' continuativi). Tornando a proposito la desinenza in vi, fuori de' detti casi, amalie[anomalie] ec. non è propria punto, anzi impropria, de' perfetti della terza, se non per puro accidente, come in solvi, volvi e simili. Ne' quali casi il v non è di tal desinenza, nè del perfetto, {+nè dell'inflessione ordinaria de' verbi della 3.a nel perfetto ec.} ma del tema (solvo, volvo), ed è lettera radicale di tutto il verbo ec. Trovansi però molti verbi della 3.a che (per anomalia) fanno il perfetto in ui (come il più di quelli della seconda): e questi sono in {molto} maggior numero che quelli della 3.a che facciano il perfetto in vi. (siccome anche nella 2.a oggi son più quelli in ui che quelli in vi). Per esempio l'altro sero (diverso dal sopraddetto a p. 3705.) che ha il supino sertum, nel perfetto fa serui, e così i suoi composti. Così colo is ui. Ed altri molti. {{Ma questa desinenza è pure affatto impropria della 3. e vi è sempre anomala, come quella in vi o}} {+in evi ec. che originalmente son tutt'una con quella in ui.}

[3711,2]  A quello che altrove ho detto p. 3002 del verbo cillo a proposito di oscillo parrebbe che si opponesse il verbo percello e procello ec. Ma io, qualunque sia l'origine di questi, non credo abbiano che fare con cillo, stante la differenza (oltre le lett. e ed i) della coniugazione de' perfetti e supini ec. Ben crederò che percello ec. sia da κέλλω, e così il semplice cello is perduto, ma non già cillo as ec. Quod os cillent, idest inclinent, praecipitesque  3712 in os ferantur. (Fest. ap. Forc. in Cillo). Non è chiaro a un fanciullo che quel cillent è da cillare non da cilleo nè da cillo is? Donde dunque s'ha preso il Forc. quel suo cillo is? {+Se già non fosse, come io penso, errore di stampa is per as.} Quanto a cilleo che sta in Servio (se non v'è errore) ei potrebbe pur esser da cio, fatto come conscribillo da conscribo ec., benchè d'altra coniugazione (cioè della 2. invece della prima) per anomalia, come viso is da video per viso as, e gli altri tali continuativi d'anomala formazione, cioè d'altra coniugazione che della prima, da me in più luoghi accennati p. 1114 pp. 2225-26 pp. 2813. sgg.p. 2821 pp. 2885-86, insieme e separatamente. O forse cilleo è da cieo? (16. Ott. 1823.).

[3715,1]  Alla p. 3700. marg. Che la desinenza ui nel perfetto della 2,da, sia stata introdotta nel modo che abbiam detto p. 3698, mostrasi ancora col considerarla in alcuni verbi della 1.a. Della quale niuno dubita che il perfetto regolare e proprio non sia quello in avi. Ma pur parecchi suoi verbi l'hanno in ui: domui, secui, vetui, necui, {{crepui}} ec. co' loro composti enecui, perdomui ec. {#1. Puoi vedere p. 2814-5. e 3570.} Or da che è venuta quest'anomalia? Dalla stessa cagione che l'ha introdotta ne' verbi della 2.da,  3716 nella quale ella, per esser più comune assai che nella prima, e più comune che non è ciascuna dell'altre desinenze, non si chiama anomalia, anzi regola; e piuttosto chiamasi anomalia quella in evi perchè divenuta più rara, e una di quell'altre meno comuni. Ma parlando esattamente e guardando all'origine, quella in ui è anomalia o alterazione nella seconda non meno che nella prima, e quella in evi è così regolare nella 2. come nella prima quella in avi. E più comune si è la desinenza in ui nella seconda che nella prima, perchè l'ommissione della vocale, da cui essa deriva, era ed è più facile e naturale circa la e che circa la a, lettera più vasta, per servirmi dell'espressione di Cicerone in altro proposito (Orat. c. 45. circa l'x.). Del resto, come parecchi della seconda hanno il perfetto così in evi come in ui, qualunque de' due sia più comune, così tutti o quasi tutti quelli della 1. che l'hanno in ui, conservano pur quello in avi, o che questo sia in essi il più usitato, o viceversa.  3717 { Plico as (v. Forc.) plicatus. Adplico, explico ec. avi atum, ui ĭtum. Frico as ui ctum, fricatum. perfrico ec. Sono as avi atum, ui, sonitus us. V. p. 3868. Mico as ui, micatus us. Emico as ui, emicatio, emicatim.} E tutti altresì, se non erro, hanno il supino in ĭtum, come quelli della seconda ch'hanno il perfetto in ui (mentre quelli che l'hanno in evi conservano altresì il vero supino in etum, credo, tutti); ovvero in ctum contratto da cĭtum (nectum, sectum ec.) come appunto lo sogliono avere quelli della seconda che hanno il perfetto in ui, come docui-doctum contratto da docĭtum {#1. V. p. 3723..} Ma {molti di} que' della 1. che hanno il supino in ĭtum, conservano altresì, come il vero perfetto in avi, così il vero supino in atum (o il participio in atus o in aturus ec. ch'è tutt'uno, e lo dimostra) {+più o meno usitato di quello in ĭtum,} non altrimenti che alcuni della seconda conservino forse accanto del supino in ĕtum il vero in ētum. Dico, forse, perchè ora non me ne soccorre esempio. (17. Ott. 1823.).

[3723,1]  Alla p. 3717. Quest'osservazione circa il trovarsi costantemente o quasi costantemente il supino in ĭtum ne' verbi della 1. e della 2. ch'hanno il perfetto in ui, ancorchè e quel supino e quel perfetto ne' verbi della 1. senza controversia, e ne' verbi della 2. giusta le nostre osservazioni, sieno anomali ec.; par che dimostri una corrispondenza, una dipendenza che passasse nella lingua latina fra il perfetto e il supino (come fra il perfetto e i tempi che è già noto formarsi da questo, fra' quali niuno, ch'io sappia, ha mai ancora contato il supino); e che la formazione del supino seguisse e fosse determinata e modificata dalla forma del perfetto, e che in somma anche il supino nascesse in qualche modo dal perfetto, come {assolutamente, in tutto, e senza controversia} ne nasce il più che perfetto, il futuro dell'ottativo ec. ec. Questo sospetto si potrebbe anche,  3724 cred'io, confermare con molte altre osservazioni. P. e. juvo as fa il perfetto iuvi, contratto da iuvavi o per evitare quel doppio v, {#1. Anzi gli u in iuvavi sarebbero tre, giacchè tanto era per gli antt.[antichi] l'u che il v ec., onde p. es. in pluvi si chiamava duplex u ec. V. Forc. in Luo fine, in U ec. e l'Encyclopédie in U ec. e l'Hofman in U ec.} o per effetto della pronunzia accelerata e confondente que' due v insieme: confusione e accelerazione passata poi in regola, onde venne iuvi solo perfetto di iuvo, e con un v solo e semplice. Perfetto che viene a essere anomalo, ma anomalia di cui ben si conosce l'origine e la cagione. Ora nel supino iuvo ha iutum per iuvatum. Participio anomalo, della cui anomalia non si conosce origine nè cagione, se non dicendo ch'egli è formato dal perfetto, il quale essendo iuvi, ne vien di ragione iutum, così bene come da iuvavi verrebbe iuvatum. V. Forcell. in Juvo fine. {#2. Si potrebbe però dire che iutum è fatto da iuvatum per evitare quel doppio u, benchè l'uno consonante l'altro vocale, e per sincope ed elisione dell'a, e per effetto di pronunzia ec..} E certo non si può negare, perchè dà negli occhi, che qui il supino corrisponde al perfetto (e così in tutti i composti di iuvo; adiuvi, adiutum ec. ec.), e stolto sarebbe l'attribuire questa corrispondenza al caso, e il non volere, come sembra evidente, che l'anomalia del supino della quale non si vede ragione, venga  3725 da quella del perfetto la cui ragion si vede, e comparato col qual perfetto, {e in ragione di lui,} esso supino non è anomalo ec. ec. {+e il voler piuttosto che l'anomalia del supino sia casuale ec.} (18. Ott. 1823.). {{V. p. 3732.}}

[3731,4]  Alla p. 3708. marg. Lavitum è dimostrato dal verbo lavito. Così fautum è contrazione di favitum dimostrato (se bisognasse) da favitor ec. Ma il detto  3732 scambio tra il v e l'u è dimostrato piucchè mai chiaramente da tutti o quasi tutti i verbi (ec.) composti di lavo, in cui lavo diventa luo. Contrazione la qual conferma mirabilmente e pienamente quella ch'io ho supposta pp. 3698. sgg. ne' perfetti in ui della seconda e massime della prima. P. e. domui è da domavi nello stessissimo modo che abluo per ablavo, soppressa la a e volto il v in u. Del resto pluit ebat ha il perfetto pluit ed anche pluvit per evitar l'iato, come a p. 3706. Exuo is ui utum. Ruo is ui utum contrazione di ruitum, che anche esiste: {prova delle mie asserzioni.} V. Forc. in Ruo e composti. {+ Fruor, ĭtus e ctus sum, ma fruĭtus è più usato, e così fruiturus ec.} Luo is ui luitum dimostrato da luiturus. Anche si disse o scrisse luvi. V. Forc. in luo, verso il fine. Fluo is fluxi, fluctum, fluxum e fluitum dimostrato da fluito e da fluitans. {{Così i composti di fluo ec.}} {#2. Tribuo, Minuo, Statuo, Induo, Arduo, Acuo, Annuo, Innuo ec. Imbuo ec. ui utum, co' loro composti, e così con quelli di Suo ec. In tutti questi supino l'i è stato mangiato per evitar l'iato, o come in docitum ec. Notisi che laddove l'u in tutti gli altri tempi di questi verbi, compreso il perfetto, è sempre breve. - V. p. 3735.} (19. Ott. 1823.).

[3732,2]  Alla p. 3725. Queste osservazioni confermano il mio discorso {#1. p. 2928-30.} sull'antico vexus di veho  3733 (fatto da me in proposito di vexare). Ben è ragione che veho abbia vexum poich'egli ha vexi, e poich'il supino corrisponde al perfetto. Viceversa quel discorso conferma grandemente queste osservazioni. Le conferma flexus da flexi, nexus da nexi, e gli altri quivi notati. Le conferma lo stesso vectus, noto, certo e moderno participio di veho, nel qual vectus, donde viene il c, che niente ha che fare con questo tema, se non dal perfetto vecsi? Così dite di victus per vivitus (vedi la p. 3710.), dove il c viene da vixi che sta pel regolare vivi. Così in mille altri di questo genere. Fluo ha fluxi; dunque fluxum; ed anche fluctum antichissimo (v. Forc. in fluo fine), onde anche oggi fluctus us, fluctuare ec. (E così appunto è vectus per vexus). Ma il suo regolare perfetto sarebbe flui: or dunque egli ebbe pur fluitum dimostrato da fluito e fluitans ec. Così per diversi perfetti, diversi corrispondenti supini si troveranno, cred'io, in molti verbi. Ai perfetti in xi corrisponde egualmente il supino in xum e  3734 quello in ctum. L'uno e l'altro si troverà insieme in non pochi verbi che abbiano il perfetto in xi (negli altri nol saprei ora dire). Forse o da xi direttamente, o poscia da xum, si disse ctum per accostarsi alla desinenza regolare de' supini che dovrebb'essere universalmente in tum. Forse xum fu corruzione di ctum, o viceversa, e xum fu il vero e primo supino de' verbi che fecero il perfetto in xi. ec. Insomma quale di questi due, xum e ctum, sia più antico, non lo so. {+Forse ambo sono una cosa stessa (benchè non sempre si conservino ambedue, o forse non sempre sieno stati messi in uso ambedue), diversi solo per accidente di pronunzia ec. ec. Ciò si applichi al mio discorso sopra vexus, avendosi già vectus ec. V. p. 3745.} Iubeo ha iussi, anomalo per iubevi- iubesi: dunque il suo supino è iussum, e niun altro, benchè anomalo anch'esso. Così infiniti: e la corrispondenza fra il perfetto e il supino, e la formazione e dipendenza di questo da quello, almeno il più delle volte, ancorchè quello sia anomalo, ancorchè moltiplice, ancorchè forse talvolta perduto affatto, restando il supino, o perduto quel tal perfetto restandone un altro o più d'uno, non corrispondente al supino o ai supini ec. ec.; {#1. V. p. 3736.} tal corrispondenza, dico, è evidente e fuor di controversia. (19. Ott. 1823.).

[3752,1]   3752 Alla p. 3685. Ho detto il genitivo ec. Tutti i nomi o verbi o avverbi ec. latini che son fatti immediatamente da qualche nome, son fatti dal genitivo o da' casi obliqui di questo nome, non mai dal nominativo (nè dal vocativo s'egli è conforme al nominativo {+nè dall'accusativo come da manum onde sarebbe manalis non manualis, da tempus accusativo onde sarebbe tempalis non temporalis ec. ec. Tempestas però par che venga da tempus accusativo o nominativo}). Ciò in moltissimi casi (come in dominor da dominus i ec.) non si può conoscere nè distinguere, ma in moltissimi sì. {Miles itis - milito, militia, militaris ec. nomen inis - nomino ec. {#(1.) Nomenclator per nominclator ec. non è che l'alterazione di pronunzia, e così mille casi simili. (come quello di cui nel marg. della p. seg. cioè imaguncula).} salus utis - saluto ec.} Imago inis - imagino {ec.} Virgo inis - virgineus ec. Magister istri - magistratus ec. Sempre che si può distinguere, troverete che così è. (v. la pag. 3006. marg.) Eccezione. Propago inis - propagare in vece di propaginare (che noi però abbiamo altresì, e l'ha anche Tertull. v. Forc. e il Gloss. ec.), se però propagare non è piuttosto fatto da propages is, o se propago non viene anzi da propagare (il che mi è molto verisimile, se l'etimologia è da pango, come il Forcell. in propago inis. Allora propago as per propango is apparterrebbe a quella categoria di verbi di cui p. 2813. sqq. e nelle ivi richiamate ec.  3753 E in esse pagg. si vedrebbero gli esempi e l'analogia e la ragione per cui pango in propago as o in propago inis abbia perduta la n, e perchè mutata coniugazione ec. che altrimente non son cose facili a dirsi. E certo l'osservazione fatta qui dietro, persuade che propagare non debba venir da propago inis: bensì propaginare). E s'altre tali eccezioni si trovano; ma saranno ben poche, s'io non m'inganno. {Imaguncula, {#2. incuncula, homuncio homunculus, latrunculus.} è lo stesso che imagincula (v. la p. 3007. fra l'altre), e però fatto dagli obliqui d'imago, e non dal retto, come parrebbe a prima vista. E così dicasi dell'altre simili voci.} Eccettuo ancora quei derivati che piuttosto sono inflessioni {ec.} de' rispettivi nomi, che {{altri}} nomi fatti da questi, come {+ lapillus, (se questa e simili non sono contrazioni, V. p. 3901.} {#1. vetusculus dal nominativo di vetus eris ec. Ma questo diminutivo è di Sidonio. Gli antichi vetulus. Nigellus potrebb'esser da nigeri non da niger, come puellus da pueri non da puer. V. p. 3909.}; {nigellus} ch'è dal nominativo di niger, e altri tali diminutivi ec. Se già gli antichi non dissero magister isteri, niger eri ec. (22. Ott. 1823.). E così tengo per fermo; ond'è magisterium, ministerium ec. per magistrium, piuttosto dall'obliquo magísteri, magístero ec. poi contratti, che da magistrium, ministrium per epentesi della e. Infatti gli antichi dissero magisterare, ma i più moderni magistrare, onde magistratus {us} ec., come ministrare  3754 ec. Insomma queste non mi paiono eccezioni, perchè si riducono alla regola coll'osservare il modo dell'antichità e lo stato primitivo delle voci, mutato poscia, e così si potranno risolvere mill'altre tali eccezioni apparenti. In ogni modo il più delle volte {è vero che} i derivati de' nomi vengono da' casi obliqui, come ho detto, {#1. di qualunque declinazione sieno i nomi originali, come si è mostro cogli esempi, e non solamente se essi nomi son della quarta, chè allora si potrebbe negare quello che noi affermiamo dei derivati di questi, cioè che vengano da' casi obbliq.} e fra questi derivati da' casi obliqui sono certamente quelli fatti da' nomi della quarta e notati da noi ec. Il che basta al caso nostro. (22. Ott. 1823.).

[3756,3]  Alla p. 3706. Senza fallo il nostro verbo fu noo is, non no nis. (e altrettanto si dica di poo, non po, dà[da] πόω, il quale dovette essere poo pois povi potum secondo le ragioni che or si diranno). 1. da no non si sarebbe fatto nosco ma nisco. Veggasi la p. 3709 fine - 10 principio. 2. No non avrebbe fatto nel pret. novi ma ni (o per duplicazione neni), come suo sui, luo lui ec. Noo bensì doveva far noi, come suo sui ec. (p. 3731. seg. 3706. marg.), poi per evitar l'iato fece novi, come amai amavi, docei docevi,  3757 lui luvi ec. (p. 3706. 3732. v. Forc. in luo verso il fine). 3. Così no non avrebbe fatto notum ma nĭtum. Nè questo si sarebbe mai mutato in notum, nè ni o neni in novi. Bensì noi in novi nel modo detto; e in notum il regolare noĭtum di noo (p. 3708. marg. 3731-2. 3735.) {+Anche Nomen, agnomen, cognomen ec. vien da noo, e serve a mostrare, primo, noo non no (onde sarebbe nĭmen, come da rego regĭmen ec.); secondo, noo da cui esso viene, non da nosco, checchè dica il Forc. in nomen princip. e quivi Festo ec.} {Ne' composti notum o gnotum si cambia in gnĭtum (cognĭtum ec.) fuorchè in ignotus nome, e in ignotus participio e supino. V. anche agnotus ec.} 4. Nobilis non potrebbe venir da no. Bensì da noo. Perocchè i verbali in bilis nel buon latino non si fanno se non da supino in tum (o participio in tus), e non da altri, mutato il tum (o tus) in bilis. {V. p. 3825.} Bensì tali supini (o participii) non sono sempre noti, ma dato il verbale in bilis, e' si possono conoscere mediante l'analogia e la cognizione dell'antichità e della regola della lingua latina, le quali anche da se li possono mostrare, e il verbale in bilis li conferma, sempre ch'egli esista. P. e. Docibilis è da doci-tum. Questo supino già lo conoscevamo per altra via, benchè inusitato, cioè per altri argomenti ec. Il verbale docibilis lo conferma. Immarcescibilis da marcescitus inusitato. Già abbiam detto e sostenuto che il proprio participio  3758 o supino de' verbi in sco era in scĭtus. Eccone altra prova in marcescitum di marcesco (che ora non ha o non gli s'attribuisce supino alcuno) dimostrato da im̃arcescibilis[immarcescibilis]. Solu-tum, volu-tum - solu-bilis, volu-bilis ec. Labilis, nubilis, {habilis} ec. sono dai regolari, veri ed interi, benchè inusitati supini, labitum, nubitum, {#2. habitum è usitato, anzi solo usitato, ma non è il primitivo)} ec., secondo la regola, fuor solamente ch'e' son contratti da labi-bilis, nubi-bilis per effetto di pronunzia accelerata o confusa ec. o per evitare il cattivo suono ec. {#1. V. p. 3851.} Or dunque da no nĭtum avremmo nibilis. Nobilis non può essere che da no-tum, gnobilis da no-tum o da gno-tum, ignobilis da no-tum o gno-tum o igno-tus o gnobilis o nobilis. {+Ovvero nobilis ec. sono contrazioni di noibilis come notum lo è di noĭtum. V. la pag. 3832. fine.}

[3762,1]  A proposito di sylva da ὕλη, del che altrove pp. 1276. sgg. pp. 2311-12. Sulla e Sylla Symmachus e nel Cod. Ambros. delle Orazioni Summachus costantemente. V. Forcell. ec. (23. Ott. 1823.).

[3762,2]  Chi vorrà credere che apto ed ἅπτω (de' quali altrove pp. 2136-41 p. 2277 pp. 2784-86 pp. 2887-88) essendo gli stessissimi materialmente, e significando propriamente la stessissima cosa, non abbiano a far nulla tra loro per origine ec. converrà supporre un'assoluta casualità che troverà pochi fautori ec. (23. Ott. 1823.).

[3811,1]   3811 Nomi in uosus ualis ec. V. Forcell. in Cornuatus, cornuarius. (31. Ott. 1823.).

[3818,1]  Alla p. 3573. Questa proposizione è molto azzardata. Bisogna intenderla lassamente. Per rispetto alla lingua francese è vera, parlando generalmente. Ma per rispetto all'italiana, dubito che sia vero neppur generalmente, ben compensate che sieno insieme le conformità estrinseche che hanno le lingue italiana e spagnuola colla latina. Il suono della lingua spagnuola ha più del latino, ma questa è quasi un'illusione de' sensi. Perchè quei tali suoni latini non sono nello spagnuolo a quei luoghi in cui erano nel latino. Per esempio la moltitudine degli s contribuisce, e forse principalmente, a rassomigliare il suon dell'una lingua a quello dell'altra. Ma lo spagn. abbonda di s, principalmente perchè in essa  3819 lingua tutti i plurali terminano in quella lettera. Non così in latino. (Vero è però che in latino la terminazione in s è propria di tutti gli accusativi plurali non neutri. Ora, secondo Perticari, i nomi latini trasportati nelle lingue figlie, son tutti fatti dagli accusativi delle declinazioni rispettive latine. Quindi che nello spagn. la terminazione in s sia caratteristica de' plurali, potrebb'esser preso dal latino, e cosa anch'essa latina. E quest'osservazione può essere di non poco peso a confermare l'opinione di Perticari; {(sebben ei parla solamente de' singolari, i quali fatti dall'accusativo latino generano poi i plurali al modo nostro)} mentre altri con più apparenza di ragione, ma forse men verità, vogliono che i nostri nomi sieno gli ablativi latini. P. e. amore ec. Ma veramente non si vede perchè, dovendosi perder l'uso degli altri casi, e restare un solo per tutti, com'è avvenuto nelle lingue moderne, e come, certo in gran parte, dovette avvenire anche nell'antico latino volgare e parlato, avesse a prevaler l'uso dell'ablativo. Ben è consentaneo che l'accusativo si usasse in vece degli altri casi ec. {v. p. 3907.}) L'aggiunger {sempre} la es ai singolari terminati in consonante non è uso latino, se non in certi casi, e nella terza declinazione. (Noi per la terminazione de' plurali imitiamo i nominativi {latini} della seconda e della prima. {#1. Sicchè quanto alla terminazione de' plurali, la conformità dello spagn. col latino, supposta eziandio e conceduta, come sopra, non si può dire che superi punto quella dell'italiano. Del resto quel continuo s che si sente nello spagnuolo fa un suono che tutto insieme considerato è così poco, o tanto, latino, quanto le continue terminazioni vocali dell'italiano. Il latino è temperato di queste e di quelle, ed eziandio insieme d'altre molte terminazioni; sicchè veramente il suo suono, parlando pure in generale e astrattamente non è nè quello dell'italiano nè anche quello dello spagnuolo. Ben è vero che nello spagnuolo le terminazioni consonanti sono miste come in latino, alle vocali, laddove in italiano non v'ha quasi che le vocali; e nello spagnuolo, benchè la terminazione in s sia, almeno tra le consonanti, la più frequente, pur v'ha diverse terminazioni consonanti, come in latino; e niuna terminazione in consonante, che non sia propria, credo, anche del latino (al contrario che in francese in tedesco ec.), benchè non sempre, anzi non il più delle volte, ne' casi stessi; e le terminazioni vocali son piane come in latino e non acute ossia tronche come in francese. Sotto questi aspetti il suono dello spagnuolo è veramente più conforme al latino che non è non solo il francese ma neppur l'italiano. E da queste ragioni nasce che udendo lo spagnuolo si possa più facilmente confonderlo col latino che non fa il francese nè anche l'italiano. E questo effetto, sotto questi aspetti, non è un'illusione, nè una cosa che non meriti esser considerata, e che non abbia un principio e una ragione di conformità o simiglianza reale. La terminazione consonante in d frequente nello spagnuolo è rara in latino ma pur v'è, come in ad, illud, id, istud, sed ec.).} Del resto anche in francese (bensì nel solo francese scritto) la terminazione in s (e a' singolari terminati in consonante, si aggiunge talvolta la es, se non m'inganno) è caratteristica del plurale (quella in x vien pure a essere in s); sicchè lo spagnuolo in questa parte non prevarrebbe al francese se non in quanto ei pronunzia sempre la s, e il francese solo talvolta, e piuttosto per accidente che per altro. Quanto all'  3820 italiano, anche nelle forme regolari delle coniugazioni, esso in molte cose assai più conforme al latino che non è lo spagnuolo. V. p. e. le pag. 3699-701. e la mia teoria de' continuativi dove si parla del digamma eolico in amaFi ec pp. 1126-27. E basti osservare che lo spagn. non ha che tre coniugazioni; l'italiano le ha tutte quattro, e tutte, in molti caratteri, corrispondenti alle rispettive latine, come negl'infiniti āre, ēre, ĕre, īre (lo spagnuolo manca del 3.o e gli altri non gli ha che tronchi), e in altre cose. Anche il francese ha 4. coniugazioni, ma non corrispondono alle latine (eccetto quella in ir quanto all'infinito ec.), e la conformità del numero {(cioè l'esser 4. come in latino)} sembra, ed è forse, un puro caso; il che non si può certo dire dell'italiano. E quanto alla conservazione della latinità in mille e mille altre sì regole, sì voci particolari materialmente considerate, sì frasi considerate pure materialmente (chè ora parliamo dell'estrinseco), {significati ed usi delle parole e frasi, anche propri originalmente o sempre del popolo e del parlato, non del solo illustre ec.} dubito assai che lo spagnuolo possa esser preposto, anzi pure agguagliato all'italiano. Questa e quell'altra voce {ec.} sarà più latina in ispagnuolo che in italiano (così avverrà alcune volte che nello stesso francese una voce ec. sia più latina che nelle due sorelle, {o in una di loro,} o che queste {o l'una di esse,} non abbiano una voce ec. nel francese conservata, {+nè pertanto sarà chi dica la latinità conservarsi più nel francese che nelle sorelle, o che nell'una di esse}); questa e quella voce latina resterà nello spagnuolo, e all'italiano mancherà; ma, raccolti i conti {e computati i casi contrarii, e posto tutto insieme,} io credo che in tutte queste cose l'italiano soverchi lo spagnuolo di grandissima lunga. (3. Novembre 1823.).

[3830,2]  Alla p. 3830.[3828.] fine Sicchè di ciascun verbo in asco si può sicuramente dire che {viene} da {un} verbo della prima, e non d'altra coniugazione, della quale è segno caratteristico l'a precedente la desinenza in sco; e così rispettivamente dite de' verbi  3831 in esco ed isco ec. (se pur non v'ha qualche verbo in sco che non sia incoativo, {#1. neppur per origine, (giacchè per significato {ed uso} molti nol sono o nol sono sempre, come altrove dico) pp. 3687-88 pp. 3709-10 pp. 3725-27 } il quale sarebbe fuori del nostro discorso). Pasco è certamente da un antico pare da πάω (e non da βόσκω, come dubita il Forcell. in Pasco princ.), come {l'antico} poo da πόω, e altri tali di cui altrove sparsamente ed insieme p. 2972 p. 3688 pp. 3756. sgg.. Dimostralo sì la sua desinenza in asco, sì il perfetto pāvi, affatto anomalo rispetto a pasco e rispetto alla sua coniugazione, cioè alla terza, perchè tolto in prestito da quell'antico verbo della prima, di cui è proprio. Ecco come le nostre osservazioni scuoprono {e illustrano} le antichissime voci e radici della lingua latina, e la sua analogia, e le sue antichissime conformità colla greca, e la medesimezza {di} voci greche e latine che non paiono più aver nulla che fare (e ciò non per stiracchiate etimologie, come tanti altri han fatto, ma per accurato ed evidente ragionamento, e per mille confronti ec. e per regole {grammaticali ec.} trovate, o illustrate nuovamente e nuovamente applicate, ampliate, meglio stabilite, spiegate ec.), e le origini della lingua latina, e la proprietà vera e primitiva sua e delle sue voci, e le sue vere norme e regole, forme ec.; e le ragioni {{ed origini}} delle anomalie sue e delle sue voci ec. Pastum è contrazione di pascitum dimostrato da pascito. L'uno e l'altro è supino (e participio) proprio di pasco, non di pao. Nuova prova che il vero e proprio supino di tutti i verbi in sco è in scĭtum, benchè per lo più perduto, e sostituitigli degli altri ec.; e quindi ancora che il lor proprio perfetto sarebbe in sci, giacchè il supino si fa dal perfetto, come  3832 altrove pp. 3723-24 p. 3827. Il composto di pasco, compesco, s'egli però è veramente composto di pasco, come crede il Forcell. (vedilo in pasco fin. e in compesco), non fa compavi, ma compescui, anomalo anch'esso, {+1. (v. la pag. 3707.)} {+ma, benchè anomalo, proprio di compesco e di un verbo in sco, non di compao nè di pao, e} che pur serve a mostrare che pavi non è proprio di pasco. Per supino Prisciano gli dà compescitum, e a dispesco, dispescitum; nuova prova e di pascitum e della qualità de' proprii supini de' verbi in sco ec. Prisciano riconosce anche dispescui. Se dispesco sia composto di pasco, ne dico quello stesso che di compesco.

[3843,2]  Convexo as vedilo nel Forcell. e applicalo a quello che ho detto altrove pp. 2020-21 di convexus derivandolo da veho, come vexare, da cui è convexare che vale altrettanto ec. (6. Nov. 1823.)

[3849,3]  Nuo di cui altrove pp. 2009-10, oltre il suo continuativo nutare, e i suoi composti, annuo, innuo, renuo, abnuo ec. e loro continuativi adnuto,  3850 renuto ec., è dimostrato ancora {} dagli altri suoi derivati, sì dal verbale nutus us, ch'è fatto dal supino di nuo, secondo la regola altrove assegnata della formazione di tali verbali della 4. declinazione. Del resto, come da νεύω si fece indubitatamente nuo, così da γεύω potè bene e verisimilmente e secondo l'analogia, farsi guo, di cui altrove pp. 2147-48. E viceversa nuo da νεύω, come guo da γεύω. ec. (8. Nov. 1823.).

[3852,5]  Alla p. 3849. Il vero perfetto di sino è sini. Questo infatti si trova ancora. Da questo, cred'io, per soppressione della n (della qual soppressione credo v'abbiano altri esempi {#1. V. p. e. Forcell. in fruniscor per fruiscor, qualunque de' due sia anteriore. E chi sa che prima non fosse sio, interposta poscia la n per evitare l'iato, come in greco nel fine delle voci, e come forse v'hanno altri esempi in latino, e fra questi forse il predetto fruniscor.}), si fece  3853 sii che ancor si trova eziandio, massime ne' composti (come desino is ii ed ivi). Da sii per evitar l'iato siϜi, cioè sĭvi, come da audii audīvi, da amai amavi, da docei docevi. Questo mi è più probabile che il creder sii posteriore a sivi, come gli altri fanno, e come fanno eziandio circa i preteriti perfetti della 4. coniugazione. Il supino nasce, come altrove dico pp. 3723-24, dal perfetto. Quindi da sii o sĭvi, sĭtum (come da audii o audīvi, audītum ec. da amā-vi amā-tum ec.), in luogo del regolare sinĭtum. Questo mi {è} più probabile che il creder sĭtum contrazione di sinitum, {fatto} o per soppressione assoluta della sillaba ni, {+contrazione, che sappia io, non latina} o per soppressione della n, onde siitum, {+come da sini sii,} poi contratto in sĭtum, nel qual caso l'i di situm parrebbe avesse ad esser lungo. (10. Nov. 1823.)

[3853,1]  Alla p. 3702. La considerazione da me altrove fatta pp. 3723-24 che i supini vengono dai perfetti, facilmente spiega il perchè l'ētum propria e regolare desinenza della 2. sia stato per lo più cambiato in ĭtum, soppresso poi sovente, e forse il più delle volte, l'i. La cagione si è che l'ēvi de' perfetti di essa coniugazione fu cangiato in ui, e il come, si è benissimo dichiarato di sopra. Con ciò si dichiara facilissimamente e bene, il come l'ētum de' supini (che in molti di essi ancor trovasi) sia passato in ĭtum ec. mutazione che senza ciò difficilmente si spiegarebbe, non solendo l'ē passare in ĭ ec. Docĭtum per docētum, {+(merĭtum di mereo e simili che ancor si trovano e sono anche per lo più gli unici supini superstiti de' rispettivi verbi, o i più usitati ec.)} onde doctum, è da docui per docēvi, come domĭtum per domātum è da domui per domāvi, nè  3854 più nè meno (v. la p. 3715-7. p. 3723. ec.). E chi vuol vedere la contrazione di doctum anche ne' supini della prima in ĭtum, fatti dai perfetti in ui, come è doctum, osservi sectum, nectum da secui, necui, enecui di secare, necare ec. Se il perfetto de' verbi della 2. si conserva in evi, il supino che ne nasce è in ētum e non altrimenti, come deleo es evi etum. Se il supino è in ĭtum o contratto, mentre il preterito è in evi, come abolĭtum di aboleo abolevi, adultum di adoleo evi (comparato con adolesco: adolesco ha evi, adoleo ha ui), allora esso supino non nasce certo dal perfetto in evi, ma nasce ed è segno certo di un {altro} perfetto noto o ignoto, in ui. Infatti ne' citati esempi, Prisciano riconosce ad aboleo un abolui, e bene: adolui di adoleo è noto e usitato; è noto anche adolui di adolesco, benchè rarissimo, dice il Forcell. {{V. p. 3872.}}

[3901,3]  Alle cose dette altrove in più luoghi p. 3695 pp. 3727-28 sopra il g protetico dei latini avanti la n, aggiungi gnatus, participio o aggettivo, e sostantivo, e gnatula, e v. Forcell. in queste voci. (23. Nov. 1823.).

[3904,5]  Ho detto altrove pp. 1031-37 che tutte le lingue nascendo dai volgari, le nostre sono nate dal latino volgare e parlato e non dal latino scritto. Da questo principio segue, fra gli altri molti, questo corollario che tutte le voci, frasi, significazioni ec. italiane, francesi spagnuole, e tutte le proprietà di queste tre lingue, o di qualunque di  3905 esse, che si trovano ancora, in qualsivoglia modo, nel latino scritto di qualunque età, e che nelle dette lingue non sono state introdotte dagli scrittori, dalla letteratura, da' letterati, dalla favella de' dotti o colti ec. nè passati dall'una di esse lingue nell'altra per qualunque mezzo, dopo essere in quella stati introdotti dagli scrittori o dal parlar letterato ec., ma che vengono originariamente dal semplice uso del favellare ec.; furono tutte proprie del latino volgare e parlato, non meno che dello scritto; e quindi chi cerca l'antico volgar latino, ha diritto di considerarle come sue parti e qualità ec. (24. Nov. 1823.).

[3940,2]  Che titillo, come altrove dico p. 2811, {Puoi vedere la p. 3986.} sia duplicazione (nata nel Lazio, o fatta p. e. dagli Eoli o da altro greco dialetto, o propria dell'antica lingua madre del latino e del greco, o dell'antico greco comune ec. ec.) del greco τίλλω, fatta all'uso greco, lo conferma l'osservare che la vocale di tal duplicazione cioè l'i è quella appunto che il greco usa in tali duplicazioni, come in τιτρώσκω ec. {#1. V. p. 3979.} Laddove nell'altre duplicazioni latine, come in dedi, cecidi ec. la vocale della duplicazione è la e. E questo ancora è all'uso greco, che nella duplicazione de' perfetti usa la ε. E notisi che come questa, così quella e è breve, fuorchè in cecīdi che molti scrivono caecidi, dove forse non sarà breve per distinguerlo da cecĭdi. Del resto  3941 tal uso affatto conforme al greco ha luogo in molti verbi latini che non hanno a far niente con alcuna voce greca nota, ed è un uso antichissimo nel latino, e non introdottovi da' letterati. Il che conferma l'antica conformità dell'origine, e fratellanza tra il greco e latino. Dalla quale origine dovette venir quest'uso nell'una e nell'altra lingua, in quella più conservato e steso, in questa meno, e sì può dire, perduto, se non in certe voci determinate, di cui si conservò sempre la forma antica, senza però mai applicar tal forma ad altri verbi, o a' verbi di mano in mano introducentisi da quegli antichissimi tempi in poi. ec. Tal uso trovasi ancora nella lingua sascrita, come negli Annali di Scienze e lettere di Milano, altrove citati in proposito d'essa lingua ec. p. 929 (5. Dec. 1823.).

[3941,1]  Anche τιτρώσκω, come altrove ho detto p. 3285 di ὀϕλισκάνω, è doppia alterazione, cioè da τράω, τιτράω (che ancor si trova, v. Scap. in τιτράω) e poi τιτρώσκω (così lo Schrevel.), ovvero da un τρώω, τιτρώω e poi τιτρώσκω. Così da τράω e τιτράω, τιτραίνω, è doppia alterazione: sempre però collo stesso senso del primitivo. Così altri non pochi. (5. Dec. 1823.)

[3956,1]  Dico altrove pp. 2009-10 pp. 2145-48 pp. 3733-34 che i verbali in us us derivano da' supini, ec. Osservisi il supino in u. Questo non sembra esser altro che l'ablativo del verbale in us us. Di modo che io credo che il supino in um altresì originariamente non sia altro che l'accusativo singolare del verbale rispettivo in us us, usitato o inusitato che sia, poichè il supino in u non è altro che l'ablativo di quello in um, e che il supino in u sembra evidentemente appartenere a un nome della quarta. ec. (8. Dec. 1823. Festa della Concezione).

[3964,2]  Dico altrove pp. 3586-87 p. 3637 che bisogna esattamente distinguere tra' vocaboli e modi latini conservati nelle lingue moderne, o ricuperati per mezzo della letteratura, scienze, diplomatica, politica, canoni, giurisprudenza, cose ecclesiastiche, liturgie ec. (o conservati ancora per questi mezzi, ma non per l'uso della favella ordinaria ec.). La stessa distinzione bisogna fare circa le forme delle parole ec. atteso massimamente che le ortografie moderne sono state da principio ed anche in seguito lungo tempo modellate sul latino, peccarono assai e lungamente per latinismo che nella rispettiva lingua parlata non si trovava, furono inesattissime ec. di tutte le quali cose ho detto in più luoghi pp. 1659-60 pp. 2458-63 pp. 2884-85 p. 3683 pp. 3959-60. (9. Dec. Vigilia della Venuta. 1823.).

[4001,2]  Delle colonie greche in italia, sicilia ec. e antico commercio ec. greco in italia, avanti il dominio de' romani, la diffusione o formazione di quella lingua latina, che noi conosciamo, cioè romana ec. e del grecismo che per tali cagioni può esser rimasto nel volgare latino {in} quelle parti, e quindi ne' volgari moderni {+in quelle parti,} e quindi nel comune italiano eziandio, massime che la formazione e letteratura di questo ebbe principio in Sicilia e nel  4002 regno, come mostra il Perticari nell'Apologia, ec. ec., discorrasene proporzionatamente nel modo che altrove s'è discorso pp. 1014-16 p. 2655 delle Colonie greco - galliche, di Marsiglia ec. in rispetto ai grecismi della lingua francese non comuni al latino noto ec. (24. Dec. 1823. Vigil. del S. Natale.).

[4007,4]  Alle varie alterazioni de' verbi greci quanto alla forma (sia nel tema, sia altrove ec.) senz'alterar punto il significato, delle quali altrove [pp. 3284-87], aggiungi in ννύω o ννυμι, come κεράω, κεραννύω, κεράννυμι; χρώω, χρωννύω, χρώννυμι; che valgono tutti tre lo stesso, e sono un sol verbo. Lascio poi l'alterazione sì comune in μι, ch'è pur di tante forme, e sì di regola e proprietà dell'uso greco ec. ec. e che parimente non muta punto il significato, che moltissime volte ha fatto dimenticare, disusare, o anche ignorare affatto il vero tema in ω, che {in} molti verbi si congettura {o si dee congetturare,} benchè espressamente non si trovi, essere stata usata ec. (2. Gen. 1824.).

[4013,2]  Che i perfetti in ui sien fatti da quelli in avi o evi o ivi ancorchè ignoti, come ho detto altrove pp. 3698. sgg. pp. 3716-17 p. 3849 pp. 3853-54 , e ciò anche nella terza coniugazione, in cui tal desinenza (come pur quella in ivi, o qualunqu'altra in vi, è sempre anomala), vedi Forcell. in pono is fin. circa l'antico posivi, apposivi ec. per posui, apposui ec. (13. Gen. 1824.).

[4023,2]  Alla osservazione del Mai p. 2657 sopra il modo in cui ne' codici è scritto il gn indicante esser più vera la pronunzia spagnuola, tedesca ec. cioè g-n, che l'italiana, osservisi, oltre il detto altrove pp. 1342-44, che molte voci latine o dal latino venute che hanno in latino il gn, in ispagnuolo si scrivono ñ, cioè pronunziansi gn all'italiana, come parmi aver detto altrove p. 3695 p. 3754 coll'esempio di cuñado (cognatus), a cui si può aggiungere leña (ligna) femin. eccetto se tali voci non son prese in ispagnuolo dall'italiano o dal francese piuttosto che dal latino a dirittura da cui hanno la prima origine. Infatti p. e. noi appunto diciamo legna femmin. nel senso spagnuolo, ed è voce propria nostra (lignum si dice in ispagnuolo altrimenti, cioè madera ec. come in francese bois ec.) e cuñado sta nel senso italiano per fratello o sorella della moglie o del marito ec. Ed è a notare che la maggior parte forse delle voci spagnuole derivanti dal latino e che in latino hanno il gn, si scrivono in ispagn. gn, pronunziando g-n, come digno, ignorante, magnifico (però tamaño e quamaño ec.) ec. ovvero n semplice per ellissi della n, che indica l'antica pronunzia spagnuola in quelle voci essere stata g-n e non all'  4024 italiana. (28. Gen. 1824.). {{Señal co' derivati ec. è dal latino o dall'italiano?}}

[4030,7]  Raddoppiamenti greci, del che altrove pp. 2774-75 p. 2811 p. 3940 p. 3979 p. 3994. ἐληλαμένος, ἐληλεγμένος, ὀρωρυγμένος, ἀληλειμμένος, ἀλήλειμμαι ec. ἄραρε ec. (14. Feb. 1824.).

[4037,4]  Lino linis, livi, et lini, et levi, litum per linĭtum. Osservisi questo verbo {quanto alla} sua coniugazione che mi par faccia a proposito d'altri miei pensieri pp. 3704-705 pp. 3848-49 pp. 3852-53. Ed osservisi ancora insieme con esso il suo compagno linio is ivi linītum, coi composti ec. dell'uno e dell'altro. (29. Feb. 1824.). {{Alo alis alui alitum altum alĕre.}}

[4040,3]  Φάω, ϕαείνω, ϕαείνομαι. Alterazione di desinenza collo stesso significato, del che altrove pp. 2774-75. (3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri. 1824.).

[4042,4]  Mινύϑω-minuo, forse l'uno e l'altro da μινύω, alterato nel greco colla interposizione del θ, (cosa usata), conservato purissimo in latino, eziandio ne' composti: della qual conservazione dell'antichità appo i latini più che appo i greci, dico diffusamente altrove pp. 2351-54 pp. 2771-79. (8. Marzo 1824.).

[4044,5]  Al detto altrove p. 3757 p. 3825 p. 3826 p. 3939 dei verbali in bilis in ilis ec. ec. si aggiungano quelli formati da essi in ilitas, bilitas, e altri generi, siano del buono o del barbaro latino o delle lingue moderne, sia che i verbali da cui essi sono formati sieno individualmente noti o ignoti ec. ec., sia pure che tali nomi sostantivi verbali, derivini[derivino] immediatamente dai verbi, e in tal caso bisogna vedere da che voce dei verbi e in che modo, secondo i rispettivi generi d'essi verbali. (10. Marzo. 1824.).

[4045,1]  ᾽Eϑέλω ἐγρηγορέω - ϑέλω γρηγορέω possono essere esempi o di accrescimenti o di troncamenti fatti da' greci ai loro temi senz'alterazione di significato. Così λῶ per ἐϑέλω, o quella sia la radice, o un troncamento, del che altrove p. 2779 (12. Marzo 1824.).

[4086,4]  Il verbo stare, che ha tanta relazione al verbo esse per l'uso, pel significato, alcune volte sinonimo ec. che in italiano supplisce col suo participio al difetto del verbo essere, e spesso si usa altresì, come anche più nello spagnuolo, in luogo di questo verbo, ec. non ha tuttavia nessunissima relazione grammaticale con lui, senza la mia osservazione pp. 1120-21 pp. 2142-45 pp. 2780. sgg. che lo fa derivare da un antico participio o supino di sum. Similmente in greco ἵστημι, στάω, ec. che in se, e ne' loro composti e derivati, e nel lat. sisto che ne deriva, e suoi composti, come exsisto, subsisto, exsistentia ec. e nella voce ὑπόστασις (substantia, subsistentia ec.), ha tanta relazione col verbo essere, non ha alcuna attinenza grammaticale con lui, senza la mia osservazione che lo fa derivare dal latino sto, derivato da sum. Anche i composti e derivati di sto (come exsto, exstantia, substantia, substantivus, substo ec. ec.) manifestano nel significato ec. grandissima relazione col verbo essere. (4. Maggio. 1824.).

[4088,4]  Ai frequentatativi in esso altrove notati p. 3869 p. 3900 p. 3904, aggiungi petesso o petisso da peto, del quale v. Forcell. aggiungendo a' suoi esempi due che si trovano nel {lungo} frammento di Cic. de suo Consulatu, che sta nel primo de Divinat., i quali esempi dimostrano pur la forza frequentativa di petesso. (15. Maggio. 1824.).

[4089,2]  Clepo is psi ptum - κλέπτω, quasi clepto as da cleptum di clepo. Il caso è al tutto simile a quel di apo-aptum-apto-ἅπτω, di cui lungamente altrove pp. 2136-40 , eccetto che clepto lat. non si conosce (è però ben verisimile), e viceversa clepo è più noto e certo di apo benchè parimente antiquato. Avvi anche clepso is, se è vero. V. Forcell. (17. Maggio. 1824.). {{V. pag. 4115.}}

[4090,6]  S'è veduto altrove pp. 1659-60 pp. 2458-63 pp. 2869. sgg. pp. 2884-85 pp. 3959-60 p. 3964 come la irregolarità e i vizi palpabili delle ortografie straniere vengano in gran parte dall'aver voluto accomodare le loro scritture alla latina. Ora egli è pur curioso che gli stranieri vogliano poi pronunziare la scrittura latina nel modo in cui pronunziano la propria. Questa non corrisponde alla parola pronunziata perchè l'hanno voluta scrivere alla latina, e le parole latine le vogliono poi pronunziare  4091 colla stessa differenza dalla scrittura, che usano nel pronunziar le loro parole, perchè sono male scritte. Ma se esse sono male scritte, le latine sono scritte bene; però s'hanno a pronunziar come sono scritte e non altrimenti; e gli stranieri mostrano di non ricordarsi che essi non pronunziano diversamente da quel che scrivono, se non perchè vollero scrivere alla latina, e che l'origine di questa differenza tra il loro scritto e il parlato, e della loro scrittura falsa, fu l'aver voluto scrivere alla latina mentre parlavano in altro modo, e l'aver voluto seguitare materialmente la scrittura latina, non falsa ma vera. Ora avendola malamente voluta prendere per modello, e con ciò falsificata la loro scrittura, pretendono poi per questa cagione medesima che quella sia falsa come la loro, e perchè la loro è falsa perciocchè segue quella; il che è ben lepido. (21. Maggio. 1824.). Quelli poi che non hanno tolta l'ortografia loro da' latini (sebben tutti in parte l'han tolta o immediatamente o mediatamente), e quelli che l'han tolta, in quelle cose in cui la loro non deriva da quella, ma è pur viziosa manifestamente perchè ripugna al lor proprio alfabeto, tralascia lettere e sillabe che s'hanno a profferire, ne scrive che non s'hanno a pronunziare; come mai, dico, questi tali hanno da credere che l'ortografia latina sia e viziosa perchè la loro lo è, e macchiata di quei vizi appunto che ha la loro, diversissimi poi in ciascuna, di modo che ciascuna nazione straniera pronunzia il latino diversamente? (21. Mag. 1824.).

[4093,6]  Ciĕo cies cīvi cĭtum (diverso da cio iis īvi ītum) co' suoi composti, aggiungasi ai verbi della seconda che hanno il perfetto in vi, e il supino in itum breve, de' quali altrove pp. 3702. sgg. pp. 3853-54 p. 3872. {Neo nes nevi netum.} E v. il Forcell. in cieo fine. (27. Maggio. Festa dell'Ascensione. 1824.).

[4096,1]  Sisto in vece di venire dal greco ἱστάω, come si crede e ho detto altrove pp. 2143-45 pp. 2779-80 , ben potrebbe venire da sto per duplicazione, non ignota neppure ai latini (come usitatissimo fra i greci), massime antichi, come ho mostrato altrove p. 2774 p. 2811 pp. 3940-41 coll'es. di titillo da τίλλω, e dei perf. cecidi ec. ec. E la mutazione della coniugazione dalla prima nella terza, sarebbe appunto come nei composti di do (del che pure altrove p. 2772) anch'esso monosillabo come sto. E quanto al significato e all'uso ec. chi non vede l'analogia fra sto e sisto? (1. Giugno. 1824.).

[4117,11]  Delle idee concomitanti annesse a certe parole, del che dico altrove pp. 109-11 pp. 1701-706 pp. 1234-36 pp. 3952-54 , v. Thomas, Essai sur les Éloges, ch. 9. fin. p. 78. œuvres t. 1. Amst. 1774. Dell'influenza della letteratura e filosofia sulla lingua, e della formazione della lingua latina. ib. p. 112-6. chap. 10. (25. Agosto. Festa di S. Bartolomeo Apostolo. 1824.). e {{p. 214-15.}}

[4123,1]   4123 Kλείω - κλεΐζω, κληΐζω, κλῄζω.

[4150,8]  Anche i verbi desiderativi (o comunque li chiamino) si formano dai supini. Edo - esum - esurio, pario - partum - parturio, mingo - mictum - micturio.

[4154,9]  Juxta meam sententiam βρύω et βρύζω idem verbum est, ut βλύω et βλύζω, βύω βύζω, μύω μύζω, ϕλύω ϕλύζω et alia. * Ignatius Liebel ad Archilochi fragm. 5. p. 70. ed. Vindobon. 1818.

[4155,1]  (Taso era nome di un'isola aggiacente alla Tracia.) A questo frammento di Archiloco il Jacobs fa questa osservazione. Ὄνου ῥαχις. Propter montium iuga poeta sic appellasse videtur insulam. Plurimas partium corporis appellationes ad terrarum situm et conditionem significandam translatas diligenter collegit Eustath. ad. Il. p. 233. seqq. quaedam schol. Sophocl. in Oed. Col. 691. conf. Wesseling ad Herod. I. p. 35. 86. Promontorium Laconiae ὄνου γνάϑον appellatum commemorat Pausanias III. 22. p. 431. edit. Facii. Nec hoc ὄνου ῥάχις tam Archilocho proprium fuisse puto, quam potius montosarum regionum appellationem. * Jacobs, Animadverss. in Antholog. vol. 1. par. 1. p. 165. seq. ap. Liebel loc. cit. qui dietro, fragm. 9. p. 79. Or notisi il nostro schiena d'asino o a schiena d'asino, detto di strade ec. (Bologna 27. Nov. 1825. Domenica.).

[4160,2]  Selva per albero cioè per lauro. Petr. Sestina 1. stanza 6. E per legno, ib. Chiusa.

[4217,2]  Mέδω, μέδομαι, μήδω, μήδομαι, μηδέω ec. (dei quali verbi dico altrove pp. 3352-60 , parlando di medeor, meditor ec.) debbono originariamente essere stati un verbo solo e medesimo, non pur tra di loro, ma eziandio con μέλω, μελέω, μέλομαι, μελέομαι, distinti solamente per la pronunzia, come δασύς - λασύς, {λάσιος} e come in ispagn. dexar (oggi si scrive dejar coll'iota, che risponde al nostro sci e al franc. ch) da laxare, lasciare, laisser, lâcher. Δάκρυον - lacrima.

[4251,2]  Grispignolo. {Lappa - lappula. lat., lappola. ital.}

[4268,3]  ϕλύω - vϕλύζω.

[4273,2]  Nella version latina di quel passaggio del Riccio rapito di Pope (Canto 1.) che contiene la descrizione della toilette, fatta dal Dr. Parnell (versione assai bizzarra, e che parrebbe piuttosto fatta nell'ottavo secolo che nel decimottavo, poichè consiste di versi dei quali ogni mezzo verso rima coll'altro mezzo, p. e. Et nunc dilectum speculum, pro more retectum, Emicat in mensa, quae splendet pyxide densa, * che sono i primi), trovo questi due versi, di séguito: Induit arma ergo Veneris pulcherrima virgo: Pulchrior in praesens tempus de tempore crescens, * dove, come si vede, ergo fa rima con virgo, e praesens con crescens. Che dicono gl'italiani di questa pronunzia? (Recanati. 5. Aprile. 1827.). {{V. p. 4497.}}

[4280,4]  Dico altrove p. 965 pp. 2869-75 che la moderna pronunzia francese distrugge ed annulla bene spesso l'imitativo che aveva il suono della parola in latino, {+e in cui spesso consisteva tutta la ragione di essa parola.} Il simile si dee dire di altre voci che la lingua francese ha da altre lingue che la latina, ovvero sue proprie ed originali. Miauler, miaulement {parole} espressive della voce del gatto, nella lor forma scritta (e però primitiva) hanno una perfettissima imitazione, nella pronunziata che ne rimane? Ognuno che abbia udito una sola volta il verso del gatto, sa che esso è mià e non miò; e dirà imitativo l'italiano miagolare (o sia questo originato dal francese, o viceversa, o l'  4281 uno e l'altro nati indipendentemente dalla natura), e corrotto affatto il franc. miauler, miaulement (noi diciamo miao o gnao, come anche gnaulare, e non già gnolare). Gli spagnuoli maullar o mahullar, maullido, maullamiento, mau. (16. Aprile. Lunedì di Pasqua. 1827.).

[4284,2]  Una delle cause della imperfezione e confusione delle ortografie moderne, si è che esse si sono quasi interamente ristrette all'alfabeto latino, avendo esse molto più suoni, massime vocali, che non ha quell'alfabeto. Ciò si vede specialmente nell'inglese, dove per conseguenza uno stesso segno vocale deve esprimere ora uno ora un altro suono, senza regola fissa, e servire a più suoni. I caratteri dell'alfabeto latino non bastano a molte lingue moderne. E generalmente si vede che le ortografie sono tanto più imperfette, quanto le lingue sono più  4285 distanti per origine e per proprietà dal latino, sulla ortografia del quale tutte, malgrado di ogni repugnanza, furono architettate.

[4294,1]   4294 La differenza tra le voci di origine volgare, e quelle di origine puramente letteraria nelle lingue figlie della latina, si può vedere anche in questo, che spesso una stessissima voce latina, pronunziata e scritta in un modo nelle nostre lingue, significa una cosa; in un altro modo, un'altra, tutta differente, {+V. qui sotto.} P. e. causa lat., corrotta di forma e di significato dall'uso volgare, significa res (cosa: v. la pag. 4089.); usata incorrottamente nella letteratura e scrittura, significa, come nel buon latino, cagione. Ed è certo che causa ital. è voce, benchè ora volgarmente intesa, (non però usata dal volgo), di origine letteraria; poichè nel 300 non si trova, o è così rara, che i fanatici puristi de' passati secoli dicevano ch'ella non è buona voce toscana, ma che dee dirsi cagione, voce pure storpiata di forma e di senso dalla lat. occasio, che pur si usa poi nella sua vera forma e senso, come una tutt'altra (occasione), benchè in origine sia la stessa. Franc. chose - cause, Spagn. cosa - causa ec. (Firenze. 21. Sett. 1827.). {{Leale, loyal, leal (spagn.) - legale, légal, legal.}}

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