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[1124,2]  Secondo la quale opinione, io penso che si potrebbe anche notare come costante nella lingua latina antichissima, che la prima e terza persona singolare  1125 {presente} indicativa del perfetto, fossero parimente dissillabe in tutti i verbi radicali e regolari, {+al modo appunto che in ebraico la terza persona di detto tempo e numero. V. p. 1231. capoverso 2.} Dei verbi della terza congiugazione, questo è manifesto, come in legi e legit, feci e fecit, dixi e dixit. Dei verbi della seconda, non si può disputare, ammessa la suddetta opinione, ch'io credo certissima, (essendo naturale all'orecchio rozzo il considerare due vocali unite come una sillaba sola, e proprio di un certo raffinamento e delicatezza il distinguerla in due sillabe): perchè secondo essa opinione, docui {e docuit} anticamente furono dissillabi. Restano la prima e la quarta congiugazione, dove amavi ed amavit, audivi ed audivit sono trisillabi. Ora della quarta congiugazione io penso che il perfetto primitivo fosse in ii cioè audii e audiit, perfetto che ancora dura, ed è ancora comune a tutti o quasi tutti i verbi {regolari} d'essa congiugazione, a molti de' quali manca il perfetto in ivi, come a sentire {che fa sensi.} Audii ed audiit (che troverete spessissimo scritti all'antica audi ed audit, come altre tali i che ora si scrivono doppi) erano, secondo quello che ho detto, dissillabi. La lettera v, io penso che fosse frapposta posteriormente alle due i di detto perfetto, per più dolcezza. E  1126 tanto sono lungi dal credere che la desinenza in ivi di quel perfetto, fosse primitiva, che anzi stimo che anche la desinenza antichissima del perfetto indicativo della prima congiugazione, non fosse avi, ma ai, nè si dicesse amavi, ma amai, dissillabo secondo il sopraddetto. Nel che mi conferma per una parte l'esempio dell'italiano che dice appunto amai, (e richiamate in questo proposito quello che ho detto p. 1124. mezzo, (come anche udii), e del francese che dice j'aimai; per l'altra parte, e molto più, l'esser nota fra gli eruditi la non grande antichità della lettera v, consonne que l'ancien Orient n'a jamais connue. (Villefroy, Lettres à ses Elèves pour servir d'introduction à l'intelligence des divines Ecritures. Lettre 6. à Paris 1751. t. 1. p. 167.) {V. p. 2069. principio.} E lasciando gli argomenti che si adducono a dimostrare la maggiore antichità de' popoli Orientali rispetto agli Occidentali, e la derivazione di questi e delle loro lingue da quelli, osserverò solamente che la detta lettera manca alla lingua greca, colla quale la latina ha certo comune l'origine, o derivi dalla greca, o le sia, come credo, sorella. E di più dice Prisciano (l. I. p. 554. ap. Putsch.) (così lo cita il Forcell. init. litt. u. nella mia edizione del 400. sta p. 16. fine) che {anticamente} la lettera u multis italiae populis in usu non erat. E che il v consonante fosse da principio appo i latini una semplice  1127 aspirazione, e questa leggera, si conosce, secondo me dal vedere ch'esso sta nel principio di parecchie parole latine gemelle di altre greche, che in luogo d'essa lettera hanno lo spirito lene o tenue, come {ὄϊς ovis,} vinum οἶνος, video εἴδω, {viscus o viscum ἰξός. (Talora anche in luogo di spirito denso come υἱός, onde gli Eoli υιός, i latini filius.) V. Encyclop. Grammaire. in H. p. 214. col. 2. sul principio, e in F.} ec. E ch'elle sieno parole gemelle, è consenso di tutti i gramatici. Laddove lo spirito denso dei greci solevano i latini cangiarlo in s (e così per un sigma lo scrivevano i greci anticamente), come in ὕπνος che presso i latini si disse prima sumnus (Gell.) e poi somnus ec. {V. p. 2196.} Anzi di questa cosa non resterà più dubbio nessuno se si leggerà quello che dice il Forcellini (v. Digamma. e vedilo), e Prisciano (p. 9. fine - 11. e vedilo). Da' quali apparisce che il v consonante appresso gli antichi latini fu lo stessissimo che il digamma eolico (giacchè dagli eoli prese assai, com'è noto, la lingua lat.). Il qual digamma presso gli Eoli era un'aspirazione, o specie di aspirazione che si preponeva alle parole comincianti per vocale, in vece dello spirito, e (nota bene) si frapponeva alle vocali in mezzo alle parole per ischifare l'iato, come in amai, amplia Ϝit termina Ϝitque * ha un'iscrizione presso il Grutero. {V. Encyclop. Grammaire, art. F. Cellar., Orthograph. Patav. Comin. 1739. p. 11-15.} E v. il luogo di Servio nel Forcellini circa il perfetto della quarta congiugazione. {+Dalle quali osservazioni essendo chiaro che l'antico v latino fu {(come oggi fra' tedeschi)} lo stesso che una f, non resta dubbio che non fosse aspirazione, giacchè la f non fu da principio lettera, ma aspirazione, {e lieve.} E così {viceversa} gli spagnuoli che da prima dicevano fazer, ferido, afogar, {fuso, figo, fuìr, fierro, filo, furto, fumo, fondo, formiga, forno, forca, fender}, ora dicono hazer, herido, ahogar, hurto, humo, {horca, hondo, hormiga, horno, huso, higo, huìr, hender, hierro, hilo} ec. V. p. 1139. e 1806.} In somma si vede chiaro che la primitiva e regolare uscita de' perfetti 1. e 4. congiug. era ai ed ii, trasmutata in avi ed  1128 ivi per capriccio, per dolcezza, per forza di dialetto, e pronunzia irregolare, corrotta e popolare, che suole sempre {e continuamente} cambiar faccia alle parole, col successo del tempo, e introdursi finalmente nelle scritture, e convertirsi in regola, come vediamo nella nostra e in tutte le lingue. {{V. p. 1155. capoverso ult. e p. 2242. capov. 1. e 2327.}}

[1276,1]   1276 Voglio portare in conferma di ciò un altro esempio, oltre ai già riferiti, per mostrare quanto giovino i lumi archeologici alla ricerca delle antichissime radici. Silva è radice in latino, cioè non {nasce} da verun'altra parola latina {conosciuta.} Osservate però quanto ella sia mutata dalla sua vecchia {e forse prima} forma. ῞Yλη è lo stesso che silva per consenso di quasi tutti gli etimologi. Or come la parola latina ha una s e un v davantaggio che la greca? Quanto alla s vedi quello che ho notato altrove p. 1127, vedi Jul. Pontedera Antiquitt. Latinn. Graecarumq. Enarrationes atque Emendatt. Epist. 2. Patav. Typis Seminar. 1740. p. 18. (le due prime epistole meritano di esser lette in questi propositi archeologici della lingua latina) ed ella è cosa già nota agli eruditi. {+Nelle stesse antiche iscrizioni greche si trova sovente il sigma innanzi alle parole comincianti per vocale, in luogo dell'aspirazione. Anzi questa scrittura s'è conservata in parecchie delle stesse voci greche, (come nelle latine): p. e. σῦκον pronunziavasi da principio ὗκον o ὖκον coll'aspirazione aspra o dolce, giacchè gli Eoli ne fecero Ⅎῦκον e i latini ficus. V. l'Encyclop. in S.} Quanto al v ecco com'io la discorro.

[2069,1]  Alla p. 1126. marg. Quanto sia vero che il v è stato sempre, per natura della pronunzia umana, almeno ne' nostri climi, o considerato o confuso con una aspirazione, e questa lieve, si può vedere nella lingua italiana che spesso lo ha tolto via affatto o dalle parole derivate dal latino, o da altre. E in quelle stesse dove lo ha conservato, la pronunzia volgare spessissimo lo sopprime, e spesso anche la scrittura, come nella parola nativo dal latino nativus, che noi scriviamo indifferentemente natío, ed in molte altre simili, latine o no, che o si scrivono indifferentemente in ambo i modi, o sempre senza il v che prima avevano, come restío, che certo da prima si disse restivo, o restivus. { Giulío per giulivo, Poliz. l. 1. Stanza 6. v. 4. Bevo, beo, bee ec. Devo deve, deo dee ec. V. le gramatiche, e fra gli altri il Corticelli. Paone, pavone ec.} Viceversa il popolo molte volte in queste o altre  2070 voci, inserisce o aggiunge comunque, quasi per vezzo, il v, che non ci va, massimamente fra due vocali, per evitare l'iato, al modo appunto del digamma eolico, ch'io dico esser lo stesso che l'antico v latino. Del resto come i latini dicevano audivi e audii ec. ec. così è solenne proprietà della nostra lingua il poter togliere il v agl'imperfetti della 2. 3. e 4. congiugazione e dire tanto udia, leggea, vedea quanto udiva, leggeva, vedeva (cioè videbat ec. essendo il b latino un v presso noi in tali casi, come lo era spesso fra' latini, e viceversa, e come tra gli spagnoli queste due lettere, e ne' detti tempi e sempre si confondono.) Particolarità analoghe a queste che ho notate nella lingua italiana, si possono anche notare nella francese e più nella spagnola. Siccome l'analogia fra la f e il v si può notare nel francese vedendo dal masc. vif farsi il fem. vive ec. ec. (7. Nov. 1821.).

[2195,2]  Osservo che questi nomi greci che passando in latino hanno mutato lo spirito in s, (siccome quelli che l'hanno mutato in h, e di questi è naturale perchè più recentemente fatti latini) conservano in latino le proprietà, e quasi la forma intera che hanno nel greco p. e. il genere maschile neutro ec. Non così quelli che hanno mutato lo spirito in v  2196 i quali hanno mutato il genere, la forma ec. in modo che appena o certo più difficilmente si ravvisano. Ho detto nomi, e intendo parole d'ogni sorta. Ciò fa credere o 1. che tal pronunzia di v o f in luogo dello spirito sia più antica, che quella in s, e perciò quelle parole più anticamente fatte proprie del latino 2. o ch'elle venendo forse dall'Eolico, avessero in esso dialetto forma diversa dalla greca comune. 3. o che in verità sieno passate dal latino al greco, o piuttosto (ed è verisimilissimo) siano di quelle parole primitivamente comuni ad ambe le lingue, e derivate da comune madre, il che conferma l'opinione della fratellanza del greco e latino. Bisogna però notare che quello che si cambia nel latino in s (o in h) è lo spirito denso, e quello che in v (o forse talvolta in f) il lene. Onde si potrebbe anche concludere che l'uso dello spirito denso, sebbene antichissimo, sia però nelle voci greche più recente, che quello del lene. Che l'uso greco  2197 (e quindi anche il latino) del σ per lo spirito, sia più recente di quello dell'H, mutato nel latino in v, o del digamma  ec. Che forse quelle parole greche scritte oggi collo spirito denso, che nel latino hanno il v, anticamente si scrissero o pronunziarono col lene (come ῾Εστία ec.), o che così passarono agli Eoli ec.

[2320,1]  Altra prova e dell'usanza latina di pronunziar più vocali in modo di una sola sillaba, e dell'essere stato originariamente il v latino una semplice aspirazione, e questa essere stata leggera (come l'h), {+e della dissillabìa della 1. e 3. persona sing. perfetta indicativa delle congiugazioni 1. e 4. ec. ch'è appunto quello che s'ha a dimostrare,} e della somiglianza tra l'antichissimo latino conservatosi nel volgare, e le moderne figlie del latino; eccola. Amaverunt, amaverat ec. si diceva spessissimo  2321 amarunt, amarat ec. Donde venne questa contrazione usualissima? Le contrazioni non nascono già, e molto meno diventano comunissime (più spesso troverete amarunt che amaverunt ec.) senza una ragione di pronunzia. Anticamente si disse amaerunt, amaerat trisillabe, senza però che l'ae si pronunziasse e, ma sciolto. Poi coll'aspirazione eufonica, per fuggire l'iato si disse ec. amaϝerunt. Ma il volgo continuò a considerarli come trissillabi; e perciò saltando facilmente una lettera, e conservando la parola trisillaba, disse amarunt, amarat ec. {+E non fece caso dell'aspirazione (ossia del v) non più di quello che in nil per nihil ec. V. disopra.} Che il volgo solesse pronunziare così contratto piuttosto che sciolto lo dimostra il nostro amarono, amaron, aimerent. (E quanto ad amarat vedi la p. 2221. fine - segg. ) Quest'uso essendo comune a tutte tre le lingue figlie, dimostra un'origine comune cioè il volgare latino. E viceversa le dette considerazioni provano che detto uso moderno, è di antichissima origine, e proprio (forse esclusivamente dell'altro) del volgare latino, com'era pur  2322 proprio della scrittura, e lo fu, sino ab antico, per sempre.

[2740,1]  Per esempio d'uno dei tanti modi in cui gli alfabeti, ch'io dico esser derivati tutti o quasi tutti da un solo, si moltiplicarono e diversificarono dall'alfabeto originale, secondo le lingue a cui furono applicati, può servire il seguente. Nell'alfabeto fenicio, ebraico, samaritano ec. dal quale provenne l'alfabeto greco, non si trova il ψ, carattere inutile perchè rappresenta due lettere; inventato, secondo Plinio, da Simonide; proccurato vanamente dall'Imperatore Claudio d'introdurre nell'alfabeto latino, che parimente ne manca, sebbene derivi dall'origine stessa che il greco; e in luogo del quale si trovano negli antichi monumenti greci i due caratteri π σ. {+(Secondo i grammatici il ψ vale ancora βσ e ϕσ; ma essi lo deducono dalle inflessioni ec. come ἄραψ ἄραβος, ἄραβες ἄραψι ec. Non so nè credo che rechino alcun'antica inscrizione ec.) V. p. 3080.} Ora ecco come dev'esser nato questo carattere che distingue l'alfabeto greco dal fenicio. Nella lingua greca,  2741 per proprietà sua, è frequentissimo questo suono di ps: ed ogni lingua ha di questi suoni che in lei sono più frequenti e cari che nelle altre. Gli scrivani adunque obbligati ad esprimerlo bene spesso, incominciarono per fretta ad intrecciare insieme quei due caratteri π σ ogni volta che occorreva loro di scriverli congiuntamente. Da quest'uso, nato dalla fretta, nacque una specie di nesso che rappresentava i due sopraddetti caratteri; e questo nesso che da principio dovette conservare parte della forma d'ambedue i caratteri che lo componevano, adottato generalmente per la comodità che portava seco, e per la brevità dello scrivere, appoco appoco venne in tanto uso che occorrendo di scrivere congiuntamente il π e il σ, non si adoperava più se non quel nesso, che finalmente per questo modo venne a fare un carattere proprio, e distinto dagli altri  2742 caratteri dell'alfabeto, destinato ad esprimere in qualunque caso quel tal suono: ma destinato a ciò non primitivamente, nè nella prima invenzione o adozione dell'alfabeto greco, e nella prima enumerazione de' suoni elementari di quella lingua o della favella in genere; ma per comodità di quelli che già si servivano da gran tempo del detto alfabeto. Di modo che si può dire che questo carattere non sia figlio del suono ch'esso esprime, come lo sono quelli ch'esprimono i suoni elementari, ma figlio di due caratteri preesistenti nell'alfabeto greco, e quindi quasi nepote del suono che per lui è rappresentato. La grammatica e le regole dell'ortografia ec. non esistevano ancora. Venute poi queste, e prendendo prima di tutto ad esaminare e stabilire l'alfabeto nazionale, trovato questo nesso già padrone dell'uso comune, e sottentrato in luogo di carattere distinto {e} non doppio  2743 ma unico, lo considerarono come tale, gli diedero un posto proprio nell'alfabeto greco tra i caratteri elementari, e fissarono per regola che quel tal suono ps si esprimesse, come già da tutti si esprimeva, col ψ, e non altrimenti. Ed eccovi questo nesso, introdotto a principio dagli scrivani per fretta e per comodo; non riconoscendosi più la sua origine, o anco riconoscendosi, ci viene nelle grammatiche antiche e moderne come un carattere proprio dei greci, e come uno degli elementi del loro alfabeto. Lo stesso accadde allo ξ, che non è fenicio, introdotto come nesso per rappresentare due caratteri, cioè γσ, o κσ, {+o χσ}: e ciò per essere questi suoni, frequentissimi nella lingua greca, siccome anche nella lingua latina, nel cui alfabeto pertanto ha pure avuto luogo questo medesimo nesso, considerato come carattere. In luogo del quale gli antichi greci scrivevano γσ, o κσ. Lo stesso dicasi  2744 del ϕ, carattere (originariamente nesso) che non si trova nell'alfabeto fenicio (perciocchè il ‎‏ף‏‎ {+o ‎‏פ‏‎} è veramente il Π, {+lat. P, giacchè l'Ϝ è il digamma eolico)}, e che fu introdotto in vece del ΠH che si trova negli antichi monumenti greci, dove pur si trova il KH in vece del X, carattere non fenicio. Questi due suoni composti, anzi doppi, ph e ch, frequentissimi nella lingua greca, non si udivano nella latina. Dunque l'alfabeto latino non ebbe questi due segni. I tre caratteri ξ, ϕ, χ s'attribuiscono presso Plinio (7. 56.) a Palamede, aggiunti da lui all'alfabeto Cadmeo o Fenicio. Lo stesso dite dell'ω, che s'attribuisce presso il medesimo a Simonide ec.

[3169,2]  Et Davus non recte scribitur. Davos scribendum: quod nulla {litera} vocalis geminata unam syllabam facit. * (geminata cioè p. e. due a, o come in questo caso, due u). Sed quia ambiguitas vitanda est nominativi singularis et accusativi pluralis, necessario pro hac regula digamma  3170 utimur, et scribimus DaFus, serFus, corFus. * Donatus ad Ter. Andr. I. 2. 2. (12. Agosto, dì di S. Chiara. 1823.)

[3624,2]  Il v non fu che un'aspirazione che si metteva, per evitare l'iato, fra più vocali; e tralasciavasi spessissimo ec. ec. come altrove in più luoghi pp. 1125-28 pp. 2069-70 pp. 2320-22 pp. 2879-80.  3625 V. il Forcellini in Fuam. (7. Ott. 1823.).

[3698,1]  Del resto chi volesse dire che il proprio preterito perfetto di oleo, adoleo e simili fosse e dovesse essere olui, adolui ec. onde adolevi inolevi ec. non sieno propri di adoleo, inoleo (ignoto), ma di adolesco veramente e di inolesco ec., osservi che anche l'altro oleo ne' composti fa olevi per olui (Forc. in oleo); {# 1. neo - nevi, fleo - flevi ec. ec.} e che queste desinenze evi ed ui, sono in verità una sola, cioè varie solamente di pronunzia, perchè gli antichi latini massimamente, e poi anche i non antichi, o meno antichi, ed anche i moderni ec., confondevano spessissimo l'u e il v {#2. V. p. 3708..} (che già non ebbero se non un solo e comune carattere): sicchè olevi è lo stesso che olui, interposta la e per dolcezza, ovvero olui è lo stesso che olevi, omessa la e per proprietà di pronunzia. Giacchè il v di questo e l'u di quello non furono mai considerate  3699 da' latini se non come una stessa lettera. Così nell'ebraico, così nelle lingue moderne, sino agli ultimi tempi, e dura ancora ne' Dizionari delle nostre lingue (come ne' latini) il costume di ordinar le parole come se l'u e il v nell'alfabeto fossero una lettera stessa, ec. ec. ec. Dunque non saprei dire, nè credo che si possa dire, se il vero e regolare e primitivo perfetto della seconda coniugazione abbia la desinenza in evi o in ui, se sia docui o docevi: e piuttosto si dee dire che, se non ambo primitive, ambo queste desinenze son regolari, anzi che sono ambo una stessa. Io per me credo che la più antica sia quella in evi, anticamente ei (conservata nell'italiano: potei, sedei ec. che per adottata corruzione e passata in regola, si dice anche sedetti {#1. Tutti i nostri perf. in etti sono primitivamente e veramente in ei, quando anche questa desinenza in molti verbi non si possa più usare, e sia divenuta irregolare, perchè posta fuori dall'uso, da quell'altra benchè corrotta e irregolare in origine, come appunto lo fu evi introdotta per evitar l'iato, come etti. E qui ancora si osservi la conservazione dell'antichissimo e vero uso fatta dal volgar latino sempre, sino a trasmettere a noi i perf. della 2.a in ei. Puoi vedere la p. 3820.} ec.), poi per evitar l'iato eϜi, e poi evi (come ho detto altrove pp. 1126. sgg. del perfetto della prima: amai, conservato nell'italiano ec. ama ϝ i, amavi), indi vi (docvi) o ui (docui), ch'è tutt'uno, e viene a esser contrazione di quella in evi (docevi). Ed è ben consentaneo che da doceo si facesse {primitivamente} nel perfetto, docei,  3700 conservando la e, lettera caratteristica della 2.da coniugazione come l'a nella prima, onde l'antico amai. Ma l'u com'ebbe luogo nella desinenza de' perfetti della seconda, essendo una lettera affatto estranea alle radici (come a doceo) ec.? {Impleo (compleo ec.) - deleo (v. la p. 3702.) es evi etum. Perchè dunque p. e. dolui e non dolevi? come delevi che v'è sola una lettera di svario. {+Perchè dolĭtum e non doletum?} O se dolui, perchè delevi e non delui? (v'ha però forse abolui, ed anche adolui ec. p. 3702. e ivi marg.) V. p. 3715.} Si risponde facilmente se si adottano le cose sopraddette: altrimenti non si può spiegare. L'u ebbe luogo nella seconda, come il v, ch'è la stessa lettera, ebbe luogo nella prima e nella quarta: per evitar l'iato. L'u e il v ne' perfetti di queste coniugazioni e nelle dipendenze de' perfetti sono dunque lettere affatto accidentali, accessorie, estranee, introdotte dalla proprietà della pronunzia, contro la primitiva forma d'essi verbi, benchè poi passate in regola nel latino scritto. Passate in regola nelle due prime. La quarta è l'unica che conservi ancora il suo perfetto primitivo (come la terza {generalmente e regolarmente,} che non patì nè poteva patire quest'alterazione) insieme col corrotto: audii, audivi. Il latino volgare per lo contrario non conservò, e l'italiano non conserva, che i primitivi: amai, dovei, udii. Queste osservazioni mostrano l'analogia (finora,  3701 credo sconosciuta) che v'ebbe primitivamente fra la ragion grammaticale, la formazione la desinenza de' perfetti della 1. 2. e 4. e che v'ha effettivamente fra l'origine delle forme e desinenze di tutti e tre. Analogia oscurata poscia e resa invisibile dalle alterazioni che dette desinenze variamente ricevettero nella pronunzia, nell'uso ec., le quali alterazione[alterazioni] passate in regola, furono poi credute forme primitive ec. {#2. Forse la coniugazione in cui più verbi si trovino che abbiano il perfetto (e sue dipendenze) veramente primitivo, {+e ciò} senz'averlo doppio come que' della quarta, {+ne' quali l'un de' perfetti non è primitivo,} si è la 3.a}

[3704,1]  Alla p. 3702. Queste osservazioni, e i confronti di fletum, netum e tali altri supini tutti della seconda, confermano che suetum, exoletum, e simili, non sono di suesco, exolesco ec. verbi della terza, alla quale punto non conviene questa desinenza, ma di altri della seconda da cui cui essi derivano. Cretum da cerno {#2. e suoi composti} è corrottissimo, {{per cernitum,}} {ch'è il vero,} e la desinenza in etum v'è accidentale ec. (15. Ott. 1823.). {#3. V. p. 3731.} Altresì quel che s'è detto de' perfetti della seconda, e il confronto di nevi, flevi ec. mostra che suevi, crevi, adolevi ec. non sono di suesco ec. verbi della terza. (15. Ott. 1823.). {#4. V. p. 3827.} La desinenza {de' perfetti} in evi o  3705 in vi, propria della prima coniugazione e, come abbiamo mostrato pp. 3698-99, della seconda, che ora ha più sovente ui ch'è il medesimo, e finalmente eziandio della quarta che conserva però anche quella in ii, è al tutto aliena da' verbi della terza, se non se per qualche rara anomalia, come in crevi da cerno, {#1. e suoi composti} perfetto irregolarissimo, per cerni, e in sevi da sero, {#2. e suoi composti} verbo d'altronde ancora irregolarissimo, come si vede nel suo supino satum, {#3. ne' composti situm, solita mutazione in virtù della composizione ec. v. p. 3848. ec.} Ovvero per qualche altra ragione come dal verbo no (di cui p. 3688.) che dovette essere della terza, il perfetto novi per evitare la voce poco graziosa ni, che sarebbe stata il suo perfetto regolare, e che d'altronde concorreva colla particella ni: oltre che niun perfetto latino, se ben mi ricordo, è monosillabo, ancorchè fatto da tema monosillabo: eccetto ii da eo, e da fuo, fui, i quali {{furono}} monosillabi, {+e forse ancora lo sono talvolta presso i poeti latini del buon tempo ec.} secondo il mio discorso altrove fatto pp. 1151-53 pp. 2266-68 della antica monosillabia di tali dittonghi ec. Da' monosillabi do, sto ec. si fece il perfetto dissillabo per duplicazione: dedi, steti, ec. Onde avrebbe da no potuto anche farsi neni. O forse il verbo da cui viene nosco, non fu no, ma noo (νοῶ), onde il perfetto  3706 novi invece del regolare noi sarà stato fatto (come que' della 1. in avi per ai, della 2. in evi per ei, della 4. in ivi per ii) per evitare l'iato; il quale iato però {+non può essere che} affatto accidentale ne' perfetti di questa coniugazione. {V. p. 3756.} Così per fui, regolare perfetto dell'antico fuo, verbo della terza, il qual perfetto anche oggidì si conserva, e solo esso, e tutto regolare, Ennio disse fuvi, non metri causa, come crede il Forcellini, (in fuam), ma secondo me, per evitare l'iato. {#1. V. p. 3885.} {Suo is ha sui, e non ha che questo. Abluo - Diluo ec. lui. Veggasi la p. 3732. Assuo assui ec. e gli altri composti di suo.} L'evitazion del quale stette a cuore principalmente agli scrittori (come anche in altre lingue), e ad essi, cred'io, si deve attribuire l'esser passate in regola le desinenze avi ed evi (poi ui) della 1. e 2. ne' perfetti e lor dipendenze, ed in parte la desinenza ivi nella quarta, in vece delle primitive ai, ei, ii. E quelle in avi, evi, ivi, secondo me, non furon proprie che della scrittura, o certo del linguaggio illustre, o di esso principalmente, e nulla o poco le adottò il plebeo, perocch'esso conservò le primitive ai, ei, ii, come lo dimostra l'italiano (e anche il francese  3707 aimai, onde lo spagn. amè, come ho detto nella mia teoria de' continuativi). Tornando a proposito la desinenza in vi, fuori de' detti casi, amalie[anomalie] ec. non è propria punto, anzi impropria, de' perfetti della terza, se non per puro accidente, come in solvi, volvi e simili. Ne' quali casi il v non è di tal desinenza, nè del perfetto, {+nè dell'inflessione ordinaria de' verbi della 3.a nel perfetto ec.} ma del tema (solvo, volvo), ed è lettera radicale di tutto il verbo ec. Trovansi però molti verbi della 3.a che (per anomalia) fanno il perfetto in ui (come il più di quelli della seconda): e questi sono in {molto} maggior numero che quelli della 3.a che facciano il perfetto in vi. (siccome anche nella 2.a oggi son più quelli in ui che quelli in vi). Per esempio l'altro sero (diverso dal sopraddetto a p. 3705.) che ha il supino sertum, nel perfetto fa serui, e così i suoi composti. Così colo is ui. Ed altri molti. {{Ma questa desinenza è pure affatto impropria della 3. e vi è sempre anomala, come quella in vi o}} {+in evi ec. che originalmente son tutt'una con quella in ui.}

[3731,4]  Alla p. 3708. marg. Lavitum è dimostrato dal verbo lavito. Così fautum è contrazione di favitum dimostrato (se bisognasse) da favitor ec. Ma il detto  3732 scambio tra il v e l'u è dimostrato piucchè mai chiaramente da tutti o quasi tutti i verbi (ec.) composti di lavo, in cui lavo diventa luo. Contrazione la qual conferma mirabilmente e pienamente quella ch'io ho supposta pp. 3698. sgg. ne' perfetti in ui della seconda e massime della prima. P. e. domui è da domavi nello stessissimo modo che abluo per ablavo, soppressa la a e volto il v in u. Del resto pluit ebat ha il perfetto pluit ed anche pluvit per evitar l'iato, come a p. 3706. Exuo is ui utum. Ruo is ui utum contrazione di ruitum, che anche esiste: {prova delle mie asserzioni.} V. Forc. in Ruo e composti. {+ Fruor, ĭtus e ctus sum, ma fruĭtus è più usato, e così fruiturus ec.} Luo is ui luitum dimostrato da luiturus. Anche si disse o scrisse luvi. V. Forc. in luo, verso il fine. Fluo is fluxi, fluctum, fluxum e fluitum dimostrato da fluito e da fluitans. {{Così i composti di fluo ec.}} {#2. Tribuo, Minuo, Statuo, Induo, Arduo, Acuo, Annuo, Innuo ec. Imbuo ec. ui utum, co' loro composti, e così con quelli di Suo ec. In tutti questi supino l'i è stato mangiato per evitar l'iato, o come in docitum ec. Notisi che laddove l'u in tutti gli altri tempi di questi verbi, compreso il perfetto, è sempre breve. - V. p. 3735.} (19. Ott. 1823.).

[3744,2]  Il v non è che aspirazione nell'antico latino ec.: sta in vece dello spirito nelle parole tolte dal greco, e non pur dell'aspro ma del lene ec. come nella mia teoria de' continuativi pp. 1126-27 Paphlagonia insignis loco Heneto, a quo, ut Cornelius  3745 Nepos perhibet, Paphlagones in Italiam transvecti, mox Veneti sunt nominati. * Solin. c. 44. ed. Salmas. 46. al., Plin. l. 6. c. 2. V. Menag. ad Laert. II. segm. 113. e notate che ivi il greco ᾽Ενετός è sempre collo spirito lene, benchè nell'addotto luogo si scriva Heneto. V. anche Cellar. ec. Del resto quelle mie osservazioni potrebbero confermare questa etimologia e questa storia. (21. Ott. 1823.). {+V. Forc. in Veneti e in Velia.}

[3756,3]  Alla p. 3706. Senza fallo il nostro verbo fu noo is, non no nis. (e altrettanto si dica di poo, non po, dà[da] πόω, il quale dovette essere poo pois povi potum secondo le ragioni che or si diranno). 1. da no non si sarebbe fatto nosco ma nisco. Veggasi la p. 3709 fine - 10 principio. 2. No non avrebbe fatto nel pret. novi ma ni (o per duplicazione neni), come suo sui, luo lui ec. Noo bensì doveva far noi, come suo sui ec. (p. 3731. seg. 3706. marg.), poi per evitar l'iato fece novi, come amai amavi, docei docevi,  3757 lui luvi ec. (p. 3706. 3732. v. Forc. in luo verso il fine). 3. Così no non avrebbe fatto notum ma nĭtum. Nè questo si sarebbe mai mutato in notum, nè ni o neni in novi. Bensì noi in novi nel modo detto; e in notum il regolare noĭtum di noo (p. 3708. marg. 3731-2. 3735.) {+Anche Nomen, agnomen, cognomen ec. vien da noo, e serve a mostrare, primo, noo non no (onde sarebbe nĭmen, come da rego regĭmen ec.); secondo, noo da cui esso viene, non da nosco, checchè dica il Forc. in nomen princip. e quivi Festo ec.} {Ne' composti notum o gnotum si cambia in gnĭtum (cognĭtum ec.) fuorchè in ignotus nome, e in ignotus participio e supino. V. anche agnotus ec.} 4. Nobilis non potrebbe venir da no. Bensì da noo. Perocchè i verbali in bilis nel buon latino non si fanno se non da supino in tum (o participio in tus), e non da altri, mutato il tum (o tus) in bilis. {V. p. 3825.} Bensì tali supini (o participii) non sono sempre noti, ma dato il verbale in bilis, e' si possono conoscere mediante l'analogia e la cognizione dell'antichità e della regola della lingua latina, le quali anche da se li possono mostrare, e il verbale in bilis li conferma, sempre ch'egli esista. P. e. Docibilis è da doci-tum. Questo supino già lo conoscevamo per altra via, benchè inusitato, cioè per altri argomenti ec. Il verbale docibilis lo conferma. Immarcescibilis da marcescitus inusitato. Già abbiam detto e sostenuto che il proprio participio  3758 o supino de' verbi in sco era in scĭtus. Eccone altra prova in marcescitum di marcesco (che ora non ha o non gli s'attribuisce supino alcuno) dimostrato da im̃arcescibilis[immarcescibilis]. Solu-tum, volu-tum - solu-bilis, volu-bilis ec. Labilis, nubilis, {habilis} ec. sono dai regolari, veri ed interi, benchè inusitati supini, labitum, nubitum, {#2. habitum è usitato, anzi solo usitato, ma non è il primitivo)} ec., secondo la regola, fuor solamente ch'e' son contratti da labi-bilis, nubi-bilis per effetto di pronunzia accelerata o confusa ec. o per evitare il cattivo suono ec. {#1. V. p. 3851.} Or dunque da no nĭtum avremmo nibilis. Nobilis non può essere che da no-tum, gnobilis da no-tum o da gno-tum, ignobilis da no-tum o gno-tum o igno-tus o gnobilis o nobilis. {+Ovvero nobilis ec. sono contrazioni di noibilis come notum lo è di noĭtum. V. la pag. 3832. fine.}

[3885,1]  Alla p. 3706. Se però, come dubito, fuvi per fui non è un raddoppiamento dell'u, fatto per proprietà di pronunzia, della qual proprietà in questo e simili casi v'hanno molti altri esempi ec. (v. la pag. 3881. ec.). Il qual raddoppiamento bensì può avere avuto luogo e occasione dal voler evitare l'iato, ma in modo che ad evitarlo sia stato interposto il v, non in quanto semplicemente atto e solito ad interporsi tra le vocali ianti, ma in quanto l'una {e la più sonante} di queste nel nostro caso era l'u, cioè appunto un altro v, secondo il detto altrove p. 3235 pp. 3698-99 circa la medesimezza di queste lettere u e v presso i latini massimamente. I quali non usavano che un carattere per esprimer l'una e l'altra, cioè anticamente e nel maiuscolo il V, più recentemente e nel semimaiuscolo o unciale, o forse in quello ch'era allora, o anche anticamente, il corsivo e l'usuale, {+sia tutt'uno coll'unciale, sia diverso, ec.} l'u, come ne' palimpsesti vaticani, ambrogiani, sangallesi, veronesi ec. (15. Nov. 1823.).

[3988,2]  Il v non è che aspirazione ec. Del Digamma eolico v. la Gramm. del Weller, Lips. 1756. p. 65.- È uso della lingua italiana l'omettere o l'aggiungere il v nei nomi, massime aggettivi in ío. {Così in latino: p. e. v. Forcell. in Dium. E certo da δῖος dev'essere divus; e v. Forc. in Divus.} Nel dire ío o ivo spessissimo vária sì la lingua scritta da se stessa (natio - nativo), sì il volgare dalla scritta (stantio, volg. stantivo, e viceversa in altri casi) e da se stesso, sì l'italiano scritto o parlato o entrambo dall'altre lingue, sì dalla latina o dall'originaria della rispettiva parola (joli - giulivo per giulío, che  3989 anche si disse anticamente, oggi è perduto affatto) sì da altre (rétif - rétive - restio), e viceversa queste dalla nostra, e tra loro, e in se stesse ec. (16. Dec. 1823.).

[4013,4]  Digamma eolico. Levis o laevis da λεῖος, come si osserva nelle note a Luciano opp. t. 1. p. 113. not. 9. (14. Gen. 1824.)

[4014,3]  Digamma eolico. Viscum (raro Viscus) da ἰξός colla metatesi delle lettere κσ incluse nel ξ. Nóta che lo spirito è lene, e il genere (almeno in viscum) mutato, come in οἶνος-vinum ec. Vivo da βιῶ (βιϝῶ). Forcell. e not. a Lucian. opp. 1687. t. 1. p. 143. not. 3. (15. Gen. 1824.).

[4014,5]  Alla p. 2779. lin. 1. Da βόρος o βορός ec. vorax ec. V. lo Scapula e il Forcell. Da βιῶ vivo. V. il capoverso 3. in questa presente pag. Nelle note quivi citate si fa anche venire vis da βιά, che altrove {+parlando del digamma eolico,} ho fatto venire, e così credo meglio, da ἴς ἰνός. V. Forcell. ec. (15. Gen. 1824.).

[4030,5]  Faventia - Faenza. (14. Feb. 1824.). {{Faentini (Guicc. 1. 418. {419. ec.} Faventini, come in lat.) Fayence per Faenza e per una città di Francia, lat. Faventia.}}

[4035,4]  Σίλλος, σίλλοι o σιλλοί si fa derivare da ἴλλος occhio παρὰ τὸ διασείειν τοὺς ἴλλους * . V. Scap. e Menag. ad Laert. in Timon. IX. 111. Consento che venga da ἴλλος, ma non che ci abbia a fare il σείειν, formazione d'altronde molto inverisimile. Io credo che σίλλος sia lo stesso affatto che ἴλλος in origine, aggiuntoci il sigma in luogo dello spirito, benchè lene, all'uso latino circa lo spirito denso e al modo che gli Eoli usavano il digamma, ossia il v latino (e quindi i latini il v) in vece anche dello spirito lene, nel principio delle parole. Veggasi il detto altrove p. 1276 p. 3815 di σῦκον ch'io credo essere venuto da un ὗκον o ὖκον. Da σίλλος occhio la metafora trasportò il significato a derisione ec. quasi dicesse, come diciamo noi, occhiolino ec. onde σιλλαίνειν sarebbe quasi far l'occhiolino, in senso però di deridere ec. La metafora è naturale, perchè il riso generalmente, ma in ispezieltà la derisione risiede e si esprime cogli occhi principalmente e molte volte con essi unicamente. (22. Febbraio. 1824. Domenica di Sessagesima.).

[4036,3]  Faventini, del che altrove p. 4030. Guicciard. t. 2. p. 34. 36. (25. Feb. 1824.).

[4043,1]   4043 ᾽Αργεῖος - argi-v-us. Oraz. e Ovid. alla greca comune, argeus, l'uno in un luogo, e l'altro in un altro. Così da ἀχαιός, oltre achaeus, achivus; {#(1.) che forse è più proprio latino e più volgare, e achaeus sarà solamente letterario, come anche argeus senza fallo.} e forse altri simili. (8. Marzo. 1824.).

[4044,4]  Λαιός - lae-v-us. (9. Marzo 1824.). {{σκαιός - scae-v-us.}}

[4052,4]  Lixi-v-ia, lixi-v-ium - lexia ο legia spagn. (23. Marzo. 1824.).

[4054,2]  Ri-v-us, ri-v-o - ri-g-agnolo ec. - rio ital. e spagn. (28. Marzo. 1824.).

[4101,7]  Divido - diviser. (7. Giugno. 1824.)

[4126,10]  Obliviscor da un perduto verbo oblivio - obbliare per obbliviare mangiato il v al solito, e congiunti i due i in uno, come obblio da oblivium. V. Forc. ec.

[4132,1]  Sa-v-ona. Molti antichi, come G. Villani (per es. l. 7. c. 23.) Sa-ona, come Faenza anche oggi per Faventia, dicendosi però dal Guicc. e altri antichi Faventino per Faentino, del che altrove p. 4030 p. 4036. (6. Aprile. 1825.).

[4146,8]  Vivuola {+vivola} - viola: strumento musico, {+e fiore. spagn. vihuela.} {{V. la giunta L. nella Crus. Veron. all'articolo H. e la Crus. V. vivuola e gargagliare.}}

[4148,6]  Pouvoir - francese antico pooir, sostantivo, come si vede ib. art. Triplication, t. 2. p. 248. Gengia - gengiva.

[4158,5]  Divenire - diventare (da ventum sup. di venio). Cupio cupitum - cupitare, covidare, convitare (Crus.), convoiter ec. v. gli spagn. {Pervertire - perversare. V. Crus. in perversare e perversato.}

[4162,13]  Boves, bovi - buoi.

[4180,1]   4180 Del digamma eolico vedi Casaubon. animadv. in Athenae. lib. 2. cap. 16.

[4182,7]  Mantua, Genua, Mantuanus ec. - Mantova, Genova, ec.

[4248,3]  Del digamma eolico v. Casaub. ad Athenę. l. 8. c. 11. due volte.

[4282,6]  Nae-v-us - Ne-o. V. franc. spagn. ec.

[4290,2]  Io non credo vero quel che dicono i critici che gli antichi, p. e. Ebrei, Greci, Latini Orientali ec. non avessero nelle loro lingue il suono del v consonante, ma solo l'u vocale. Credo che il vau dell'alfabeto ebraico non sia veramente altro che un uau o u, credo che gli antichi latini non avessero segno nel loro alfabeto per esprimere il v consonante, e che il V non fosse in origine che un u; ma con ciò non si prova altro se non che gli antichi non ebbero il v nel loro alfabeto, il che non prova che non l'avessero nella lingua. Considerato come un'aspirazione (non altrimenti che l'f, il quale ancor manca negli antichi alfabeti, giacchè il fe ebraico fu anticamente pe, e il ϕ greco è una lettera aggiunta all'alfabeto antico, {e} considerata come doppia o composta, cioè di π e di Η, ossia come un π aspirato), esso v, per l'imperfezione degli antichi alfabeti, mancò di segno proprio, giacchè non si ebbe bastante sottigliezza per separarlo dalle lettere su cui esso cadeva, per avvedersi che esso era un suono per se, un elemento della favella. Perciò da  4291 principio esso non fu scritto in niun modo, come nel lat. amai per amavi; poi scritto come aspirazione, digamma ec. p. e. amaFi ec.; finalmente, sempre privo di segno proprio, esso fu scritto con quel medesimo segno che serviva all'u, ond'è avvenuto che nel latino maiuscolo il V sia ora vocale ora consonante, e così l'u nel latino minuscolo, la qual confusione dura ancora, non ostante che i moderni abbiano fatto di quest'u due caratteri, u e v; giacchè si vede, ciò non ostante, nei dizionari l'u e il v considerarsi come un solo elemento diversamente modificato, ed abbiamo e impariamo fin da fanciulli la irragionevole distinzione tra u vocale e u consonante, distinzione che non ha ragione alcuna naturale, ma solo storica ec. ec. Il simile dirò dell'f ec. ec. (20. Sett. 1827. Firenze.)