Digamma eolico.
Vedi Concorso delle vocali. F, lettera. V, Lettera. Sinizesi. Dittonghi.Eolic digamma.
See Concurrence of vowels. The letter F. The letter V. Synizeses. Diphthongs. 1127 1276,1 2070 2195,2 2321 2744 3169,2 3624,2 3698,1 3704,1 3731,4 3744,2 3756,3 3885,1 3988,2 4013,4 4014,3 4014,5 4030,5 4035,4 4036,3 4043,1 4044,4 4052,4 4054,2 4101,7 4126,10 4132,1 4146,8 4148,6 4158,5 4162,13 4180,1 4182,7 4248,3 4282,6 4290,2[1124,2] Secondo la quale opinione, io penso che si potrebbe
anche notare come costante nella lingua latina antichissima, che la prima e
terza persona singolare
1125
{presente} indicativa del perfetto, fossero parimente
dissillabe in tutti i verbi radicali e regolari, {+al modo appunto che in ebraico la terza persona di detto
tempo e numero. V. p. 1231. capoverso 2.} Dei verbi della terza
congiugazione, questo è manifesto, come in legi e legit, feci e fecit, dixi e dixit. Dei verbi della seconda, non si può disputare,
ammessa la suddetta opinione, ch'io credo certissima, (essendo naturale
all'orecchio rozzo il considerare due vocali unite come una sillaba sola, e
proprio di un certo raffinamento e delicatezza il distinguerla in due sillabe):
perchè secondo essa opinione, docui
{e docuit} anticamente furono
dissillabi. Restano la prima e la quarta congiugazione, dove amavi ed amavit, audivi ed audivit sono
trisillabi. Ora della quarta congiugazione io penso che il perfetto primitivo
fosse in ii cioè audii e audiit, perfetto che ancora dura, ed è ancora comune a
tutti o quasi tutti i verbi {regolari} d'essa
congiugazione, a molti de' quali manca il perfetto in ivi, come a sentire {che fa sensi.}
Audii ed audiit (che
troverete spessissimo scritti all'antica audi ed audit, come altre tali i che
ora si scrivono doppi) erano, secondo quello che ho detto, dissillabi. La
lettera v, io penso che fosse frapposta posteriormente
alle due i di detto perfetto, per più dolcezza. E
1126 tanto sono lungi dal credere che la desinenza in
ivi di quel perfetto, fosse primitiva, che anzi
stimo che anche la desinenza antichissima del perfetto indicativo della prima
congiugazione, non fosse avi, ma ai, nè si dicesse amavi, ma amai, dissillabo secondo il sopraddetto. Nel che mi
conferma per una parte l'esempio dell'italiano che dice appunto amai, (e richiamate in questo proposito quello che ho
detto p. 1124. mezzo, (come anche
udii), e del francese che dice j'aimai; per l'altra
parte, e molto più, l'esser nota fra gli eruditi la non grande antichità della
lettera v, consonne que l'ancien
Orient n'a jamais connue. (Villefroy, Lettres à ses Elèves pour servir d'introduction à
l'intelligence des divines Ecritures. Lettre 6. à
Paris 1751. t. 1. p. 167.)
{V. p. 2069.
principio.} E lasciando gli argomenti che si adducono
a dimostrare la maggiore antichità de' popoli Orientali rispetto agli
Occidentali, e la derivazione di questi e delle loro lingue da quelli, osserverò
solamente che la detta lettera manca alla lingua greca, colla quale la latina ha
certo comune l'origine, o derivi dalla greca, o le sia, come credo, sorella. E
di più dice Prisciano (l. I. p. 554. ap. Putsch.)
(così lo cita il Forcell. init. litt. u. nella
mia edizione del 400. sta p. 16. fine) che {anticamente} la lettera u multis italiae populis
in usu non erat. E che il v consonante fosse
da principio appo i latini una semplice
1127
aspirazione, e questa leggera, si conosce, secondo me
dal vedere ch'esso sta nel principio di parecchie parole latine gemelle di altre
greche, che in luogo d'essa lettera hanno lo spirito lene o tenue, come {ὄϊς ovis,}
vinum οἶνος, video εἴδω,
{viscus o viscum ἰξός. (Talora anche in luogo di spirito denso come υἱός,
onde gli Eoli υιός, i latini filius.) V. Encyclop. Grammaire. in
H. p. 214. col. 2. sul principio, e in F.} ec. E ch'elle
sieno parole gemelle, è consenso di tutti i gramatici. Laddove lo spirito denso
dei greci solevano i latini cangiarlo in s (e così per
un sigma lo scrivevano i greci anticamente), come in ὕπνος che presso i latini
si disse prima sumnus (Gell.) e
poi somnus ec. {V. p.
2196.} Anzi di questa cosa non resterà più dubbio
nessuno se si leggerà quello che dice il Forcellini (v. Digamma. e
vedilo), e Prisciano (p. 9. fine - 11. e vedilo). Da'
quali apparisce che il v consonante appresso gli
antichi latini fu lo stessissimo che il digamma eolico (giacchè dagli eoli prese
assai, com'è noto, la lingua lat.). Il qual digamma presso gli Eoli era
un'aspirazione, o specie di aspirazione che si preponeva alle parole comincianti
per vocale, in vece dello spirito, e (nota bene) si frapponeva alle vocali in
mezzo alle parole per ischifare l'iato, come in amai,
amplia
Ϝit termina
Ϝitque
*
ha un'iscrizione presso il Grutero. {V. Encyclop.
Grammaire, art. F.
Cellar., Orthograph.
Patav.
Comin.
1739. p. 11-15.}
E v. il luogo di Servio nel Forcellini circa il perfetto della quarta congiugazione.
{+Dalle quali osservazioni essendo
chiaro che l'antico v latino fu {(come oggi fra' tedeschi)} lo stesso che una f, non resta dubbio che non fosse aspirazione,
giacchè la f non fu da principio lettera, ma
aspirazione, {e lieve.} E così {viceversa} gli spagnuoli che da prima dicevano fazer, ferido, afogar, {fuso,
figo, fuìr, fierro, filo, furto, fumo, fondo, formiga, forno, forca,
fender}, ora dicono hazer, herido, ahogar,
hurto, humo, {horca, hondo, hormiga, horno, huso,
higo, huìr, hender, hierro, hilo} ec. V. p.
1139.
e 1806.} In somma si vede chiaro
che la primitiva e regolare uscita de' perfetti 1. e 4. congiug. era ai ed ii, trasmutata in avi ed
1128
ivi per capriccio, per dolcezza, per forza di
dialetto, e pronunzia irregolare, corrotta e popolare, che suole sempre {e continuamente} cambiar faccia alle parole, col
successo del tempo, e introdursi finalmente nelle scritture, e convertirsi in
regola, come vediamo nella nostra e in tutte le lingue. {{V. p. 1155. capoverso ult.
e p. 2242. capov. 1. e 2327.}}
[1276,1]
1276 Voglio portare in conferma di ciò un altro
esempio, oltre ai già riferiti, per mostrare quanto giovino i lumi archeologici
alla ricerca delle antichissime radici. Silva è radice
in latino, cioè non {nasce} da verun'altra parola
latina {conosciuta.} Osservate però quanto ella sia
mutata dalla sua vecchia {e forse prima} forma. ῞Yλη è
lo stesso che silva per consenso di quasi tutti gli
etimologi. Or come la parola latina ha una s e un v davantaggio che la greca? Quanto alla s vedi quello che ho notato altrove p.
1127, vedi Jul. Pontedera
Antiquitt. Latinn. Graecarumq. Enarrationes
atque Emendatt. Epist. 2. Patav. Typis
Seminar. 1740. p. 18. (le due prime epistole meritano di esser lette
in questi propositi archeologici della lingua latina) ed ella è cosa già nota
agli eruditi. {+Nelle stesse antiche
iscrizioni greche si trova sovente il sigma
innanzi alle parole comincianti per vocale, in luogo dell'aspirazione. Anzi
questa scrittura s'è conservata in parecchie delle stesse voci greche, (come
nelle latine): p. e. σῦκον pronunziavasi da principio ὗκον o ὖκον
coll'aspirazione aspra o dolce, giacchè gli Eoli ne fecero Ⅎῦκον e i latini
ficus. V. l'Encyclop. in S.} Quanto al v ecco com'io la
discorro.
[2069,1]
Alla p. 1126.
marg. Quanto sia vero che il v è stato
sempre, per natura della pronunzia umana, almeno ne' nostri climi, o considerato
o confuso con una aspirazione, e questa lieve, si può vedere nella lingua
italiana che spesso lo ha tolto via affatto o dalle parole derivate dal latino,
o da altre. E in quelle stesse dove lo ha conservato, la pronunzia volgare
spessissimo lo sopprime, e spesso anche la scrittura, come nella parola nativo dal latino nativus,
che noi scriviamo indifferentemente natío, ed in molte
altre simili, latine o no, che o si scrivono indifferentemente in ambo i modi, o
sempre senza il v che prima avevano, come restío, che certo da prima si disse restivo, o restivus. {
Giulío per giulivo, Poliz. l. 1. Stanza 6. v. 4. Bevo, beo, bee ec. Devo
deve, deo
dee ec. V.
le gramatiche, e fra gli altri il Corticelli.
Paone, pavone ec.}
Viceversa il popolo molte volte in queste o altre
2070
voci, inserisce o aggiunge comunque, quasi per vezzo, il v, che non ci va, massimamente fra due vocali, per evitare l'iato, al modo appunto del digamma eolico, ch'io dico
esser lo stesso che l'antico v latino. Del resto come
i latini dicevano audivi e audii ec. ec. così è solenne proprietà della nostra lingua il poter
togliere il v agl'imperfetti della 2. 3. e 4.
congiugazione e dire tanto udia, leggea, vedea quanto udiva, leggeva, vedeva (cioè videbat ec. essendo il b latino un v presso noi in
tali casi, come lo era spesso fra' latini, e viceversa, e come tra gli spagnoli
queste due lettere, e ne' detti tempi e sempre si confondono.) Particolarità
analoghe a queste che ho notate nella lingua italiana, si possono anche notare
nella francese e più nella spagnola. Siccome l'analogia fra la f e il v si può notare nel
francese vedendo dal masc. vif farsi il fem. vive ec. ec. (7. Nov. 1821.).
[2195,2] Osservo che questi nomi greci che passando in latino
hanno mutato lo spirito in s, (siccome quelli che
l'hanno mutato in h, e di questi è naturale perchè più
recentemente fatti latini) conservano in latino le proprietà, e quasi la forma
intera che hanno nel greco p. e. il genere maschile neutro ec. Non così quelli
che hanno mutato lo spirito in v
2196 i quali hanno mutato il genere, la forma ec. in
modo che appena o certo più difficilmente si ravvisano. Ho detto nomi, e intendo
parole d'ogni sorta. Ciò fa credere o 1. che tal pronunzia di v o f in luogo dello spirito
sia più antica, che quella in s, e perciò quelle
parole più anticamente fatte proprie del latino 2. o ch'elle venendo forse
dall'Eolico, avessero in esso dialetto forma diversa dalla greca comune. 3. o
che in verità sieno passate dal latino al greco, o piuttosto (ed è
verisimilissimo) siano di quelle parole primitivamente comuni ad ambe le lingue,
e derivate da comune madre, il che conferma l'opinione della fratellanza del
greco e latino. Bisogna però notare che quello che si cambia nel latino in s (o in h) è lo spirito
denso, e quello che in v (o forse talvolta in f) il lene. Onde si potrebbe anche concludere che
l'uso dello spirito denso, sebbene antichissimo, sia però nelle voci greche più
recente, che quello del lene. Che l'uso greco
2197 (e
quindi anche il latino) del σ per lo spirito, sia più recente di quello dell'H,
mutato nel latino in v, o del digamma ec. Che forse
quelle parole greche scritte oggi collo spirito denso, che nel latino hanno il
v, anticamente si scrissero o pronunziarono col
lene (come ῾Εστία ec.), o che così passarono agli Eoli ec.
[2320,1] Altra prova e dell'usanza latina di pronunziar più
vocali in modo di una sola sillaba, e dell'essere stato originariamente il v latino una semplice aspirazione, e questa essere
stata leggera (come l'h), {+e della dissillabìa della 1. e 3. persona sing. perfetta
indicativa delle congiugazioni 1. e 4. ec. ch'è appunto quello che s'ha a
dimostrare,} e della somiglianza tra l'antichissimo latino
conservatosi nel volgare, e le moderne figlie del latino; eccola. Amaverunt, amaverat ec. si diceva spessissimo
2321
amarunt, amarat ec. Donde venne questa contrazione
usualissima? Le contrazioni non nascono già, e molto meno diventano comunissime
(più spesso troverete amarunt che amaverunt ec.) senza una ragione di pronunzia. Anticamente si disse
amaerunt, amaerat trisillabe, senza però che l'ae si pronunziasse e, ma
sciolto. Poi coll'aspirazione eufonica, per fuggire l'iato si disse ec. amaϝerunt. Ma il volgo continuò a considerarli come
trissillabi; e perciò saltando facilmente una lettera, e conservando la parola
trisillaba, disse amarunt, amarat ec. {+E non fece caso dell'aspirazione (ossia
del v) non più di quello che in nil per nihil ec. V. disopra.} Che il volgo solesse
pronunziare così contratto piuttosto che sciolto lo dimostra il nostro amarono, amaron, aimerent. (E quanto ad amarat vedi la p. 2221. fine - segg. ) Quest'uso essendo comune a tutte
tre le lingue figlie, dimostra un'origine comune cioè il volgare latino. E
viceversa le dette considerazioni provano che detto uso moderno, è di
antichissima origine, e proprio (forse esclusivamente dell'altro) del volgare
latino, com'era pur
2322 proprio della scrittura, e lo
fu, sino ab antico, per sempre.
[2740,1] Per esempio d'uno dei tanti modi in cui gli
alfabeti, ch'io dico esser derivati tutti o quasi tutti da un solo, si
moltiplicarono e diversificarono dall'alfabeto originale, secondo le lingue a
cui furono applicati, può servire il seguente. Nell'alfabeto fenicio, ebraico,
samaritano ec. dal quale provenne l'alfabeto greco, non si trova il ψ, carattere
inutile perchè rappresenta due lettere; inventato, secondo Plinio, da Simonide; proccurato vanamente dall'Imperatore Claudio d'introdurre nell'alfabeto latino, che parimente
ne manca, sebbene derivi dall'origine stessa che il greco; e in luogo del quale
si trovano negli antichi monumenti greci i due caratteri π σ. {+(Secondo i grammatici il ψ vale ancora βσ e ϕσ; ma
essi lo deducono dalle inflessioni ec. come ἄραψ ἄραβος, ἄραβες ἄραψι
ec. Non so nè credo che rechino alcun'antica inscrizione ec.)
V. p. 3080.}
Ora ecco come dev'esser nato questo carattere che distingue l'alfabeto greco dal
fenicio. Nella lingua greca,
2741 per proprietà sua, è
frequentissimo questo suono di ps: ed ogni lingua ha
di questi suoni che in lei sono più frequenti e cari che nelle altre. Gli
scrivani adunque obbligati ad esprimerlo bene spesso, incominciarono per fretta
ad intrecciare insieme quei due caratteri π σ ogni
volta che occorreva loro di scriverli congiuntamente. Da quest'uso, nato dalla
fretta, nacque una specie di nesso che rappresentava i due sopraddetti
caratteri; e questo nesso che da principio dovette conservare parte della forma
d'ambedue i caratteri che lo componevano, adottato generalmente per la comodità
che portava seco, e per la brevità dello scrivere, appoco appoco venne in tanto
uso che occorrendo di scrivere congiuntamente il π e
il σ, non si adoperava più se non quel nesso, che
finalmente per questo modo venne a fare un carattere proprio, e distinto dagli
altri
2742 caratteri dell'alfabeto, destinato ad
esprimere in qualunque caso quel tal suono: ma destinato a ciò non
primitivamente, nè nella prima invenzione o adozione dell'alfabeto greco, e
nella prima enumerazione de' suoni elementari di quella lingua o della favella
in genere; ma per comodità di quelli che già si servivano da gran tempo del
detto alfabeto. Di modo che si può dire che questo carattere non sia figlio del
suono ch'esso esprime, come lo sono quelli ch'esprimono i suoni elementari, ma
figlio di due caratteri preesistenti nell'alfabeto greco, e quindi quasi nepote
del suono che per lui è rappresentato. La grammatica e le regole dell'ortografia
ec. non esistevano ancora. Venute poi queste, e prendendo prima di tutto ad
esaminare e stabilire l'alfabeto nazionale, trovato questo nesso già padrone
dell'uso comune, e sottentrato in luogo di carattere distinto {e} non doppio
2743 ma unico, lo
considerarono come tale, gli diedero un posto proprio nell'alfabeto greco tra i
caratteri elementari, e fissarono per regola che quel tal suono ps si esprimesse, come già da tutti si esprimeva, col
ψ, e non altrimenti. Ed eccovi questo nesso,
introdotto a principio dagli scrivani per fretta e per comodo; non
riconoscendosi più la sua origine, o anco riconoscendosi, ci viene nelle
grammatiche antiche e moderne come un carattere proprio dei greci, e come uno
degli elementi del loro alfabeto. Lo stesso accadde allo ξ, che non è fenicio, introdotto come nesso per rappresentare due
caratteri, cioè γσ, o κσ,
{+o χσ}: e ciò
per essere questi suoni, frequentissimi nella lingua greca, siccome anche nella
lingua latina, nel cui alfabeto pertanto ha pure avuto luogo questo medesimo
nesso, considerato come carattere. In luogo del quale gli antichi greci
scrivevano γσ, o κσ. Lo
stesso dicasi
2744 del ϕ,
carattere (originariamente nesso) che non si trova nell'alfabeto fenicio
(perciocchè il ף
{+o פ} è veramente il Π, {+lat. P, giacchè l'Ϝ è il digamma eolico)}, e
che fu introdotto in vece del ΠH che si trova negli antichi monumenti greci,
dove pur si trova il KH in vece del X, carattere non fenicio. Questi due suoni
composti, anzi doppi, ph e ch, frequentissimi nella lingua greca, non si udivano nella latina.
Dunque l'alfabeto latino non ebbe questi due segni. I tre caratteri ξ, ϕ, χ
s'attribuiscono presso Plinio (7. 56.) a Palamede, aggiunti da lui all'alfabeto Cadmeo o
Fenicio. Lo stesso dite dell'ω, che s'attribuisce presso il medesimo a Simonide ec.
[3169,2]
Et Davus non recte scribitur. Davos scribendum: quod nulla {litera} vocalis geminata unam syllabam
facit.
*
(geminata cioè p. e. due a, o come in questo caso, due u). Sed quia ambiguitas vitanda est
nominativi singularis et accusativi pluralis, necessario pro hac regula
digamma
3170 utimur, et scribimus DaFus, serFus, corFus.
*
Donatus ad Ter. Andr. I. 2. 2.
(12. Agosto, dì di S. Chiara. 1823.)
[3624,2] Il v non fu che
un'aspirazione che si metteva, per evitare l'iato, fra più vocali; e
tralasciavasi spessissimo ec. ec. come altrove in più luoghi pp. 1125-28
pp.
2069-70
pp. 2320-22
pp.
2879-80.
3625
V. il Forcellini in Fuam.
(7. Ott. 1823.).
[3698,1] Del resto chi volesse dire che il proprio preterito
perfetto di oleo, adoleo e
simili fosse e dovesse essere olui, adolui ec. onde adolevi
inolevi ec. non sieno propri di adoleo, inoleo (ignoto), ma di adolesco veramente e di inolesco ec., osservi che anche l'altro oleo
ne' composti fa olevi per olui (Forc. in oleo); {# 1. neo - nevi, fleo - flevi ec.
ec.} e che queste desinenze evi ed ui, sono in verità una sola, cioè varie solamente di
pronunzia, perchè gli antichi latini massimamente, e poi anche i non antichi, o
meno antichi, ed anche i moderni ec., confondevano spessissimo l'u e il v
{#2. V. p. 3708..} (che già non ebbero se non un solo e comune
carattere): sicchè olevi è lo stesso che olui, interposta la e per
dolcezza, ovvero olui è lo stesso che olevi, omessa la e per
proprietà di pronunzia. Giacchè il v di questo e l'u di quello non furono mai considerate
3699 da' latini se non come una stessa lettera. Così
nell'ebraico, così nelle lingue moderne, sino agli ultimi tempi, e dura ancora
ne' Dizionari delle nostre lingue (come ne' latini) il costume di ordinar le
parole come se l'u e il v
nell'alfabeto fossero una lettera stessa, ec. ec. ec. Dunque non saprei dire, nè
credo che si possa dire, se il vero e regolare e primitivo perfetto della
seconda coniugazione abbia la desinenza in evi o in
ui, se sia docui o docevi: e piuttosto si dee dire che, se non ambo
primitive, ambo queste desinenze son regolari, anzi che sono ambo una stessa. Io
per me credo che la più antica sia quella in evi,
anticamente ei (conservata nell'italiano: potei, sedei ec. che per
adottata corruzione e passata in regola, si dice anche sedetti
{#1. Tutti i nostri perf. in etti sono primitivamente e veramente in ei, quando anche questa desinenza in molti verbi
non si possa più usare, e sia divenuta irregolare, perchè posta fuori
dall'uso, da quell'altra benchè corrotta e irregolare in origine, come
appunto lo fu evi introdotta per evitar l'iato,
come etti. E qui ancora si osservi la
conservazione dell'antichissimo e vero uso fatta dal volgar latino sempre,
sino a trasmettere a noi i perf. della 2.a in ei.
Puoi vedere la p. 3820.}
ec.), poi per evitar l'iato eϜi, e poi evi (come ho
detto altrove pp. 1126. sgg. del perfetto della prima: amai, conservato nell'italiano ec. ama
ϝ
i, amavi), indi vi (docvi) o ui (docui), ch'è tutt'uno, e
viene a esser contrazione di quella in evi (docevi). Ed è ben consentaneo che da doceo si facesse {primitivamente} nel perfetto, docei,
3700 conservando la e,
lettera caratteristica della 2.da coniugazione come l'a nella prima, onde l'antico amai. Ma l'u com'ebbe luogo nella desinenza de' perfetti della
seconda, essendo una lettera affatto estranea alle radici (come a doceo) ec.? {Impleo (compleo
ec.) - deleo (v. la p. 3702.)
es evi etum. Perchè dunque p. e. dolui e non dolevi? come
delevi che v'è sola una lettera di svario.
{+Perchè dolĭtum e non doletum?} O se
dolui, perchè delevi
e non delui? (v'ha però forse abolui, ed anche adolui ec. p. 3702. e ivi marg.) V. p. 3715.} Si risponde
facilmente se si adottano le cose sopraddette: altrimenti non si può spiegare.
L'u ebbe luogo nella seconda, come il v, ch'è la stessa lettera, ebbe luogo nella prima e
nella quarta: per evitar l'iato. L'u e il v ne' perfetti di queste coniugazioni e nelle
dipendenze de' perfetti sono dunque lettere affatto accidentali, accessorie,
estranee, introdotte dalla proprietà della pronunzia, contro la primitiva forma
d'essi verbi, benchè poi passate in regola nel latino scritto. Passate in regola
nelle due prime. La quarta è l'unica che conservi ancora il suo perfetto
primitivo (come la terza {generalmente e regolarmente,}
che non patì nè poteva patire quest'alterazione) insieme col corrotto: audii, audivi. Il latino
volgare per lo contrario non conservò, e l'italiano non conserva, che i
primitivi: amai, dovei, udii. Queste osservazioni mostrano l'analogia (finora,
3701 credo sconosciuta) che v'ebbe primitivamente
fra la ragion grammaticale, la formazione la desinenza de' perfetti della 1. 2.
e 4. e che v'ha effettivamente fra l'origine delle forme e desinenze di tutti e
tre. Analogia oscurata poscia e resa invisibile dalle alterazioni che dette
desinenze variamente ricevettero nella pronunzia, nell'uso ec., le quali
alterazione[alterazioni] passate in regola,
furono poi credute forme primitive ec. {#2.
Forse la coniugazione in cui più verbi si trovino che abbiano il perfetto (e
sue dipendenze) veramente primitivo, {+e ciò} senz'averlo doppio come que' della
quarta, {+ne' quali l'un de' perfetti
non è primitivo,} si è la 3.a}
[3704,1]
Alla p. 3702.
Queste osservazioni, e i confronti di fletum, netum e tali altri supini tutti della seconda,
confermano che suetum, exoletum, e simili, non sono di suesco, exolesco ec. verbi della terza, alla quale punto non
conviene questa desinenza, ma di altri della seconda da cui cui essi derivano.
Cretum da cerno
{#2. e suoi composti} è
corrottissimo, {{per cernitum,}}
{ch'è il vero,} e la desinenza in etum v'è accidentale ec. (15. Ott. 1823.). {#3. V. p. 3731.} Altresì quel che s'è detto de' perfetti della
seconda, e il confronto di nevi, flevi ec. mostra che suevi, crevi, adolevi ec. non sono
di suesco ec. verbi della terza. (15. Ott.
1823.). {#4. V. p. 3827.} La desinenza
{de' perfetti} in evi o
3705 in vi, propria della
prima coniugazione e, come abbiamo mostrato pp. 3698-99, della
seconda, che ora ha più sovente ui ch'è il medesimo, e
finalmente eziandio della quarta che conserva però anche quella in ii, è al tutto aliena da' verbi della terza, se non se
per qualche rara anomalia, come in crevi da cerno, {#1. e
suoi composti} perfetto irregolarissimo, per cerni, e in sevi da sero, {#2. e suoi composti}
verbo d'altronde ancora irregolarissimo, come si vede nel suo supino satum, {#3. ne'
composti situm, solita mutazione in virtù della
composizione ec. v. p. 3848.
ec.} Ovvero per qualche altra ragione come dal verbo no (di cui p.
3688.) che dovette essere della terza, il perfetto novi per evitare la voce poco graziosa ni, che sarebbe stata il suo perfetto regolare, e che
d'altronde concorreva colla particella ni: oltre che
niun perfetto latino, se ben mi ricordo, è monosillabo, ancorchè fatto da tema
monosillabo: eccetto ii da eo, e da fuo, fui,
i quali {{furono}} monosillabi, {+e forse ancora lo sono talvolta presso i poeti latini
del buon tempo ec.} secondo il mio discorso altrove fatto pp. 1151-53
pp. 2266-68 della antica
monosillabia di tali dittonghi ec. Da' monosillabi do,
sto ec. si fece il perfetto dissillabo per
duplicazione: dedi, steti,
ec. Onde avrebbe da no potuto anche farsi neni. O forse il verbo da cui viene nosco, non fu no, ma noo (νοῶ), onde il perfetto
3706
novi invece del regolare noi
sarà stato fatto (come que' della 1. in avi per ai, della 2. in evi per ei, della 4. in ivi per ii) per evitare l'iato; il quale iato però {+non può essere che} affatto
accidentale ne' perfetti di questa coniugazione. {V. p.
3756.} Così per fui,
regolare perfetto dell'antico fuo, verbo della terza,
il qual perfetto anche oggidì si conserva, e solo esso, e tutto regolare, Ennio disse fuvi, non metri causa, come crede il Forcellini, (in fuam), ma secondo me, per evitare l'iato. {#1. V. p.
3885.}
{Suo is ha sui, e non ha che questo. Abluo - Diluo ec. lui. Veggasi la p.
3732. Assuo
assui ec. e gli altri composti di suo.} L'evitazion del quale stette a cuore
principalmente agli scrittori (come anche in altre lingue), e ad essi, cred'io,
si deve attribuire l'esser passate in regola le desinenze avi ed evi (poi ui) della 1. e 2. ne' perfetti e lor dipendenze, ed in parte la desinenza
ivi nella quarta, in vece delle primitive ai, ei, ii. E quelle in avi, evi, ivi, secondo me, non furon proprie che
della scrittura, o certo del linguaggio illustre, o di esso principalmente, e
nulla o poco le adottò il plebeo, perocch'esso conservò le primitive ai, ei, ii, come lo dimostra l'italiano (e anche il francese
3707
aimai, onde lo spagn. amè,
come ho detto nella mia teoria de'
continuativi). Tornando a proposito la desinenza in vi, fuori de' detti casi, amalie[anomalie] ec. non è propria punto, anzi impropria, de'
perfetti della terza, se non per puro accidente, come in solvi, volvi e simili. Ne' quali casi il v non è di tal desinenza, nè del perfetto, {+nè dell'inflessione ordinaria de' verbi
della 3.a nel perfetto ec.} ma del tema (solvo, volvo), ed è lettera
radicale di tutto il verbo ec. Trovansi però molti verbi della 3.a che (per anomalia) fanno il perfetto in ui
(come il più di quelli della seconda): e questi sono in {molto} maggior numero che quelli della 3.a che
facciano il perfetto in vi. (siccome anche nella 2.a oggi son più quelli in ui che
quelli in vi). Per esempio l'altro sero (diverso dal sopraddetto a p. 3705.) che ha il supino sertum, nel perfetto fa serui, e così i suoi
composti. Così colo is ui. Ed altri molti. {{Ma questa desinenza è pure affatto
impropria della 3. e vi è sempre anomala, come
quella in vi o}}
{+in evi ec.
che originalmente son tutt'una con quella in ui.}
[3731,4]
Alla p. 3708.
marg.
Lavitum è dimostrato dal verbo lavito. Così fautum è contrazione di favitum dimostrato (se bisognasse) da favitor ec. Ma il detto
3732
scambio tra il v e l'u è
dimostrato piucchè mai chiaramente da tutti o quasi tutti i verbi (ec.) composti
di lavo, in cui lavo diventa
luo. Contrazione la qual conferma mirabilmente e
pienamente quella ch'io ho supposta pp. 3698. sgg. ne' perfetti in ui della seconda e massime della prima. P. e. domui è da domavi nello
stessissimo modo che abluo per ablavo, soppressa la a e volto il v in u. Del resto pluit ebat ha il perfetto pluit ed anche pluvit per evitar l'iato,
come a p. 3706. Exuo is ui utum. Ruo is ui
utum contrazione di ruitum, che anche esiste:
{prova delle mie asserzioni.}
V. Forc. in Ruo e composti.
{+
Fruor, ĭtus e ctus sum, ma fruĭtus è
più usato, e così fruiturus ec.}
Luo is ui luitum dimostrato da luiturus. Anche si disse o scrisse luvi.
V. Forc. in luo, verso il fine.
Fluo is fluxi, fluctum, fluxum e fluitum dimostrato da fluito
e da fluitans. {{Così i composti di
fluo ec.}}
{#2. Tribuo, Minuo, Statuo, Induo, Arduo, Acuo, Annuo, Innuo ec. Imbuo ec. ui utum, co' loro composti, e così con quelli di
Suo ec. In tutti questi supino l'i è stato mangiato per evitar l'iato, o come in
docitum ec. Notisi che laddove l'u in tutti gli altri tempi di questi verbi,
compreso il perfetto, è sempre breve. - V. p. 3735.}
(19. Ott. 1823.).
[3744,2] Il v non è che aspirazione
nell'antico latino ec.: sta in vece dello spirito nelle parole tolte dal greco,
e non pur dell'aspro ma del lene ec. come nella mia teoria de' continuativi
pp.
1126-27
Paphlagonia insignis loco Heneto, a quo,
ut Cornelius
3745 Nepos perhibet, Paphlagones in
Italiam transvecti, mox Veneti sunt nominati.
*
Solin.
c. 44. ed. Salmas. 46. al., Plin. l. 6. c. 2.
V. Menag. ad Laert.
II. segm. 113. e notate che ivi il
greco ᾽Ενετός è sempre collo spirito lene, benchè nell'addotto luogo si scriva
Heneto. V. anche Cellar. ec. Del resto quelle mie
osservazioni potrebbero confermare questa etimologia e questa storia. (21.
Ott. 1823.). {+V. Forc. in Veneti e in Velia.}
[3756,3]
Alla p. 3706.
Senza fallo il nostro verbo fu noo is, non no nis. (e altrettanto si dica di poo, non po, dà[da] πόω, il quale dovette essere poo pois povi
potum secondo le ragioni che or si diranno). 1. da no non si sarebbe fatto nosco ma nisco. Veggasi la p. 3709 fine - 10 principio. 2. No non avrebbe fatto nel pret. novi ma ni (o per duplicazione neni), come suo
sui, luo
lui ec. Noo bensì doveva far
noi, come suo
sui ec. (p.
3731. seg. 3706. marg.),
poi per evitar l'iato fece novi, come amai
amavi, docei
docevi,
3757
lui
luvi ec. (p.
3706. 3732. v. Forc. in luo
verso il fine). 3. Così no non avrebbe fatto notum ma nĭtum. Nè questo si
sarebbe mai mutato in notum, nè ni o neni in novi.
Bensì noi in novi nel modo
detto; e in notum il regolare noĭtum di noo (p. 3708. marg.
3731-2. 3735.) {+Anche
Nomen, agnomen, cognomen ec. vien da noo, e serve a mostrare, primo, noo non no (onde sarebbe nĭmen,
come da rego
regĭmen ec.); secondo, noo da cui esso viene, non da nosco,
checchè dica il Forc. in nomen princip. e quivi Festo ec.}
{Ne' composti notum o gnotum si cambia in gnĭtum (cognĭtum ec.)
fuorchè in ignotus nome, e in ignotus participio e supino. V. anche agnotus ec.} 4. Nobilis non
potrebbe venir da no. Bensì da noo. Perocchè i verbali in bilis nel buon
latino non si fanno se non da supino in tum (o
participio in tus), e non da altri, mutato il tum (o tus) in bilis. {V. p.
3825.} Bensì tali supini (o participii) non sono sempre
noti, ma dato il verbale in bilis, e' si possono
conoscere mediante l'analogia e la cognizione dell'antichità e della regola
della lingua latina, le quali anche da se li possono mostrare, e il verbale in
bilis li conferma, sempre ch'egli esista. P. e.
Docibilis è da doci-tum. Questo supino già lo conoscevamo per altra via,
benchè inusitato, cioè per altri argomenti ec. Il verbale docibilis lo conferma. Immarcescibilis da
marcescitus inusitato. Già abbiam detto e
sostenuto che il proprio participio
3758 o supino de'
verbi in sco era in scĭtus.
Eccone altra prova in marcescitum di marcesco (che ora non ha o non gli s'attribuisce
supino alcuno) dimostrato da im̃arcescibilis[immarcescibilis]. Solu-tum, volu-tum - solu-bilis, volu-bilis ec. Labilis, nubilis, {habilis} ec. sono dai regolari, veri ed interi, benchè
inusitati supini, labitum, nubitum, {#2. habitum è usitato, anzi solo usitato, ma non è il
primitivo)} ec., secondo la regola, fuor solamente ch'e' son contratti
da labi-bilis, nubi-bilis per effetto di
pronunzia accelerata o confusa ec. o per evitare il cattivo suono ec. {#1. V. p. 3851.} Or dunque da no
nĭtum avremmo nibilis. Nobilis non può essere che da no-tum, gnobilis da no-tum o da gno-tum, ignobilis da no-tum o gno-tum o igno-tus o gnobilis o nobilis. {+Ovvero nobilis ec. sono contrazioni di noibilis come notum lo è
di noĭtum. V. la pag. 3832. fine.}
[3885,1]
Alla p. 3706.
Se però, come dubito, fuvi per fui non è un raddoppiamento dell'u, fatto
per proprietà di pronunzia, della qual proprietà in questo e simili casi v'hanno
molti altri esempi ec. (v. la pag.
3881. ec.). Il qual raddoppiamento bensì può avere avuto luogo e
occasione dal voler evitare l'iato, ma in modo che ad evitarlo sia stato
interposto il v, non in quanto semplicemente atto e
solito ad interporsi tra le vocali ianti, ma in quanto l'una {e la più sonante} di queste nel nostro caso era l'u, cioè appunto un altro v,
secondo il detto altrove p. 3235
pp.
3698-99 circa la medesimezza di queste lettere u e v presso i latini massimamente. I quali
non usavano che un carattere per esprimer l'una e l'altra, cioè anticamente e
nel maiuscolo il V, più recentemente e nel semimaiuscolo o unciale, o forse in
quello ch'era allora, o anche anticamente, il corsivo e l'usuale, {+sia tutt'uno coll'unciale, sia diverso,
ec.} l'u, come ne' palimpsesti vaticani,
ambrogiani, sangallesi, veronesi ec. (15. Nov. 1823.).
[3988,2] Il v non è che aspirazione ec. Del Digamma eolico v. la Gramm. del Weller, Lips. 1756. p.
65.- È uso della lingua italiana l'omettere o l'aggiungere il v nei nomi, massime aggettivi in ío. {Così in latino: p. e. v.
Forcell. in Dium. E certo da δῖος dev'essere divus; e v. Forc. in Divus.} Nel dire ío o ivo spessissimo vária
sì la lingua scritta da se stessa (natio - nativo), sì il volgare dalla scritta (stantio, volg. stantivo, e
viceversa in altri casi) e da se stesso, sì l'italiano scritto o parlato o
entrambo dall'altre lingue, sì dalla latina o dall'originaria della rispettiva
parola (joli - giulivo per
giulío, che
3989 anche si
disse anticamente, oggi è perduto affatto) sì da altre (rétif - rétive - restio), e viceversa queste dalla nostra, e tra loro, e in se stesse
ec. (16. Dec. 1823.).
[4013,4] Digamma eolico. Levis o
laevis da λεῖος, come si osserva nelle note a Luciano
opp. t. 1. p. 113. not. 9.
(14. Gen. 1824.)
[4014,3] Digamma eolico. Viscum
(raro Viscus) da ἰξός colla metatesi delle lettere κσ
incluse nel ξ. Nóta che lo spirito è lene, e il genere (almeno in viscum) mutato, come in οἶνος-vinum ec. Vivo da βιῶ (βιϝῶ). Forcell. e not. a Lucian. opp. 1687. t. 1. p. 143.
not. 3.
(15. Gen. 1824.).
[4014,5]
Alla p. 2779. lin.
1. Da βόρος o βορός ec. vorax ec. V. lo Scapula e il Forcell. Da βιῶ vivo. V. il capoverso 3. in questa presente
pag. Nelle note quivi citate si fa anche venire vis da βιά, che
altrove {+parlando del digamma
eolico,} ho fatto venire, e così credo meglio, da ἴς ἰνός. V. Forcell. ec. (15. Gen. 1824.).
[4030,5]
Faventia - Faenza.
(14. Feb. 1824.). {{Faentini
(Guicc. 1. 418. {419. ec.}
Faventini, come in lat.) Fayence per Faenza e per una città di
Francia, lat. Faventia.}}
[4035,4] Σίλλος, σίλλοι o σιλλοί si fa derivare da ἴλλος occhio
παρὰ τὸ διασείειν τοὺς
ἴλλους
*
. V. Scap. e
Menag. ad Laert. in Timon.
IX. 111. Consento che venga da ἴλλος, ma non che ci abbia a fare il
σείειν, formazione d'altronde molto inverisimile. Io credo che σίλλος sia lo
stesso affatto che ἴλλος in origine, aggiuntoci il sigma in luogo dello spirito,
benchè lene, all'uso latino circa lo spirito denso e al modo che gli Eoli
usavano il digamma, ossia il v latino (e quindi i
latini il v) in vece anche dello spirito lene, nel
principio delle parole. Veggasi il detto altrove p. 1276
p. 3815 di σῦκον ch'io credo essere venuto da un ὗκον o ὖκον. Da σίλλος occhio la metafora trasportò il significato a derisione ec. quasi dicesse, come diciamo noi, occhiolino ec. onde σιλλαίνειν sarebbe quasi far l'occhiolino, in
senso però di deridere ec. La metafora è naturale,
perchè il riso generalmente, ma in ispezieltà la derisione risiede e si esprime
cogli occhi principalmente e molte volte con essi unicamente. (22.
Febbraio. 1824. Domenica di Sessagesima.).
[4036,3]
Faventini, del che altrove p. 4030. Guicciard. t. 2. p. 34. 36.
(25. Feb. 1824.).
[4043,1]
4043 ᾽Αργεῖος - argi-v-us.
Oraz. e Ovid. alla greca comune, argeus, l'uno in un luogo, e l'altro in un altro. Così da ἀχαιός,
oltre achaeus, achivus;
{#(1.) che forse è più proprio latino e
più volgare, e achaeus sarà solamente letterario,
come anche argeus senza fallo.} e forse
altri simili. (8. Marzo. 1824.).
[4044,4] Λαιός - lae-v-us.
(9. Marzo 1824.). {{σκαιός - scae-v-us.}}
[4052,4]
Lixi-v-ia, lixi-v-ium - lexia ο legia spagn.
(23. Marzo. 1824.).
[4054,2]
Ri-v-us, ri-v-o - ri-g-agnolo ec. - rio ital.
e spagn. (28. Marzo. 1824.).
[4101,7]
Divido - diviser. (7.
Giugno. 1824.)
[4126,10]
Obliviscor da un perduto verbo oblivio - obbliare per obbliviare mangiato il v al solito, e
congiunti i due i in uno, come obblio da oblivium. V. Forc. ec.
[4132,1]
Sa-v-ona. Molti antichi, come
G. Villani (per es. l. 7. c.
23.)
Sa-ona, come Faenza anche
oggi per Faventia, dicendosi però dal Guicc. e altri antichi Faventino per Faentino, del
che altrove p. 4030
p. 4036. (6. Aprile. 1825.).
[4146,8] Vivuola {+vivola} - viola: strumento musico,
{+e fiore. spagn. vihuela.}
{{V. la giunta L. nella Crus. Veron.
all'articolo H. e la Crus. V. vivuola e gargagliare.}}
[4148,6]
Pouvoir - francese antico pooir, sostantivo, come si vede ib. art. Triplication, t. 2. p. 248. Gengia - gengiva.
[4158,5]
Divenire - diventare (da ventum sup. di venio). Cupio
cupitum - cupitare, covidare, convitare
(Crus.), convoiter ec. v. gli
spagn. {Pervertire - perversare. V.
Crus. in perversare e perversato.}
[4162,13] Boves, bovi - buoi.
[4180,1]
4180 Del digamma eolico vedi Casaubon.
animadv. in Athenae. lib. 2. cap.
16.
[4182,7] Mantua, Genua, Mantuanus ec. -
Mantova, Genova, ec.
[4248,3] Del digamma eolico v. Casaub.
ad Athenę. l. 8. c. 11. due volte.
[4282,6]
Nae-v-us - Ne-o. V. franc.
spagn. ec.
[4290,2] Io non credo vero quel che dicono i critici che gli
antichi, p. e. Ebrei, Greci, Latini Orientali ec. non avessero nelle loro lingue
il suono del v consonante, ma solo l'u vocale. Credo che il vau
dell'alfabeto ebraico non sia veramente altro che un uau o u, credo che gli antichi latini non
avessero segno nel loro alfabeto per esprimere il v
consonante, e che il V non fosse in origine che un u;
ma con ciò non si prova altro se non che gli antichi non ebbero il v nel loro alfabeto, il che non prova che non
l'avessero nella lingua. Considerato come un'aspirazione (non altrimenti che
l'f, il quale ancor manca negli antichi alfabeti,
giacchè il fe ebraico fu anticamente pe, e il ϕ greco è una lettera aggiunta all'alfabeto
antico, {e} considerata come doppia o composta, cioè di
π e di Η, ossia come un π aspirato), esso v, per
l'imperfezione degli antichi alfabeti, mancò di segno proprio, giacchè non si
ebbe bastante sottigliezza per separarlo dalle lettere su cui esso cadeva, per
avvedersi che esso era un suono per se, un elemento della favella. Perciò da
4291 principio esso non fu scritto in niun modo, come
nel lat. amai per amavi; poi
scritto come aspirazione, digamma ec. p. e. amaFi ec.;
finalmente, sempre privo di segno proprio, esso fu scritto con quel medesimo
segno che serviva all'u, ond'è avvenuto che nel latino
maiuscolo il V sia ora vocale ora consonante, e così l'u nel latino minuscolo, la qual confusione dura ancora, non ostante
che i moderni abbiano fatto di quest'u due caratteri,
u e v; giacchè si vede,
ciò non ostante, nei dizionari l'u e il v considerarsi come un solo elemento diversamente
modificato, ed abbiamo e impariamo fin da fanciulli la irragionevole distinzione
tra u vocale e u consonante,
distinzione che non ha ragione alcuna naturale, ma solo storica ec. ec. Il
simile dirò dell'f ec. ec. (20. Sett. 1827.
Firenze.)
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Sua antica coniugazione, suoi participii ec. (1827) (1)
Alfabeti vari in natura. (1827) (1)