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O, U, lettere. Scambiate spesso tra loro, in latino, in italiano ec.

O, U, letters. Often interchangeable in Latin, in Italian, etc.

2195,1 2325,1 2779 3574-5 3701,marg. 3816,2 3872,1 3992,1

[2195,1]   2195 Alla p. 1127. prima del mezzo. Altri esempi di ciò gli ho notati altrove p. 983 p. 1127, altri se ne ponno vedere nell'Encycl., Grammaire, non mi ricordo a quale articolo, ma credo all'H. presi da Prisciano, altri p. 1276. e quivi in marg. A' quali tutti aggiungi sulcus fatto da ὅλκος (tractus), che però dovette da prima dirsi solcus, come volgus, volpes, come solpur per sulphur pretende il Pontedera, come forse per lo contrario supnus o sumnus ec. Questa etimologia di sulcus da ὅλκος è riconosciuta dal Forcell. Vedilo in principio di Sulcus. V. anche sisto p. 2143. fine-seg.

[2325,1]  Volgus, volpes dicevano gli antichi latini ec. ec. e cento mila altre voci similmente, adoperando l'o in cambio dell'u. (v. il Forc.  2326 in O, U ec. ec.) Uso proprio del volgo, proprio dell'antichità, e perciò amato anche recentemente da quelli che affettavano antichità di lingua, come Frontone ec. Or quest'uso appunto eccovelo nell'italiano, solito a scambiare in o l'u latino dei buoni tempi, e restituir queste voci nella primitiva loro forma ch'ebbero fra gli antichi latini, e nelle vecchie scritture. È noto che tal costume è più proprio dell'italiano che dello spagnuolo, e più assai che del francese. ec. ec. (4. Gen. 1822.)

[2778,1]   2778 4. Molti attivi di verbi che in greco non conservano se non il medio (in senso attivo, o passivo, o in ambedue {{ἅλλομαι - salio.}}), o il passivo, {(in senso passivo o attivo ec.)} l'uno e l'altro, {o parte dell'uno, parte dell'altro, (com'è ordinarissimo),} segni certissimi di un verbo greco attivo perduto (come lo sono i deponenti in latino), o che in greco sono appena conosciuti, o solamente poetici, o antiquati o insoliti, sono comuni ed usitati universalmente in latino, o se non altro si conservano. Di cio[ciò] si potrebbero addurre non pochi esempi. Bastimi il verbo gigno, attivo di γίγνομαι che significa gignor e che in greco manca non solo di voce ma eziandio di significazione attiva. E notate che il verbo latino gigno nel perfetto e ne' tempi che dal perfetto si formano e nel supino, muta la i radicale in e, e perde il secondo g come appunto accade al greco γίγνομαι nelle sue inflessioni. Serva per altro esempio il verbo volo, il quale io dico esser la voce attiva di βούλομαι, cioè βούλω, mutato il b in v, come in tanti  2779 altri casi {(p. e. da βάδω vado),} v. p. 4014. e fatto dell'ου, ω, alla Dorica, cioè βώλω, come di βοῦς i dori βῶς, i latini bos, di ὕπνος gli Eoli ὤπνος (come ὠψηλός da ὑψηλός), i latini somnus, {di νύξ νώξ, nox: v. p. 3816.} oltre le solite mutazioni volgari di vulgus vulpes ec. in volgus volpes. (12-13. Giugno 1823.). {Βούλω si trovò certamente nell'antica lingua greca, come mostra il suo medio βούλομαι. E forse sì βούλω che ϑέλω {ed ἐϑέλω} furono fatti per πρόσϑεσιν dal tema monosillabo λῶ volo, onde λωΐων, λώϊστος ec. V. Lexic. E così ϑέλω volo viene forse dalla stessa radice del suo sinonimo βούλομαι, di cui però v. Ammon. de Different. vocabulor. (᾽Aβούλέω nolo è di Plat. e di Demost. nelle epist.) Di tal πρόσϑεσις se n'ha appunto un esempio in ϑέλω - ἐϑέλω. V. p. 3842.}

[3572,1]  Alla p. 3077. È da notare che gli argomenti ch'io traggo da tali participii spagnuoli a dimostrare  3573 gli antichi participii latini regolari ec. (e così sempre che dallo spagnuolo io argomento all'antico latino, al volgare ec.), sono tanto più valevoli, quanto siccome la lingua francese è nell'estrinseco e nell'intrinseco, fra tutte le figlie della latina, la più remota e alterata dalla lingua madre (secondo ho detto altrove pp. 965. sgg. pp. 1499. sgg. pp. 2989-90 p. 3395), così la spagnuola è nell'estrinseco la più vicina, {#1. V. p. 3818.} mentre però nell'intrinseco lo è la italiana, come altrove ho distinto pp. 1499-504. Ma dell'intrinseco poco ha che fare il nostro discorso. La lingua spagnuola che per la forma esteriore delle parole ha più di tutte le sue sorelle ereditato dalla latina, e che più di tutte {le lingue,} a sentirla leggere o a vederla scritta, rappresenta l'esterna faccia e il suono della latina e può con essa esser confusa; dev'esser considerata come speciale e principale conservatrice dell'antichità, della latinità, del volgar latino ec. quanto alla material forma delle parole e alla proprietà delle loro inflessioni ec. che è quello che ora c'importa. La qual conformità particolare col latino si può notar nello spagnuolo da per tutto, ma nominatamente e singolarmente  3574 e forse più ch'altrove, nelle coniugazioni de' verbi, il che fa appunto al nostro caso. AMO, AMAS, AMAt, AMAMVS (lo spagn. muta l'u in o, e questa è la sola mutazione in tutto questo tempo), AMAtIS, AMANt. Leggansi le sole maiuscole, e s'avrà la coniugazione spagnuola. La quale in questo tempo è tutta latina, salvo l'omissione del t in tre soli luoghi, {#1. È naturale agli organi degli spagn. di non amare la pronunzia del t, onde nelle voci venute dal lat. spessissimo lo mutano in d ch'è più dolce (come fanno anche gl'italiani in alcuni luoghi intorno alle voci italiane), spessissimo lo tralasciano, come in questo nostro caso fanno, in parte anche gl'italiani e i francesi} e la mutazione dell'u in o in un luogo, mutazione pur tutta latina (vulgus - volgus ec. ec. ec.) e propria senz'alcun dubbio, {anche in questo caso,} o di tutto l'antico volgo che parlò latino, o di molte parti e dialetti di esso. Infatti tal mutazione non solo è propria e dell'italiano e del francese in questo medesimo caso sempre, ma ordinarissima e quasi perpetua (massime nell'italiano) in quasi tutti o nella più parte degli altri casi, sì nelle desinenze, sì nel mezzo delle parole o nel principio. V-u-lg-u-s - V-o-lg-o. {#2. Sicché amamos p. amamus non si dee neppure chiamar mutazione quanto allo spagnuolo, non essendo stata fatta da esso ma nel latino medesimo, anzi non essendo stata neppur in latino altro che un'[un] accidente, una qualità, una maniera di pronunzia. Insomma amamos è latino; e lo spagn. in questa voce è puro (ed antico e non men che moderno) latino conservato nel lat. volgare. ec.} La congiugazione italiana è ben più mutata, e molto più dell'italiana la francese. Basta a noi che le regole e le inflessioni della coniugazione latina sieno specialmente conservate nella spagnuola, ancorchè gli elementi del verbo che non toccano l'inflessione  3575 e la regola della coniugazione sieno alterati, o soppressi ec. Come leo è mutato da lego. Ma la coniugazione di quello essendo similissima alla coniugazione di questo, l'omissione del g, in cui consiste l'alterazione di quello, non indebolisce punto l'argomento che dal suo participio leido si cava a dimostrare il latino corrispondente legitus. E così discorrete degli altri casi e argomenti, o sieno dintorno a' participii, o a checchessia ch'appartenga alle forme generali della congiugazione o d'altro ec.

[3698,1]  Del resto chi volesse dire che il proprio preterito perfetto di oleo, adoleo e simili fosse e dovesse essere olui, adolui ec. onde adolevi inolevi ec. non sieno propri di adoleo, inoleo (ignoto), ma di adolesco veramente e di inolesco ec., osservi che anche l'altro oleo ne' composti fa olevi per olui (Forc. in oleo); {# 1. neo - nevi, fleo - flevi ec. ec.} e che queste desinenze evi ed ui, sono in verità una sola, cioè varie solamente di pronunzia, perchè gli antichi latini massimamente, e poi anche i non antichi, o meno antichi, ed anche i moderni ec., confondevano spessissimo l'u e il v {#2. V. p. 3708..} (che già non ebbero se non un solo e comune carattere): sicchè olevi è lo stesso che olui, interposta la e per dolcezza, ovvero olui è lo stesso che olevi, omessa la e per proprietà di pronunzia. Giacchè il v di questo e l'u di quello non furono mai considerate  3699 da' latini se non come una stessa lettera. Così nell'ebraico, così nelle lingue moderne, sino agli ultimi tempi, e dura ancora ne' Dizionari delle nostre lingue (come ne' latini) il costume di ordinar le parole come se l'u e il v nell'alfabeto fossero una lettera stessa, ec. ec. ec. Dunque non saprei dire, nè credo che si possa dire, se il vero e regolare e primitivo perfetto della seconda coniugazione abbia la desinenza in evi o in ui, se sia docui o docevi: e piuttosto si dee dire che, se non ambo primitive, ambo queste desinenze son regolari, anzi che sono ambo una stessa. Io per me credo che la più antica sia quella in evi, anticamente ei (conservata nell'italiano: potei, sedei ec. che per adottata corruzione e passata in regola, si dice anche sedetti {#1. Tutti i nostri perf. in etti sono primitivamente e veramente in ei, quando anche questa desinenza in molti verbi non si possa più usare, e sia divenuta irregolare, perchè posta fuori dall'uso, da quell'altra benchè corrotta e irregolare in origine, come appunto lo fu evi introdotta per evitar l'iato, come etti. E qui ancora si osservi la conservazione dell'antichissimo e vero uso fatta dal volgar latino sempre, sino a trasmettere a noi i perf. della 2.a in ei. Puoi vedere la p. 3820.} ec.), poi per evitar l'iato eϜi, e poi evi (come ho detto altrove pp. 1126. sgg. del perfetto della prima: amai, conservato nell'italiano ec. ama ϝ i, amavi), indi vi (docvi) o ui (docui), ch'è tutt'uno, e viene a esser contrazione di quella in evi (docevi). Ed è ben consentaneo che da doceo si facesse {primitivamente} nel perfetto, docei,  3700 conservando la e, lettera caratteristica della 2.da coniugazione come l'a nella prima, onde l'antico amai. Ma l'u com'ebbe luogo nella desinenza de' perfetti della seconda, essendo una lettera affatto estranea alle radici (come a doceo) ec.? {Impleo (compleo ec.) - deleo (v. la p. 3702.) es evi etum. Perchè dunque p. e. dolui e non dolevi? come delevi che v'è sola una lettera di svario. {+Perchè dolĭtum e non doletum?} O se dolui, perchè delevi e non delui? (v'ha però forse abolui, ed anche adolui ec. p. 3702. e ivi marg.) V. p. 3715.} Si risponde facilmente se si adottano le cose sopraddette: altrimenti non si può spiegare. L'u ebbe luogo nella seconda, come il v, ch'è la stessa lettera, ebbe luogo nella prima e nella quarta: per evitar l'iato. L'u e il v ne' perfetti di queste coniugazioni e nelle dipendenze de' perfetti sono dunque lettere affatto accidentali, accessorie, estranee, introdotte dalla proprietà della pronunzia, contro la primitiva forma d'essi verbi, benchè poi passate in regola nel latino scritto. Passate in regola nelle due prime. La quarta è l'unica che conservi ancora il suo perfetto primitivo (come la terza {generalmente e regolarmente,} che non patì nè poteva patire quest'alterazione) insieme col corrotto: audii, audivi. Il latino volgare per lo contrario non conservò, e l'italiano non conserva, che i primitivi: amai, dovei, udii. Queste osservazioni mostrano l'analogia (finora,  3701 credo sconosciuta) che v'ebbe primitivamente fra la ragion grammaticale, la formazione la desinenza de' perfetti della 1. 2. e 4. e che v'ha effettivamente fra l'origine delle forme e desinenze di tutti e tre. Analogia oscurata poscia e resa invisibile dalle alterazioni che dette desinenze variamente ricevettero nella pronunzia, nell'uso ec., le quali alterazione[alterazioni] passate in regola, furono poi credute forme primitive ec. {#2. Forse la coniugazione in cui più verbi si trovino che abbiano il perfetto (e sue dipendenze) veramente primitivo, {+e ciò} senz'averlo doppio come que' della quarta, {+ne' quali l'un de' perfetti non è primitivo,} si è la 3.a}

[3816,2]  Alla p. 2779. Al contrario da ϕώρ fur ec. (1. Nov. 1823.).

[3872,1]  Alla p. 3854. Nondimeno i supini contratti della 2. poterono anche direttamente venire dai rispettivi supini in ētum senza passare per la forma in ĭtum, cioè p. e. doctum esser contratto da docētum, non da docĭtum, soppressa la ē, come nei perfetti in ui della stessa coniugazione, cioè p. e. docui ossia docvi, ch'è contrazione di docēvi. Onde adultum cioè adoltum, potrebbe benissimo venire da adolevi senza adolui, cioè essere una contrazione {immediata} di adoletum fatto da adolevi. Anzi siccome per una parte non suole l'ē passare in ĭ, dall'altro[altra] non veggo ragion sufficiente per cui da' perfetti in ui sì della seconda sì della prima, si debba fare un supino in ĭtum, io dico che tutti i supini in ĭtum {+usitati o no} della 2. e della 1. vengono bensì da' perfetti in ui, ma non immediatamente. Da' perfetti in ui che sono contratti, p. e. domvi da domavi, mervi da merevi, vennero dei supini contratti, cioè domtum, mertum (che noi {infatti} ancora abbiamo, e i franc. domter ec.), ne' quali era soppresso l'ē e l'ā come ne' perfetti. Da questi supini poi, interpostavi per più dolcezza la lettera ĭ, solita (com'esilissima ch'ella è tra le vocali) sì nel latino sì altrove ad interporsi tra più consonanti, quando non si cerca altro che un appoggio e un riposo momentaneo e passeggero alla pronunzia, {+riposo fuor di regola e originato ed autorizzato solo dalla comodità della pronunzia, onde quella vocale non ha che far col tema, ed è accidentale affatto, e un semplice affetto e accidente di pronunzia;} vennero i supini in ĭtum come domĭtum, merĭtum. Sicchè al contrario di quel ch'io ho detto per lo passato pp. 3701-702 p. 3708 p. 3717,  3873 i supini contratti precederono quelli in ĭtum, e questi vengono da quelli, e li suppongono e dimostrano, ma non viceversa. Sicchè doctum non dimostra nè esige che vi fosse un docitum, bensì meritum un mertum; sectum non dimostra un secitum, bensì domitum un domtum (simile ad emtum ec. onde domter ec.). Bensì i supini contratti, e per conseguenza anche quelli in ĭtum, che ne derivano, suppongono e dimostrano i perfetti in ui. Da' quali immediatamente e regolarmente vengono i supini contratti, e mediatamente e irregolarmente quelli in ĭtum (specie di pronunzia de' contratti, e però contratti essi stessi; avendo l'esilissima i e breve, in cambio dell'ā o ē): e non viceversa, come per l'addietro io diceva. (12. Nov. 1823.). {{V. p. 3875.}}

[3992,1]  Alla p. 3969. La nostra diminuzione in olo olare ec., uolo ec. e la lat. in olus ec. (filiolus, vinolentus, {vinolentia ec.} ec. per filiulus, vinulentus ec. v. la p. 3955.) sono la stessa che quella in ulus ulare ec. Solito scambio dell'u ed o (come volgus - vulgus ec.) di cui ho detto in mille luoghi p. 2195 pp. 2325-26 p. 3574 p. 3701. (18. Dec. 1823.)

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