I, U, Y.
I, U, Y.
1277,segg. 1346,3 2247,2 2365,1 2813 2824-25 2895,1 3007 3038,1 3762,1 3834,1 3845,2 3852,1 3872,1 3875,2 3895,2 3940,1 3969 4008,3 4172,1[1276,2] L'antico H greco derivato dall'Heth Fenicio,
Samaritano, ed Ebraico, col quale ha comune anche il nome ἦτα (giacchè il ταῦ
greco deriva dal thau degli Ebrei), oltre alla figura,
ec; non fu da principio altro segno che di un'aspirazione, (v. p. 1136. marg.) come lo fu
sempre nel latino, e come lo era nell'alfabeto da cui venne il greco. (V. Cellar.
Orthograph.
Patav. ap. Comin. 1739. p. 40. fine. e l'Encyclop.
méthodique. Grammaire. art. H. specialmente p. 215. e se
vuoi, il Forcellini in H.) Abbiamo veduto che l'antico v latino non era altro che
1277 il digamma eolico, e questo non altro che un carattere che gli Eoli ponevano
in luogo dell'aspirazione, anzi un segno di aspirazione esso stesso, e in somma
fratello carnale dell'antico H greco. Antichissimamente pertanto la parola ὕλη
pronunziavasi hulh con due aspirazioni l'una in capo,
e l'altra da piè. {+(voglio dire insomma
che l'η di ὕλη non era da principio lettera mobile, e puro carattere di
desinenza, ma radicale, il che si deduce dal v che i latini hanno per
lettera radicale in questa parola, cioè in silva.)} Ovvero pronunziavasi hilh
giacchè non si può bene accertare qual fosse l'antichissima pronunzia dell'υ greco; se u simile al
francese, come lo pronunziavano i greci ai buoni tempi; ovvero i, come lo pronunziano i greci moderni, come si
pronunzia in moltissime voci latine o figlie o sorelle di voci greche, e come
pronunziano i tedeschi il loro ü. Certo è che gli
antichi latini pronunziarono {e scrissero} le parole
che in greco si scrivevano per Y, ora per I ora per u,
{+e quindi corrottamente {talvolta} anche per o,
come da sumnus
somnus ec. V.
Pontedera l. c. nella
p.
preced..} Per y non mai,
carattere greco, il quale graecorum caussa nominum
adscivimus
*
dice Prisciano (lib. 1. p. 543. ap. Putsch.), ed è carattere non antico, come
dice Cicerone, e pronunziavasi alla
greca, come una u francese, secondo che apparisce da
Marziano Capella. (V. Forcellini,
l'Encyclop. e Cellar.
Orthograph. p. 6 fine - 7
principio). Quindi nel nostro caso, gli antichi marmi e manoscritti, e
gli eruditi, rigettano la scrittura di sylva
sylvestris ec. per silva; scrittura
1278 corrotta e più moderna, introdottasi presso gli
scrittori latino-barbari, come si può vedere nel Ducange. Il che per
altro serve anch'esso a mostrare la derivazione o cognazione del latino silva col greco ὕλη, non essendoci altra ragione
perchè l'uso di tempi ignorantissimi, e che non pensavano o sapevano nulla
d'etimologie nè di greco, dovesse introdurre questa lettera greca {y} in una parola che gli
antichi latini scrivevano per i; uso conservatosi fino
a[a'] nostri tempi presso molti che scrivono
ancora sylva e così ne' derivati. E forse a quel tempo
in cui, secondo che dice Cicerone, si cominciò a scrivere e
pronunziare (cioè per u gallico) Pyrrhus e Phryges ec. in luogo di Purrhus e Phruges che gli
antichi scrivevano (v. Forcellini in Y); si cominciò anche a
scrivere {e pronunziare}
sylva: o certo in qualunque tempo questo accadesse,
ebbe origine e causa dal vizio di volere in tutto conformare la scrittura e la
pronunzia agli stranieri, nelle parole venute da loro, vizio che Cic.
riprende nello stesso luogo. {+(osservazione molto
applicabile ai francesi.)} E ciò mostra che dunque silva si considerò per tutt'una parola con ὕλη,
quantunque la scrittura sylva sia viziosa. {+Presso gli stessi greci de' buoni tempi le parole che hanno
la υ, quando subiscono le solite affezioni
delle parole greche, cambiano spesso l'υ in ι, come da δύο si fa δίς, e
ne' composti (come διπλοῦς, διττός, δίστομος διϕυής ec.) sempre
δι-.}
[1346,3] Dalle lettere consonanti che cadono necessariamente
in e, bisogna eccettuare il nostro c e g chiuso, e il ch degli spagnuoli, le quali
1347 lettere non si possono pronunziare se non cogli organi, vale a
dire la lingua, il palato, e i denti così serrati, che il suono, anche nel mezzo
della parola e in qualunque luogo, esce inevitabilmente in un i, quanto si voglia tenue, e ciò perchè l'i è la vocale più esile e stretta. {+Esce dico in un i ma poi termina veramente in un e
(quasi ie), qualunque volta le dette lettere, e i
suoni loro analoghi si pronunzino isolati, o nel fine di una parola, o
insomma senz'altro appoggio di vocale.} Così accade anche ai suoni che
partecipano dei sopraddetti, come gli (che noi non
iscriviamo mai senza l'i, o lo pronunziamo in altro
modo) e gn. {+V. p. 1363.} Del
resto il nostro c e g
chiusi, noi li poniamo anche avanti alla e, quantunque
questa insieme coll'i sia la sola vocale a cui la
preponiamo. Ciò per altro nella scrittura. Ma la pronunzia frappone sempre un
i anche al c ed e, ec.; e così solevano fare i nostri antichi anche
nella scrittura di quelle voci, dalle quali una poco analitica ortografia ha
escluso l'i. (19. Luglio 1821.).
[2247,2]
Alla p. 1124.
marg. Tutto quello che ho detto pp. 1151-53 della monosillabìa di tali vocali successive, quantunque
non connumerate fra' dittonghi, cresce di forza, se queste vocali doppie, triple
ec. sieno le stesse, cioè due e, due i ec. e massimamente se sono due i (l'esilissima lettera dell'alfabeto). Giacchè non solo i poeti
giambici, comici ec. ma gli epici, i lirici ec. consideravano spessissimo il
2248 doppio i come una sola
sillaba, secondochè si può vedere in Dii
Diis; anzi più spesso, cred'io, per una sola sillaba
che per due. Anzi lo scrivevano ancora con una sola lettera, e questo fu proprio
degli antichi, e seguitato poi da' poeti. V. il Forcell.
il Cellar.
l'Encyclop.
Grammaire, in I, o J.) Ora appunto il caso nostro ne'
preteriti della 4.ta è di un doppio i, il quale pure
cred'io che spesso troveremo e nelle antiche scritture latine e ne' poeti, e
scritto e computato per vocale semplice, ovvero per sillaba unica; e forse più
spesso così che altrimenti, cioè più spesso audi che
audii ec. Osservate che anche i nostri antichi
solevano scrivere udì, partì
per udii partii ec. {+I latini facevano similmente ed anche scrivevano semplice il doppio i di ii, iidem, iisdem, ec.
V. fra gli altri infiniti, Virg.
En. 2. 654. 3. 158. E quante volte troverete
ne' poeti o negli antichi prosatori audisse
audissem ec. ec. Ovvero p. e. petiisse trisillabo ec. Forse più spesso che
quadrisillabo.}
[2365,1]
Alla p. 2360.
fine. Come dunque si contrasse poi il genitivo plurale dicendo manum per manuum, così si
dovettero contrarre gli altri casi, che dovevano da principio aver doppio u, come appunto il detto genitivo. Parimente il vedere
che l'i, sempre o quasi sempre breve nelle regole
della prosodia latina (dico nelle regole, e non in quei casi che dipendono dal
solo costume, come in ītăliă[Italia] ec.) è regolarmente e sempre lungo nella {desinenza dei} dativi plurali della prima e 2.
declinazione, fa credere che quivi da principio egli fosse doppio, o
accompagnato da qualche altra vocale, che rendesse quella sillaba bivocale, e
δίϕϑογγον. {+Nel qual proposito osservate
che le vocali lunghe per natura nel greco, η, ed ω furono da principio
doppie cioè due EƎ, due οο. Nello stesso modo io penso che tali vocali
lunghe per regola nel latino, fossero da principio doppie.}
(28. Gen. 1822.).
[2811,3]
Alla p. 2776
margine. Lo stesso discorso si può fare di βαΰζω, il quale è pur verbo
esprimente un suono, e fatto per imitazione di questo suono; il qual suono come
è similissimo a quello di βαΰω, così non ha niente che fare con βαΰζω. Ma questa
e simili interposizioni della lettera
2812 ζ e d'altre
tali, sono {state} fatte o per evitare l'iato o per
altre diverse cagioni, nel processo della lingua, quando già non v'era più
bisogno che il vocabolo per essere inteso, esprimesse e rappresentasse collo
stesso suo suono l'oggetto significato, ma egli era già inteso generalmente per
se, e non per virtù della sua origine; e quando già nella lingua si guardava più
alla dolcezza ec. che alla necessità ec. ne' quali modi le parole in tutte le
lingue si sono allontanate dalla forma primitiva e hanno spesso perduto affatto
quel suono rappresentativo che prima avevano e sul quale furono modellati e
creati, e nel quale da principio consisteva la ragione della loro significanza.
I latini dal tema βαΰω o bauare fecero baubari, interponendo un b
(il quale in questo caso è più adattato all'imitazione) invece del ζ. Noi baiare, che per verità potrebb'essere appunto quello
stesso originale βαΰω ch'è affatto perduto nella lingua greca e nella latina
scritta: e ben si potrebbe credere che fosse totalmente
2813 voce antica latina, conservata nel volgare; dal che si
dedurrebbe, primo, che l'antico latino, e di poi il suo volgare perpetuamente
conservò puro il verbo originale βαΰω (giacchè l'υ greco in latino {antico} ora risponde a un u,
ora ad un i), {quantunque non si
trovi nel latino scritto;} verbo inusitato affatto nell'antica e
moderna grecità nota; secondo, che questo antichissimo verbo, perduto, o
vogliamo dire alterato nel greco, perduto ossia alterato nel latino scritto,
conservasi ancora purissimo e senz'alterazione alcuna nell'italiano, e vedi la
pag. 2704. {+Si potrebbe anche credere che i primi latini e il volgo,
invece di baubari dicessero bauari (appunto βαΰειν), e che la mutazione dell'u in i (vocali che
spessissimo si scambiano, per esser le più esili, come ho detto altrove pp. 1277-83
p.
2153
p.
2824) seguisse nell'italiano e nel francese ec. Ovvero che gli
antichi dicessero bauari, e poi il volgo baiari.}
(24. Giugno 1823.).
[2823,1] È notabile come il nostro volgo e il nostro discorso
familiare conservi ancora l'esattissima etimologia e proprietà de' verbi stupeo, stupesco, {stupefacio, stupefio,} ec. che diciamo anche stupire, stupefare, stupefarsi. In luogo de' quali verbi diciamo
sovente restare, o rimanere
o divenire o diventare
di stoppa per grandemente
maravigliarsi che sono precisissimamente il significato proprio e
l'intenzione metaforica de' predetti verbi latini.
2824
Così penso assolutamente io, sebbene altri li derivano da stipes, e forse niuno ha pensato di derivarli da stuppa, che anche si dice stupa. Il che
forse è avvenuto perchè non dovettero sapere o avvertire quella nostra frase
familiare che ho notata. Che se in alcuni mss. si trova anche stipeo ed obstipeo, ciò non
vale, perchè stupa si disse anticamente stipa, secondo Servio, {che lo} deriva da stipare. {Potrebbe anche esser la
stessa voce che} στύπη da στύϕω. {Chi sa che lo stesso stipare
non venga appunto da στύϕω piuttosto che da στείβω? V. Forcellini in stipa, stipo, stuppa
ec. Certo s'egli ha che fare con stupa o
stipa, esso viene da questa voce, e non al
contrario come vuol Servio.}
È[E] l'υ greco, siccome ho detto più volte p. 1277 cambiasi nel latino ora in i ora in
u, e queste due vocali i
ed u si scambiano sovente fra loro e nel latino e
nelle altre lingue, come ho pur detto altrove p. 1277
pp. 2152-53
p.
2813: ed osservate infatti che {l'u} francese e bergamasco, e l'υ greco, è
appunto un misto e quasi un composto d'ambedue queste vocali i ed u, e non si sa a qual
più delle due rassomigliarlo; onde si vede quanto elle sieno affini e simili ed
amiche tra loro, che s'accozzano insieme a fare (sulla bocca di molti e diversi
popoli) una sola vocale, dove niuna delle due viene a prevalere. Quindi
s'argomenti quanto è facile che queste due vocali si scambino l'una coll'altra
nella pronunzia
2825 umana, anche in uno stesso tempo e
popolo, non chè in diversi tempi e nazioni e climi. {+Simulare da similis, onde anche similare, e
noi simigliare e somigliare. assimulare e assimilare. maximus, optimus e maxumus, optumus. amantissimus e
amantissumus. V. Perticari
Apolog. di
Dante p. 156. cap. 16. verso il fine. lubens, decumus, reciperare e recuperare,
carnufex.}
(26. Giugno. 1823.).
[2895,1] Del resto il nostro antico suto è lo stesso che lo spagnuolo sido, e
che il latino situs da me supposto pp.
1120-21
pp. 2821-23: è lo stesso, dico, considerato il solito scambio e la
solita affinità fra la lettera u e l'i, del che ho detto più volte, e fra l'altre pp. 2824-5. principio (e se n'ha
appunto un esempio nella voce quaesumus di quaesere, detta per quęsimus. V. Forcellini.). Stante il quale scambio e
affinità si può credere {o} che gli antichi latini
dicessero così sutus come situs (maxumus e maximus, lubens e libens), o prima l'una di queste, e poi col tempo l'altra, o che
l'italiano antico mutasse la pronunzia latina facendo suto da situs, o viceversa lo spagnuolo
facendo sido da sutus,
giacchè questo scambio tra u ed i ebbe luogo frequentemente anche nei principii delle moderne lingue
(v. Perticari
Apolog. di Dante c. 16.
verso il fine p. 156.) siccome lo ha tutto dì. (5. Luglio
1823.). {{V. p.
3027.}}
[3006,2]
Alla p. 2814.
Vindicare, indicare che
risponderebbe forse a indicere com'educare a educere. Ma si può
pur dubitare che quello venga da vindex icis, questo
da index icis; {#1. Come fornicare da fornix
fornicis, ed altri assai; duplico da duplex, triplico ec. frutico da frutex, rusticor da rusticus
{#(2). Veggasi la p. 3752-4.} e così iudicare da iudex icis, educare da un e-dux
ucis, {+(in senso reciproco come
redux da reduco)}
jugare da jux o junx
jugis ch'esiste oggidì ne' composti coniux ec. come ho detto altrove p.
1132. E così si può molto dubitare che tutta questa categoria di
verbi venga da nomi verbali o noti o ignoti, non da' verbi originarii a
dirittura. In ogni modo, posto quello che ho congetturato altrove p.
1129, che tali nomi, come dux, dex (iu-dex, in-dex ec.), ceps (parti-ceps, au-ceps
ec.), fex (arti-fex
ec.), {+spex (aru-spex ec.), fer (luci-fer
ec.),} e simili, sieno anteriori ai rispettivi verbi, seguirebbe
da ciò che i verbi di questa categoria formati da tali nomi fossero fratelli
e non figli di que' della terza corrispondenti, e sempre sarebbe importante
e a proposito nostro il notare come di due verbi fatti da una radice, quello
3007 che ha o che da principio ebbe senso
continuativo, sia della prima coniugazione, e l'altro della terza ec. {Propago as
da pango is. Vedi la p. 3752-3.} Si può anche discorrere in
questo modo. Educare può venire da dux, aggiunta la preposizione al solo verbo, e non
al nome; onde non è necessario supporre un nome composto edux. Basta il nome semplice. Così sacrificare
{(p.
2903.)} può venir da un sacrifex
ed anche dal semplice fex. Così occupare (p. 2996.) può venire da un occeps
occupis (come auceps aucupis onde aucupare), ovvero occeps
occipis che sarebbe il medesimo (giacchè la mutazione scambievole
dell'i ed u in
questi tali nomi è ordinarissima siccome in ogni altro caso; e quindi mancipium e mancupium
etc.), può venir dico da questo nome composto, ovvero dal semplice ceps. Mancipo o mancupo, secondo questo discorso, non verrà da manus e capio, ma da manceps ipis, che anticamente si dovette anche dir
manceps cupis. {+V. p. 3019. fine.}}
Opitulare (p.
2997.) verrà da opitulus. E così, se non
tutti, almeno una gran parte de' verbi di questa categoria. (22. Luglio.
1823.).
[3038,1]
Alla p. 2929.
Così da vivo - vixi - victum si dovette fare anche vixum e vixus. Lo deduco dal nostro antico
visso, il quale non è contrazione di vissuto perchè tal contrazione non è dell'indole e uso
della nostra lingua. Bensì vissuto (che molti dicono e
dissero più regolarmente vivuto, anche trecentisti,
come ho trovato io medesimo, non altrimenti che da ricevere
ricevuto) sembra venire da
un altro, ed anche più antico e regolare participio lat. vixitus, cambiato l'i in u, come in latino a ogni tratto (v. p. 2824-5. principio, e 2895.), e come particolarmente in italiano ne'
participii passivi per proprietà, costume e regola della lingua (venditus - venduto, redditus - renduto, perditus - perduto, seditus antico
3039 e
regolare - seduto, debitus
da altra coniugazione - devuto, tenitus, antico e regolare - tenuto, ceditus antico e regolare - ceduto.).
[3762,1] A proposito di sylva da
ὕλη, del che altrove pp. 1276.
sgg.
pp. 2311-12. Sulla e Sylla
Symmachus e nel Cod. Ambros. delle
Orazioni
Summachus
costantemente. V. Forcell. ec. (23. Ott.
1823.).
[3834,1] Dico altrove p. 1279
pp. 2152-53
p.
2824 che noi sogliamo cangiare l'i de'
participii latini in us, usitati o inusitati, nella
lettera u. Che questa mutazione dell'i in u (mutazione propria
della voce umana, come ho detto altrove in più d'un luogo) ci sia naturale
segnatamente in questo caso, veggasi che noi diciamo concepito (regolare lat. ant. concepitus), e
conceputo (diciamo anche concetto voce tolta dal latino dagli scrittori e dalla letteratura).
Ma questo secondo è più italiano ed elegante. Così empiuto, compiuto, riempiuto ec. rispetto ad empíto, compíto (in alcuni sensi però non si potrebbe dir compiuto per compito ma
questi sono anzi forestieri che no) ec. Così forse altri ec. Nótisi però che i
grammatici distinguono empiere ec. ed empire (meno elegante) ec.; concepere e concepire; e ad empiere danno empiuto ec., a
concepere
conceputo; ad empire
empíto ec. (5. Nov. 1823.).
[3845,2]
Alla p. 3585.
I quali testi, e per conseguenza questi due verbi, sono antichi, cioè l'uno di
Catullo, l'altro di Paolo Diacono da Festo. Del rimanente assulito è per assilito, mutato l'i in u, per la grande
affinità di queste due vocali, altrove considerata p. 1279
pp.
2152-53
p.
2824
p.
3834. La quale affinità non è fra l'a e
l'u, nè in composizione nè altrove l'a (ch'io mi ricordi) si muta mai in u, nè viceversa. Sicchè assulito non può esser per assalito, nè assulto, resulto ec. per assalto, resalto ec. ma per
resilto, assilto, ec. E
così tutti i composti di salto, i quali tutti (ch'io
sappia) fanno in ulto (fuorchè resilito, che sarebbe
da salito). O che essi vengano a dirittura da salto, nel qual caso l'a
sarebbe stato cangiato in u, ma mediatamente, cioè
prima in i (mutazione ordinaria nella composizione,
come ho detto altrove in più luoghi p. 1154
p. 2359, e come appunto l'a di salio, ne' suoi composti), poscia l'i in u (sicchè veramente non
l'a ma l'i fu cambiato
in u); o, quel ch'è più verisimile, essi vengono da'
participii o supini de' rispettivi composti originali, cioè da assultum, resultum ec. di
assilio, resilio ec.
{Così facul, difficul, facultas, difficultas per facilitas, difficilitas
ec., mutato l'i in u, e
soppresso l'altro i. V. p. 3852.} I quali participii o supini
regolarmente sarebbero resilitum, assilitum
{ec.} (e lo dimostra appunto {col
fatto} il verbo resilito), ma ebbero il
primo i cambiato in u, come
maximus - maxumus (e in
tale stato, cioè da assulitum viene assulito, e dimostra la nostra asserzione), e il
secondo i soppresso, come nel semplice salitum - saltum: onde
divennero assultum, resultum
ec. onde assultare contratto d'assulitare. Potrebbe anch'essere che i più antichi, prima di
3846
assilio ec. pronunziassero assulio, resulio ec., come forse maxumus ec. ec. e più antica pronunzia o scrittura
{ec.} che maximus; e per
conseguenza assulitum, resulitum
{+(che poi anche nella successiva lor
contrazione conservarono la pronunzia e scrittura ec. dell'u)} ec. In tal caso assulito sarebbe la più antica forma de' composti di salto, e resilito sarebbe
più moderna, dal più moderno resilitum. (7. Nov.
1823.).
[3852,1]
Alla p. 3845.
marg. Non credo, come il Forcellini, che facultas, difficultas venga da facul,
difficul; ma che sieno contrazioni di facilitas, difficilitas, pronunziati difficulitas, faculitas. Facul ec. non sono che apocopi di facilis, {facile
avverb.} ec. (pronunziati faculis ec.) dello
stesso genere che volup ec. (V. Frontone
{+e Forc. in famul, il quale non è già da famel (v. Forc. in familia) ma da famulus.}) (10. Nov. 1823.). {E son le stesse {voci identiche} che sarebbero facil, difficil, mutata
sol la pronunzia.}
[3872,1]
Alla p. 3854.
Nondimeno i supini contratti della 2. poterono anche direttamente venire dai
rispettivi supini in ētum senza passare per la forma
in ĭtum, cioè p. e. doctum
esser contratto da docētum, non da docĭtum, soppressa la ē,
come nei perfetti in ui della stessa coniugazione,
cioè p. e. docui ossia docvi, ch'è contrazione di docēvi. Onde adultum cioè adoltum,
potrebbe benissimo venire da adolevi senza adolui, cioè essere una contrazione {immediata} di adoletum fatto
da adolevi. Anzi siccome per una parte non suole l'ē passare in ĭ,
dall'altro[altra] non veggo ragion
sufficiente per cui da' perfetti in ui sì della
seconda sì della prima, si debba fare un supino in ĭtum, io dico che tutti i supini in ĭtum
{+usitati o no} della 2. e della 1.
vengono bensì da' perfetti in ui, ma non
immediatamente. Da' perfetti in ui che sono contratti,
p. e. domvi da domavi, mervi da merevi, vennero dei
supini contratti, cioè domtum, mertum (che noi {infatti} ancora abbiamo, e i franc. domter
ec.), ne' quali era soppresso l'ē e l'ā come ne' perfetti. Da questi supini poi,
interpostavi per più dolcezza la lettera ĭ, solita
(com'esilissima ch'ella è tra le vocali) sì nel latino sì altrove ad interporsi
tra più consonanti, quando non si cerca altro che un appoggio e un riposo
momentaneo e passeggero alla pronunzia, {+riposo fuor di regola e originato ed autorizzato solo dalla comodità della
pronunzia, onde quella vocale non ha che far col tema, ed è accidentale
affatto, e un semplice affetto e accidente di pronunzia;} vennero i
supini in ĭtum come domĭtum,
merĭtum. Sicchè al contrario di quel ch'io ho
detto per lo passato pp.
3701-702
p.
3708
p.
3717,
3873 i supini contratti precederono
quelli in ĭtum, e questi vengono da quelli, e li
suppongono e dimostrano, ma non viceversa. Sicchè doctum non dimostra nè esige che vi fosse un docitum, bensì meritum un mertum; sectum non dimostra
un secitum, bensì domitum un
domtum (simile ad emtum
ec. onde domter ec.). Bensì i supini contratti, e per
conseguenza anche quelli in ĭtum, che ne derivano,
suppongono e dimostrano i perfetti in ui. Da' quali
immediatamente e regolarmente vengono i supini contratti, e mediatamente e
irregolarmente quelli in ĭtum (specie di pronunzia de'
contratti, e però contratti essi stessi; avendo l'esilissima i e breve, in cambio dell'ā
o ē): e non viceversa, come per l'addietro io diceva.
(12. Nov. 1823.). {{V. p.
3875.}}
[3875,2]
Alla p. 3873.
Resta però quello che io per l'addietro ho sempre detto circa i supini della 3.
e 4. E la presente correzione non riguarda che la 1. e 2. Lectum cioè legtum è vera contrazione di legĭtum, è fatto per soppressione dell'i, suppone e dimostra legĭtum, gli è posteriore, i supini veri e regolari {e non contratti} della 3. e 4. sono in ĭtum e ītum e non altrimenti
ec. I contratti della terza e quarta, come lectum, quaestum, sono contrazioni de' supini in itum e fatti per soppressione dell'esilissima vocale
ĭ o ī. I supini in ĭtum della 1. e 2. vengono da' contratti, e son fatti
al contrario di quelli per addizione dell'esilissimo suono ĭ. (13. Nov. 1823.).
[3895,2]
Alla p. 3876.
Venio ha già perduto il suo i in veni il cui i
non è il radicale, ma quello della terminazione del perfetto, se già esso non
comprende ambo gl'i, come negli antichi codici e
monumenti si trova assai spesso audi per audii, Tulli per Tullii, anzi regolarmente Tulli e non Tullii ec. del che vedi il Conspectus
orthographiae cod. vaticani de republica di Niebuhr. In ogni modo è certo che
virtualmente l'i p. e. di Tulli, contiene due i, come il moderno
nostro (e latino) j. Del resto, anomalie che faccian
perdere l'i radicale ai temi della quarta, sono
moltissime. P. e. vincio - vinxi (dove l'i secondo, non è il radicale)
sentio - sensi ec.
Contrazioni altresì moltissime, come saltum di salio per salitum ec. ec.
ec. Audisti
audistis ec. sono contrazioni, non, cred'io, di audiistis ec. ma di audivisti, come amasti di amavisti; onde in audisti
audistis ec. l'i radicale
non sarebbe perduto; ma sola la sillaba interposta, vi. (20. Nov. 1823.).
[3940,1]
3940 A proposito dell'antico fuo di cui altrove pp. 2821-23
p.
3735
p.
3742, osservisi ch'egli è originariamente lo stesso di fio da ϕύω, mutato l'υ in
i, come in silva,
laddove in fuo è mutato in u. E questa osservazione di fuo e fio si applichi al detto da me in più luoghi p. 1277
pp. 2152-53
pp. 2824-25 sì circa lo scambio reciproco delle vocali u ed i, sì circa la
pronunzia latina del greco υ, la quale forse, anche
antichissimamente, come poi (a' tempi di Cic. di Marziano ec.)
quella dell'y, fu tra l'i e
l'u (cioè pronunzia di u
gallico), come si può congetturare si[sì] dal
veder l'u greco ora cambiato in u ora in i, sì dal vederlo talora in una
stessa parola cambiato nell'uno e nell'altro, come in ϕύω - fuo - fio, che antichissimamente dovettero
esser un sol verbo e per significato e per tutto, sì dallo stesso scambio
reciproco dell'u e dell'i sì
frequente in latino, come appunto tra fuo e fio, e in mille altre voci. ec. ec. (5. Dec.
1823.).
[3968,3] Ho detto, non mi ricordo il dove pp. 2280-81, di un diminutivo, mi pare, italiano che la sua
inflessione in ol (sia verbo o sia nome ec. che non mi
sovviene) dimostrava lui essere originariamente latino. Ma si osservi che la
diminuzione in olo, olare
ec. è non men propria dell'italiano moderno di quel che sia del latino quella in
ulus, ulare, olus (come in filiolus) ec.
Ben è vero ch'essa deriva onninamente da
3969 questa
latina, anzi è la medesima con lei. Del resto l'aggiunta dell'u in questa nostra inflessione (come in figliuolo ec.). 1. è una gentilezza della scrittura e
ortografia, un toscanesimo, non è proprio della favella, seppur non lo è della
toscana, e in tal caso, che non credo neanche in toscana
sia troppo frequente e' sarebbe un accidente della pronunzia. 2. non si trova
nelle più antiche scritture, nè in moltissime delle meno antiche, benchè esatte,
anzi fuorchè nelle moderne, {forse} nel più delle
scritture ella manca, {+e credo ancora
che manchi regolarmente anche oggidì, almeno secondo l'ortografia della
Crusca, in molte parole dove l'olo è pur lungo.} 3. ella svanisce regolarmente (per la
regola de' dittonghi mobili) sempre che l'accento non è sull'o: quindi da figliuolo
figliolanza ec. 4. essa è veramente una proprietà
italiana onde anche da sono, bonus e tali altri o semplici, facciamo uo, come suono, buono ec. siccome gli spagnuoli ue, che pur si risolve, o ritorna, in o
sempre che l'accento non è sull'e, come da volvo
buelvo e poi bolver ec.
{V. p.
4008.}
{+E anche quando la desinenza ec. in olus o ulus ec. non è
diminutiva, noi ne facciamo sovente uolo
{ec.} come da phaseolus,
fagiuolo ec.} 5. Essa manca sempre in
moltissime parole {italiane,} come in tanti verbi
diminutivi o frequentativi ec. in olare de' quali ho
detto altrove pp. 2280-81
pp.
1116-17
p.
1241, che sarebbe sproposito scrivere in uolare. Insomma essa giunta non è propria di questa tale italiana
inflessione diminutiva derivante dal latino, ma è un accidente di pronunzia o di
ortografia italiana o toscana, che ha luogo anche in infiniti altri casi
alienissimi da questa inflessione, e che in questa medesima non ha sempre luogo
ec. (10. Dec. dì della Venuta della S. Casa di Loreto. 1823.).
{{V. p. 3984. 3992. 3993.}}
[4008,3] Participi italiani in ito
ed uto, del che altrove pp. 2688-91
pp. 3074-78. Apparito e apparuto
(Machiav.
istor. l. 7. opp. 1550. par. 1. p. 268.
mezzo). Questo secondo però, {+oltre a non avere, ch'io sappia, altra autorità che di uno scrittore molto
poco diligente nella lingua, in particolare nella Storia, dov'anche
potrebb'esser fallo di stampa,} può essere da apparere (laddove il primo da apparire),
onde anche apparso, come da parere, paruto e parso. Comparere non si trova, almeno nella
Crus., bensì però comparso, oggi
assai più frequente di comparito ch'è di comparire, da cui però non viene comparso, il quale forse è moderno e fatto solo per analogia di apparso e parso, che sono
oggi i più usitati. (5. Gen. Vigilia della S. Epifania. 1824.).
[4172,1]
Mando, mansum - mansare corrotto in mangiare, manger, manjar. V. Forc. e Gloss.
Manducare (che noi dicemmo anche manicare, quasi mandicare) sembra un
frequentativo di mandere, come fodicare di fodere ec. {+Credo però che l'u di manduco sia lungo. Del resto dello scambio
dell'u coll'i, ho
detto altrove pp. 3006-3007.}
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