V, lettera.
V, letter.
Vedi Digamma eolico. See Eolic digamma. F, letter F, lettera 1125-8 1136,marg. 1139,1 1276,1 1806,2 2320,1 2778-9 2879,2 2881,1 3169,2 3235,1 3624,2 3698,1 3704,1 3708,1 3715,1 3723,1 3731,4 3744,2 3756,3 3843,2 3848,1 3852,5 3853,1 3872,1 3881,3 3885,1 3895,2 3960,2 3988,2 4009,5 4013,2.4 4011,2 4014,3.5 4030,5 4035,4 4036,3 4037,4 4043,1 4044,4 4052,4 4054,2 4093,6 4101,5 4126,10 4132,1 4146,8 4148,6 4158,6 4161,2 4162,13 4182,7 4208,1? 4246,7 4281,1 4282,6 4286,3 4290,2[1124,2] Secondo la quale opinione, io penso che si potrebbe
anche notare come costante nella lingua latina antichissima, che la prima e
terza persona singolare
1125
{presente} indicativa del perfetto, fossero parimente
dissillabe in tutti i verbi radicali e regolari, {+al modo appunto che in ebraico la terza persona di detto
tempo e numero. V. p. 1231. capoverso 2.} Dei verbi della terza
congiugazione, questo è manifesto, come in legi e legit, feci e fecit, dixi e dixit. Dei verbi della seconda, non si può disputare,
ammessa la suddetta opinione, ch'io credo certissima, (essendo naturale
all'orecchio rozzo il considerare due vocali unite come una sillaba sola, e
proprio di un certo raffinamento e delicatezza il distinguerla in due sillabe):
perchè secondo essa opinione, docui
{e docuit} anticamente furono
dissillabi. Restano la prima e la quarta congiugazione, dove amavi ed amavit, audivi ed audivit sono
trisillabi. Ora della quarta congiugazione io penso che il perfetto primitivo
fosse in ii cioè audii e audiit, perfetto che ancora dura, ed è ancora comune a
tutti o quasi tutti i verbi {regolari} d'essa
congiugazione, a molti de' quali manca il perfetto in ivi, come a sentire {che fa sensi.}
Audii ed audiit (che
troverete spessissimo scritti all'antica audi ed audit, come altre tali i che
ora si scrivono doppi) erano, secondo quello che ho detto, dissillabi. La
lettera v, io penso che fosse frapposta posteriormente
alle due i di detto perfetto, per più dolcezza. E
1126 tanto sono lungi dal credere che la desinenza in
ivi di quel perfetto, fosse primitiva, che anzi
stimo che anche la desinenza antichissima del perfetto indicativo della prima
congiugazione, non fosse avi, ma ai, nè si dicesse amavi, ma amai, dissillabo secondo il sopraddetto. Nel che mi
conferma per una parte l'esempio dell'italiano che dice appunto amai, (e richiamate in questo proposito quello che ho
detto p. 1124. mezzo, (come anche
udii), e del francese che dice j'aimai; per l'altra
parte, e molto più, l'esser nota fra gli eruditi la non grande antichità della
lettera v, consonne que l'ancien
Orient n'a jamais connue. (Villefroy, Lettres à ses Elèves pour servir d'introduction à
l'intelligence des divines Ecritures. Lettre 6. à
Paris 1751. t. 1. p. 167.)
{V. p. 2069.
principio.} E lasciando gli argomenti che si adducono
a dimostrare la maggiore antichità de' popoli Orientali rispetto agli
Occidentali, e la derivazione di questi e delle loro lingue da quelli, osserverò
solamente che la detta lettera manca alla lingua greca, colla quale la latina ha
certo comune l'origine, o derivi dalla greca, o le sia, come credo, sorella. E
di più dice Prisciano (l. I. p. 554. ap. Putsch.)
(così lo cita il Forcell. init. litt. u. nella
mia edizione del 400. sta p. 16. fine) che {anticamente} la lettera u multis italiae populis
in usu non erat. E che il v consonante fosse
da principio appo i latini una semplice
1127
aspirazione, e questa leggera, si conosce, secondo me
dal vedere ch'esso sta nel principio di parecchie parole latine gemelle di altre
greche, che in luogo d'essa lettera hanno lo spirito lene o tenue, come {ὄϊς ovis,}
vinum οἶνος, video εἴδω,
{viscus o viscum ἰξός. (Talora anche in luogo di spirito denso come υἱός,
onde gli Eoli υιός, i latini filius.) V. Encyclop. Grammaire. in
H. p. 214. col. 2. sul principio, e in F.} ec. E ch'elle
sieno parole gemelle, è consenso di tutti i gramatici. Laddove lo spirito denso
dei greci solevano i latini cangiarlo in s (e così per
un sigma lo scrivevano i greci anticamente), come in ὕπνος che presso i latini
si disse prima sumnus (Gell.) e
poi somnus ec. {V. p.
2196.} Anzi di questa cosa non resterà più dubbio
nessuno se si leggerà quello che dice il Forcellini (v. Digamma. e
vedilo), e Prisciano (p. 9. fine - 11. e vedilo). Da'
quali apparisce che il v consonante appresso gli
antichi latini fu lo stessissimo che il digamma eolico (giacchè dagli eoli prese
assai, com'è noto, la lingua lat.). Il qual digamma presso gli Eoli era
un'aspirazione, o specie di aspirazione che si preponeva alle parole comincianti
per vocale, in vece dello spirito, e (nota bene) si frapponeva alle vocali in
mezzo alle parole per ischifare l'iato, come in amai,
amplia
Ϝit termina
Ϝitque
*
ha un'iscrizione presso il Grutero. {V. Encyclop.
Grammaire, art. F.
Cellar., Orthograph.
Patav.
Comin.
1739. p. 11-15.}
E v. il luogo di Servio nel Forcellini circa il perfetto della quarta congiugazione.
{+Dalle quali osservazioni essendo
chiaro che l'antico v latino fu {(come oggi fra' tedeschi)} lo stesso che una f, non resta dubbio che non fosse aspirazione,
giacchè la f non fu da principio lettera, ma
aspirazione, {e lieve.} E così {viceversa} gli spagnuoli che da prima dicevano fazer, ferido, afogar, {fuso,
figo, fuìr, fierro, filo, furto, fumo, fondo, formiga, forno, forca,
fender}, ora dicono hazer, herido, ahogar,
hurto, humo, {horca, hondo, hormiga, horno, huso,
higo, huìr, hender, hierro, hilo} ec. V. p.
1139.
e 1806.} In somma si vede chiaro
che la primitiva e regolare uscita de' perfetti 1. e 4. congiug. era ai ed ii, trasmutata in avi ed
1128
ivi per capriccio, per dolcezza, per forza di
dialetto, e pronunzia irregolare, corrotta e popolare, che suole sempre {e continuamente} cambiar faccia alle parole, col
successo del tempo, e introdursi finalmente nelle scritture, e convertirsi in
regola, come vediamo nella nostra e in tutte le lingue. {{V. p. 1155. capoverso ult.
e p. 2242. capov. 1. e 2327.}}
[1135,1] 2. Le diversissime relazioni ch'ebbero i popoli
greci con popoli stranieri d'ogni sorta, mediante il commercio, le guerre, le
colonie, le spedizioni d'ogni genere ec. ec. relazioni antichissime ed anteriori
a quei primi tempi che noi possiamo conoscere della lingua greca; relazioni che
hanno certo influito assaissimo su detta lingua, e moltiplicate le sue ricchezze
per l'una parte, per l'altra mandate molte sue {proprie ed
antichissime} radici in disuso, ed altre svisatene ed alteratene (V.
in questo proposito il luogo di Senofon. della lingua
Attica); recano altro gravissimo impedimento al nostro fine. Trattandosi
massimamente di relazioni con popoli le cui lingue sono quali del tutto
sconosciute, quali malissimo note. I latini ebbero altrettante e forse maggiori
relazioni con {forse} maggior numero di popoli, ma in
tempi più moderni. Il che 1.o diminuisce la difficoltà delle ricerche: 2.o la
lingua latina essendo già formata, anzi sul punto di essere la più colta del
mondo dopo la greca, (dico quando incominciarono
1136
le grandi ed estese relazioni de' latini cogli stranieri) era meno soggetta ad
esserne alterata, se non altro, nel suo fondo principale: 3.o Conoscendo noi
bastantemente i tempi della lingua latina anteriori a dette relazioni, le
alterazioni che poterono poi sopravvenire a essa lingua non pregiudicano alle
nostre ricerche, le quali riguardano gli antichissimi elementi di quella lingua
che si parlava quando Roma o non era ancor nata, o era
fanciulla. Infatti gli eruditi inglesi che hanno cercato di provare l'affinità
del sascrito colle lingue antiche Europee, sebben credono la greca derivata
dall'origine stessa che la latina, hanno tuttavia scelto piuttosto questa per le
loro osservazioni, dicendo che la penisola
d'Italia vorrà probabilmente riputarsi più
favorevole (della grecia) alla pura trasmissione della lingua originale, potendo essa essersi tenuta
più lontana dalla mescolanza di nazioni circonvicine, e di linguaggi
diversi. (Edinburgh Review. Annali di Scienze e
lett.
Milano 1811. Gennaio. n. 13. p. 38. fine.)
{+E si trova effettivamente maggiore
analogia fra certe voci ec. latine e sascrite, che fra le stesse greche e
sascrite, e pare che la lingua lat. ne abbia meglio conservate le prime
forme. L'H derivata dall'Heth dell'alfabeto fenicio, samaritano ed Ebraico,
il quale Heth era un'aspirazione densa o aspra (Encyclop. planches des
caractères) simile all'j spagnuolo (Villefroy), ha conservata nel latino la sua qualità di
carattere aspirativo, laddove è passata a dinotare una e lunga nel greco, dove antichissimamente era pur segno
d'aspirazione o spirito. La f {e il v} mancanti
all'alfabeto Fenicio (Encyclop. l. c.) mancarono pure come vedemmo
all'antico alfabeto latino.}
{{V. p. 2004.
2329. (e la p. 2371.
fine.}}
[1139,1]
Alla p.
1127. E lo pronunziavano così leggermente, che ora sebbene ne resta un
vestigio nella scrittura, convertito nel segno dell'aspirazione, è svanito però
deltutto dalla pronunzia, anche come semplice aspirazione. {+Similmente i francesi, per quello che noi diciamo fuori o fuora e gli
spagnuoli fuera dal lat. foras, o foris, dicono hors, aspirando però l'h. In luogo di voce i Veneziani dicono ose dileguato il v.} Il ϕ greco,
non è, come si sa, che un π aspirato, come si vede anche nelle mutazioni
gramaticali e sostituzioni dell'una di tali lettere all'altra. Mancava, come si
dice, al primitivo alfabeto greco detto Cadmeo o Fenicio, e vi fu aggiunto, come
dicono, da Palamede
(Plin.
7. 56.)
{+insieme col χ e col θ che sono un κ ed
un τ aspirati (Servius
ad Aen. 2. vers.
81.).}
V. Fabric.
B. G. 1. 23. §. 2.
{e il
Lessico dell'Hofmanno, v. Literae.}
È anche probabile che mancasse all'Alfabeto ebraico e che il פ non fosse che
un p, {lettera che oggi manca a
detto alfabeto. V. p.
1168.} L'alfabeto {chiamato} Devanagari
ossia quello della lingua sascrita, {(dalla
quali[quale] alcuni dotti inglesi fanno
derivar la latina)} sebbene composto di 50 lettere, manca della f, e invece {la detta lingua}
adopera un b, {o un p} aspirati. (Annali di Scienze e
lettere. Milano 1811. N. 13. p.
43.) ec. ec. (5. Giugno 1821). {{Considera ancora il nome greco di
Giapeto, da Jafet, ebreo o fenicio
ec.}}
[1276,1]
1276 Voglio portare in conferma di ciò un altro
esempio, oltre ai già riferiti, per mostrare quanto giovino i lumi archeologici
alla ricerca delle antichissime radici. Silva è radice
in latino, cioè non {nasce} da verun'altra parola
latina {conosciuta.} Osservate però quanto ella sia
mutata dalla sua vecchia {e forse prima} forma. ῞Yλη è
lo stesso che silva per consenso di quasi tutti gli
etimologi. Or come la parola latina ha una s e un v davantaggio che la greca? Quanto alla s vedi quello che ho notato altrove p.
1127, vedi Jul. Pontedera
Antiquitt. Latinn. Graecarumq. Enarrationes
atque Emendatt. Epist. 2. Patav. Typis
Seminar. 1740. p. 18. (le due prime epistole meritano di esser lette
in questi propositi archeologici della lingua latina) ed ella è cosa già nota
agli eruditi. {+Nelle stesse antiche
iscrizioni greche si trova sovente il sigma
innanzi alle parole comincianti per vocale, in luogo dell'aspirazione. Anzi
questa scrittura s'è conservata in parecchie delle stesse voci greche, (come
nelle latine): p. e. σῦκον pronunziavasi da principio ὗκον o ὖκον
coll'aspirazione aspra o dolce, giacchè gli Eoli ne fecero Ⅎῦκον e i latini
ficus. V. l'Encyclop. in S.} Quanto al v ecco com'io la
discorro.
[1806,2]
Alla p. 1127.
marg. Gli spagnuoli {{moderni}} sostituiscono
l'h anche al v, onde
dicono hueco (vòto) che anticamente dovette dirsi vueco da vacuus. (29.
Sett. 1821.).
[2320,1] Altra prova e dell'usanza latina di pronunziar più
vocali in modo di una sola sillaba, e dell'essere stato originariamente il v latino una semplice aspirazione, e questa essere
stata leggera (come l'h), {+e della dissillabìa della 1. e 3. persona sing. perfetta
indicativa delle congiugazioni 1. e 4. ec. ch'è appunto quello che s'ha a
dimostrare,} e della somiglianza tra l'antichissimo latino
conservatosi nel volgare, e le moderne figlie del latino; eccola. Amaverunt, amaverat ec. si diceva spessissimo
2321
amarunt, amarat ec. Donde venne questa contrazione
usualissima? Le contrazioni non nascono già, e molto meno diventano comunissime
(più spesso troverete amarunt che amaverunt ec.) senza una ragione di pronunzia. Anticamente si disse
amaerunt, amaerat trisillabe, senza però che l'ae si pronunziasse e, ma
sciolto. Poi coll'aspirazione eufonica, per fuggire l'iato si disse ec. amaϝerunt. Ma il volgo continuò a considerarli come
trissillabi; e perciò saltando facilmente una lettera, e conservando la parola
trisillaba, disse amarunt, amarat ec. {+E non fece caso dell'aspirazione (ossia
del v) non più di quello che in nil per nihil ec. V. disopra.} Che il volgo solesse
pronunziare così contratto piuttosto che sciolto lo dimostra il nostro amarono, amaron, aimerent. (E quanto ad amarat vedi la p. 2221. fine - segg. ) Quest'uso essendo comune a tutte
tre le lingue figlie, dimostra un'origine comune cioè il volgare latino. E
viceversa le dette considerazioni provano che detto uso moderno, è di
antichissima origine, e proprio (forse esclusivamente dell'altro) del volgare
latino, com'era pur
2322 proprio della scrittura, e lo
fu, sino ab antico, per sempre.
[2778,1]
2778 4. Molti attivi di verbi che in greco non
conservano se non il medio (in senso attivo, o passivo, o in ambedue {{ἅλλομαι - salio.}}), o il passivo, {(in senso passivo o attivo ec.)} l'uno e l'altro, {o parte dell'uno, parte dell'altro, (com'è ordinarissimo),} segni
certissimi di un verbo greco attivo perduto (come lo sono i deponenti in
latino), o che in greco sono appena conosciuti, o solamente poetici, o antiquati
o insoliti, sono comuni ed usitati universalmente in latino, o se non altro si
conservano. Di cio[ciò] si potrebbero addurre
non pochi esempi. Bastimi il verbo gigno, attivo di
γίγνομαι che significa gignor e che in greco manca non
solo di voce ma eziandio di significazione attiva. E notate che il verbo latino
gigno nel perfetto e ne' tempi che dal perfetto si
formano e nel supino, muta la i radicale in e, e perde il secondo g come
appunto accade al greco γίγνομαι nelle sue inflessioni. Serva per altro esempio
il verbo volo, il quale io dico esser la voce attiva
di βούλομαι, cioè βούλω, mutato il b in v, come in tanti
2779 altri
casi {(p. e. da βάδω vado),}
v. p. 4014. e fatto dell'ου, ω,
alla Dorica, cioè βώλω, come di βοῦς i dori βῶς, i latini bos, di ὕπνος gli Eoli ὤπνος (come ὠψηλός da ὑψηλός), i latini somnus, {di νύξ νώξ, nox: v. p. 3816.} oltre le
solite mutazioni volgari di vulgus
vulpes ec. in volgus
volpes. (12-13. Giugno 1823.). {Βούλω si
trovò certamente nell'antica lingua greca, come mostra il suo medio
βούλομαι. E forse sì βούλω che ϑέλω {ed ἐϑέλω}
furono fatti per πρόσϑεσιν dal tema monosillabo λῶ volo, onde λωΐων, λώϊστος ec. V. Lexic. E così ϑέλω volo viene forse dalla stessa radice del suo
sinonimo βούλομαι, di cui però v.
Ammon.
de Different. vocabulor. (᾽Aβούλέω nolo è di Plat. e di Demost. nelle
epist.) Di tal πρόσϑεσις se n'ha appunto un
esempio in ϑέλω - ἐϑέλω. V. p.
3842.}
[2879,2] Che il v presso gli
antichi latini non sia stata che una specie d'aspirazione, e non una consonante,
e che tale in verità sia la sua natura, di tener cioè dell'aspirazione, e di
svanir sovente dalle voci secondo l'indole delle varie pronunzie. Dionigi
d'Alicarnasso
Archaeol. roman. l. 1. c. 35. parlando
dell'origine del nome Italia. ῾Eλλάνικος δὲ ὁ λέσβιός ϕησιν ῾Ηρακλέα τὰς Γηρυονοῦ[Γηρυόνου] βοῦς ἀπελαύνοντα εἰς ῎Aργος,
ἐπειδή τις αὐτῷ δάμαλις ἀποσκιρτήσας τῆς ἀγέλης ἐν ᾽Iταλίᾳ ὄντι ἤδη
ϕεύγων διῇρε τὴν ἀκτήν, καὶ τὸν ματαξὺ διανηξάμενος πόρον τῆς ϑαλάσσης
εἰς Σικελίαν ἀϕίκετο, ἐρόμενον ἀεὶ τοὺς ἐπιχωρίους καϑ᾽ οὓς ἑκάστοτε
γένοιτο[γίνοιτο] διώκων τὸν δάμαλιν,
εἴ ποι[πή]
τὶς[τις] αὐτὸν ἑωρακώς[ἑωρακὼς εἴη], τῶν τῇδε ἀνϑρώπων ἑλλάδος μὲν γλώττης
ὀλίγα συνιέντων,τῇ δὲ πατρίῳ ϕωνῇ κατὰ τὰς μηνύσεις τοῦ ζώου καλούντων
τὸν δάμαλιν οὐΐτολον, ὥσπερ καὶ νῦν λέγεται, ἀπὸ τοῦ ζώου τὴν
2880 χώραν ὀνομάσαι πᾶσαν, ὅσην ὁ δάμαλις
διῆλϑεν, Oὐϊταλίαν. Μεταπεσεῖν δὲ ἀνὰ χρόνον τὴν
ὀνομάσίαν εἰς τὸ νῦν σχῆμα, οὐδὲν ϑαυμαστόν. ᾽Επεὶ καὶ τῶν ἐλληνικῶν
πολλὰ τὸ παραπλήσιον πέπονϑεν ὀνομάτων.
*
Da bibo noi diciamo bevo, e beo tolta la lettera v, beve e bee, beendo, bere da bevere tolto il v, e
contratto beere in bere ec.
V. il Corticelli, e il Buommattei
Trattato 12. c. 40. fine. {+Così da debeo
devo e deo, devi e dei ec. V. i
grammatici e l'uso volgare.} Dal lat. pavo
diciamo pavone e paone, paonessa, paoncino ec.
Diciamo altresì pavonazzo e paonazzo. E in cento altre parole leviamo e inseriamo il v a nostro piacere, o ch'esso veramente, secondo
l'etimologia appartenga {loro,} o che no, e talvolta
l'inseriamo sempre e costantemente in voci a cui esso non appartiene, o lo
passiamo pur sempre e costantemente sotto silenzio in quelle voci dov'esso
dovrebb'essere ed era. E in questo particolare v'è frequentissima discordanza
tra le pronunzie e dialetti delle provincie, città, individui
d'italia, tra gli antichi autori e i moderni, tra
l'antico parlare e il moderno, tra il moderno parlare e lo scrivere ec.
(2. Luglio. 1823.).
[2881,1]
2881 Traduzione del passo soprascritto di Dionigi d'Alicarnasso fatta da Pietro Giordani nella Lettera al Chiarissimo Abate Giambattista Canova sopra il Dionigi trovato
dall'Abate Mai.
Milano, per Giovanni Silvestri 1817. p. 30-31. Ma Ellanico Lesbiese dice che Ercole menando ad
Argo i buoi di Gerione, e già trovandosi in
Italia, poichè un bue sbrancatosegli della
greggia fuggendo corse tutta la spiaggia, e notando per lo stretto del
mare in Sicilia arrivò; esso Ercole interrogando i paesani, dovunque nel
correr dietro al bue passava, se alcuno lo avesse veduto; e quelli poco
intendendo la favella greca, e per gl'indizi ch'Ercole ne dava chiamando essi quell'animale
nella nativa lor lingua Vitulo (come anch'oggi si chiama): accadde che
dal vocabolo di quella bestia, tutto il paese ch'ella ch'ella corse
fosse nominato Vitulia.
*
(il greco dice ch'Ercole medesimo così nominollo, e dice Vitalia)
Che poi il nome col tempo si mutasse nella presente
forma, non è da maravigliare, quando molti de' vocaboli greci cosiffatte
mutazioni patirono.
*
(2. Luglio 1823.).
[3169,2]
Et Davus non recte scribitur. Davos scribendum: quod nulla {litera} vocalis geminata unam syllabam
facit.
*
(geminata cioè p. e. due a, o come in questo caso, due u). Sed quia ambiguitas vitanda est
nominativi singularis et accusativi pluralis, necessario pro hac regula
digamma
3170 utimur, et scribimus DaFus, serFus, corFus.
*
Donatus ad Ter. Andr. I. 2. 2.
(12. Agosto, dì di S. Chiara. 1823.)
[3235,1]
Saluto
as si deriva da salus. Ma io
l'ho in forte sospetto di continuativo fatto da salveo-salvitus (antico), mutato in salutus, ovvero da salvo,
mutato il part. salvatus parimente in salutus. (V. Forc. in Saluto, fin. e in Salvo). Giacchè
spessissimo la lingua latina, massime antica, scambiava tra loro l'u e il v, mutando questo in
quello, o per lo contrario. Così lavo ne' composti
diviene luo: ed ablutus si
dice in luogo di ablavatus. Così lautus per lavatus, fautam per favitum. A questo proposito
noterò il continuativo lavito. Forcell.
Cerebrum in fine. {+E commentor e commento, {a}
particip. commentus verbi comminiscor
*
(forse anche comminisco), dice il Forcell.; e notate che qui non
dice dal supino, cioè da commentum, come
suole.}
(22. Agos. 1823.).
[3624,2] Il v non fu che
un'aspirazione che si metteva, per evitare l'iato, fra più vocali; e
tralasciavasi spessissimo ec. ec. come altrove in più luoghi pp. 1125-28
pp.
2069-70
pp. 2320-22
pp.
2879-80.
3625
V. il Forcellini in Fuam.
(7. Ott. 1823.).
[3698,1] Del resto chi volesse dire che il proprio preterito
perfetto di oleo, adoleo e
simili fosse e dovesse essere olui, adolui ec. onde adolevi
inolevi ec. non sieno propri di adoleo, inoleo (ignoto), ma di adolesco veramente e di inolesco ec., osservi che anche l'altro oleo
ne' composti fa olevi per olui (Forc. in oleo); {# 1. neo - nevi, fleo - flevi ec.
ec.} e che queste desinenze evi ed ui, sono in verità una sola, cioè varie solamente di
pronunzia, perchè gli antichi latini massimamente, e poi anche i non antichi, o
meno antichi, ed anche i moderni ec., confondevano spessissimo l'u e il v
{#2. V. p. 3708..} (che già non ebbero se non un solo e comune
carattere): sicchè olevi è lo stesso che olui, interposta la e per
dolcezza, ovvero olui è lo stesso che olevi, omessa la e per
proprietà di pronunzia. Giacchè il v di questo e l'u di quello non furono mai considerate
3699 da' latini se non come una stessa lettera. Così
nell'ebraico, così nelle lingue moderne, sino agli ultimi tempi, e dura ancora
ne' Dizionari delle nostre lingue (come ne' latini) il costume di ordinar le
parole come se l'u e il v
nell'alfabeto fossero una lettera stessa, ec. ec. ec. Dunque non saprei dire, nè
credo che si possa dire, se il vero e regolare e primitivo perfetto della
seconda coniugazione abbia la desinenza in evi o in
ui, se sia docui o docevi: e piuttosto si dee dire che, se non ambo
primitive, ambo queste desinenze son regolari, anzi che sono ambo una stessa. Io
per me credo che la più antica sia quella in evi,
anticamente ei (conservata nell'italiano: potei, sedei ec. che per
adottata corruzione e passata in regola, si dice anche sedetti
{#1. Tutti i nostri perf. in etti sono primitivamente e veramente in ei, quando anche questa desinenza in molti verbi
non si possa più usare, e sia divenuta irregolare, perchè posta fuori
dall'uso, da quell'altra benchè corrotta e irregolare in origine, come
appunto lo fu evi introdotta per evitar l'iato,
come etti. E qui ancora si osservi la
conservazione dell'antichissimo e vero uso fatta dal volgar latino sempre,
sino a trasmettere a noi i perf. della 2.a in ei.
Puoi vedere la p. 3820.}
ec.), poi per evitar l'iato eϜi, e poi evi (come ho
detto altrove pp. 1126. sgg. del perfetto della prima: amai, conservato nell'italiano ec. ama
ϝ
i, amavi), indi vi (docvi) o ui (docui), ch'è tutt'uno, e
viene a esser contrazione di quella in evi (docevi). Ed è ben consentaneo che da doceo si facesse {primitivamente} nel perfetto, docei,
3700 conservando la e,
lettera caratteristica della 2.da coniugazione come l'a nella prima, onde l'antico amai. Ma l'u com'ebbe luogo nella desinenza de' perfetti della
seconda, essendo una lettera affatto estranea alle radici (come a doceo) ec.? {Impleo (compleo
ec.) - deleo (v. la p. 3702.)
es evi etum. Perchè dunque p. e. dolui e non dolevi? come
delevi che v'è sola una lettera di svario.
{+Perchè dolĭtum e non doletum?} O se
dolui, perchè delevi
e non delui? (v'ha però forse abolui, ed anche adolui ec. p. 3702. e ivi marg.) V. p. 3715.} Si risponde
facilmente se si adottano le cose sopraddette: altrimenti non si può spiegare.
L'u ebbe luogo nella seconda, come il v, ch'è la stessa lettera, ebbe luogo nella prima e
nella quarta: per evitar l'iato. L'u e il v ne' perfetti di queste coniugazioni e nelle
dipendenze de' perfetti sono dunque lettere affatto accidentali, accessorie,
estranee, introdotte dalla proprietà della pronunzia, contro la primitiva forma
d'essi verbi, benchè poi passate in regola nel latino scritto. Passate in regola
nelle due prime. La quarta è l'unica che conservi ancora il suo perfetto
primitivo (come la terza {generalmente e regolarmente,}
che non patì nè poteva patire quest'alterazione) insieme col corrotto: audii, audivi. Il latino
volgare per lo contrario non conservò, e l'italiano non conserva, che i
primitivi: amai, dovei, udii. Queste osservazioni mostrano l'analogia (finora,
3701 credo sconosciuta) che v'ebbe primitivamente
fra la ragion grammaticale, la formazione la desinenza de' perfetti della 1. 2.
e 4. e che v'ha effettivamente fra l'origine delle forme e desinenze di tutti e
tre. Analogia oscurata poscia e resa invisibile dalle alterazioni che dette
desinenze variamente ricevettero nella pronunzia, nell'uso ec., le quali
alterazione[alterazioni] passate in regola,
furono poi credute forme primitive ec. {#2.
Forse la coniugazione in cui più verbi si trovino che abbiano il perfetto (e
sue dipendenze) veramente primitivo, {+e ciò} senz'averlo doppio come que' della
quarta, {+ne' quali l'un de' perfetti
non è primitivo,} si è la 3.a}
[3704,1]
Alla p. 3702.
Queste osservazioni, e i confronti di fletum, netum e tali altri supini tutti della seconda,
confermano che suetum, exoletum, e simili, non sono di suesco, exolesco ec. verbi della terza, alla quale punto non
conviene questa desinenza, ma di altri della seconda da cui cui essi derivano.
Cretum da cerno
{#2. e suoi composti} è
corrottissimo, {{per cernitum,}}
{ch'è il vero,} e la desinenza in etum v'è accidentale ec. (15. Ott. 1823.). {#3. V. p. 3731.} Altresì quel che s'è detto de' perfetti della
seconda, e il confronto di nevi, flevi ec. mostra che suevi, crevi, adolevi ec. non sono
di suesco ec. verbi della terza. (15. Ott.
1823.). {#4. V. p. 3827.} La desinenza
{de' perfetti} in evi o
3705 in vi, propria della
prima coniugazione e, come abbiamo mostrato pp. 3698-99, della
seconda, che ora ha più sovente ui ch'è il medesimo, e
finalmente eziandio della quarta che conserva però anche quella in ii, è al tutto aliena da' verbi della terza, se non se
per qualche rara anomalia, come in crevi da cerno, {#1. e
suoi composti} perfetto irregolarissimo, per cerni, e in sevi da sero, {#2. e suoi composti}
verbo d'altronde ancora irregolarissimo, come si vede nel suo supino satum, {#3. ne'
composti situm, solita mutazione in virtù della
composizione ec. v. p. 3848.
ec.} Ovvero per qualche altra ragione come dal verbo no (di cui p.
3688.) che dovette essere della terza, il perfetto novi per evitare la voce poco graziosa ni, che sarebbe stata il suo perfetto regolare, e che
d'altronde concorreva colla particella ni: oltre che
niun perfetto latino, se ben mi ricordo, è monosillabo, ancorchè fatto da tema
monosillabo: eccetto ii da eo, e da fuo, fui,
i quali {{furono}} monosillabi, {+e forse ancora lo sono talvolta presso i poeti latini
del buon tempo ec.} secondo il mio discorso altrove fatto pp. 1151-53
pp. 2266-68 della antica
monosillabia di tali dittonghi ec. Da' monosillabi do,
sto ec. si fece il perfetto dissillabo per
duplicazione: dedi, steti,
ec. Onde avrebbe da no potuto anche farsi neni. O forse il verbo da cui viene nosco, non fu no, ma noo (νοῶ), onde il perfetto
3706
novi invece del regolare noi
sarà stato fatto (come que' della 1. in avi per ai, della 2. in evi per ei, della 4. in ivi per ii) per evitare l'iato; il quale iato però {+non può essere che} affatto
accidentale ne' perfetti di questa coniugazione. {V. p.
3756.} Così per fui,
regolare perfetto dell'antico fuo, verbo della terza,
il qual perfetto anche oggidì si conserva, e solo esso, e tutto regolare, Ennio disse fuvi, non metri causa, come crede il Forcellini, (in fuam), ma secondo me, per evitare l'iato. {#1. V. p.
3885.}
{Suo is ha sui, e non ha che questo. Abluo - Diluo ec. lui. Veggasi la p.
3732. Assuo
assui ec. e gli altri composti di suo.} L'evitazion del quale stette a cuore
principalmente agli scrittori (come anche in altre lingue), e ad essi, cred'io,
si deve attribuire l'esser passate in regola le desinenze avi ed evi (poi ui) della 1. e 2. ne' perfetti e lor dipendenze, ed in parte la desinenza
ivi nella quarta, in vece delle primitive ai, ei, ii. E quelle in avi, evi, ivi, secondo me, non furon proprie che
della scrittura, o certo del linguaggio illustre, o di esso principalmente, e
nulla o poco le adottò il plebeo, perocch'esso conservò le primitive ai, ei, ii, come lo dimostra l'italiano (e anche il francese
3707
aimai, onde lo spagn. amè,
come ho detto nella mia teoria de'
continuativi). Tornando a proposito la desinenza in vi, fuori de' detti casi, amalie[anomalie] ec. non è propria punto, anzi impropria, de'
perfetti della terza, se non per puro accidente, come in solvi, volvi e simili. Ne' quali casi il v non è di tal desinenza, nè del perfetto, {+nè dell'inflessione ordinaria de' verbi
della 3.a nel perfetto ec.} ma del tema (solvo, volvo), ed è lettera
radicale di tutto il verbo ec. Trovansi però molti verbi della 3.a che (per anomalia) fanno il perfetto in ui
(come il più di quelli della seconda): e questi sono in {molto} maggior numero che quelli della 3.a che
facciano il perfetto in vi. (siccome anche nella 2.a oggi son più quelli in ui che
quelli in vi). Per esempio l'altro sero (diverso dal sopraddetto a p. 3705.) che ha il supino sertum, nel perfetto fa serui, e così i suoi
composti. Così colo is ui. Ed altri molti. {{Ma questa desinenza è pure affatto
impropria della 3. e vi è sempre anomala, come
quella in vi o}}
{+in evi ec.
che originalmente son tutt'una con quella in ui.}
[3708,1]
Alla p. 3698.
P. e. solutum, volutum, non
sono che o modi di pronunziare o scrivere o di pronunziare e di scrivere i
regolari supini volvitum, solvitum e simili, che non son pochi; o contrazione di essi supini
regolari, fatta per l'elisione dell'i e non altro
(giacchè l'u e il v, come
dico, sono una stessa lettera) {#1. Così
sutum da suo è
contrazione di suĭtum. V. la fine del pensiero
precedente [p. 3707,1]. Ablutum
da abluo. Dilutum ec.
Lautum (onde lotum)
è contrazione di lavitum, e dimostra quel che ho
detto pp. 3698. sgg. della confusione tra l'u e 'l v. V. p. 3731.} contrazione
ed elisione ordinaria, e si può dir, regolare (per il suo grand'uso) sì ne'
verbi della terza, come dictum per dicitum ec. ec., sì in quelli della seconda, come doctum per docitum (che non
si ha, mentre si ha nocitum, placitum, tacitum, habitum ec. e non noctum ec: vedi la p. 3631.) ec. ec. (16. Ott.
1823.).
[3715,1]
Alla p. 3700.
marg. Che la desinenza ui nel perfetto della
2,da, sia stata introdotta nel modo che abbiam detto
p. 3698, mostrasi ancora col considerarla in
alcuni verbi della 1.a. Della quale niuno dubita che il
perfetto regolare e proprio non sia quello in avi. Ma
pur parecchi suoi verbi l'hanno in ui: domui, secui, vetui, necui, {{crepui}} ec. co' loro composti
enecui, perdomui ec.
{#1. Puoi
vedere p. 2814-5. e 3570.} Or da
che è venuta quest'anomalia? Dalla stessa cagione che l'ha introdotta ne' verbi
della 2.da,
3716 nella quale ella,
per esser più comune assai che nella prima, e più comune che non è ciascuna
dell'altre desinenze, non si chiama anomalia, anzi regola; e piuttosto chiamasi
anomalia quella in evi perchè divenuta più rara, e una
di quell'altre meno comuni. Ma parlando esattamente e guardando all'origine,
quella in ui è anomalia o alterazione nella seconda
non meno che nella prima, e quella in evi è così
regolare nella 2. come nella prima quella in avi. E
più comune si è la desinenza in ui nella seconda che
nella prima, perchè l'ommissione della vocale, da cui essa deriva, era ed è più
facile e naturale circa la e che circa la a, lettera più vasta, per servirmi dell'espressione di
Cicerone in altro proposito (Orat. c. 45.
circa l'x.). Del resto, come parecchi della
seconda hanno il perfetto così in evi come in ui, qualunque de' due sia più comune, così tutti o
quasi tutti quelli della 1. che l'hanno in ui,
conservano pur quello in avi, o che questo sia in essi
il più usitato, o viceversa.
3717
{
Plico as (v.
Forc.) plicatus. Adplico, explico ec. avi
atum, ui
ĭtum. Frico as ui ctum,
fricatum. perfrico
ec. Sono as
avi
atum, ui, sonitus us. V. p. 3868. Mico as ui, micatus us. Emico as ui,
emicatio, emicatim.} E tutti altresì, se non erro, hanno il supino in ĭtum, come quelli della seconda ch'hanno il perfetto
in ui (mentre quelli che l'hanno in evi conservano altresì il vero supino in etum, credo, tutti); ovvero in ctum contratto da cĭtum (nectum, sectum ec.) come
appunto lo sogliono avere quelli della seconda che hanno il perfetto in ui, come docui-doctum contratto da docĭtum
{#1. V. p. 3723..} Ma {molti di} que'
della 1. che hanno il supino in ĭtum, conservano
altresì, come il vero perfetto in avi, così il vero
supino in atum (o il participio in atus o in aturus ec. ch'è
tutt'uno, e lo dimostra) {+più o meno
usitato di quello in ĭtum,} non altrimenti
che alcuni della seconda conservino forse accanto del supino in ĕtum il vero in ētum. Dico,
forse, perchè ora non me ne soccorre esempio. (17. Ott. 1823.).
[3723,1]
Alla p. 3717.
Quest'osservazione circa il trovarsi costantemente o quasi costantemente il
supino in ĭtum ne' verbi della 1. e della 2. ch'hanno
il perfetto in ui, ancorchè e quel supino e quel
perfetto ne' verbi della 1. senza controversia, e ne' verbi della 2. giusta le
nostre osservazioni, sieno anomali ec.; par che dimostri una corrispondenza, una
dipendenza che passasse nella lingua latina fra il perfetto e il supino (come
fra il perfetto e i tempi che è già noto formarsi da questo, fra' quali niuno,
ch'io sappia, ha mai ancora contato il supino); e che la formazione del supino
seguisse e fosse determinata e modificata dalla forma del perfetto, e che in
somma anche il supino nascesse in qualche modo dal perfetto, come {assolutamente, in tutto, e senza controversia} ne nasce
il più che perfetto, il futuro dell'ottativo ec. ec. Questo sospetto si potrebbe
anche,
3724 cred'io, confermare con molte altre
osservazioni. P. e. juvo as fa il perfetto iuvi, contratto da iuvavi o
per evitare quel doppio v, {#1. Anzi gli u in iuvavi sarebbero tre, giacchè tanto era per gli
antt.[antichi] l'u che il v ec., onde p. es. in pluvi si chiamava duplex
u ec. V. Forc. in Luo fine, in U ec. e
l'Encyclopédie in U ec. e l'Hofman in U ec.} o per effetto della pronunzia
accelerata e confondente que' due v insieme:
confusione e accelerazione passata poi in regola, onde venne iuvi solo perfetto di iuvo,
e con un v solo e semplice. Perfetto che viene a
essere anomalo, ma anomalia di cui ben si conosce l'origine e la cagione. Ora
nel supino iuvo ha iutum per
iuvatum. Participio anomalo, della cui anomalia
non si conosce origine nè cagione, se non dicendo ch'egli è formato dal
perfetto, il quale essendo iuvi, ne vien di ragione
iutum, così bene come da iuvavi verrebbe iuvatum. V. Forcell. in
Juvo fine. {#2. Si potrebbe però dire che iutum è fatto da iuvatum per evitare
quel doppio u, benchè l'uno consonante l'altro
vocale, e per sincope ed elisione dell'a, e per
effetto di pronunzia ec..} E certo non si può negare, perchè dà negli
occhi, che qui il supino corrisponde al perfetto (e così in tutti i composti di
iuvo; adiuvi, adiutum ec. ec.), e stolto sarebbe l'attribuire questa
corrispondenza al caso, e il non volere, come sembra evidente, che l'anomalia
del supino della quale non si vede ragione, venga
3725
da quella del perfetto la cui ragion si vede, e comparato col qual perfetto,
{e in ragione di lui,} esso supino non è anomalo
ec. ec. {+e il voler piuttosto che
l'anomalia del supino sia casuale ec.}
(18. Ott. 1823.). {{V. p.
3732.}}
[3731,4]
Alla p. 3708.
marg.
Lavitum è dimostrato dal verbo lavito. Così fautum è contrazione di favitum dimostrato (se bisognasse) da favitor ec. Ma il detto
3732
scambio tra il v e l'u è
dimostrato piucchè mai chiaramente da tutti o quasi tutti i verbi (ec.) composti
di lavo, in cui lavo diventa
luo. Contrazione la qual conferma mirabilmente e
pienamente quella ch'io ho supposta pp. 3698. sgg. ne' perfetti in ui della seconda e massime della prima. P. e. domui è da domavi nello
stessissimo modo che abluo per ablavo, soppressa la a e volto il v in u. Del resto pluit ebat ha il perfetto pluit ed anche pluvit per evitar l'iato,
come a p. 3706. Exuo is ui utum. Ruo is ui
utum contrazione di ruitum, che anche esiste:
{prova delle mie asserzioni.}
V. Forc. in Ruo e composti.
{+
Fruor, ĭtus e ctus sum, ma fruĭtus è
più usato, e così fruiturus ec.}
Luo is ui luitum dimostrato da luiturus. Anche si disse o scrisse luvi.
V. Forc. in luo, verso il fine.
Fluo is fluxi, fluctum, fluxum e fluitum dimostrato da fluito
e da fluitans. {{Così i composti di
fluo ec.}}
{#2. Tribuo, Minuo, Statuo, Induo, Arduo, Acuo, Annuo, Innuo ec. Imbuo ec. ui utum, co' loro composti, e così con quelli di
Suo ec. In tutti questi supino l'i è stato mangiato per evitar l'iato, o come in
docitum ec. Notisi che laddove l'u in tutti gli altri tempi di questi verbi,
compreso il perfetto, è sempre breve. - V. p. 3735.}
(19. Ott. 1823.).
[3744,2] Il v non è che aspirazione
nell'antico latino ec.: sta in vece dello spirito nelle parole tolte dal greco,
e non pur dell'aspro ma del lene ec. come nella mia teoria de' continuativi
pp.
1126-27
Paphlagonia insignis loco Heneto, a quo,
ut Cornelius
3745 Nepos perhibet, Paphlagones in
Italiam transvecti, mox Veneti sunt nominati.
*
Solin.
c. 44. ed. Salmas. 46. al., Plin. l. 6. c. 2.
V. Menag. ad Laert.
II. segm. 113. e notate che ivi il
greco ᾽Ενετός è sempre collo spirito lene, benchè nell'addotto luogo si scriva
Heneto. V. anche Cellar. ec. Del resto quelle mie
osservazioni potrebbero confermare questa etimologia e questa storia. (21.
Ott. 1823.). {+V. Forc. in Veneti e in Velia.}
[3756,3]
Alla p. 3706.
Senza fallo il nostro verbo fu noo is, non no nis. (e altrettanto si dica di poo, non po, dà[da] πόω, il quale dovette essere poo pois povi
potum secondo le ragioni che or si diranno). 1. da no non si sarebbe fatto nosco ma nisco. Veggasi la p. 3709 fine - 10 principio. 2. No non avrebbe fatto nel pret. novi ma ni (o per duplicazione neni), come suo
sui, luo
lui ec. Noo bensì doveva far
noi, come suo
sui ec. (p.
3731. seg. 3706. marg.),
poi per evitar l'iato fece novi, come amai
amavi, docei
docevi,
3757
lui
luvi ec. (p.
3706. 3732. v. Forc. in luo
verso il fine). 3. Così no non avrebbe fatto notum ma nĭtum. Nè questo si
sarebbe mai mutato in notum, nè ni o neni in novi.
Bensì noi in novi nel modo
detto; e in notum il regolare noĭtum di noo (p. 3708. marg.
3731-2. 3735.) {+Anche
Nomen, agnomen, cognomen ec. vien da noo, e serve a mostrare, primo, noo non no (onde sarebbe nĭmen,
come da rego
regĭmen ec.); secondo, noo da cui esso viene, non da nosco,
checchè dica il Forc. in nomen princip. e quivi Festo ec.}
{Ne' composti notum o gnotum si cambia in gnĭtum (cognĭtum ec.)
fuorchè in ignotus nome, e in ignotus participio e supino. V. anche agnotus ec.} 4. Nobilis non
potrebbe venir da no. Bensì da noo. Perocchè i verbali in bilis nel buon
latino non si fanno se non da supino in tum (o
participio in tus), e non da altri, mutato il tum (o tus) in bilis. {V. p.
3825.} Bensì tali supini (o participii) non sono sempre
noti, ma dato il verbale in bilis, e' si possono
conoscere mediante l'analogia e la cognizione dell'antichità e della regola
della lingua latina, le quali anche da se li possono mostrare, e il verbale in
bilis li conferma, sempre ch'egli esista. P. e.
Docibilis è da doci-tum. Questo supino già lo conoscevamo per altra via,
benchè inusitato, cioè per altri argomenti ec. Il verbale docibilis lo conferma. Immarcescibilis da
marcescitus inusitato. Già abbiam detto e
sostenuto che il proprio participio
3758 o supino de'
verbi in sco era in scĭtus.
Eccone altra prova in marcescitum di marcesco (che ora non ha o non gli s'attribuisce
supino alcuno) dimostrato da im̃arcescibilis[immarcescibilis]. Solu-tum, volu-tum - solu-bilis, volu-bilis ec. Labilis, nubilis, {habilis} ec. sono dai regolari, veri ed interi, benchè
inusitati supini, labitum, nubitum, {#2. habitum è usitato, anzi solo usitato, ma non è il
primitivo)} ec., secondo la regola, fuor solamente ch'e' son contratti
da labi-bilis, nubi-bilis per effetto di
pronunzia accelerata o confusa ec. o per evitare il cattivo suono ec. {#1. V. p. 3851.} Or dunque da no
nĭtum avremmo nibilis. Nobilis non può essere che da no-tum, gnobilis da no-tum o da gno-tum, ignobilis da no-tum o gno-tum o igno-tus o gnobilis o nobilis. {+Ovvero nobilis ec. sono contrazioni di noibilis come notum lo è
di noĭtum. V. la pag. 3832. fine.}
[3843,2] Convexo as vedilo
nel Forcell. e applicalo a
quello che ho detto altrove pp. 2020-21 di convexus derivandolo da veho, come vexare, da cui è convexare
che vale altrettanto ec. (6. Nov. 1823.)
[3848,1]
Alla p. 3705.
marg. Così sino is fa nel perfetto sivi. Ma
3849 notisi che il
primo i quivi è breve, al contrario di quelle voci di
cui or discorriamo cioè de' perfetti di cresco, suesco ec. ed anche di sevi
e di crevi da cerno. {+Sterno is strāvi
ātum. Quest'anomalia forse viene che sterno è difettivo, e supplito coll'avanzo di un antico stro as dall'inusitato στρώω, onde στρώσω, ἔστρωσα
ec. Simile dico de' composti prosterno, insterno ec.} Le lettere vocali che
precedono il vi ne' perfetti delle altre coniugazioni
sono sempre {per lor natura} lunghe (eccetto {forse} alcune anomalie), dico quelle che lo precedono
regolarmente, cioè l'a nella prima, l'e nella seconda, l'i nella
quarta (perocchè p. e. fovi
cavi da foveo
caveo sono contrazioni di fovevi, cavevi, sicchè non regolarmente il
vi è preceduto in fovi
dall'o, in cavi dall'a: per altro l'a e l'o di queste e simili voci, sono altresì lunghi).
Insomma la desinenza di sivi non è veramente propria
della 3. ma neanche di verun[verun'] altra
coniugazione. Al contrario di quella de' perfetti de' verbi in sco, i quali se sono in vi,
la vocale che precede questa desinenza, è sempre (credo) lunga. Cosa affatto
impropria della 3. e chiaro segno che tali perfetti sono {propri} di verbi d'altre coniugazioni. (8. Nov. 1823.).
{{V. p. 3852.}}
[3852,5]
Alla p. 3849.
Il vero perfetto di sino è sini. Questo infatti si trova ancora. Da questo, cred'io, per
soppressione della n (della qual soppressione credo
v'abbiano altri esempi {#1. V. p. e. Forcell. in fruniscor per fruiscor,
qualunque de' due sia anteriore. E chi sa che prima non fosse sio, interposta poscia la n per evitare l'iato, come in greco nel fine delle voci, e come
forse v'hanno altri esempi in latino, e fra questi forse il predetto fruniscor.}), si fece
3853
sii che ancor si trova eziandio, massime ne' composti
(come desino is ii ed ivi).
Da sii per evitar l'iato siϜi, cioè sĭvi, come da audii
audīvi, da amai
amavi, da docei
docevi. Questo mi è più probabile che il creder sii posteriore a sivi, come
gli altri fanno, e come fanno eziandio circa i preteriti perfetti della 4.
coniugazione. Il supino nasce, come altrove dico pp. 3723-24, dal
perfetto. Quindi da sii o sĭvi, sĭtum (come da audii o audīvi, audītum ec. da amā-vi
amā-tum ec.), in luogo del
regolare sinĭtum. Questo mi {è} più probabile che il creder sĭtum
contrazione di sinitum, {fatto} o per soppressione assoluta della sillaba ni, {+contrazione, che sappia
io, non latina} o per soppressione della n,
onde siitum, {+come da sini sii,} poi contratto in sĭtum, nel qual caso l'i di
situm parrebbe avesse ad esser lungo. (10.
Nov. 1823.)
[3853,1]
Alla p. 3702.
La considerazione da me altrove fatta pp. 3723-24 che i supini vengono dai
perfetti, facilmente spiega il perchè l'ētum propria e
regolare desinenza della 2. sia stato per lo più cambiato in ĭtum, soppresso poi sovente, e forse il più delle
volte, l'i. La cagione si è che l'ēvi de' perfetti di essa coniugazione fu cangiato in ui, e il come, si è benissimo dichiarato di sopra. Con
ciò si dichiara facilissimamente e bene, il come l'ētum de' supini (che in molti di essi ancor trovasi) sia passato in
ĭtum ec. mutazione che senza ciò difficilmente si
spiegarebbe, non solendo l'ē passare in ĭ ec. Docĭtum per docētum, {+(merĭtum di mereo e
simili che ancor si trovano e sono anche per lo più gli unici supini
superstiti de' rispettivi verbi, o i più usitati ec.)} onde doctum, è da docui per docēvi, come domĭtum per domātum è da domui per domāvi, nè
3854 più nè meno
(v. la p. 3715-7. p. 3723. ec.). E chi vuol vedere la
contrazione di doctum anche ne' supini della prima in
ĭtum, fatti dai perfetti in ui, come è doctum, osservi sectum, nectum da secui, necui, enecui di secare, necare ec. Se il perfetto de' verbi della 2. si
conserva in evi, il supino che ne nasce è in ētum e non altrimenti, come deleo
es evi etum. Se il supino è in ĭtum o
contratto, mentre il preterito è in evi, come abolĭtum di aboleo
abolevi, adultum di adoleo evi (comparato con adolesco: adolesco ha evi, adoleo ha ui), allora esso supino non nasce certo dal perfetto in evi, ma nasce ed è segno certo di un {altro} perfetto noto o ignoto, in ui. Infatti ne' citati esempi, Prisciano riconosce ad aboleo un abolui, e bene: adolui di
adoleo è noto e usitato; è noto anche adolui di adolesco, benchè
rarissimo, dice il Forcell.
{{V. p. 3872.}}
[3872,1]
Alla p. 3854.
Nondimeno i supini contratti della 2. poterono anche direttamente venire dai
rispettivi supini in ētum senza passare per la forma
in ĭtum, cioè p. e. doctum
esser contratto da docētum, non da docĭtum, soppressa la ē,
come nei perfetti in ui della stessa coniugazione,
cioè p. e. docui ossia docvi, ch'è contrazione di docēvi. Onde adultum cioè adoltum,
potrebbe benissimo venire da adolevi senza adolui, cioè essere una contrazione {immediata} di adoletum fatto
da adolevi. Anzi siccome per una parte non suole l'ē passare in ĭ,
dall'altro[altra] non veggo ragion
sufficiente per cui da' perfetti in ui sì della
seconda sì della prima, si debba fare un supino in ĭtum, io dico che tutti i supini in ĭtum
{+usitati o no} della 2. e della 1.
vengono bensì da' perfetti in ui, ma non
immediatamente. Da' perfetti in ui che sono contratti,
p. e. domvi da domavi, mervi da merevi, vennero dei
supini contratti, cioè domtum, mertum (che noi {infatti} ancora abbiamo, e i franc. domter
ec.), ne' quali era soppresso l'ē e l'ā come ne' perfetti. Da questi supini poi,
interpostavi per più dolcezza la lettera ĭ, solita
(com'esilissima ch'ella è tra le vocali) sì nel latino sì altrove ad interporsi
tra più consonanti, quando non si cerca altro che un appoggio e un riposo
momentaneo e passeggero alla pronunzia, {+riposo fuor di regola e originato ed autorizzato solo dalla comodità della
pronunzia, onde quella vocale non ha che far col tema, ed è accidentale
affatto, e un semplice affetto e accidente di pronunzia;} vennero i
supini in ĭtum come domĭtum,
merĭtum. Sicchè al contrario di quel ch'io ho
detto per lo passato pp.
3701-702
p.
3708
p.
3717,
3873 i supini contratti precederono
quelli in ĭtum, e questi vengono da quelli, e li
suppongono e dimostrano, ma non viceversa. Sicchè doctum non dimostra nè esige che vi fosse un docitum, bensì meritum un mertum; sectum non dimostra
un secitum, bensì domitum un
domtum (simile ad emtum
ec. onde domter ec.). Bensì i supini contratti, e per
conseguenza anche quelli in ĭtum, che ne derivano,
suppongono e dimostrano i perfetti in ui. Da' quali
immediatamente e regolarmente vengono i supini contratti, e mediatamente e
irregolarmente quelli in ĭtum (specie di pronunzia de'
contratti, e però contratti essi stessi; avendo l'esilissima i e breve, in cambio dell'ā
o ē): e non viceversa, come per l'addietro io diceva.
(12. Nov. 1823.). {{V. p.
3875.}}
[3881,3]
Alla p. 3850.
fine. Buo è andato in disuso restando il
composto imbuo. Se però imbuo è da in e buo (v. Forc.) e non piuttosto corruzione e
pronunzia d'imbibo (che pur sussiste) pronunziato imbivo (imbevere, imbevo
{+che vale appunto imbuo, ed è certo da bibo, e v. i
francesi e spagnuoli}) - imbiuo - imbuo, come lavo ne'
composti e nel greco è luo, e per lo contrario da pluere noi facciamo piovere,
llover ec. {Puoi vedere la p. 3885.}
E mille esempi in questi propositi si potrebbero addurre. Così exbuae sarebbe corruzione {o
pronunziazione} di exbibae, vinibuae di vinibibae,
fors'anche bua (bumba) di biba. Di tali cangiamenti {{nati
dall'}}affinità ec. tra il v e l'u, ho detto altrove p. 3235
pp.
3698-99
pp.
3731-32. Ovvero Imbuo può esser fatto
direttamente da in e da bua
(bevanda), sia che questa voce sia alterazione di biba, o che sia un antico monosillabo significante bevanda, restato poi solo per usi puerili, sia anche in origine una
voce puerile. (14. Nov. 1823.).
[3885,1]
Alla p. 3706.
Se però, come dubito, fuvi per fui non è un raddoppiamento dell'u, fatto
per proprietà di pronunzia, della qual proprietà in questo e simili casi v'hanno
molti altri esempi ec. (v. la pag.
3881. ec.). Il qual raddoppiamento bensì può avere avuto luogo e
occasione dal voler evitare l'iato, ma in modo che ad evitarlo sia stato
interposto il v, non in quanto semplicemente atto e
solito ad interporsi tra le vocali ianti, ma in quanto l'una {e la più sonante} di queste nel nostro caso era l'u, cioè appunto un altro v,
secondo il detto altrove p. 3235
pp.
3698-99 circa la medesimezza di queste lettere u e v presso i latini massimamente. I quali
non usavano che un carattere per esprimer l'una e l'altra, cioè anticamente e
nel maiuscolo il V, più recentemente e nel semimaiuscolo o unciale, o forse in
quello ch'era allora, o anche anticamente, il corsivo e l'usuale, {+sia tutt'uno coll'unciale, sia diverso,
ec.} l'u, come ne' palimpsesti vaticani,
ambrogiani, sangallesi, veronesi ec. (15. Nov. 1823.).
[3895,2]
Alla p. 3876.
Venio ha già perduto il suo i in veni il cui i
non è il radicale, ma quello della terminazione del perfetto, se già esso non
comprende ambo gl'i, come negli antichi codici e
monumenti si trova assai spesso audi per audii, Tulli per Tullii, anzi regolarmente Tulli e non Tullii ec. del che vedi il Conspectus
orthographiae cod. vaticani de republica di Niebuhr. In ogni modo è certo che
virtualmente l'i p. e. di Tulli, contiene due i, come il moderno
nostro (e latino) j. Del resto, anomalie che faccian
perdere l'i radicale ai temi della quarta, sono
moltissime. P. e. vincio - vinxi (dove l'i secondo, non è il radicale)
sentio - sensi ec.
Contrazioni altresì moltissime, come saltum di salio per salitum ec. ec.
ec. Audisti
audistis ec. sono contrazioni, non, cred'io, di audiistis ec. ma di audivisti, come amasti di amavisti; onde in audisti
audistis ec. l'i radicale
non sarebbe perduto; ma sola la sillaba interposta, vi. (20. Nov. 1823.).
[3960,2] Il v non {è} che un'aspirazione ec. Tovaglia it. - toalla, che anche si scrive
toballa (Cervantes, D.
Quijote), e toaja spagn.
(9. Dec. Vigilia della Venuta della S. Casa. 1823.).
[3988,2] Il v non è che aspirazione ec. Del Digamma eolico v. la Gramm. del Weller, Lips. 1756. p.
65.- È uso della lingua italiana l'omettere o l'aggiungere il v nei nomi, massime aggettivi in ío. {Così in latino: p. e. v.
Forcell. in Dium. E certo da δῖος dev'essere divus; e v. Forc. in Divus.} Nel dire ío o ivo spessissimo vária
sì la lingua scritta da se stessa (natio - nativo), sì il volgare dalla scritta (stantio, volg. stantivo, e
viceversa in altri casi) e da se stesso, sì l'italiano scritto o parlato o
entrambo dall'altre lingue, sì dalla latina o dall'originaria della rispettiva
parola (joli - giulivo per
giulío, che
3989 anche si
disse anticamente, oggi è perduto affatto) sì da altre (rétif - rétive - restio), e viceversa queste dalla nostra, e tra loro, e in se stesse
ec. (16. Dec. 1823.).
[4009,5]
V aspirazione. Tardivo
italiano tardío spagnuolo. (Cervantes
{+D. Quij. par. 1.
cap. 47. principio, ed. di Madrid ch'io
ho.}). (8. Gen. 1824.).
[4011,2] Al detto altrove p. 3691
pp. 3985-86 dell'antico
meno (tema di memini) e
del nostro rammentare
{ec.} che forse ne deriva ec. aggiungi mentio, verbale dimostrativo del supino mentum, onde noi {ec.}
menzionare ec. - Mentovare
ec. (11. Gen. Domenica. 1824.). {{V. p.
4016.}}
[4030,5]
Faventia - Faenza.
(14. Feb. 1824.). {{Faentini
(Guicc. 1. 418. {419. ec.}
Faventini, come in lat.) Fayence per Faenza e per una città di
Francia, lat. Faventia.}}
[4035,4] Σίλλος, σίλλοι o σιλλοί si fa derivare da ἴλλος occhio
παρὰ τὸ διασείειν τοὺς
ἴλλους
*
. V. Scap. e
Menag. ad Laert. in Timon.
IX. 111. Consento che venga da ἴλλος, ma non che ci abbia a fare il
σείειν, formazione d'altronde molto inverisimile. Io credo che σίλλος sia lo
stesso affatto che ἴλλος in origine, aggiuntoci il sigma in luogo dello spirito,
benchè lene, all'uso latino circa lo spirito denso e al modo che gli Eoli
usavano il digamma, ossia il v latino (e quindi i
latini il v) in vece anche dello spirito lene, nel
principio delle parole. Veggasi il detto altrove p. 1276
p. 3815 di σῦκον ch'io credo essere venuto da un ὗκον o ὖκον. Da σίλλος occhio la metafora trasportò il significato a derisione ec. quasi dicesse, come diciamo noi, occhiolino ec. onde σιλλαίνειν sarebbe quasi far l'occhiolino, in
senso però di deridere ec. La metafora è naturale,
perchè il riso generalmente, ma in ispezieltà la derisione risiede e si esprime
cogli occhi principalmente e molte volte con essi unicamente. (22.
Febbraio. 1824. Domenica di Sessagesima.).
[4036,3]
Faventini, del che altrove p. 4030. Guicciard. t. 2. p. 34. 36.
(25. Feb. 1824.).
[4037,4]
Lino
linis, livi, et lini, et levi, litum per linĭtum. Osservisi
questo verbo {quanto alla} sua coniugazione che mi par
faccia a proposito d'altri miei pensieri pp. 3704-705
pp. 3848-49
pp. 3852-53. Ed osservisi ancora insieme con esso il suo compagno linio is ivi linītum, coi composti ec. dell'uno e
dell'altro. (29. Feb. 1824.). {{Alo
alis
alui
alitum
altum
alĕre.}}
[4043,1]
4043 ᾽Αργεῖος - argi-v-us.
Oraz. e Ovid. alla greca comune, argeus, l'uno in un luogo, e l'altro in un altro. Così da ἀχαιός,
oltre achaeus, achivus;
{#(1.) che forse è più proprio latino e
più volgare, e achaeus sarà solamente letterario,
come anche argeus senza fallo.} e forse
altri simili. (8. Marzo. 1824.).
[4044,4] Λαιός - lae-v-us.
(9. Marzo 1824.). {{σκαιός - scae-v-us.}}
[4052,4]
Lixi-v-ia, lixi-v-ium - lexia ο legia spagn.
(23. Marzo. 1824.).
[4054,2]
Ri-v-us, ri-v-o - ri-g-agnolo ec. - rio ital.
e spagn. (28. Marzo. 1824.).
[4093,6]
Ciĕo
cies
cīvi
cĭtum (diverso da cio iis īvi
ītum) co' suoi composti, aggiungasi ai verbi della seconda che hanno il
perfetto in vi, e il supino in itum breve, de' quali altrove pp. 3702. sgg.
pp. 3853-54
p.
3872. {Neo nes nevi
netum.} E v. il Forcell. in cieo fine. (27. Maggio. Festa dell'Ascensione.
1824.).
[4101,5] A proposito di quel che ho scritto altrove pp.
3169-70 sopra un luogo di Donato ad Terent. relativo al digamma, dove si parla
di Davus, anticamente Daus ec. notisi che i Greci
dicevano infatti Δάος, {{o Δᾷος o Δᾶος o
Δαός}} e v. Lucian. opp. 1687. t. 1. p. 797. e not. e p.
996. (4. Giugno. 1824.).
[4126,10]
Obliviscor da un perduto verbo oblivio - obbliare per obbliviare mangiato il v al solito, e
congiunti i due i in uno, come obblio da oblivium. V. Forc. ec.
[4132,1]
Sa-v-ona. Molti antichi, come
G. Villani (per es. l. 7. c.
23.)
Sa-ona, come Faenza anche
oggi per Faventia, dicendosi però dal Guicc. e altri antichi Faventino per Faentino, del
che altrove p. 4030
p. 4036. (6. Aprile. 1825.).
[4146,8] Vivuola {+vivola} - viola: strumento musico,
{+e fiore. spagn. vihuela.}
{{V. la giunta L. nella Crus. Veron.
all'articolo H. e la Crus. V. vivuola e gargagliare.}}
[4148,6]
Pouvoir - francese antico pooir, sostantivo, come si vede ib. art. Triplication, t. 2. p. 248. Gengia - gengiva.
[4158,6]
Favola - faola - fola.
[4161,2] Providens - prudens.
[4162,13] Boves, bovi - buoi.
[4182,7] Mantua, Genua, Mantuanus ec. -
Mantova, Genova, ec.
[4208,1]
Ovidio
Metam. l. 4. parlando delle anime che sono
nell'Eliso: Pars alias artes, antiquae imitamina vitae,
Exercent
*
ec. Vedilo. {{V. p. 4210.
capoverso 4.}}
[4246,7]
Auto, riceuto ec. negli
antichi, come Ricordano ec. omesso il
v, per avuto ec.
[4281,1]
Miauler franc. maullar o
mahullar spagn. - mia-g-olare.
[4282,6]
Nae-v-us - Ne-o. V. franc.
spagn. ec.
[4286,3] Favonius - Faunus. V. The Monthly Repertory of english
literature, Paris, N. 51. June 1811. vol. 13.
p. 331.
[4290,2] Io non credo vero quel che dicono i critici che gli
antichi, p. e. Ebrei, Greci, Latini Orientali ec. non avessero nelle loro lingue
il suono del v consonante, ma solo l'u vocale. Credo che il vau
dell'alfabeto ebraico non sia veramente altro che un uau o u, credo che gli antichi latini non
avessero segno nel loro alfabeto per esprimere il v
consonante, e che il V non fosse in origine che un u;
ma con ciò non si prova altro se non che gli antichi non ebbero il v nel loro alfabeto, il che non prova che non
l'avessero nella lingua. Considerato come un'aspirazione (non altrimenti che
l'f, il quale ancor manca negli antichi alfabeti,
giacchè il fe ebraico fu anticamente pe, e il ϕ greco è una lettera aggiunta all'alfabeto
antico, {e} considerata come doppia o composta, cioè di
π e di Η, ossia come un π aspirato), esso v, per
l'imperfezione degli antichi alfabeti, mancò di segno proprio, giacchè non si
ebbe bastante sottigliezza per separarlo dalle lettere su cui esso cadeva, per
avvedersi che esso era un suono per se, un elemento della favella. Perciò da
4291 principio esso non fu scritto in niun modo, come
nel lat. amai per amavi; poi
scritto come aspirazione, digamma ec. p. e. amaFi ec.;
finalmente, sempre privo di segno proprio, esso fu scritto con quel medesimo
segno che serviva all'u, ond'è avvenuto che nel latino
maiuscolo il V sia ora vocale ora consonante, e così l'u nel latino minuscolo, la qual confusione dura ancora, non ostante
che i moderni abbiano fatto di quest'u due caratteri,
u e v; giacchè si vede,
ciò non ostante, nei dizionari l'u e il v considerarsi come un solo elemento diversamente
modificato, ed abbiamo e impariamo fin da fanciulli la irragionevole distinzione
tra u vocale e u consonante,
distinzione che non ha ragione alcuna naturale, ma solo storica ec. ec. Il
simile dirò dell'f ec. ec. (20. Sett. 1827.
Firenze.)
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