Concorso delle vocali.
Concurrence of vowels.
Vedi Digamma eolico. Dittonghi. Sinizesi. V, lettera See Eolic digamma. Diphthongs. Synizeses. V, letter. 1157,1 1151,1 2316,12 3706 3731,4 4028[1157,1] Il concorso delle vocali suol essere accetto
generalmente alle lingue (se non altro de' popoli meridionali {d'occidente}) tanto più, quanto
elle sono più vicine ai loro principii, ovvero ancora quanto sono più antiche, e
quanto più la loro formazione si dovè a tempi vicini alla naturalezza de'
costumi e de' gusti. Per lo più vanno perdendo questa inclinazione col tempo, e
col ripulimento, e si considera come duro e sgradevole il concorso delle vocali
che da principio s'aveva per fonte di dolcezza e di leggiadria. La lingua latina
che noi conosciamo, cioè la lingua polita e formata {e
scritta} non ama il concorso delle vocali, perch'ella fu polita e
formata {e scritta} in tempi appunto politi e civili, e
i più lontani forse dell'antichità dalla prima naturalezza; nell'ultima epoca
dell'antichità; presso una nazione già molto civile ec. Per lo contrario la
lingua greca stabilita e formata, e ridotta a perfette scritture in tempi
antichissimi, gradì nelle scritture il concorso delle vocali, lo considerò come
dolcezza e dilicatezza; e perciò la lingua greca che noi conosciamo e possiamo
conoscere, cioè la scritta,
1158 ama il concorso delle
vocali, specialmente quella lingua che appartiene agli scrittori più antichi, e
nel tempo stesso più grandi, più classici, più puri, e più veramente greci.
[1151,1]
Alla p. 1124.
marg. E chiunque porrà mente ai versi de' comici, e altresì di Fedro, e degli altri Giambici latini, o
se n'abbiano opere intere (come {Catullo,} le tragedie di Seneca) o frammenti, ci troverà molte altre licenze
proprie di quelle sorte di versi, e note agli eruditi; ma anche
1152 potrà di leggeri avvertire che dovunque
s'incontrano due {o più} vocali alla fila, o nel
principio o nel mezzo o nel fine delle parole, quelle vocali {per lo più e quasi regolarmente} stanno per una sillaba sola, come
formassero un dittongo, quantunque non lo formino, secondo le leggi ordinarie
della prosodia. Fuorchè se dette vocali si trovano appiè de' versi, dove {bene} spesso {(come ne' versi
italiani)} stanno per due sillabe, ma spesso ancora per una sola, come
in questo verso di Fedro:
Repente vocem sancta misit Religio. *
(l. 4. fab. 11. {al. 10.} vers. 4.) Questo è un giambo trimetro acataletto, cioè di sei piedi puri, e la penultima breve, non è la sillaba gi di Religio, ma la sillaba li. Similmente in quel verso di Catullo {+sebbene in questo, {e nelle leggi metriche,} più diligente assai degli altri,} (Carm. 18. {al. 17.} v. 1.) O Colonia quae cupis ponte ludere ligneo *
la penultima dovendo esser lunga, non è la sillaba gne di ligneo, ma la sillaba li, s'è vera questa lezione di ligneo per longo come altri leggono. Oltre che questo verso trocaico stesicoreo, dovendo essere di quindici sillabe, sarebbe di sedici, se ligneo fosse trisillabo. (La parola ligneo è qui un trocheo, piede di una lunga e una breve, detto anche coreo.) E quello che dico de' latini, dico anche dei greci. Nel primo verso della Ricchezza di Aristofane
Ὡς ἀργαλέον πρᾶγμ' ἐστὶν ὠ Ζεῦ καὶ Θεοὶ *
1153 la parola ἀργαλέον è trisillaba. E notate che scrivendo
῾Ως αργαλέον πρᾶγμ᾽ ἐστ᾽ ὦ Zεῦ χαὶ ϑεοί,
senza nessuna fatica questo verso riusciva giambo trimetro o senario puro, secondo le regole della prosodia greca. Dal che si vede che quei poeti i quali scrivevano, come dice Tullio dei Comici, a somiglianza del discorso, (Oratoris cap. 55.) adoperavano quasi regolarmente siffatte vocali doppie ec. come dittonghi, e conseguentemente che l'uso quotidiano della favella (tenace dell'antichità molto più che la scrittura) le stimava e pronunziava per dittonghi, o sillabe uniche, sì nella Grecia come nel Lazio. Puoi vedere la nota del Faber al. 2. verso del prologo di Fedro lib. 1. e quella pure del Desbillons nelle Addenda ad notas p. LI. fine. (10. Giugno, dì di Pentecoste. 1821.). {{V. p. 2330.}}
Repente vocem sancta misit Religio. *
(l. 4. fab. 11. {al. 10.} vers. 4.) Questo è un giambo trimetro acataletto, cioè di sei piedi puri, e la penultima breve, non è la sillaba gi di Religio, ma la sillaba li. Similmente in quel verso di Catullo {+sebbene in questo, {e nelle leggi metriche,} più diligente assai degli altri,} (Carm. 18. {al. 17.} v. 1.) O Colonia quae cupis ponte ludere ligneo *
la penultima dovendo esser lunga, non è la sillaba gne di ligneo, ma la sillaba li, s'è vera questa lezione di ligneo per longo come altri leggono. Oltre che questo verso trocaico stesicoreo, dovendo essere di quindici sillabe, sarebbe di sedici, se ligneo fosse trisillabo. (La parola ligneo è qui un trocheo, piede di una lunga e una breve, detto anche coreo.) E quello che dico de' latini, dico anche dei greci. Nel primo verso della Ricchezza di Aristofane
Ὡς ἀργαλέον πρᾶγμ' ἐστὶν ὠ Ζεῦ καὶ Θεοὶ *
1153 la parola ἀργαλέον è trisillaba. E notate che scrivendo
῾Ως αργαλέον πρᾶγμ᾽ ἐστ᾽ ὦ Zεῦ χαὶ ϑεοί,
senza nessuna fatica questo verso riusciva giambo trimetro o senario puro, secondo le regole della prosodia greca. Dal che si vede che quei poeti i quali scrivevano, come dice Tullio dei Comici, a somiglianza del discorso, (Oratoris cap. 55.) adoperavano quasi regolarmente siffatte vocali doppie ec. come dittonghi, e conseguentemente che l'uso quotidiano della favella (tenace dell'antichità molto più che la scrittura) le stimava e pronunziava per dittonghi, o sillabe uniche, sì nella Grecia come nel Lazio. Puoi vedere la nota del Faber al. 2. verso del prologo di Fedro lib. 1. e quella pure del Desbillons nelle Addenda ad notas p. LI. fine. (10. Giugno, dì di Pentecoste. 1821.). {{V. p. 2330.}}
[2316,2]
Alla p. 2250.
marg.
Nihil, vehemens ec. sono
adoperati più volte da' poeti quello come monosillabo, questo come dissillabo
ec. V. il Forcellini. Così Nihilum dove appunto devi vedere
il Forcell. in
fine della voce. E quel fare di nihil nil,
di vehemens vemens
(v. il Forc. Vehemens fine), di prehendo prendo ec. cose usitate nelle buone scritture latine anche in
prosa, che altro significa se
2317 non che quelle
vocali successive, benchè secondo le regole della prosodia si considerassero per
altrettante sillabe, nondimeno nella pronunzia quotidiana equivalevano o sempre
o bene spesso a una sola? Altrimenti queste tali contrazioni sarebbero state
sconvenientissime: e come poi sarebbero elle venute in uso generale, anche
presso chi non ne aveva bisogno (quali erano i prosatori), come nil detto indifferentemente per nihil? Ed osservate che qui v'è anche di mezzo l'aspirazione ch'è
quasi una consonante, ed oggi la pronunziano per tale. E nondimeno le dette
vocali si tenevano per componenti una sola sillaba, e così si pronunziavano.
(Come appunto ne' nostri antichi poeti, anche, se non erro, nel Petrarca, noja,
gioia ec. monosillabi, Pistoia dissillabo ec.
e così mostra che si pronunziassero.) Mihi parimente
si contraeva nelle scritture, e massime ne' poeti, in mi. {+E non è apocope come dice
il Forcell. ma contrazione, come nil ec.} Che dirò di eburnus per
eburneus e di tante altre simili contrazioni di
più vocali; mediante le quali contrazioni
2318
(autorizzate dall'uso) il considerar quelle vocali come formanti una sola
sillaba diveniva alla fine affatto regolare (in ogni genere di scrittori) e
conforme alle stesse regole della prosodia? Non dimostra ciò quello ch'io dico?
{+
Queis monosillabo, o così scritto o contratto in
quis, non è posto fra i dittonghi latini. V.
il Forcell. e la Regia Parn. L'i
terminativo dei nominat. plur. 2. declinazione ch'è sempre lungo dovette
esser da prima un dittongo, come l'οι greco nei corrispondenti nominativi
plurali della 3za.} Lascio stare i nomi greci, dove quelli che in
greco sono dittonghi, a talento del poeta latino ora diventano dissillabi ec.
ora monosillabi come Theseus, Orphea, Orphei dativo, ec. Nè solo i nomi, ma ogni sorta di
parole.
[3704,1]
Alla p. 3702.
Queste osservazioni, e i confronti di fletum, netum e tali altri supini tutti della seconda,
confermano che suetum, exoletum, e simili, non sono di suesco, exolesco ec. verbi della terza, alla quale punto non
conviene questa desinenza, ma di altri della seconda da cui cui essi derivano.
Cretum da cerno
{#2. e suoi composti} è
corrottissimo, {{per cernitum,}}
{ch'è il vero,} e la desinenza in etum v'è accidentale ec. (15. Ott. 1823.). {#3. V. p. 3731.} Altresì quel che s'è detto de' perfetti della
seconda, e il confronto di nevi, flevi ec. mostra che suevi, crevi, adolevi ec. non sono
di suesco ec. verbi della terza. (15. Ott.
1823.). {#4. V. p. 3827.} La desinenza
{de' perfetti} in evi o
3705 in vi, propria della
prima coniugazione e, come abbiamo mostrato pp. 3698-99, della
seconda, che ora ha più sovente ui ch'è il medesimo, e
finalmente eziandio della quarta che conserva però anche quella in ii, è al tutto aliena da' verbi della terza, se non se
per qualche rara anomalia, come in crevi da cerno, {#1. e
suoi composti} perfetto irregolarissimo, per cerni, e in sevi da sero, {#2. e suoi composti}
verbo d'altronde ancora irregolarissimo, come si vede nel suo supino satum, {#3. ne'
composti situm, solita mutazione in virtù della
composizione ec. v. p. 3848.
ec.} Ovvero per qualche altra ragione come dal verbo no (di cui p.
3688.) che dovette essere della terza, il perfetto novi per evitare la voce poco graziosa ni, che sarebbe stata il suo perfetto regolare, e che
d'altronde concorreva colla particella ni: oltre che
niun perfetto latino, se ben mi ricordo, è monosillabo, ancorchè fatto da tema
monosillabo: eccetto ii da eo, e da fuo, fui,
i quali {{furono}} monosillabi, {+e forse ancora lo sono talvolta presso i poeti latini
del buon tempo ec.} secondo il mio discorso altrove fatto pp. 1151-53
pp. 2266-68 della antica
monosillabia di tali dittonghi ec. Da' monosillabi do,
sto ec. si fece il perfetto dissillabo per
duplicazione: dedi, steti,
ec. Onde avrebbe da no potuto anche farsi neni. O forse il verbo da cui viene nosco, non fu no, ma noo (νοῶ), onde il perfetto
3706
novi invece del regolare noi
sarà stato fatto (come que' della 1. in avi per ai, della 2. in evi per ei, della 4. in ivi per ii) per evitare l'iato; il quale iato però {+non può essere che} affatto
accidentale ne' perfetti di questa coniugazione. {V. p.
3756.} Così per fui,
regolare perfetto dell'antico fuo, verbo della terza,
il qual perfetto anche oggidì si conserva, e solo esso, e tutto regolare, Ennio disse fuvi, non metri causa, come crede il Forcellini, (in fuam), ma secondo me, per evitare l'iato. {#1. V. p.
3885.}
{Suo is ha sui, e non ha che questo. Abluo - Diluo ec. lui. Veggasi la p.
3732. Assuo
assui ec. e gli altri composti di suo.} L'evitazion del quale stette a cuore
principalmente agli scrittori (come anche in altre lingue), e ad essi, cred'io,
si deve attribuire l'esser passate in regola le desinenze avi ed evi (poi ui) della 1. e 2. ne' perfetti e lor dipendenze, ed in parte la desinenza
ivi nella quarta, in vece delle primitive ai, ei, ii. E quelle in avi, evi, ivi, secondo me, non furon proprie che
della scrittura, o certo del linguaggio illustre, o di esso principalmente, e
nulla o poco le adottò il plebeo, perocch'esso conservò le primitive ai, ei, ii, come lo dimostra l'italiano (e anche il francese
3707
aimai, onde lo spagn. amè,
come ho detto nella mia teoria de'
continuativi). Tornando a proposito la desinenza in vi, fuori de' detti casi, amalie[anomalie] ec. non è propria punto, anzi impropria, de'
perfetti della terza, se non per puro accidente, come in solvi, volvi e simili. Ne' quali casi il v non è di tal desinenza, nè del perfetto, {+nè dell'inflessione ordinaria de' verbi
della 3.a nel perfetto ec.} ma del tema (solvo, volvo), ed è lettera
radicale di tutto il verbo ec. Trovansi però molti verbi della 3.a che (per anomalia) fanno il perfetto in ui
(come il più di quelli della seconda): e questi sono in {molto} maggior numero che quelli della 3.a che
facciano il perfetto in vi. (siccome anche nella 2.a oggi son più quelli in ui che
quelli in vi). Per esempio l'altro sero (diverso dal sopraddetto a p. 3705.) che ha il supino sertum, nel perfetto fa serui, e così i suoi
composti. Così colo is ui. Ed altri molti. {{Ma questa desinenza è pure affatto
impropria della 3. e vi è sempre anomala, come
quella in vi o}}
{+in evi ec.
che originalmente son tutt'una con quella in ui.}
[3731,4]
Alla p. 3708.
marg.
Lavitum è dimostrato dal verbo lavito. Così fautum è contrazione di favitum dimostrato (se bisognasse) da favitor ec. Ma il detto
3732
scambio tra il v e l'u è
dimostrato piucchè mai chiaramente da tutti o quasi tutti i verbi (ec.) composti
di lavo, in cui lavo diventa
luo. Contrazione la qual conferma mirabilmente e
pienamente quella ch'io ho supposta pp. 3698. sgg. ne' perfetti in ui della seconda e massime della prima. P. e. domui è da domavi nello
stessissimo modo che abluo per ablavo, soppressa la a e volto il v in u. Del resto pluit ebat ha il perfetto pluit ed anche pluvit per evitar l'iato,
come a p. 3706. Exuo is ui utum. Ruo is ui
utum contrazione di ruitum, che anche esiste:
{prova delle mie asserzioni.}
V. Forc. in Ruo e composti.
{+
Fruor, ĭtus e ctus sum, ma fruĭtus è
più usato, e così fruiturus ec.}
Luo is ui luitum dimostrato da luiturus. Anche si disse o scrisse luvi.
V. Forc. in luo, verso il fine.
Fluo is fluxi, fluctum, fluxum e fluitum dimostrato da fluito
e da fluitans. {{Così i composti di
fluo ec.}}
{#2. Tribuo, Minuo, Statuo, Induo, Arduo, Acuo, Annuo, Innuo ec. Imbuo ec. ui utum, co' loro composti, e così con quelli di
Suo ec. In tutti questi supino l'i è stato mangiato per evitar l'iato, o come in
docitum ec. Notisi che laddove l'u in tutti gli altri tempi di questi verbi,
compreso il perfetto, è sempre breve. - V. p. 3735.}
(19. Ott. 1823.).
[4026,7] Dico altrove {+p.
2827.} che la mutata pronunzia della lingua greca, dovette di
necessità ne' secoli inferiori, alterandone l'armonia, alterarne la costruzione
l'ordine e l'indole ec. perchè da un medesimo periodo o costrutto diversamente
4027 pronunziato, non risultava più o niuna, o
certo non la stessa armonia di prima. Aggiungi che anche indipendentemente {da} questo, gli scrittori, ed anche i poeti greci de'
secoli inferiori (come pure i latini, gl'italiani, e tutti gli altri ne' tempi
di corrotto gusto e letteratura) amavano e volevano un'armonia diversa per se ed
assolutamente e in quanto armonia da quella degli antichi, cioè sonante, alta,
sfacciata, uniforme, cadenziosa ec. Questa dagli esperti si ravvisa a prima
vista in tutti o quasi tutti i prosatori e poeti greci di detti secoli, anche
de' migliori, ed anch'essi atticisti, formati sugli antichi, imitatori, ec.
Tanto che questo numero, diverso dall'antico e della qualità predetta, che quasi
in tutti, più o meno, e più o men frequente, vi si ravvisa, e[è] un certo e de' principali e più appariscenti segni,
almeno a un vero intendente, per discernere gl'imitatori e più recenti, che
spesso sono del resto curiosissimamente conformi agli antichi, da' classici
originali e de' buoni tempi della greca letteratura. Ora il diverso gusto
nell'armonia e numero di prosa e verso (nel quale aggiungi i nuovi metri,
occasionati da tal gusto e dalla mutata pronunzia della lingua) contribuì non
poco ad alterare, anche negli scrittori diligenti ed archeomani i costrutti e
l'ordine della lingua, come era necessario, e come si vede, guardandovi
sottilmente, per es. in Longino,
perchè vi trovi non di rado in parole antiche un costrutto non antico, e si
conosce ch'è fatto per il numero che ne risulta, e altrimenti non sarebbe
risultato, e il quale altresì non è antico. (Così dicasi dell'alterazione
cagionata ne' costrutti ec. dalla mutata pronunzia). Questa causa di corruzione
è da porsi fra quelle che produssero e producono universalmente l'alterazione e
corruttela di tutte le lingue, nelle quali tutte (o quasi tutte) i secoli di
gusto falso e declinato pigliarono un numero conforme al descritto di sopra e
diverso da quello de' loro antichi. Si
4028 conosce a
prima vista, {e indubbiamente, (almen da un intendente ed
esercitato)} per la differenza e per la detta qualità del numero, un
secentista da un cinquecentista, ancorchè quello sia de' migliori, ed anche
conforme in tutto il resto agli antichi. Il Pallavicini, ottimo per se in quasi tutto il restante, pecca
moltissimo nella sfacciataggine e uniformità (vera o apparente, come dico
altrove pp. 4026-28) del numero, alla quale subito si riconosce
il suo stile, diverso principalmente per questo (quanto all'estrinseco, cioè
astraendo dalle antitesi e concettuzzi che spettano piuttosto alle sentenze e ai
concetti, come appunto si chiamano) da' nostri antichi, da lui tanto studiati, e
tanto e così bene espressi e seguiti. Che dirò del numero di Apuleio, Petronio ec. rispetto a quello di Cic. e di Livio? non che di
Cesare, e de' più antichi e
semplici, che Cic. nell'Oratore dice mancar tutti del numero {+s'intende del colto, perchè senza un numero non possono
essere. V. p. seg. [p. 4029,1]..} Che dirò di Lucano, dell'autore del Moretum, Stazio ec. rispetto a Virgilio? Marziale a Catullo ec.? Or
questa mutazione e depravazione del numero dovette necessariamente essere una
delle maggiori cagioni dell'alterazione della lingua sì greca, sì latina e
italiana, sì ec., massime quanto ai costrutti e l'ordine, e quindi alla frase e
frasi, e quindi all'indole, insomma al principale. Anche si dovettero depravar
le {semplici} parole per servire al numero, {+e grattar l'orecchio avido di nuovi e
spiccati suoni,} o sformando le vecchie, o inducendone delle nuove e
strane, o componendone, come in greco, o troncandole come tra noi (l'uso de'
troncamenti è singolarmente proprio del Pallavicini, e de' secentisti e de' più moderni da loro in poi),
avendo riguardo sì al suono della parola in se, sì al suo effetto nella
composizione e nel periodo. (9. Feb. 1824.). Veggasi il detto
altrove pp. 848-49
{su d'alcuni} sforzati costrutti d'Isocrate per evitare il concorso {(conflitto)} delle vocali ec. ec. (9. Feb. 1824.).
(Riferiscasi ancora a questo proposito per quanto gli può toccare, il detto
altrove pp. 1157-60 sul
vario gusto de' greci, lat. e ital. in diversi tempi, circa il concorso,
l'abbondanza ec. delle vocali.) Ora se questo accadeva a Isocrate ottimo giudice, ed esposto
4029 migliaia d'altri tali, e scrivente per piacere a
essi, nel centro della lingua pel tempo e pel luogo, fiorente la lingua e la
letteratura, nel suo gran colmo ec. ec. che cosa doveva accadere ne' secoli
bassi ne' quali ec. fra gl'imitatori ec. la più parte, com'era allora non greci
di patria, ma dell'Asia, e questa anche alta, non la
minore ec. ec. molti ancora non greci neppur di genitori, come Gioseffo, Porfirio e tanti altri ec. ec.? (10. Feb.
1824.).
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