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Ebrei. Loro lingua, letteratura, costumi, leggi, carattere ec. ec.

Jews. Their language, literature, customs, laws, character, etc.

806-7 881-2 935 1229-30 1285,1 1441-4 1710,1 1969,1 2005,1 2084-5 2253 2263,2 2404,1 2464 2615 2627 2909,2 2910,1 2912,1 2995,2 3022 3342-3 3902,4 3959 4152,4 4290,2

[805,1]   805 Alla p. 762. Per poco che si osservi facilmente si scuopre che tutte le lingue colte, da principio hanno avuto e adoperato estesamente la facoltà dei composti, come poi tutte, cred'io, (eccetto la greca che la conservò fino alla fine) l'hanno quale in maggiore quale in minor parte perduta. Tutte però hanno conservato o tutti, o maggiore o minor parte dei loro primi composti, divenuti bene spesso così familiari, che han preso come apparenza e opinione di radici, e forse così hanno servito di materia essi stessi a nuove composizioni. La lingua Spagnuola ha composti, e derivati da' composti (come pure le altre lingue, chè anche questi derivati sono un bellissimo e fecondissimo genere di parole): ed alcuni bellissimi e utilissimi {e felicissimi} altrettanto che arditi, come {tamaño,} demàs, e da questo {ademàs,} demasìa, demasiado, {demasiadamente, sinrazon, {+sinjusticia, sinsabor,} pordiosear cioè limosinare, e pordioseria mendicità,} ec. che sono di grande uso e servigio. Tutte le lingue colte hanno ancora avuto delle particelle destinate espressamente alla composizione e che non si trovano fuor de' composti. Così la greca, così la latina, così la francese, la spagnuola (des ec. ec.), l'inglese  806 (mis ec. ec.) ec. Ed è tanta la necessità de' composti che senza questi nessuna lingua sarebbe mai pervenuta a quello che si chiama o ricchezza, o coltura, o anche semplice potenza di discorrere di molte cose, o di alcune cose particolarmente e specificatamente. Perchè le radici converrebbe che fossero infinite per esprimere e tutte le cose occorrenti, e tutte le piccole gradazioni, e differenze e nuances {e accidenti} di una cosa, per ciascuna delle quali gradazioncelle si richiederebbe una diversa radice, altrimente il discorso non sarà mai nè espressivo nè proprio, e neanche chiaro, anzi per lo più equivoco, improprio, dubbio, oscuro, generico, indeterminato. Così appunto avviene alla lingua ebraica (la quale non par che si possa mettere fra le colte) perchè con bastanti radici e derivati, è priva di composti: {+o quasi priva: non avendo che fare i suoi suffissi ed affissi colla composizione, ma essendo come casi {o inflessioni} o accidenti {o affezioni(πάθη)} de' nomi e de' verbi, o segnacasi ec. e non variando punto il significato essenziale, nè la sostanza della parola; come presso noi batterlo, uccidermi, dargli, andarvi, uscirne ec. che non si chiamano, nè sono composti nel nostro senso.} Dal che segue ch'ella ed è soggetta alle dette difficoltà, e disordini; e resta poverissima; ed io dico che tale ci parrebbe eziandio quando anche in quella lingua esistessero altri libri, oltre la Bibbia, se però questi libri mancassero parimente de' composti. Ci vorrebbero, ho detto, infinite radici. Ora  807 una più che tanta moltitudine di radici, è difficilissima per natura, giacchè un composto subito s'intende, ma perchè una radice, sia subito e comunissimamente intesa (com'è necessario), e passi nell'uso universale, ci vuol ben altro. Perciò la invenzione delle radici in qualunque società d'uomini parlanti, o primitiva o no, è sempre naturalmente scarsa, e povera quella lingua che non può esprimersi senza radici, perch'ella non si esprimerà mai se non indefinitamente, ed ogni parola (come accade nell'Ebraico) avrà una quantità di significati. {+V. se vuoi, Soave, append. al Capo 1. Lib. 3. del Compendio di Locke, Venezia 3.za edizione 1794. t. 2. p. 12. fine - 13. e Scelta di opusc. interess. Milano 1775. Vol. 4. p. 54. e questi pensieri p. 1070. capoverso ult.} E se, volete vedere facilmente, perchè una lingua appena è cominciata a divenire un poco colta, e ad aver bisogno di esprimere molte cose, e {queste} specificatamente e chiaramente e distintamente e le loro differenze ec. perchè, dico, abbia subito avuto ricorso e trovati i composti, osservate. Che sarebbe l'aritmetica se ogni numero si dovesse significare con cifra diversa, e non colla diversa composizione di pochi elementi? Che sarebbe la scrittura se ogni parola dovesse esprimersi colla sua cifra o figura particolare, come dicono della scrittura Cinese? La stessa  808 facilità e semplicità di metodo, e nel tempo stesso fecondità anzi infinità di risultati e combinazioni, che deriva dall'uso degli elementi nella scrittura e nell'aritmetica, anzi in tutte le operazioni della vita umana, anzi pure della natura (giacchè, secondo i chimici tutto il mondo e tutti i {diversissimi} corpi si compongono di un certo tal numero di elementi diversamente combinati, e noi medesimi siamo così composti e fatti {anche nell'ordine morale come ho dimostrato in molti pensieri sulla semplicità del sistema dell'uomo p. 53 pp. 181-82 pp. 603. sgg. pp. 629. sgg. }); deriva anche dall'uso degli elementi nella lingua. Al che si ponga mente per giudicarne quanto sia necessario anche oggidì ritenere più che si possa, e nella nostra e in qualunque lingua, la facoltà de' nuovi composti, atteso l'immenso numero delle nuove cose bisognose di denominazione (massime nella lingua nostra); numero che ogni giorno necessariamente e naturalmente si accresce: e d'altra parte l'impossibilità della troppa moltiplicità delle radici, sì al fatto, o all'invenzione, sì all'uso, intelligenza, e diffusione, sì anche alle facoltà della memoria e dell'intelletto umano, {+ed alla chiarezza delle idee che debbono risultare dalla parola, chiarezza quasi incompatibile colle nuove radici (v. p. 951.), e compatibilissima coi nuovi composti; oltre alla mancanza di gusto che deriva dalle nuove radici, le quali sono sempre termini, come ho spiegato altrove pp. 109-111: non così i composti derivati dalla propria lingua.} Lo dico senza dubitare. La lingua più ricca sarà sempre quella che avrà conservata  809 più lungamente, e più largamente adoperata la facoltà dei composti, e oggidì quella che la conserverà maggiore, e maggiormente l'adoprerà. L'esempio della lingua greca, ricchissima fra quante furono sono e saranno, anzi sempre e anche oggi inesauribile, conferma abbondantemente col fatto questa mia sentenza, già sì evidente in ragione. E d'altra parte la mia teoria serve a spiegare il secreto e il fenomeno di una tal lingua sempre uguale alla copia qualunque delle cose. Se dunque vogliamo che una lingua sia veramente onnipotente quanto alle parole, conserviamole o rendiamole, e se è possibile, accresciamole la facoltà de' {nuovi} composti e derivati, cioè l'uso degli elementi ch'essa ha, e il modo, la facoltà di combinarli quanto più diversamente, e moltiplicemente si possa. Questo, e non la moltiplicità degli elementi forma la vera {e sostanziale} ricchezza {copia} e onnipotenza delle lingue (quanto alle parole) come la forma di tutte le altre cose umane e naturali. Generalizziamo un  810 poco le nostre idee, e facilmente ci persuaderemo di questo ch'io dico, e come, per natura universale delle cose umane, la detta facoltà sia non solo la principale e fondamentale, ma necessaria e indispensabile sorgente della ricchezza copia e potenza di qualunque lingua, e della proprietà, definitezza, e chiarezza dell'espressione: dico quanto alle parole. (18. Marzo 1821.).

[881,1]  La nazione Ebrea così giusta, anzi scrupolosa nell'interno, e rispetto a' suoi, vediamo nella scrittura come si portasse verso gli stranieri. Verso questi ella non avea legge; i precetti del Decalogo non la obbligavano se non verso gli Ebrei: ingannare, conquistare, opprimere, uccidere, sterminare, derubare lo straniero, erano oggetti di valore e di gloria in quella nazione, come in tutte le altre; anzi era oggetto anche di legge, giacchè si sa che la conquista di Canaan fu fatta per ordine Divino, e così cento altre guerre, spesso nell'apparenza ingiuste, co' forestieri. Ed anche oggidì gli Ebrei conservano, e con ragione e congruenza, questa opinione, che non sia peccato l'ingannare, o far male comunque all'esterno, che chiamano {(e specialmente il Cristiano)} Goi  882 ‎‏יֹוגּ‏‎ ossia gentile, e che presso loro suona lo stesso che ai greci barbaro: (v. il Zanolini, il quale dice che, nel plurale però si deve intendere, chiamano oggi i Cristiani ‎‏צנ‏‎‎‏‏‎‎‏‏‎‎‏‏‎‎‏‏‎‎‏‏‎‎‏‏‎‎‏؛‏‎‎‏‏‎‎‏‏‎‎‏‏‎‎‏‏‎‎‏‏‎‎‏‏‎‎‏ס‏‎ goiìm * ) riputando peccato, solamente il far male a' loro nazionali.

[935,1]  6. Ciò non basta. Solamente che una nazione, senza occupare paesi discosti, e forestieri, senza trasportarsi in altri luoghi, si dilati, e formi un corpo più che tanto grande, la sua lingua, dentro la stessa nazione, e nelle sue proprie viscere, si divide, e si diversifica più o meno dalla sua primitiva, in proporzione della distanza dal primo e limitato seggio della nazione, dalla prima fonte della nazione e della lingua, la quale non si conserva pura se non in quel preciso {e ristretto} luogo dov'ella fu primieramente parlata. Testimoni i moltissimi dialetti {minori} ne' quali era divisa la lingua greca dentro la stessa grecia, {paese di sì poca estensione geografica,} il Beotico, il Laconico, il Macedonico, lo Spartano, il Tessalico: e parimente suddivisi i di lei dialetti principali negli altri minori, Cretese, Sciotto, Cipriotto, Cirenese, Delfico, Efesio, Lidio, Licio, Megarese, Panfilio, Fenicio, Regino, Siciliano, Siracusano, Tarentino ec. ({v.} Sisti, Introduz. alla lingua Greca §. 211.) Testimoni i dialetti della lingua italiana, della francese, {della spagnuola,} della tedesca, e di tutte le lingue antiche o moderne, purchè i loro parlatori siano più che tanto estesi di numero e di paese. {{Che} la lingua Ebraica fosse distinta in dialetti nelle stesse tribù Ebraiche, dentro la stessa Cananea, v. Iudic. c. XII. vers. 5.-6. e quivi i comentatori. La lingua Caldaica ec. non è che un Dialetto dell'Ebraica. La samaritana parimente; o l'ebraica è un dial. della Samarit. o figlia o corruzione di essa. ec. De' tre dialetti egiziani-coptici {tutti tre scritti,} v. il Giorgi.}

[1229,1]  Alla p. 1219 marg. La filosofia e le scienze greche passarono ai latini, passarono agli Arabi; e portarono nel latino e nell'Arabo le {loro} voci greche. Gli Arabi vi aggiunsero alcune cose, e inventarono qualche scienza, o parte di scienze; e i nomi Arabi insieme con dette aggiunte e invenzioni, sono diffusi universalmente in europa. Così sempre è accaduto negli antichi, ne' mezzani, ne' moderni tempi. La filosofia Chinese p. e. ha nomenclatura diversa dalla nostra, ed ognun sa quanto ella ne differisca: oltre ch'ella non può in nessun modo chiamarsi scienza esatta nè simile all'esatte, come la moderna nostra. Così dico delle altre scienze chinesi. Così della filosofia degli Ebrei, che avendo altra nomenclatura, ha, rispetto alla nostra, un'idea di originalità, massime in quelle parti dove i loro nomi differiscono da quelli della filosofia latina,  1230 (divenuti poi comuni in europa ec.) nella qual lingua conosciamo i libri Ebraici. Oltre che l'Ebraica filosofia è pure inesatta come ho spiegato di sopra, e quindi {tanto} meno {copiosa} ne' termini, {e meno precisa ne' loro significati.} ec. ec. ec. (26. Giugno 1821.).

[1285,1]  Incorporiamo queste osservazioni coi fatti. Pare che le lingue orientali fossero le prime del mondo. Certo è che gli alfabeti occidentali vennero dall'oriente, e quindi orientali furono i primi alfabeti, e {orientale dovette essere} il primo inventore dell'alfabeto. Ora gli alfabeti orientali mancano originariamente de' segni delle vocali. Questo pare strano. Nell'analisi de' suoni articolati pare a noi che le vocali, come elementi in realtà principali, debbano essere i primi e più facili a trovarsi. Molti Critici vogliono forzatamente ritrovar le vocali ne' primitivi alfabeti d'Oriente. Ma consideriamo la cosa da filosofi, e vediamo quanto il giudizio nostro  1286 che siamo sì avvezzi e pratici dell'analisi de' suoni articolati, fatta e perfetta da sì lungo tempo, differisca dal giudizio del primo o dei primi, che senza alcuna guida e soccorso, concepirono questa sottilissima e astrusissima operazione.

[1710,1]   1710 L'amore universale, anche degl'inimici, che noi stimiamo legge naturale (ed è infatti la base della nostra morale, siccome della legge evangelica in quanto spetta a' doveri dell'uomo verso l'uomo, ch'è quanto dire a' doveri di questo mondo) non solo non era noto agli antichi, ma contrario alle loro opinioni, come pure di tutti i popoli non inciviliti, o mezzo inciviliti. Ma noi avvezzi a considerarlo come dovere sin da fanciulli, a causa della civilizzazione e della religione, che ci alleva in questo parere sin dalla prima infanzia, e prima ancora dell'uso di ragione, lo consideriamo come innato. Così quello che deriva dall'assuefazione e dall'insegnamento, ci sembra congenito, spontaneo, ec. Questa non era la base di nessuna delle antiche legislazioni, di nessun'altra legislazione moderna, se non fra' popoli inciviliti. Gesù Cristo diceva agli stessi Ebrei, che dava loro un precetto nuovo ec. Lo spirito della legge Giudaica non solo non conteneva l'amore, ma l'odio verso chiunque non era Giudeo. Il Gentile,  1711 cioè lo straniero, era nemico di quella nazione; essa non aveva neppure nè l'obbligo nè il consiglio di tirar gli stranieri alla propria religione, d'illuminarli ec. ec. Il solo obbligo, era di respingerli quando fossero assaliti, di attaccarli pur bene spesso, di non aver seco loro nessun commercio. Il precetto diliges proximum tuum sicut te ipsum * , s'intendeva non già i tuoi simili, ma i tuoi connazionali. Tutti i doveri sociali degli Ebrei si restringevano nella loro nazione.

[1969,1]  La lingua ebraica non è solamente povera riguardo a noi, per la scarsezza di scritture che abbiamo in quella lingua, ma è povera quanto a se stessa, povera nelle stesse scritture che abbiamo, e in proporzione della stessa loro scarsezza, nella qual proporzione potrebb'essere assai più ricca, anzi potrebb'essere in quella proporzione tanto ricca quanto le più ricche del mondo. Male pertanto si riferisce la sua povertà alla detta cagione, facendone una povertà relativa a noi soli. Le vere cagioni le dico altrove p. 806 pp. 1289-91 {+Bensì è vero che l'essere stata poco scritta ne' suoi buoni tempi, n'è la principale, ma non relativa, cagione.} (23.[22.] Ott. 1821.).

[2005,1]  L'ebraico manca si può dire affatto di composti, e scarseggia assaissimo di derivati in proporzione delle sue radici e dell'immenso numero di derivati che nella[nello] stesso ragguaglio di radici, hanno le altre lingue. Ciò vuol dire, ed è effetto e segno che la lingua ebraica è se non altro l'una delle più antiche. L'uso dei composti (de' quali mancano pure, cred'io, tutte le lingue orientali affini all'Ebraica, l'arabica ec.) non è infatti de' più naturali  2006 nè facili ad inventarsi, e non sembra che sia stato proprio delle lingue primitive, nè l'uno di quei mezzi, co' quali esse da principio si accrebbero. Infatti lo spirito umano trova per ultimi i mezzi più semplici, qual è questo di comporre con pochi elementi un vasto {vocabolario,} diversissimamente combinandoli. Siccome appunto accadde nella scrittura, dove da principio parvero necessari tanti diversi segni quante sono le cose o le idee. Così dunque nelle radici ec. Bensì naturalissimo e primitivo, e l'uno de' primi mezzi d'incremento che adoperò il linguaggio umano, è l'uso della metafora, o applicazione di una stessa parola a molte significazioni, cioè di cose in qualche modo somiglianti, o fra cui l'uomo trovasse qualche analogia più o meno vicina o lontana. E di metafore infatti abbonda il vocabolario ebraico, e gli altri orientali, cioè quasi ciascuna parola ha una selva di significati, e sovente  2007 disparatissimi e lontanissimi, fra' quali è ben difficile il discernere il senso proprio e primitivo della parola. Così portava la vivezza dell'immaginazione orientale, che ravvicinava cose lontanissime, e trovava rapporti astrusissimi, e vedeva somiglianze e analogie fra le cose più disparate. Del resto senza quest'abbondanza di significazioni traslate, e questo cumulo di sensi per ciascuna parola, la lingua Ebraica e le sue affini, non avrebbero abbastanza da esprimersi, e da fare un discorso ec. (28. Ott. 1821.).

[2083,1]  L'antico teutonico dunque non si può diversificare dal moderno tedesco, nè considerar questo e quello come due individui, ma come un solo, anticamente fanciullo, oggi adulto. Dove che l'italiano p. e. e il latino sono due individui parimente maturi, e diversi l'uno dall'altro. Tutto ciò non prova l'adattabilità e conformabilità particolare della lingua tedesca, ma la conformabilità comune a tutte le  2084 lingue non mai state formate, e la fecondità comune a tutte le lingue la cui origine non si può fissare a cinque o sei secoli addietro, come dell'italiana, ma si perde nella caligine dei tempi. Perciò la lingua tedesca ha ancora e potrà avere, finchè non riceverà perfetta forma, indole tanto moderna quanto antica, o piuttosto nè l'una nè l'altra; a differenza dell'inglese che è pur sua sorella carnale, ma che per diverse circostanze, ha ricevuto maggior forma e determinazione, e proprietà. La lingua ebraica se oggi si continuasse a scrivere, sarebbe nel caso della tedesca, e ci fu veramente negli scritti de' rabbini, i quali sono veramente ebraici, sebbene tanto abbiano affare coll'antico ebraico, quanto il tedesco coll'antico teutonico, il quale appena si conosce. Laddove nè gli scritti latini de' bassi tempi, nè gl'italiani, sono o furono latini perchè il latino ricevè una forma certa e determinata,  2085 fuor della quale non v'è latinità. Ma v'è sempre teutonicità ed ebraicità fuor dell'antico teutonico ed ebraico, che non furono mai formati nè circoscritti, in modo che si potesse dire, questa frase ec. non è teutonica. Così proporzionatamente discorrete del greco, la cui libertà a differenza del latino, nacque indubitatamente dalla differenza delle circostanze sociali e politiche, e dalla molta maggior quantità di tempo in cui la lingua greca fiorì per iscrittori ottimi e sommi, non come linguisti, ma come scrittori. (13. Nov. 1821.).

[2252,1]  Che il privato verso il privato straniero, e massimamente nemico, sia tenuto nè più nè meno a quei medesimi doveri sociali, morali, di commercio ec. a' quali è tenuto verso il compatriota o concittadino, e verso quelli che sono sottoposti ad una legislazione comune con lui; che esista insomma una legge, un corpo di diritto universale che abbracci tutte le nazioni, ed obblighi l'individuo nè più nè meno verso lo straniero che verso il nazionale; questa è un'opinione che non ha mai esistito prima del Cristianesimo; ignota ai filosofi antichi i più filantropi, ignota non solo, ma evidentemente e positivamente esclusa da tutti gli antichi legislatori i più severi, e pii, e religiosi, da tutti i più puri moralisti (come Platone) da tutte le più sante religioni e legislazioni,  2253 compresa quella degli Ebrei. Se in qualche nazione antica, o moderna selvaggia, la legge o l'uso vieta il rubare, ciò s'intende a' proprii compatrioti, (secondo quanto si estende questo[questa] qualità; perciocchè ora si stringe a una sola città, ora ad una nazione benchè divisa, come in grecia ec.) e non mica al forestiere che capita, o se vi trovate in paese forestiere. {+V. il Feith, Antiquitates homericae, nel Gronovio, sopra la pirateria ec. λῃστεία, usata dagli antichissimi legalmente e onoratamente cogli stranieri.} Così dico dell'ingannare, mentire ec. ec. Infatti osservate che fra popoli selvaggi, ordinariamente virtuosissimi al loro modo, e pieni de' principii di onore e di coscienza verso i loro paesani ec. i viaggiatori hanno sempre o assai spesso trovato molta inclinazione a derubarli, ingannarli ec. eppure i loro costumi non erano certamente corrotti. V. le storie della conquista del Messico circa l'usanza menzognera di quei popoli i meno civilizzati. Parimente trovandosi gli antichi o i selvaggi in terra forestiera, non  2254 hanno mai creduto di mancare alla legge, danneggiando gli abitatori in qualunque modo.

[2263,2]  Soglion dire i teologi, {i Padri,} e gl'interpreti in proposito di molte parti dell'antica divina legislazione ebraica, che il legislatore  2264 si adattava alla rozzezza, materialità, incapacità, e spesso (così pur dicono) alla durezza, indocilità, sensualità, tendenza, ostinazione, caparbietà ec. del popolo ebraico. Or questo medesimo non dimostra dunque evidentemente la non esistenza di una morale eterna, assoluta, antecedente (il cui dettato non avrebbe il divino legislatore potuto mai preterire d'un apice); e che essa, come ha bisogno di adattarsi alle diverse circostanze e delle nazioni e de' tempi (e delle specie, se diverse specie di esseri avessero morale, e legislazione), così per conseguenza da esse dipende, e da esse sole deriva? (20. Dic. 1821.).

[2404,1]  Alla p. 1287. principio. Io son certo che gli antichi orientali, o i primi inventori dell'alfabeto, non s'immaginarono che i suoni vocali fossero così pochi, e tanto minori in numero che le consonanti. Anzi dovettero considerarli come infiniti, vedendo ch'essi animavano, per così dire, tutta la favella, e discorrevano incessantemente per tutto il corpo di essa, come il sangue per le vene degli animali. O pure, (e questo credo piuttosto) non {li} considerarono neppure come suoni, ma come suono individuo, e questo infinito e indeterminabile e indivisibile, come appunto immaginarono gli antichi filosofi quello spirito animator del tutto che totam agitat molem, et toto se corpore miscet. * Ed è verisimile che l'idea di rappresentare i suoni vocali col mezzo de' punti (alieni affatto, e avventizi alla  2405 scrittura ebraica) non venisse (così tardi) in mente ai rabbini, se non per la pratica che aveano contratta delle lingue occidentali, diffuse nell'Asia da gran tempo ec. {+oltre che i medesimi ebrei s'erano già sparsi da gran tempo per l'occidente, o per paesi dove correvano le lingue occidentali.} Par che gli antichi ebrei considerassero le vocali come spiriti, o come inseparabili dalle consonanti (p. e. ‎‏א‚ ך‏‎ ec.)laddove le consonanti per lo contrario sono inseparabili dalle vocali. Ma la sottigliezza e la spiritualità, {e il continuo uso} del suono vocale nella favella, impedivano loro di considerarlo nelle sue parti, se non come legato colle consonanti, o colle aspirazioni che rendevano la vocale più aspra, più notabile, più corporea, e quasi la trasmutavano in consonante, ovvero esse stesse eran come consonanti, legate necessariamente a questo o quel suono vocale; p. e. l'aspirazione ‎‏א‏‎ al solo suono dell'a, non comportando forse un'altra vocale, quella tal razza di aspirazione ec. (29. Aprile. 1822.). {{V. p. 2500.}}

[2463,2]  Alla p. 2457. marg. Qual nazione, se non dopo fatta Cristiana, non riputò per doni  2464 di Dio, e segni del favor celeste le prosperità, e per gastighi di Dio, e segni dell'odio suo le sventure? (Onde fra' più antichi, e fra gli stessi ebrei, come i lebbrosi ec., si fuggiva con orrore l'infelice come scellerato, e quando anche non si sapesse, o non si fosse mai saputa da alcuno la menoma sua colpa, si stimava reo di qualche occulto delitto, noto ai soli Dei, e la sua infelicità s'aveva per segno certo di malvagità in lui, e se l'avevano creduto buono, vedendo una sua sciagura, {credevano di disingannarsene.}). Al contrario accade nella nostra religione, la quale, se non altro, definisce per maggior favore, e segno di maggior favore di Dio l'infelicità, che la prosperità. (5. Giugno. 1822.).

[2613,1]  Lo scriver francese tutto staccato, dove il periodo non è mai legato col precedente (anzi è vizio la collegazione e congiuntura de' periodi, come  2614 nelle altre lingue è virtù), il cui stile non si dispiega mai, e non sa nè può nè dee mai prendere quell'andamento piano, modesto disinvoltamente, unito e fluido che è naturale al discorso umano, anche parlando, e proprio di tutte le altre nazioni; questo tale scrivere, dico io, fuor del quale i francesi non hanno altro, è una specie di Gnomologia. E queste qualità gli convengono necessariamente, posto quell'avventato del suo stile, di cui non sanno fare a meno i francesi, e senza cui non trovano degno alcun libro di esser letto. Per la quale avventatezza lo scrittore e il lettore hanno di necessità ogni momento di riprender fiato. E par proprio così, che lo scrittore parli con quanto ha nel polmone, e perciò gli convenga spezzare il suo {dire,} e fare i periodi corti, per fermarsi a respirare. (28. Agosto 1822.). {{ Effettivamente il tuono di qualunque scrittura francese fin dalla prima sillaba è quello di uno che parla ad alta voce. Tale riesce almeno per chi non  2615 è francese, e per chi non è assuefatto durante tutta la sua vita a letture francesi ec. Quel tuono moderato del discorso naturale, col qual tuono gli antichi aprivano {anche} le loro Orazioni, {e fra queste, anche} più veementi e passionate, è una qualità eterogenea {anche alle lettere familiari de'} francesi. (28. Agosto 1822.).}}

[2625,1]  Ho detto altrove p. 1037 che le antiche nazioni si stimavano {ciascuna} di natura diversa dalle altre,  2626 non consideravano queste come loro simili, e quindi non attribuivano loro nessun diritto, nè si stimavano obbligate ad esercitar cogli esteri la giustizia distributiva ec. se non in certi casi, convenuti generalmente per necessità, come dire l'osservazion de' trattati, l'inviolabilità degli araldi ec. cose tutte, la ragion delle quali appoggiavano favolosamente alla religione, come quelle che da una parte erano necessarie volendo vivere in società, dall'altra non avevano alcun fondamento nella pretesa legge naturale. Quindi gli araldi amici e diletti di Giove presso Omero ec. quindi il violare i trattati era farsi nemici gli Dei (v. Senof. in Agesilao) ec. Ho citato p. 1037 l'Epitafios attribuito a Demostene per provare che questa falsa, ma naturale idea della superiorità loro ec. ec. sulle altre nazioni, le confermavano  2627 le nazioni antiche, e poi le fondavano sulle favole, e sulle storie da loro inventate, tradizioni ec. dando così a questo inganno una ragione, e una forza di massima e di principio. Anche più notabile in questo proposito è quel che si legge nel Panegirico d'Isocrate verso il principio, dove fa gli Ateniesi superiori per natura ed origine a tutti gli uomini. V. anche l'orazione della Pace, dove paragona gli Ateniesi coi Τριβαλλοί, e coi Λευκανοί. Similmente il popolo Ebreo chiamavasi il popolo eletto, e quindi si poneva senza paragone alcuno al di sopra di tutti gli altri popoli sì per nobiltà, sì per merito, sì per diritti ec. ec. e spogliava gli altri del loro ec. ec. (25. Settembre 1822.).

[2909,2]  Il che si può parimente dire della lingua ebraica, nella quale altresì, quanto alle parole, non era luogo alla scelta, benchè, quanto alle composizioni delle medesime, forse v'avesse luogo un poco più che nella francese, essendo ella tutta indigesta e informe, e quindi tutta poetica.

[2910,1]  In simil modo nella lingua ebraica, non si sente se non poca differenza di stili, o di qualità di un  2911 medesimo stile. Il che si attribuisce alla lontananza de' tempi e de' nostri gusti e costumi, quasi l'uniformità dello stile ebraico non fosse vera, se non relativamente. Ma io la credo assolutamente vera, e l'attribuisco alle dette ragioni, nè credo che lo scrittore ebraico potesse avere stile proprio, nè veruna materia stile proprio, ma tutti e due un solo, quanto alla lingua, per la povertà di questa, {+1. Non solo gli scrittori ebraici o le varie materie in lingua ebraica, ma neppur essa la lingua ha uno stile, cioè un modo determinato, come l'ha bene, anzi troppo determinato, la francese: perocché la lingua ebraica è troppo informe per avere uno stile proprio; e precisamente ella è l'estremo contrario della francese quanto all'informità. V. la p. 2853. margine. V. p. 3564} ed eziandio quanto al modo e alla parte dello stile che spetta alle sentenze, per la niuna arte degli scrittori, e perchè la lingua li serrava e circoscriveva anche in questa parte. Come appunto anche in Francia fa la medesima lingua, e l'impero assoluto dell'usanza {il qual si esercita colà} sullo stile come su d'ogni altra cosa. Del resto come la lingua francese non ha che linguaggio e stile prosaico e manca del poetico, così l'ebraico non ha che il poetico e manca del prosaico. E ciò perchè quella è lingua definitamente ed essenzialmente moderna, questa fu essenzialmente {e moralmente} antica e quasi primitiva.

[2912,1]   2912 È notabile come da contrarie cause nascano uguali effetti. La lingua ebraica non ammette varietà nello stile per esser troppo antica, la lingua francese nemmeno, per esser troppo moderna; quella per eccesso d'imperfezione e per povertà che nasce dall'antichità, questa per eccesso di perfezione e per povertà che nasce dall'essere squisitamente moderna, sì di tempo come d'indole. Nell'una e nell'altra le parole poco vagliono, le sentenze tutto, lo stile si riduce ai {nudi} concetti (cosa che non ha luogo in verun'altra lingua letterata). Ma ciò nella ebraica perchè le parole non hanno ancor preso vigore, nella francese perchè l'hanno perduto; in quella perchè i concetti non hanno ancora onde farsi un corpo, in questa perchè l'hanno deposto; in quella perchè la materia è ancora scarsa a vestir lo spirito, in questa perchè lo spirito ha consumato la materia, è ricomparso nudo del corpo di cui s'era vestito, ha prevaluto alla materia, e tutta l'esistenza è spiritualizzata, nè si vede o si tocca oramai, o certo non si vuole nè vedere nè toccare quasi altro che spirito.  2913 Ambedue le lingue dánno nel metafisico, e, si può dire, nell'incorporeo per due cagioni e principii direttamente opposti, come il fanciullo per eccessiva semplicità è talvolta così sottile nelle sue quistioni, come il filosofo per grande dottrina e sapienza e sagacità. (7. Luglio. 1823.). {{V. la p. seguente [p. 2914,1].}}

[2995,2]  {Alla p. 2891.} Il Fischer nella prefazione alla Grammat. Greca del Weller, ed. Lips. 1756. dice che i pleonasmi d'Omero derivano dalla lingua ebraica. Che che sia di questa proposizione, certo è che quel pleonasmo di νόστιμον ἦμαρ e simili, da me notato altrove p. 2890, e non osservato dal Fischer, può servire a spiegar molti passi della Scrittura nei quali la parola giorno non serve che ad una perifrasi, onde  2996 p. e. in die irae tuae, non vale altro che in ira tua; cosa finora, ch'io sappia, non veduta dagl'interpreti, i quali p. e. pensano che quel dies significhi il giorno del giudizio ec. (20. Luglio. 1823.).

[3021,1]  Alle molte cose da me dette altrove pp. 244 pp. 2004-205 pp. 2631-35 per mostrare come la lingua greca non ha bisogno che di poche radici per essere ricchissima, stante l'infinito uso ch'ella fa delle derivazioni e composizioni ec., e com'ella moltiplichi in infinito i suoi vocaboli primitivi, ec. aggiungi la voce media ch'ella ha, e il bellissimo uso ch'ella fa delle  3022 voci passive de' suoi verbi. Perocchè di moltissimi verbi {{greci}} si può dire che ciascuno di essi non è uno, ma tre, e serve per tre; avendo l'attivo, il medio, e il passivo de' medesimi, ciascuno un significato diverso proprio, oltre ai metaforici che ha per ciascuno di loro, e questi anche diversi, cioè l'attivo diversi dal medio ec. O vogliamo dire che ciascuno di tali verbi ha tre ben distinti significati propri, oltre ai metaforici. Nè questi significati si possono confondere insieme, perocchè ciascuno di loro corrisponde a una diversa e distinta inflessione. Onde non si accumulano i significati in una stessa parola, e non ne segue l'oscurità e ambiguità, nè la povertà e uniformità che da tale accumulamento deriva nella lingua ebraica. E pur quei tre, non sono in sostanza che un verbo, e non hanno che un tema. L'uso che i latini fanno del passivo non è paragonabile a quello che ne fanno i greci (oltre che il passivo latino è difettivo e scarso, avendo bisogno in gran parte dell'ausiliare sum). Appresso i quali il passivo  3023 ha sovente una significazione propria attiva o neutra, diversa però da quella dell'attivo, e da quella del medio {ec.} ec. (24. Luglio. 1823.)

[3342,1]   3342 Alla p. 3098. Tutte le nazioni e società primitive, non altrimenti che oggidì le selvagge, riputarono l'infelice e lo sventurato per nemico agli Dei o a causa di vizi e delitti ond'ei fosse colpevole, o a causa d'invidia o d'altra passione o capriccio che movesse i Numi ad odiar lui in particolare o la sue[sua] stirpe ec. secondo le diverse idee che tali nazioni avevano della giustizia e della natura degli Dei. Un'impresa mal riuscita mostrava che gli Dei l'avessero contrariata o per se stessa o per odio verso l'imprenditore o gl'imprenditori. Un uomo solito a échouer nelle sue intraprese, era senza fallo in ira agli Dei. Una malattia, un naufragio, altre tali disgrazie provenienti più dirittamente dalla natura erano segni più che mai certi dell'odio divino. Si fuggiva quindi l'infelice, come il colpevole; se gli negava ogni soccorso e compassione, temendo di farsi complice in questo modo della colpa, per poi divenire partecipe della pena. Qua si dee riferire l'infamia pubblica in cui erano i lebbrosi appresso gli Ebrei, e lo sono ancora, s'io non m'inganno, appo gl'indiani. Gli amici {e la moglie} di Giobbe lo  3343 stimarono uno scellerato, com'ei lo videro percosso da tante disgrazie, benchè testimonii dell'innocenza della passata sua vita. I Barbari dell'isola di Malta vedendo l'Apostolo S. Paolo naufrago, e pur salvato in terra, e quivi assalito da una vipera, lo stimarono un omicida che la divina vendetta perseguitasse per ogni dove (Act. cap. 28. 3-6.) Rimane eziandio nelle antiche lingue il segno, come d'ogni altra antica cosa, così di queste opinioni. Tάλας (Aristoph. Plut.) 4. 5. 19.), κακοδαίμων (ib. 4. 3. 47.), ἄϑλιος e simili nomi tanto valevano infelice, quanto malvagio, scellerato ec. V. i latini. Onde anche tra noi sciagurato, disgraziato, misero, miserabile {ec.} hanno l'uno e l'altro significato; ovvero si attribuiscono altrui anche per avvilimento e disprezzo. Così in francese malheureux, miserable ec. Cattivo ha perduto affatto il significato di misero, che prima ebbe, ma non quello di ribaldo, reo, malo ch'è il suo più ordinario e volgare significato oggidì. (3. Settembre 1823.). {{V. p. 3351.}} {μοχϑηρός, πονηρός (πόνηρος infelix) μοχϑηρία, πονηρία ec. ec. V. lo Scapula, e p. 3382. κακοδαίμων quegli che ha nemico τὸ δαιμόνιον cioè la divinità, o τὸν δαίμονα. Ma e' vuol dire infelice. Luciano congiunge ϑεοῖς ἐχϑροὺς καὶ κακοδαίμονας. Εὐδαίμων ch'ha gli dei amici, ma e' vuol dir fortunato, felice. V. lo Scapula in queste voci e in ἐχϑροδαίμων, e in βαρυδαίμων co' derivati ec. e Aristot. Polit. l. 3. p. 260. e ivi il Vettori (ed. Flor. 1576.).}

[3902,4]  Dico altrove p. 806 pp. 2005-2007 che la lingua ebraica non ha voci composte. Si eccettuino molti nomi propri, come Ab-raham, Ben-iamin, Mi-cha-el, Ierusalem (non è dell'antico ebraico) ec. e forse anche {alcuni} nomi, non propri, ma appellativi o cosa simile. (24. Nov. 1823.).

[3959,1]   3959 Quanta fosse la difficoltà e dell'invenzione dell'alfabeto, e della sua applicazione alla scrittura, {+e alle diverse lingue antiche successivamente,} e quanta dovesse essere l'irregolarità e falsità delle prime scritture alfabetiche e delle prime ortografie (difetti che si veggono ancora notabilissimi nelle più antiche scritture, cioè nell'orientali, come ho detto altrove pp. 1288-91 , p. e. nell'ebraica, ch'è senza vocali, come molte altre orientali ec., difetti perpetuati poi in esse scritture, fino anche a' nostri tempi, in quelle che sono ancora in uso ec.), si può congetturare dalle cose dette da me altrove in più luoghi pp. 1659-60 pp. 1967-69 pp. 2458-63 pp. 2884-85 p. 3683 circa la difficoltà dell'applicare primieramente la scrittura alle lingue moderne, e regolarne l'ortografia, e farla corrispondere al vero suono ec. delle parole, e circa l'irregolarità e falsità delle ortografie moderne ne' loro principii, anzi pur fino all'ultimo secolo in italia, ed altrove, massime in francia, sino al dì d'oggi; non ostante e che si avessero modelli chiarissimi, completissimi e perfettissimi di scrittura e ortografia nel latino e nel greco; e che l'uso dello scrivere fosse da tanti secoli fino a quel tempo {inclusivamente,} così comune; e che gli uomini fossero tanto men rozzi e più sperti in ogni cosa che non al tempo della prima invenzione ed uso dell'alfabeto e sua successiva applicazione alle varie lingue; e queste benchè bambine, pure certamente più formate, e meno incerte, arbitrarie, istabili, informi che al detto tempo, in cui l'uomo non aveva ancora mai usato nè conosciuto nè avuto esempio alcuno di lingua {non che} perfetta, ma degna del nome di lingua, al contrario di allora che si conoscevano e s'erano  3960 parlate, scritte ec. ec. sì generalmente per tanti secoli le lingue greca e latina sì perfette, oltre tante altre colte; e finalmente non ostante la somma civiltà e il punto di perfezione a cui sono arrivate e in cui si trovano le cognizioni ec. dello spirito umano in questi tempi, e la tanta esattezza divenuta sua propria in ogni cosa, e caratteristica di questi secoli, e la facoltà d'invenzione e di applicazione ec. e gusto e frequenza di riforme e di perfezionamenti ec. ec. Si giudichi dunque con queste proporzioni della difficoltà, irregolarità ec. delle scritture antiche ec. come sopra. (8. Dec. 1823. Festa della immacolata Concezione di Maria Vergine Santissima.).

[4152,4] Una delle maggiori difficoltà ec. consiste nella soppressione delle vocali e nel non essersi scoperta sin ad ora la regola costante per poterle supplire, * dice il Ciampi parlando della lingua etrusca in generale nell'Antologia di Firenze N.° 58. Ottobre 1825. p. 55. Quali regole sicure abbiamo, non per la lezione letterale ma per la grammaticale? * (della scrittura etrusca). È certo che le vocali spesso son tralasciate; ma ciò facevasi egli a capriccio degli scarpellini, o per seguitare la pronunzia, ovvero per qualche regola stenografica od ortografica, come la scrittura massoretica degli Ebrei? Nulla ne sappiamo; e molto meno sappiamo in qual modo si abbiano da supplire * . ib. p. 57. Ciò serva p. il mio discorso pp. 1283. sgg. sopra la cagione della soppression delle vocali nelle scritture più antiche e più rozze e imperfette. (Bologna. 15. Nov. 1825.).

[4290,2]  Io non credo vero quel che dicono i critici che gli antichi, p. e. Ebrei, Greci, Latini Orientali ec. non avessero nelle loro lingue il suono del v consonante, ma solo l'u vocale. Credo che il vau dell'alfabeto ebraico non sia veramente altro che un uau o u, credo che gli antichi latini non avessero segno nel loro alfabeto per esprimere il v consonante, e che il V non fosse in origine che un u; ma con ciò non si prova altro se non che gli antichi non ebbero il v nel loro alfabeto, il che non prova che non l'avessero nella lingua. Considerato come un'aspirazione (non altrimenti che l'f, il quale ancor manca negli antichi alfabeti, giacchè il fe ebraico fu anticamente pe, e il ϕ greco è una lettera aggiunta all'alfabeto antico, {e} considerata come doppia o composta, cioè di π e di Η, ossia come un π aspirato), esso v, per l'imperfezione degli antichi alfabeti, mancò di segno proprio, giacchè non si ebbe bastante sottigliezza per separarlo dalle lettere su cui esso cadeva, per avvedersi che esso era un suono per se, un elemento della favella. Perciò da  4291 principio esso non fu scritto in niun modo, come nel lat. amai per amavi; poi scritto come aspirazione, digamma ec. p. e. amaFi ec.; finalmente, sempre privo di segno proprio, esso fu scritto con quel medesimo segno che serviva all'u, ond'è avvenuto che nel latino maiuscolo il V sia ora vocale ora consonante, e così l'u nel latino minuscolo, la qual confusione dura ancora, non ostante che i moderni abbiano fatto di quest'u due caratteri, u e v; giacchè si vede, ciò non ostante, nei dizionari l'u e il v considerarsi come un solo elemento diversamente modificato, ed abbiamo e impariamo fin da fanciulli la irragionevole distinzione tra u vocale e u consonante, distinzione che non ha ragione alcuna naturale, ma solo storica ec. ec. Il simile dirò dell'f ec. ec. (20. Sett. 1827. Firenze.)

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