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Orientali.

Peoples of the Orient.

926,12 950,1 986,2 1285,1 1830,1 1846,1 1823,1 2007 2173,1 2404,1 2615 2746,1 3543,2 3959 4290,2

Orientali, probabilmente primi civilizzati.

Peoples of the Orient, probably the first civilized.

2500,1

Orientali. Loro vita, e quella de' meridionali, più breve e viva che quella degli altri; da preferirsi per rispetto alla felicità.

Peoples of the Orient. Their life and that of southerners, shorter and more intense than that of others; preferable in terms of happiness.

Vedi Bibbia.Ebrei ec. See Bible. Jews, etc. 4062,5

[926,2]  In qualunque nazione o antica o moderna s'incontrano grandi errori contrari alla natura, come dovunque grandi cognizioni contrarie alla natura; quivi non s'incontra niente o ben poco di grande di bello di buono. E questo è l'uno de' principali motivi per cui le nazioni orientali, ancorchè grandi, ancorchè la loro storia rimonti a tempi antichissimi, tempi ordinariamente compagni del grande e del bello; ancorchè ignorantissime in ultima analisi, e quindi prive dei grandi ostacoli della ragione e del vero, e questo anche oggidì; tuttavia non offrano quasi niente di {vero} grande nè di {vero} bello, e ciò tanto  927 riguardo alle azioni, ai costumi, all'entusiasmo e virtù della vita, quanto alle produzioni dell'ingegno e della immaginazione. E la causa per la quale i Greci e i Romani soprastanno a tutti i popoli antichi, è in gran parte questa, che i loro errori e illusioni furono nella massima parte conformissime alla natura, sicchè si trovarono egualmente lontani dalla corruzione dell'ignoranza, e dal difetto di questa. Al contrario de' popoli orientali le cui superstizioni ed errori, che sebbene moderni e presenti, si trovano per lo più di antichissima data, furono e sono in gran parte contrarie alla natura, e quindi con verità si possono chiamar barbare. E si può dire che nessun popolo antico, nell'ordine del grande e del bello, può venire in paragone de' greci e de' Romani. Il che può derivare anche da questo, che forse i secoli d'oro degli altri popoli, come degli Egiziani, degl'Indiani, de' Cinesi, de' Persiani ec. ec. essendo venuti più per tempo, giacchè questi popoli sono molto più antichi, la memoria loro non è passata fino a noi, ma rimasta nel buio dell'antichità, col quale viene a coincidere la epoca dei detti secoli; e per lo contrario ci è pervenuta la memoria sola della loro corruzione e barbarie, succeduta naturalmente alla civiltà, e abbattutasi ad esser contemporanea della grandezza e del fiore dei popoli greco e Romano, la qual grandezza occupa  928 e signoreggia le storie nostre, alle quali per la maggior vicinanza de' tempi ha potuto pervenire, e perch'ella signoreggiò effettivamente in tempi più vicini a noi. Anzi si può dire che quanto ci ha di grande {e di bello} rispetto all'antichità nelle storie, e generalmente in qualunque memoria nostra, tutto appartiene all'ultima epoca dell'antichità, della quale i greci e i Romani furono effettivamente gli ultimi popoli. Ὦ Ἕλληνες ἀεὶ παῖδες ἐοτὲ * ec. Platone in persona di quel sacerdote Egiziano. (10. Aprile. 1821). {{V. p. 2331.}}

[950,1]  Rassegnato e sommesso, perchè l'indole degli abitatori determinata dall'influenza del clima, è composta a un tempo di bontà e di trascuratezza, l'Indiano, dice l'Autore * (Collin di Bar, Storia dell'India antica e moderna, ossia l'Indostan considerato relativamente alle sue antichità ec. Parigi 1815.), è capace de' più magnanimi sforzi. I popoli del nord della penisola, meno ammolliti dalle voluttà e dal clima, sono da lungo tempo il terrore della compagnia inglese, e saranno {forse} col tempo i liberatori delle regioni gangetiche. * (Fra questi deve intender certo i Maratti). Spettatore di Milano, Quaderno 43. p. 113. Parte Straniera. 30 Dicemb. 1815. {+Dello stato e genio pacifico degli antichi Indiani v. p. 922. De' Cinesi parimente meridionali v. p. 943. capoverso ultimo.} (16. Aprile 1821.)

[986,2]  Dal confronto delle poesie di Ossian, vere naturali e indigene dell'inghilterra, colle poesie orientali, si può dedurre {(ironico)} quanto sia naturale all'inghilterra la sua presente poesia {(come quella di Lord Byron)} derivata in gran parte dall'oriente, * come dice il riputatissimo giornale dell'Edinburgh Review in proposito del Lalla Roca di Tommaso Moore (Londra 1817.) intitolato Romanzo orientale {(Spettatore di Milano. 1. Giugno 1818. Parte Straniera. Quaderno 101. p. 233. e puoi vederlo.)}

[1285,1]  Incorporiamo queste osservazioni coi fatti. Pare che le lingue orientali fossero le prime del mondo. Certo è che gli alfabeti occidentali vennero dall'oriente, e quindi orientali furono i primi alfabeti, e {orientale dovette essere} il primo inventore dell'alfabeto. Ora gli alfabeti orientali mancano originariamente de' segni delle vocali. Questo pare strano. Nell'analisi de' suoni articolati pare a noi che le vocali, come elementi in realtà principali, debbano essere i primi e più facili a trovarsi. Molti Critici vogliono forzatamente ritrovar le vocali ne' primitivi alfabeti d'Oriente. Ma consideriamo la cosa da filosofi, e vediamo quanto il giudizio nostro  1286 che siamo sì avvezzi e pratici dell'analisi de' suoni articolati, fatta e perfetta da sì lungo tempo, differisca dal giudizio del primo o dei primi, che senza alcuna guida e soccorso, concepirono questa sottilissima e astrusissima operazione.

[1830,1]  Alla p. 1824. Non nego che questi effetti non possano anche derivare dal contrario dell'indifferenza, cioè da una soprabbondanza di vita, di passione, di attività nell'animo umano, quale si trova ne' meridionali, e massime negli orientali. In oriente in fatti sono assai comuni le poesie, le favole, le invenzioni, dove i protagonisti, o quelli per cui si pretende d'interessare, sono animali, piante, nuvole, monti, {+divinità o enti favolosi e ideali, uomini in gran parte diversi da quelli che sono ec.} ec. E dall'oriente vennero col Cristianesimo le prime tracce, anzi quasi l'intero sistema dell'amore universale. Presso noi però, e  1831 a' nostri tempi è certo che i detti effetti non nascono se non dall'indifferenza: e il contrario di questa faceva che la mitologia greca trasmutasse in uomini tutti gli oggetti della natura; e che gli antichi amassero sommamente la loro patria, e odiassero gli stranieri. {{V. p. 1841.}}

[1846,1]  Alla p. 1824. Del resto queste tali poesie che ho detto pp. 1830-31 , orientali o settentrionali, non producono effettivamente in noi che l'indifferenza, dico quanto all'interesse, sebben possano stordire, colpire, e dilettar poco  1847 a lungo colla novità, la maraviglia, l'eccesso della varietà ec. E dico in noi, lasciando gli orientali ne' quali potrebbe darsi che producessero altro effetto stante le osservazioni della p. 1830. Quanto a' settentrionali credo che sieno nel caso nostro, ed anche più di noi. (5. Ott. 1821.).

[1823,1]  L'uomo tende sempre a' suoi simili (così ogni animale), e non può interessarsi che per essi, per la stessa ragione per cui tende a se stesso, ed ama se stesso più che qualunque de' suoi simili. Non vi vuole che un intero snaturamento prodotto dalla filosofia, per far che l'uomo inclini agli animali, alle piante ec. e perchè i poeti (massime stranieri) de' nostri giorni pretendano d'interessarci per una bestia, un fiore, un sasso, un ente ideale, un'allegoria. È ben curioso che la filosofia, rendendoci indifferenti verso noi medesimi e i nostri simili, che la natura ci ha posto a cuore, voglia interessarci per quello a cui l'irresistibile natura ci ha fatti indifferenti. Ma questo è un effetto conseguentissimo del sistema generale d'indifferenza derivante dalla ragione, il quale non mette diversità fra' simili e dissimili; e noi non ci figuriamo di poter provare interesse per questi, se non perchè l'abbiamo  1824 perduto o illanguidito per noi e per gli uomini, e siamo in somma indifferenti a tutto. Così gli altri esseri vengono a partecipare non del nostro interesse ma della nostra indifferenza. Lo stesso accade {riguardo a'} nostri simili, nella sostituzione dell'amore universale all'amor di patria. ec. (1. Ott. 1821.). {{V. p. 1830. e 1846.}}

[2005,1]  L'ebraico manca si può dire affatto di composti, e scarseggia assaissimo di derivati in proporzione delle sue radici e dell'immenso numero di derivati che nella[nello] stesso ragguaglio di radici, hanno le altre lingue. Ciò vuol dire, ed è effetto e segno che la lingua ebraica è se non altro l'una delle più antiche. L'uso dei composti (de' quali mancano pure, cred'io, tutte le lingue orientali affini all'Ebraica, l'arabica ec.) non è infatti de' più naturali  2006 nè facili ad inventarsi, e non sembra che sia stato proprio delle lingue primitive, nè l'uno di quei mezzi, co' quali esse da principio si accrebbero. Infatti lo spirito umano trova per ultimi i mezzi più semplici, qual è questo di comporre con pochi elementi un vasto {vocabolario,} diversissimamente combinandoli. Siccome appunto accadde nella scrittura, dove da principio parvero necessari tanti diversi segni quante sono le cose o le idee. Così dunque nelle radici ec. Bensì naturalissimo e primitivo, e l'uno de' primi mezzi d'incremento che adoperò il linguaggio umano, è l'uso della metafora, o applicazione di una stessa parola a molte significazioni, cioè di cose in qualche modo somiglianti, o fra cui l'uomo trovasse qualche analogia più o meno vicina o lontana. E di metafore infatti abbonda il vocabolario ebraico, e gli altri orientali, cioè quasi ciascuna parola ha una selva di significati, e sovente  2007 disparatissimi e lontanissimi, fra' quali è ben difficile il discernere il senso proprio e primitivo della parola. Così portava la vivezza dell'immaginazione orientale, che ravvicinava cose lontanissime, e trovava rapporti astrusissimi, e vedeva somiglianze e analogie fra le cose più disparate. Del resto senza quest'abbondanza di significazioni traslate, e questo cumulo di sensi per ciascuna parola, la lingua Ebraica e le sue affini, non avrebbero abbastanza da esprimersi, e da fare un discorso ec. (28. Ott. 1821.).

[2173,1]  Colla stessa proporzione si può discorrere dell'orientale o settentrionale, rispetto all'occidentale o meridionale.

[2404,1]  Alla p. 1287. principio. Io son certo che gli antichi orientali, o i primi inventori dell'alfabeto, non s'immaginarono che i suoni vocali fossero così pochi, e tanto minori in numero che le consonanti. Anzi dovettero considerarli come infiniti, vedendo ch'essi animavano, per così dire, tutta la favella, e discorrevano incessantemente per tutto il corpo di essa, come il sangue per le vene degli animali. O pure, (e questo credo piuttosto) non {li} considerarono neppure come suoni, ma come suono individuo, e questo infinito e indeterminabile e indivisibile, come appunto immaginarono gli antichi filosofi quello spirito animator del tutto che totam agitat molem, et toto se corpore miscet. * Ed è verisimile che l'idea di rappresentare i suoni vocali col mezzo de' punti (alieni affatto, e avventizi alla  2405 scrittura ebraica) non venisse (così tardi) in mente ai rabbini, se non per la pratica che aveano contratta delle lingue occidentali, diffuse nell'Asia da gran tempo ec. {+oltre che i medesimi ebrei s'erano già sparsi da gran tempo per l'occidente, o per paesi dove correvano le lingue occidentali.} Par che gli antichi ebrei considerassero le vocali come spiriti, o come inseparabili dalle consonanti (p. e. ‎‏א‚ ך‏‎ ec.)laddove le consonanti per lo contrario sono inseparabili dalle vocali. Ma la sottigliezza e la spiritualità, {e il continuo uso} del suono vocale nella favella, impedivano loro di considerarlo nelle sue parti, se non come legato colle consonanti, o colle aspirazioni che rendevano la vocale più aspra, più notabile, più corporea, e quasi la trasmutavano in consonante, ovvero esse stesse eran come consonanti, legate necessariamente a questo o quel suono vocale; p. e. l'aspirazione ‎‏א‏‎ al solo suono dell'a, non comportando forse un'altra vocale, quella tal razza di aspirazione ec. (29. Aprile. 1822.). {{V. p. 2500.}}

[2613,1]  Lo scriver francese tutto staccato, dove il periodo non è mai legato col precedente (anzi è vizio la collegazione e congiuntura de' periodi, come  2614 nelle altre lingue è virtù), il cui stile non si dispiega mai, e non sa nè può nè dee mai prendere quell'andamento piano, modesto disinvoltamente, unito e fluido che è naturale al discorso umano, anche parlando, e proprio di tutte le altre nazioni; questo tale scrivere, dico io, fuor del quale i francesi non hanno altro, è una specie di Gnomologia. E queste qualità gli convengono necessariamente, posto quell'avventato del suo stile, di cui non sanno fare a meno i francesi, e senza cui non trovano degno alcun libro di esser letto. Per la quale avventatezza lo scrittore e il lettore hanno di necessità ogni momento di riprender fiato. E par proprio così, che lo scrittore parli con quanto ha nel polmone, e perciò gli convenga spezzare il suo {dire,} e fare i periodi corti, per fermarsi a respirare. (28. Agosto 1822.). {{ Effettivamente il tuono di qualunque scrittura francese fin dalla prima sillaba è quello di uno che parla ad alta voce. Tale riesce almeno per chi non  2615 è francese, e per chi non è assuefatto durante tutta la sua vita a letture francesi ec. Quel tuono moderato del discorso naturale, col qual tuono gli antichi aprivano {anche} le loro Orazioni, {e fra queste, anche} più veementi e passionate, è una qualità eterogenea {anche alle lettere familiari de'} francesi. (28. Agosto 1822.).}}

[2746,1]  Negli alfabeti Orientali, settentrionali antichi ec. (alcuni de' quali abbondano perciò strabocchevolmente di caratteri, impropriamente chiamati lettere da' nostri, come il sascrito, che n'ha più di 50.) si trovano moltissimi caratteri rappresentanti due, tre, quattro o anche più suoni elementari unitamente. I quali caratteri non si debbono creder sincroni all'invenzione o adozione di quegli alfabeti, ma nati dalla fretta e dal comodo degli scrivani come nessi, e ricevuti poi facilmente come caratteri semplici (benchè così numerosi) negli alfabeti di lingue le cui grammatiche e regole ortografiche o non esistono, o nacquero tardi, o non sono abbastanza fisse, ferme, certe, stabilite, invariabili, o abbastanza precise, minute, determinate, esatte, particolari, distinte, o abbastanza note e adottate universalmente  2747 nella rispettiva nazione, o tardi hanno conseguito queste qualità. E dico tardi, rispetto alla maggiore o minore antichità della scrittura e letteratura presso quelle nazioni; presso alcune delle quali esse sono molto più antiche che presso la greca, come la scrittura e letteratura sascrita presso gl'indiani.

[3543,2]  Nella Bibbia bisogna considerare l'immaginazione orientale e l'immaginazione antichissima, (anzi di un popolo quasi primitivo affatto ne' costumi ec. e certo la più antica immaginazione che si conosca oggidì). Ben attese e pesate e valutate quanto si deve queste due qualità che nella Scrittura si congiungono, {#1. Di un'altra qualità che sommamente contribuisce allo stesso effetto vedi le pagg. 3564-8.} niuno più si farà maraviglia della straordinaria forza ch'apparisce ne' Salmi, ne' cantici, nel Cantico, ne' Profeti, nelle parti e nell'espressioni poetiche della Bibbia. {#2. alla qual forza basterebbe forse una sola di dette qualità. E veggansi le poesie orientali anche non antichissime, le sascrite antichissime ma de' tempi civili dell'india.} (28. Sett. 1823. Domenica.).

[3959,1]   3959 Quanta fosse la difficoltà e dell'invenzione dell'alfabeto, e della sua applicazione alla scrittura, {+e alle diverse lingue antiche successivamente,} e quanta dovesse essere l'irregolarità e falsità delle prime scritture alfabetiche e delle prime ortografie (difetti che si veggono ancora notabilissimi nelle più antiche scritture, cioè nell'orientali, come ho detto altrove pp. 1288-91 , p. e. nell'ebraica, ch'è senza vocali, come molte altre orientali ec., difetti perpetuati poi in esse scritture, fino anche a' nostri tempi, in quelle che sono ancora in uso ec.), si può congetturare dalle cose dette da me altrove in più luoghi pp. 1659-60 pp. 1967-69 pp. 2458-63 pp. 2884-85 p. 3683 circa la difficoltà dell'applicare primieramente la scrittura alle lingue moderne, e regolarne l'ortografia, e farla corrispondere al vero suono ec. delle parole, e circa l'irregolarità e falsità delle ortografie moderne ne' loro principii, anzi pur fino all'ultimo secolo in italia, ed altrove, massime in francia, sino al dì d'oggi; non ostante e che si avessero modelli chiarissimi, completissimi e perfettissimi di scrittura e ortografia nel latino e nel greco; e che l'uso dello scrivere fosse da tanti secoli fino a quel tempo {inclusivamente,} così comune; e che gli uomini fossero tanto men rozzi e più sperti in ogni cosa che non al tempo della prima invenzione ed uso dell'alfabeto e sua successiva applicazione alle varie lingue; e queste benchè bambine, pure certamente più formate, e meno incerte, arbitrarie, istabili, informi che al detto tempo, in cui l'uomo non aveva ancora mai usato nè conosciuto nè avuto esempio alcuno di lingua {non che} perfetta, ma degna del nome di lingua, al contrario di allora che si conoscevano e s'erano  3960 parlate, scritte ec. ec. sì generalmente per tanti secoli le lingue greca e latina sì perfette, oltre tante altre colte; e finalmente non ostante la somma civiltà e il punto di perfezione a cui sono arrivate e in cui si trovano le cognizioni ec. dello spirito umano in questi tempi, e la tanta esattezza divenuta sua propria in ogni cosa, e caratteristica di questi secoli, e la facoltà d'invenzione e di applicazione ec. e gusto e frequenza di riforme e di perfezionamenti ec. ec. Si giudichi dunque con queste proporzioni della difficoltà, irregolarità ec. delle scritture antiche ec. come sopra. (8. Dec. 1823. Festa della immacolata Concezione di Maria Vergine Santissima.).

[4290,2]  Io non credo vero quel che dicono i critici che gli antichi, p. e. Ebrei, Greci, Latini Orientali ec. non avessero nelle loro lingue il suono del v consonante, ma solo l'u vocale. Credo che il vau dell'alfabeto ebraico non sia veramente altro che un uau o u, credo che gli antichi latini non avessero segno nel loro alfabeto per esprimere il v consonante, e che il V non fosse in origine che un u; ma con ciò non si prova altro se non che gli antichi non ebbero il v nel loro alfabeto, il che non prova che non l'avessero nella lingua. Considerato come un'aspirazione (non altrimenti che l'f, il quale ancor manca negli antichi alfabeti, giacchè il fe ebraico fu anticamente pe, e il ϕ greco è una lettera aggiunta all'alfabeto antico, {e} considerata come doppia o composta, cioè di π e di Η, ossia come un π aspirato), esso v, per l'imperfezione degli antichi alfabeti, mancò di segno proprio, giacchè non si ebbe bastante sottigliezza per separarlo dalle lettere su cui esso cadeva, per avvedersi che esso era un suono per se, un elemento della favella. Perciò da  4291 principio esso non fu scritto in niun modo, come nel lat. amai per amavi; poi scritto come aspirazione, digamma ec. p. e. amaFi ec.; finalmente, sempre privo di segno proprio, esso fu scritto con quel medesimo segno che serviva all'u, ond'è avvenuto che nel latino maiuscolo il V sia ora vocale ora consonante, e così l'u nel latino minuscolo, la qual confusione dura ancora, non ostante che i moderni abbiano fatto di quest'u due caratteri, u e v; giacchè si vede, ciò non ostante, nei dizionari l'u e il v considerarsi come un solo elemento diversamente modificato, ed abbiamo e impariamo fin da fanciulli la irragionevole distinzione tra u vocale e u consonante, distinzione che non ha ragione alcuna naturale, ma solo storica ec. ec. Il simile dirò dell'f ec. ec. (20. Sett. 1827. Firenze.)

[2500,1]   2500 Alla p. 2405. Un corollario si può tirare molto ragionevolmente dal vedere che le scritture orientali mancano per lo più delle vocali. Ed è che quelle lingue fossero le prime ad esser coltivate, la scrittura orientale la prima ad essere inventata (appunto perchè più imperfetta, e similmente si potrebbe dire della struttura ec. delle loro lingue), le letterature orientali le prime a nascere, e in somma l'oriente il primo ad esser civilizzato, e quindi probabilmente il primo ad esser popolato, e ridotto alla società ec. Confermando con questa, le altre prove che già s'hanno delle dette proposizioni, e dell'origine che il genere umano ha dall'oriente. (26. Giugno. 1822.).

[4062,5]  La vita degli orientali e di coloro che vivono ne' paesi assai caldi è più breve di quella dei popoli che abitano ne' paesi freddi o temperati. Ma ciò non impedisce che la somma della vita di quelli non sia, non che uguale, ma superiore alla somma della vita di questi. Anzi non per altro è più breve la vita degli orientali se non perchè ella è molto più intensa, tanto che in pari spazio di tempo è maggiore la somma della vita che provano gli orientali che non è quella che provano  4063 gli altri popoli. Ora generalmente parlando, si scuopre nella natura quest'ordine che la durata della vita (sì negli animali sì nelle piante) sia in ragione inversa della sua intensità ed attività. La testuggine, l'elefante e altri animali tardissimi hanno lunghissima vita. I più veloci ed attivi, ancorchè più forti degli altri (come è p. es. il cavallo rispetto all'uomo) hanno vita più corta. Ed è ben naturale, perchè quell'attività e intensità di vita importa maggiore rapidità di sviluppo della medesima, e quindi di decadenza. Infatti lo sviluppo sì degli uomini, sì degli animali, sì delle piante ne' paesi assai caldi è molto più rapido che negli altri. Or dunque considerando queste condizioni fisiche della vita per rapporto al morale, si può ragionevolmente affermare che la sorte di quelli che vivono ne' paesi assai caldi è preferibile quanto alla felicità a quella degli altri popoli. Primieramente la somma della loro vitalità, quantunque minore nella durata, è però assolutamente maggiore di quella degli altri, presa l'una e l'altra nel totale. Secondariamente, posto ancora che ella fosse uguale, a me par molto preferibile il consumare p. e. in 40 anni una data quantità di vita che il consumarla in 80. Ella riempie i 40, e lascia negli ottanta mille intervalli, gran vuoto, gran freddezza, gran languore. La vita assolutamente non ha nulla di desiderabile sicchè la più lunga sia da preferirsi. Da preferirsi è la meno infelice, e la meno infelice è la più viva. Or la vita degli orientali, pognamola di 40 anni, è molto più viva che quella degli altri, pognamola di 80, quando bene la somma della vivacità dell'una vita e dell'altra sia la stessa. Or questo paragone di  4064 climi io lo applico ai tempi, e mettendo gli antichi in luogo de' popoli di clima caldo e i moderni in cambio de' popoli di clima freddo, dico che sebben la vita degli antichi era forse generalmente più breve che quella dei moderni, per le turbolenze sociali e i continui pericoli dello stato antico, nondimeno perchè molto più intensa, ella è da preferirsi, contenendo nella sua minore durata maggior somma di vitalità, o quando anche in minore spazio contenesse ugual somma che la moderna in ispazio maggiore. Del che, senza il surriferito esempio, ho discorso particolarmente in altro pensiero p. 352 pp. 1330-32 pp. 3292-93. (8. Aprile 1824.). {{V. p. 4092. e v. la pag. 4069.}}

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