Navigation Settings

Manuscript Annotations:
interlinear {...}
inline {{...}}
attached +{...}
footnote #{...}
unattached {...}
Editorial Annotations:

Correction Normalization

Frontone. Suo luogo filosofico, notato, ec.

Fronto. A philosophical passage of his, noted, etc.

542,2 752-57 3627

[542,2]  Della superiorità delle forze della natura, della fortuna, {dello spontaneo,} dell'amor naturale e fortuito (materia del pensiero precedente), sopra quelle della ragione, della provvidenza (umana), {dell'arte,} dell'amore ragionato e proccurato, cose sempre deboli, e più eleganti (a tutto dire) che forti e potenti; è degno di esser veduto un luogo insigne ed elegante di  543 Frontone (Ad M. Caes. l. 1. epist. 8. edizione principe. p. 58-61.) simile in parte ad un altro nelle Lodi della Negligenza. (p. 371.). (22. Gen. 1821.).

[746,1]  Da qualunque origine derivasse la lingua e la letteratura e filosofia e sapienza greca, certo è che la grecia, se non fu l'inventrice delle sue lettere, scienze, ed arti, le ricevè informi, ed instabili, e imperfette, e indeterminate, e così ricevute, le formò, stabilì, perfezionò, determinò essa medesima, e nel suo proprio seno, e di sua propria mano ed ingegno, così che vennero la sua letteratura ed il suo sapere ad essere sue proprie, ed opera si può dir sua: quindi non ebbe bisogno di ricorrere ad altre lingue per esprimere le sue cognizioni (se non se, come tutte le lingue, nei primordi, e nelle primissime derivazioni delle sue radici, giacchè nessuna lingua è nata coll'uomo, ma derivata l'una dall'altra più o meno anticamente, finchè si arriva ad una lingua assolutamente madre e primitiva, che nessuno conosce): non ebbe dico bisogno di queste, ma formando le sue cognizioni, formò insieme la lingua; e  747 quindi pose sempre a frutto, e coltivò il suo proprio fondo, e trasse da se stessa tutto il tesoro della favella. Ma ai latini non accadde lo stesso. La loro letteratura, le loro arti, le loro scienze vennero dalla grecia, e tutto in un tratto, e belle e formate. Essi le ricevettero già ordinate, composte, determinate, provvedute intieramente del loro linguaggio, trattate da scrittori famosissimi: in somma i latini non ebbero e non fecero altra opera che traspiantare di netto le scienze, arti, lettere greche nel loro terreno. Quindi era ben naturale che quelle discipline ch'essi non avevano formate, portassero seco anche un linguaggio non latino, perchè dovunque le discipline si formano, e ricevono ordine e corpo stabile e determinato, quivi se ne forma il linguaggio, e questo passa naturalmente alle altre nazioni insieme con esse discipline. Non avendole dunque i latini nè create nè formate, ma ricevute quasi per manus belle e fatte, neanche ne crearono nè formarono,  748 ma riceverono parimente il linguaggio. Lucrezio volendo trattar materie filosofiche s'era lagnato della novità delle cose e della povertà della lingua, come potremmo far noi oggidì, volendo trattare la moderna filosofia. Cicerone, da grande e avveduto uomo, il quale benchè gelosissimo della purità della favella, conosceva che alla novità delle cose era necessaria la novità delle parole, e che queste non sarebbero 1. intese e chiare, 2. inaffettate e naturali, se non fossero appresso a poco quelle medesime che erano in comune e confermato uso in quelle tali discipline; fu ardito, e trattando materie {si può dir} greche popolò il latino di parole greche, certo di essere inteso, e di non riuscire affettato, perchè la lingua greca era divulgatissima e familiare fra' suoi, come appunto oggi la francese, e quelle parole notissime, e usitatissime anzi proprie di quelle discipline, come oggi le francesi nelle {moderne} materie filosofiche e simili. E di più erano necessarie. Così dunque la lingua latina si pose in grado di discorrer delle  749 cose, e di essere scritta, ma vi si pose per mezzi alieni e non propri. Bisogna anche osservare che non questa o quella disciplina, ma si può dir tutte le discipline, e cognizioni umane, tutto quello che scrivendo si può trattare, anzi anche conversando urbanamente, cioè tutta la coltura tutti i soggetti regolati e ordinati, erano venuti dalla grecia in Roma, immediatamente e interamente. Quindi successe quel che doveva, che la lingua latina, affogata ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove, disperata di poterla subito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla novità delle parole tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno, abbracciò la suppellettile straniera di linguaggio, che trovava già pronta, e da tutti intesa ed usata: e così la facoltà generativa della lingua latina, rimase o estinta o indebolita, e si trasformò nella facoltà adottiva. Cicerone ne aveva usato  750 da suo pari con discrezione e finissimo giudizio e gusto, non lasciando in nessun modo di coltivare il fondo della sua lingua, di accrescerla, e di cavarne quanto era era possibile in quella strettezza, in quella tanta copia di nuove cose, accompagnate da parole straniere già divulgate ed usitate. Ma dopo Cicerone si passarono i limiti: parte perch'essendo (com'è oggi relativamente al francese) molto più facile il tirar dalla lingua greca già ben provveduta di tutto, e a tutti nota, le parole e modi occorrenti, di quello che dalla latina che non le dava senza studio, e profonda cognizione di tutte le sue risorse; quelli che non erano così periti della loro lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi di una tal lingua, come della nostra oggidì: e pochi o nessuno la possedè così a fondo come Cicerone) senza troppo curare di accertarsi s'ella avesse o non avesse come esprimere convenientemente e pianamente il bisognevole,  751 davan sacco alla lingua greca che l'aveva tutto alla mano. Parte perchè non la sola necessità, o la difficoltà dell'uso del latino in quei casi, o finalmente l'ignoranza della propria lingua, ma anche il vezzo spingeva i romani (come oggi ec.) ad usare le parole {e modi} greci in iscambio delle parole e modi latini, e mescolarli insieme, come che quelli dessero grazia e spirito alla favella gentile, e in somma ci entrò di mezzo oltre la letteratura e la filosofia, anche la moda. Orazio già avea dato poco buon esempio. Uomo in ogni cosa libertino e damerino e cortigiano, in somma tutto l'opposto del carattere Romano, {e nelle opere tanto seguace della sapienza fra' cortigiani, quanto Federigo II tra i re.} Non è maraviglia se la lingua romana gli parve inferiore alla sua propria eleganza e galanteria. Sono noti e famosi quei versi della poetica, dov'egli difende e ragiona su questo suo costume. Egli però come uomo di basso ma sottile ingegno, se nocque coll'esempio, non pregiudicò grandemente colla pratica; {+anzi io non voglio contendere s'egli, quanto a se, giovasse piuttosto o pregiudicasse alla sua lingua, perchè i suoi ardimenti paiono a tutti, e li credo anch'io, se non altro, in massima parte, felicissimi;} ma poco  752 tempo dopo la sua morte, cioè al tempo di Seneca ec. per ambedue le dette ragioni la cosa era ita tant'oltre che la lingua latina {impoveriva dall'un canto e dall'altro} imbarbariva effettivamente per grecismo come oggi l'italiana per francesismo. Ed è curioso come tristo l'osservare che {siccome} la lingua latina rendè poi con usura il contraccambio di questo danno e di questa barbarie {alla greca,} quando già mezzo barbara le si riversò tutta, per così dire, nel seno, sotto Costantino e successori, così oggidì la lingua francese rende con eccessiva usura alla nostra quella corruttela che ne ricevè al tempo dei Medici [(Caterina, Maria)] in Francia ec. La lingua latina fu (per poco spazio) restituita, se non all'antica indole, certo a uno splendore somigliante all'antico (insieme colla letteratura parimente corrotta) da parecchi scrittori del secolo tra Nerva e Marcaurelio, fra' quali Tacito ec. del che non è ora luogo a parlare. Solamente noterò per incidenza, e perchè fa a questo discorso delle lingue, un parallelo curiosissimo che si può fare tra Frontone e i presenti ristoratori della lingua italiana.  753 Il qual Frontone, come apparisce {ora} dalle reliquie de' suoi scritti ultimamente scoperte, merita un posto distinto, fra i ristauratori e zelatori della purità come della letteratura così della lingua latina. Nel qual pregio egli forse e senza forse, cred'io, è l'ultimo di tempo, che si conosca, o abbia almeno qualche distinta rinomanza. Ma egli (colpa della nostra natura) volendo riformare il troppo libertinaggio, e {castigare} la viziosa novità della lingua, cadde, come appunto gran parte de' nostri, nell'eccesso contrario. Giacchè una riforma di questa natura, deve consistere nel mondar la lingua dalle brutture, distoglierla dal cattivo cammino, e rimetterla sul buono. Non già ricondurla a' suoi principii, e molto meno voler che di quivi non si muova. Perchè la lingua e naturalmente e ragionevolmente cammina sempre {finch'è viva,} e come è assurdissimo il voler ch'ella stia ferma, contra la natura delle cose, così è pregiudizievole e porta discapito il volerla riporre più indietro che non bisogna, e obbligarla a rifare quel cammino  754 che avea già fatto {dirittamente e} debitamente. Laddove bisogna riporla nè più nè meno in quel luogo che conviene al tempo e alle circostanze, osservando solamente che questo luogo sia proprio suo e conveniente alla sua natura. Ma Frontone in luogo di purificare la lingua, la volle antiquare, richiamando in uso parole e modi, per necessaria vicenda delle cose umane, dimenticati, ignorati e stantii, e fino come pare, l'antica ortografia, volendo {quasi} immedesimare, in dispetto della natura {e del vero,} il suo tempo coll'antico. Come che quei secoli che son passati, e quelle mutazioni che sono accadute e nella lingua, e in tutto quello che la modifica, dipendesse dalla volontà dell'uomo {il fare} che non fossero passati e non fossero accadute, e il cancellare tutto l'intervallo {di tempo ed altro} che sta fra il presente e l'antico. Nè osservò che siccome la lingua cammina sempre, perch'ella segue le cose le quali sono istabilissime e variabilissime, così ogni secolo anche il più buono e casto ha la sua lingua modificata in una maniera propria, la quale allora solo è cattiva,  755 quando è contraria all'indole della lingua, scema o distrugge 1. la sua potenza e facoltà, 2. la sua bellezza e bontà naturale e propria, altera perde guasta la sua proprietà, la sua natura, il suo carattere, la sua essenziale struttura e forma ec. Fuori di questo, com'è altrettanto vano, che dannoso e micidiale l'assunto d'impedire ch'ella si arricchisca, così è impossibile e dannoso l'impedire che si modifichi secondo i tempi e gli uomini e le cose, dalle quali la lingua dipende e per le quali è fatta, non per qualche ente immaginario, come la virtù o la giustizia ch'è immutabile o si suppone. E perchè Cic. non iscrisse come il vecchio Catone ec. non perciò resta ch'egli non sia, come in ordine a tutto il rimanente, così pure alla lingua, il sommo scrittor latino: nè {che} Virgilio non sia il primo poeta latino, e {limpidissimo specchio di latinità} (riconosciuto dallo stesso Frontone negli Exempla elocutionum), perciò che la sua lingua è ben diversa  756 da quella di Ennio di Livio Andronico, ec. e anche di Lucrezio. Bisogna però ch'io renda giustizia a Frontone, perchè se egli cadde in quel difetto che ho notato, vi cadde con molto più discrezione giudizio e discernimento sì nelle massime o nella ragione, che nella pratica, di quello che facciano molti degli odierni italiani, avendo anche molto riguardo a fuggir l'affettazione, per la quale massimamente e per la oscurità si rende assurdo e barbaro l'uso di molte parole antiquate; e possedendo la sua lingua veramente, e quindi, sebben peccasse nella troppa imitazione degli antichi, non però cercando, come fanno i nostri, di dar colore di antichità a' suoi scritti, col solo materiale e parziale uso delle parole e modi vecchi, senza osservare se la scrittura sapesse poi veramente di antico, e se quelle parole e modi vi cadessero acconciamente e naturalmente, o forzatamente, e dissonando dal corpo della composizione. {Frontone non sognò neppure la massima di vietare la conveniente e giudiziosa novità e formazione delle parole o modi, anzi egli stesso ne dà esempio di tratto in tratto.} Il che  757 fanno i nostri per impotenza, ignoranza, povertà, e niun possesso di lingua; credendo di esser buoni scrittori italiani quando hanno imparato e usato a sproposito e come capita, un certo numero di parole e modi antichi, non curandosi poi, o non sapendo vedere se corrispondano al resto e all'insieme del colorito e dell'andamento, e testura del discorso, ovvero sieno come un ritaglio di porpora cucito sopra un panno vile, o certo d'altro colore ed opera. Ma conviene ch'io dica quello ch'è vero, che non mi è riuscito mai di trovare negli antichi scrittori latini o greci, per difettosi che sieno, tanta goffaggine, {e incapacità,} e piccolezza di giudizio, e debolezza e scarsezza di mezzi, {e decisa insufficienza alle imprese, agli assunti ec.} quanto negli odierni italiani: e Frontone del resto non fu niente povero d'ingegno. {+Il suo peccato si può ridurre all'aver considerato come modelli di buona lingua, piuttosto Ennio che Virgilio e che lo stesso Lucrezio (che tanto l'arricchì nella parte filosofica) piuttosto Catone che Tullio; all'aver creduto che in quelli e non in questi fosse la perfezione della lingua latina, all'avere attinto più da quelli che da questi, e consideratili come fonti più ricchi o più sicuri ec.; o certo aver loro attribuita senza veruna ragione (conforme però all'ordinario rispetto per l'antico) maggiore autorità in fatto di lingua. ec. ec.} Questo sia detto in trascorso e per digressione.

[3625,1]  Alla p. 2821. fine. Nótisi il significato continuativo di confuto nell'esempio di Titinnio appo il Forcell. dove questo verbo sta nel senso proprio, e questo si è quello di confundo, ma continuato, come excepto in un luogo di Virgilio da me altrove esaminato p. 1107, per excipio. Nótisi ancora che nell'improprio suo ma più comune significato, confuto è vero continuativo di confundo. Anche noi diciamo (e così i francesi ec.) confondere uno colle ragioni, confondere le ragioni di uno, confondere l'avversario ec. e ciò vale confutare, ma questo esprime azione e quello è quasi un atto, e quasi il termine e l'effetto del confutare ec. Le quali osservazioni confermano la derivazione di confuto da noi e dagli etimologi stabilita. Così mi par di spiegare la traslazione del suo significato da quel di mescere insieme a quel di confutare, e così mi par di doverlo intendere; non ispiegarlo per compescere e derivar la metafora da questo lato, come fa il Vossio (ap. Forcell.) il quale anche  3626 par che derivi confuto da futum nome (dunque da questo anche futo?), per la solita ignoranza in materia de' continuativi. E se tal derivazione egli dà (come è anche più naturale ch'ei faccia) anche al confuto di Titinnio, e lo spiega pure per compesco, s'inganna assai. {V. p. 3635} Significazioni analoghe a quella nostra metaforica di confondere gli avversari ec. vedile nel Forcell. in confundo, confusio, confusus, {#1. e nel Gloss. in Confundere,} avvertendo che la lingua latina antichissima aveva delle metafore e degli usi di parole molto più simili ai moderni che non ebbe poi l'aurea latinità, o piuttosto il latino più illustre scritto; e n'ebbe in grandissima copia; e che queste parole e questi usi, e generalmente le proprietà del volgare o familiar latino, più si veggono negli scrittori de' bassi tempi (or v. gli esempi di Sulpicio Severo nel Forc. in confundo e confusus), e ne' volgari moderni che negli aurei scrittori, perchè questi seguivano più l'illustre, e quelli il familiare, questi fuggivano il volgo, e quelli o per ignoranza o  3627 per elezione, gli andavan dietro, questi avevano una lingua illustre e una parlata, quelli non avevano già più una lingua illustre che fosse per essere intesa quando anche l'avessero saputa scrivere, ma lingua scritta e parlata era per loro una cosa sola, o tra se molto meno diversa che non nell'aureo secolo e ne' prossimi a quello. Siccome eziandio tra gli scrittori aurei, i più antichi e i più familiari, semplici e rimessi di stile, più conservano dell'antico latino, più rappresentano della frase volgare e parlata, {+più hanno delle voci e locuzioni, e delle significazioni ed usi di voci, conformi ai volgari. Così Cornelio, Fedro, Celso ec.} più somigliano quella degli scrittori bassi e de' volgari moderni. I più antichi (coi quali vanno quelli che più si tennero all'antico per loro instituto, come Varrone, Frontone ec.) perchè il linguaggio illustre e scritto non era ancor ben formato e determinato, nè molto nè ben distinto dal parlato e familiare. I più semplici e rimessi perchè o per istituto o per un poco meno di abilità nello scrivere {e minore studio fatto della lingua, o minor diligenza posta nel comporre,} non vollero o non seppero troppo scostarsi dal linguaggio più noto e succhiato da loro col latte, cioè dal familiare e parlato. Onde a noi  3628 paiono amabilissimi e pregevolissimi per la loro semplicità ec. ma certo a' contemporanei dovettero riuscire poco colti. Osservo infatti che fra gli scrittori dell'aureo secolo quelli che fra noi tengono le prime lodi per la semplicità e dello stile e della lingua (la quale in loro è sempre notabilmente affine alla frase italiana e moderna, ed anche a quella de' tempi bassi), o non si trovano pur nominati dagli antichi, o appena, o in modo che la loro stima si vede essere stata come di autori, al più, di second'ordine. Tali sono Corn. Nepote, Celso, Fedro, giudicato dal Le Fevre il più vicino alla semplicità di Terenzio (v. Desbillons Disputat. II. de Phaedro, in fine), e simili. De' quali gli stessi moderni, vedendo la diversità della loro frase da quella degli altri aurei, e giudicandola non latina (perchè non molto illustre) hanno disputato se appartenessero al secol d'oro, ed anche se fossero antichi, ed hanno penato a riconoscerli per autori dell'aurea latinità; e le Vite di Cornelio sono state attribuite ad Emilio Probo {+(autore assai basso)} per ben lungo tempo e in molte edizioni ec., Celso è stato creduto più moderno di quello che è, ec. Fedro è stato attribuito al Perotti,  3629 e negato da molti che la sua latinità fosse latina ec. (v. la cit. Disput. del Desbillons). Non così è accaduto nè anticamente accadde agli scrittori greci più semplici. Effetto e segno che il linguaggio illustre in Grecia era, come altrove ho sostenuto pp. 844. sgg., assai men diviso dal volgare e parlato, e che la lingua e lo stile greco per sua natura e per sua formazione e circostanze è più semplice ec. Onde lo stile e la lingua p. e. di Senofonte fu subito acclamata, non men che fosse quella di Platone ch'è lavoratissima, ec. e gli scrittori greci più semplici e familiari non hanno aspettato i tempi moderni a divenir famosi e lodati ec. Senofonte e Platone nel loro secolo sono i due estremi quello della semplicità e bella sprezzatura, questo dell'eleganza, diligenza e artifizio. Pur l'uno e l'altro furono sempre quanto allo stile quasi parimente stimati da' Greci e contemporanei e posteri, e così da' latini e dagli altri in perpetuo ec. (8. Ott. 1823.).