Senofonte.
Xenophon.
62,12 126,1 237,2 466,2 467,1 470,1 882-3 1689,1 2104 2204,1 2284,2 2452 2632 3472,1 3629[62,2] Si suol dire che leggendo certi autori {semplici piani spontanei fluidi facili disinvolti
naturali} ec. pare a tutti di saper far così che poi alla prova si
vede come sia falso. Ma leggendo Senofonte par proprio che tutti scrivano così e che non si possa nè
sappia scrivere altrimenti, se non quando si passa da lui a un altro scrittore o
da un altro scrittore alla lettura di esso. {Perchè gli altri
scrittori si capisce che son semplici, in Senofonte non si scorge neppur ciò.}
[126,1]
126
Arriano ancorchè detto il secondo Senofonte, e vicinissimo certamente a
lui nella semplicità e purità dello stile, e nella negligente varietà {e irregolarità} della costruzione ec. tuttavia si
distingue da lui in questo ch'egli (forse come uomo vissuto lungo tempo fra i
romani, forse per istudio di Tucidide,
forse che la qualità ch'io dirò di Senofonte non era propria di quel tempo tanto alieno dall'antica
candidezza) è più grave di Senofonte,
e non ha quell'amabile familiarità e quasi affabilità di Senofonte che tratta il lettore come suo amico, e gli
racconta o gli parla come se fosse presente. Così nelle orazioni storiche, Arriano va sempre un mezzo tuono più
alto di Senofonte, il quale nelle
stesse orazioni è piuttosto espositore della cosa che oratore.
[237,2] La semplicità dev'esser tale che lo scrittore, o
chiunque l'adopra in qualsivoglia caso, non si accorga, o mostri di non
accorgersi di esser semplice, e molto meno di esser pregevole per questo capo.
Egli dev'esser come inconsapevole non solo di tutte le altre bellezze dello
scrivere, ma della stessa semplicità. Homme d'une simplicité
rare,
*
dice La
Harpe di La Fontaine (Eloge de La Fontaine), qui sans doute ne pouvait pas ignorer son genie,
mais ne l'appréciait pas, et qui même, s'il pouvait être témoin des
honneurs qu'on lui rend aujourd'hui, serait étonné de sa gloire, et
aurait besoin qu'on lui révélât le secret de son
mérite.
*
La stessa cosa
238 in
molto maggior grado si può dire degli scritti di Senofonte, e caratterizzarne la
semplicità. (10. 7bre 1820.).
[466,2] È cosa notata e famosa presso gli antichi (non credo
però gli antichissimi, ma più secoli dopo Senofonte) che Senofonte
non premise nessun preambolo alla Κύρου ἀναβάσει, sebbene dal secondo libro
in poi, premetta libro per libro, il Laerzio dice un proemio, ma veramente un epilogo o riassunto
brevissimo delle cose dette prima. V. il Laerz. in Xenoph.
Luciano, de scribenda histor.
ec. E Luciano dice che molti per
imitarlo non ponevano alcun proemio alle loro istorie. Ed aggiunge: {οὐκ εἰδότες ὡς} δυνάμει
*
(potentiâ) τινὰ προοίμιά ἐστι λεληϑότα τοὺς
πολλούς
*
. Io qui non vedo maraviglia nessuna. Esaminate
bene quell'opera: non è una storia, ma un Diario o Giornale {(si può dire, e per la massima parte militare)} di quella Spedizione.
Infatti procede giorno per giorno, segnando le marce, contando le parasanghe ec.
ec. infatti l'opera si chiude con una lista effettiva {o
somma} dei giorni, spazi percorsi, nazioni ec. lista indipendente dal
resto, per la sintassi. E di queste enumerazioni ne
467
sono sparse per tutta l'opera. Non doveva dunque avere un proemio, non essendo
propriamente in forma d'opera, ma di Commentario o Memoriale, ossiano ricordi, e
materiali. Chi si vuol far maraviglia di Senofonte, perchè non se la fa di Cesare? Il quale comincia i suoi Commentari de bello
G.[Gallico]
e C.[Civili] ex abrupto, appunto come Senofonte. E questo perchè non erano
Storia ma commentari. Nè pone alcun preambolo a nessuno de' libri in cui sono
divisi. Così Irzio.
Eccetto {una specie
di} avvertimento indirizzato a Balbo e premesso al lib. 8. de b.
G. (il quale era necessario non per l'opera in se, ma per
la circostanza, ch'egli n'era il continuatore) nè quel libro, nè quello de b. Alexandrino, nè quello de b.
Africano, nè quello d'autore incerto de b. Hispaniensi non hanno
alcun preambolo, ed entrano subito in materia.
[467,1] Da queste osservazioni deducete 1. un'altra prova che
Senofonte è il vero autore della
K. A.[Κύρου
ἀναβάσει] non Temistogene ec. trattandosi di un giornale, che non
poteva essere scritto {o almeno abbozzato} se non in pręsentia, e dallo stesso Generale (come i
commentarii di Cesare), o almeno da
qualche suo intimo confidente. Questa proprietà, di essere cioè scritta da un
testimonio di
468 vista, anzi dal principale attore e
centro degli avvenimenti non è comune a nessun'altra {opera} storica greca, che ci rimanga, anzi a nessun'antica, fuorchè
ai commentarii di Cesare. Perciò ella
{è} singolarmente preziosa anche per questo capo, e
propria più delle altre a darci la vera idea de' costumi, pensieri, natura degli
antichi, e de' loro fatti; come le lettere
di Cicerone in altro genere di
scrittura, sono la più recondita e intima sorgente della storia di quei tempi.
{{V. p. 519. capoverso 2.}}
[470,1] Quello che si è detto di sopra p. 466
intorno ai proemi particolari di ciascun libro Κ. Ας.[Κύρου
᾿Ανάβασις] eccetto il primo, non è vero nel 6.to
il quale non ha proemio nessuno. Se non che il capo 3. cominciando con un breve
epilogo, ho creduto lungo tempo che i due capi precedenti appartenessero al 5
libro, e il sesto cominciasse col 3zo capo. E però vero che il detto epilogo non
rinchiude se non le cose dette ne' due capi antecedenti, e non tutto il detto
nella parte superiore dell'opera, come ciascun altro proemio premesso ai diversi
libri. (3. Gen. 1821.)
[882,1] E con queste osservazioni si deve spiegare una cosa
che può far maraviglia nella Ciropedia. Dove Senofonte vuol dare certamente il modello del buon
re, piuttosto che un'esatta istoria di Ciro. E nondimeno questo buon re, dopo conquistato
l'impero Assirio, diventa modello e maestro della più
fina, fredda, e cupa tirannide. Ma bisogna notare che questo è verso gli Assiri,
laddove verso i suoi Persiani, Senofonte lo fa sempre umanissimo e liberalissimo. Ma egli stima che
sia tanto da buon re l'opprimere lo straniero, e l'assicurarsi in tutti i modi
della sua soggezione, come il conservare una giusta libertà a' nazionali. Senza
la qual distinzione e osservazione, si potrebbe quasi confondere Senofonte con Machiavello, e prendere un grosso abbaglio intorno alla
sua vera intenzione, e all'idea ch'egli ebbe del buon Principe. Nel qual
proposito osserverò che la regola e il metodo di Ciro (o di Senofonte) di preferire in tutto e per tutto i Persiani ai nuovi
sudditi, e dichiarare per tutti i versi, quella,
883
nazion dominante, e queste, soggette e dipendenti, non fu seguito da Alessandro, il quale anzi a costo
d'inimicarsi i Macedoni, pare che tra' suoi sudditi di qualunque nazione volesse
stabilire una perfetta uguaglianza, e quasi preferir fino i conquistati
adottando le vesti e le usanze loro. Il suo scopo fu certo quello di conservarli
piuttosto coll'amore che col timore, e colla forza: e non li stimò schiavi
(secondo il costume di quei tempi), ma sudditi. E quanto ai Romani, vedi in
questo particolare la fine del Capo 6. di
Montesquieu, Grandeur etc.
Oltre che i Romani accordando la cittadinanza a ogni sorta di stranieri
conquistati, gli agguagliavano più che mai potessero ai cittadini e compatrioti:
ma questa cosa non riuscì loro niente bene, com'è noto, e come ho detto in altro
pensiero p. 457.
[1689,1] A ciò che ho detto altrove p. 1366
pp.
1579-80 che la semplicità è relativa, aggiungete che oggi per es.
sarebbe bruttissimo uno stile semplice al modo di Senofonte, o de' nostri trecentisti, ancorchè
inaffettato, e composto di voci e frasi niente anticate. La semplicità d'oggi è
diversissima da quella d'allora, e di un grado molto minore. Cosa che non
s'intende da coloro che raccomandano l'imitazione degli antichi. (13.
Sett. 1821.).
[2103,2] Sebbene il maggior numero de' grandi scrittori
greci, massimamente ne' migliori tempi della greca letteratura, fu Ateniese
(come da molti si è osservato, e in
2104 particolare da
Velleio sulla fine del primo),
sebbene il secol d'oro detto di Pericle
non appartenesse che agli Ateniesi, ec. ec. nondimeno nè la lingua nè la
letteratura greca non fu mai ristretta a quei termini di unità, che definiscono,
uniformano, assoggettano, regolano una letteratura, {o
lingua} e la rendono meno varia, libera, originale ec. E questo perchè
non v'ebbe in Atene, neppure in quei tempi, tanto spirito
di società giornaliera come in Roma, e perchè gli stessi
scrittori Ateniesi, e in quel secolo e poi, non si restrinsero mai per nessun
modo al solo dialetto Ateniese, o al solo gusto Ateniese; anzi per lo contrario
ec. E di più ciascuno scrittore pensò e scrisse da se, e si formò da se una
scuola, una lingua, uno stile, una letteratura. ec. {(v. la
p. 2090.)}
Senofonte detto l'ape attica, e tipo di atticismo, fu esiliato come
λακωνίζων, visse quasi sempre fuori d'Atene, viaggiò
molto in
2105
Grecia in Asia ec. (così anche
Platone in
Egitto, in Sicilia ec. così
altri grandi di que' tempi) e fuori d'Atene scrisse o
tutte o quasi tutte le sue opere. (16. Nov. 1821.).
[2204,1]
È degno di esser letto l'ultimo capo del
Κυνηγετικός di Senofonte, dove inveisce contro i sofisti,
dimostra l'utilità e necessità delle assuefazioni ed esercizi corporei vigorosi,
dice particolarmente che bisogna seguir prima di tutto la natura, (§. δ.') ec.
V. ancora il capo precedente che contiene un bell'elogio della caccia,
occupazione naturalissima e primitiva, degna veramente dell'uomo, e conducente
alla felicità naturale. (1. Dic. 1821.).
[2284,2] Qual autor greco più facile di Senofonte? anzi qual autor latino? e forse anche qual
autore in qualunque lingua, massime antica, può essere, o avrebbe potuto esser
più facile, figurandoci anche una lingua a nostro talento? E pure egli è
pienissimo di locuzioni, modi, forme figuratissime, irregolarissime. Ma esse
sono naturali, e ciascuno le comprende, e qualunque principiante di greco,
proverà gran facilità ad intender Senofonte (forse sopra qualunque altro autore, massime della stessa
antichità), di qualunque nazione egli sia, e quantunque quelle frequentissime e
stranissime figure di Senofonte, non
sieno meno contrarie alle regole della sintassi greca, che all'ordine
2285 logico universale del discorso. Tanto è vero che
la natura non è meno universale della ragione, e che adoperando naturalmente le
facoltà proprie di una lingua, per
molto ch'elle si allontanino dalla logica, non si corre rischio di oscurità, e
che una lingua di andamento naturale; se non è così facile come quella di
andamento logico, certo non è oscura, e fra le antiche poteva (e può) esser
giudicata facilissima, e servire anche alla universalità. (25. Dic. dì di
Natale. 1821.).
[2451,3] Quanto sia più naturale e semplice l'andamento della
lingua greca (tuttochè poeticissima), che non è quello della latina; e quindi
quanto men proprio suo, e quanto la
lingua greca dovesse esser meglio disposta all'universalità che non era la
lingua latina, si può vedere anche da questo.
2452
Sebben l'italiana e la spagnuola son figlie vere e immediate della latina, pure
è molto ma molto più facile di tradurre naturalmente e spontaneamente in
italiano o in ispagnuolo gli ottimi autori greci, che gli ottimi latini. E tanto
è più facile quanto i detti autori greci son più buoni, cioè più veramente e
puramente greci. Siccome per lo contrario, quanto ai latini, è tanto meno
difficile, quanto meno son buoni, cioè meno latini, come p. e. Boezio tradotto
con molta naturalezza dal Varchi, e le Vite de' SS. Padri (che non hanno
quasi più nulla del latino) tradotte egregiamente dal Cavalca, e gli Ammaestram. degli antichi
da F. Bartolomeo da S. Concordio ec. ec. Cicerone, Sallustio, Tito
Livio, difficilissimamente pigliano un sapore italiano, se non
lasciano affatto l'indole e l'andamento proprio. Al contrario di Erodoto, Senofonte, Demostene, Isocrate ec. Ora
essendo l'andamento delle lingue moderne generalmente assai più piano e meno
figurato ec. delle antiche, questo è un segno che la lingua greca, adattandosi
alle moderne molto più della latina, doveva esser molto più semplice e naturale
nella sua costruzione e forma. (30. Maggio 1822.).
[2631,1] Tutto ciò si dee specialmente intendere
2632 delle radici, nelle quali gli antichi greci sono
ristrettissimi, ciascuno quanto a se, e notabilmente diversi gli uni dagli
altri, nella totalità del vocabolario delle medesime. Laddove i moderni ne sono
incomparabilmente più ricchi (come Luciano, Longino, ed anche
più i più sofistici e di peggior gusto, e i più pedanti; rispetto p. e. ad Isocrate
Senofonte ec.), ed hanno in esse
radici molto più di comune fra loro. Ma quanto ai composti o derivati fatti da
quelle radici che sono familiari a ciascuno di loro, niuno scrittor greco è
povero, nè scarso, nè troppo uniforme. Ma quando mai, sarebbero più poveri {in questa parte} i più moderni, che i più antichi. Certo
sono più timidi e servili, ed attaccati all'esempio de' precedenti, e parchi e
ritenuti e guardinghi e cauti nella novità. La qual novità quanto alle voci, non
può consistere in greco se non se in nuovi composti o derivati. (5. Ott.
1822.).
[3472,1] Del rimanente, egli è tanto certo che l'arte dello
stile e del dire è propria esclusivamente degli antichi, quanto che l'arte del
pensare è propria esclusivamente de' moderni. Gli antichi non solo facevano di
quell'arte uno studio infinitamente maggiore che noi non facciamo; non solo ne
possedevano e conoscevano mille parti, mille mezzi, mille secreti che noi neppur
sospettiamo, e che appena e a gran fatica possiamo intendere quando e' gli
spiegano e ne parlano exprofesso (come Cic.
Quintil. ec.), non solo in somma la
detta arte era senza paragone più ampia, stesa, ricca, varia, distinta,
accurata, specificata, particolarizzata appo gli antichi che fra i moderni, ma
essa era quasi l'unico, e senza quasi il principale studio degli antichi che
pretendevano e aspiravano particolarmente al nome di scrittori, e massime di
letterati. Si osservino sottilmente le opere d'Isocrate, di Senofonte e di tali altri cento. Tutte parole in sostanza
3473 senza più. Gli antichi letterati, se ben
guardiamo, non si proponevano in conchiusione altro, che di dir bene,
correttamente, cultamente e artifiziosamente, quello che tutti già sapevano e
pensavano o facilissimamente avrebbero potuto e saputo pensare da se, ma pochi
sapevano in quel modo significare. E non per altro in verità divenivano famosi
che per questo (ancorchè forse nè gli altri nè essi se ne avvedessero, o
avessero avuta questa intenzione espressa e distinta e a se medesimi manifesta),
quando ottenevano il detto effetto. E non parlo già qui de' sofisti, i quali a
differenza degli altri, avevano e professavano apertamente la detta intenzione e
la facevano vedere; e questa si era l'unica diversità reale che passasse tra'
più antichi sofisti e i classici, e il genere di scrittura di questi e di
quelli. Gli uni affettavano di dir bene, e mostravano di affettarlo, gli altri
dicevano bene per arte, ma non mostravano di {proccurarlo
e} ricercarlo, {come però facevano.} Quanto
allo stile, questi e quelli differivano notabilmente. Quanto a'
3474 concetti, alle sentenze, all'invenzione, alla
condotta, all'ordine ec. non v'è divario alcuno. Si considerino attentamente i
due predetti (nemici ambedue de' Sofisti), e tutti quelli che fra gli antichi
cercarono e ottennero fama di bene scrivere; {#1. Aristotele p.
e. non la cercò, ne Teofrasto
ec.} e si vedrà che ne' loro concetti ec. tutto è sofistico. Nè anche
bisognerà molta attenzione ad avvedersene. In Senofonte, particolare odiator de' sofisti, tanto
perseguitati dal suo maestro, (v. la fine del
Cinegetico) e a lui per se
stesso abbominevoli; in Senofonte così
candido e semplice e naturale che par tutto l'opposto possibile del sofistico,
in Senofonte il sofistico de' concetti
dà subito nell'occhio, tanto ch'io lo sentii notare con maraviglia a persona
niente intendente nè di greco nè di letteratura antica, che avea non più che
gittato l'occhio su certa traduzione di quell'autore. E Socrate stesso, l'amico del vero,
il bello e casto parlatore, l'odiator de' calamistri e de' fuchi e d'ogni
ornamento ascitizio e d'ogni affettazione, che altro era ne' suoi concetti se
non un sofista
3475 niente meno di quelli da lui
derisi? E per quanto poco gli antichi generalmente pensassero, non è possibile a
credere che i pensieri {e le osservazioni} di Socrate, di Senofonte, di Isocrate, di Plutarco (tanto più recente) e simili, non fossero al tempo di
costoro medesimi, comuni e triviali e volgari (sieno politici, filosofici,
morali o qualunque) o eccedessero la comune capacità di pensare, di trovare, di
concepire, di osservare. Ma pochi sapevano esprimerli a quel modo, come ho detto
di sopra.
[3625,1]
Alla p. 2821.
fine. Nótisi il significato continuativo di confuto nell'esempio di Titinnio appo il Forcell. dove questo verbo
sta nel senso proprio, e questo si è quello di confundo, ma continuato, come excepto in un
luogo di Virgilio da me altrove
esaminato p. 1107, per excipio. Nótisi
ancora che nell'improprio suo ma più comune significato, confuto è vero continuativo di confundo.
Anche noi diciamo (e così i francesi ec.) confondere uno
colle ragioni, confondere le ragioni di uno,
confondere l'avversario ec. e ciò vale confutare, ma questo esprime azione e quello è quasi
un atto, e quasi il termine e l'effetto del confutare
ec. Le quali osservazioni confermano la derivazione di confuto da noi e dagli etimologi stabilita. Così mi par di spiegare la
traslazione del suo significato da quel di mescere
insieme a quel di confutare, e così mi par di
doverlo intendere; non ispiegarlo per compescere e
derivar la metafora da questo lato, come fa il Vossio (ap. Forcell.) il quale anche
3626 par che derivi confuto da futum nome (dunque da questo anche futo?), per la solita ignoranza in materia de'
continuativi. E se tal derivazione egli dà (come è anche più naturale ch'ei
faccia) anche al confuto di Titinnio, e lo spiega pure per compesco, s'inganna assai. {V. p. 3635}
Significazioni analoghe a quella nostra metaforica di confondere gli avversari ec. vedile nel Forcell. in confundo, confusio, confusus, {#1. e nel
Gloss. in Confundere,} avvertendo che la lingua latina antichissima
aveva delle metafore e degli usi di parole molto più simili ai moderni che non
ebbe poi l'aurea latinità, o piuttosto il latino più illustre scritto; e n'ebbe
in grandissima copia; e che queste parole e questi usi, e generalmente le
proprietà del volgare o familiar latino, più si veggono negli scrittori de'
bassi tempi (or v. gli esempi di Sulpicio Severo nel Forc. in confundo e confusus), e ne'
volgari moderni che negli aurei scrittori, perchè questi seguivano più
l'illustre, e quelli il familiare, questi fuggivano il volgo, e quelli o per
ignoranza o
3627 per elezione, gli andavan dietro,
questi avevano una lingua illustre e una parlata, quelli non avevano già più una
lingua illustre che fosse per essere intesa quando anche l'avessero saputa
scrivere, ma lingua scritta e parlata era per loro una cosa sola, o tra se molto
meno diversa che non nell'aureo secolo e ne' prossimi a quello. Siccome eziandio
tra gli scrittori aurei, i più antichi e i più familiari, semplici e rimessi di
stile, più conservano dell'antico latino, più rappresentano della frase volgare
e parlata, {+più hanno delle voci e
locuzioni, e delle significazioni ed usi di voci, conformi ai volgari. Così
Cornelio, Fedro, Celso ec.} più somigliano quella degli scrittori bassi e
de' volgari moderni. I più antichi (coi quali vanno quelli che più si tennero
all'antico per loro instituto, come Varrone, Frontone ec.)
perchè il linguaggio illustre e scritto non era ancor ben formato e determinato,
nè molto nè ben distinto dal parlato e familiare. I più semplici e rimessi
perchè o per istituto o per un poco meno di abilità nello scrivere {e minore studio fatto della lingua, o minor diligenza posta
nel comporre,} non vollero o non seppero troppo scostarsi dal
linguaggio più noto e succhiato da loro col latte, cioè dal familiare e parlato.
Onde a noi
3628 paiono amabilissimi e pregevolissimi
per la loro semplicità ec. ma certo a' contemporanei dovettero riuscire poco
colti. Osservo infatti che fra gli scrittori dell'aureo secolo quelli che fra noi tengono le prime lodi per la
semplicità e dello stile e della lingua (la quale in loro è sempre notabilmente
affine alla frase italiana e moderna, ed anche a quella de' tempi bassi), o non
si trovano pur nominati dagli antichi, o appena, o in modo che la loro stima si
vede essere stata come di autori, al più, di second'ordine. Tali sono Corn. Nepote, Celso, Fedro, giudicato dal Le Fevre
il più vicino alla semplicità di Terenzio
(v. Desbillons
Disputat. II. de Phaedro, in fine), e
simili. De' quali gli stessi moderni, vedendo la diversità della loro frase da
quella degli altri aurei, e giudicandola non latina (perchè non molto illustre)
hanno disputato se appartenessero al secol d'oro, ed anche se fossero antichi,
ed hanno penato a riconoscerli per autori dell'aurea latinità; e le Vite di
Cornelio sono state
attribuite ad Emilio Probo
{+(autore assai basso)} per ben
lungo tempo e in molte edizioni ec., Celso è stato creduto più moderno di quello che è, ec. Fedro è stato attribuito al Perotti,
3629
e negato da molti che la sua latinità fosse latina ec. (v. la cit. Disput. del
Desbillons). Non così è
accaduto nè anticamente accadde agli scrittori greci più semplici. Effetto e
segno che il linguaggio illustre in Grecia era, come
altrove ho sostenuto pp. 844. sgg., assai men diviso dal volgare e parlato,
e che la lingua e lo stile greco per sua natura e per sua formazione e
circostanze è più semplice ec. Onde lo stile e la lingua p. e. di Senofonte fu subito acclamata, non men
che fosse quella di Platone ch'è
lavoratissima, ec. e gli scrittori greci più semplici e familiari non hanno
aspettato i tempi moderni a divenir famosi e lodati ec. Senofonte e Platone nel loro secolo sono i due estremi quello della semplicità e
bella sprezzatura, questo dell'eleganza, diligenza e artifizio. Pur l'uno e
l'altro furono sempre quanto allo stile quasi parimente stimati da' Greci e
contemporanei e posteri, e così da' latini e dagli altri in perpetuo ec.
(8. Ott. 1823.).
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130. Della semplicità dello scrivere di . (varia_filosofia) (1)