Navigation Settings

Manuscript Annotations:
interlinear {...}
inline {{...}}
attached +{...}
footnote #{...}
unattached {...}
Editorial Annotations:

Correction Normalization

Celso, e il suo libro de arte dicendi.

Celsus and his book De arte dicendi.

32,4 34,1 861,2861-62 949,1 1010,1 1313 1597,1 1938 2729 3062,3 3626,segg.

[32,4]  È osservabile che Celso nel quale è singolarmente notata (e lodata) la semplicità e facilità dello stile per le quali si sarà discostato meno degli altri dal latino volgare, sono frequentissime e moltissime frasi {costruzioni, usi di parole, locuzioni ec. ed anche parole assolutamente} o prette italiane o che si accostano alle italiane io dico di quelle che comunemente non s'hanno per derivate dal latino nè per comuni alle due lingue ma proprie della nostra, e ove trovandole non presso Celso ma presso qualche scrittore latino moderno, le stimeressimo poco meno che barbarismi, anche presentemente, cioè non ostante che in effetto si trovino appresso Celso {eccetto se non ci ricordassimo espressamente, o ci fosse citata l'autorità di lui.} Per es. dice nel libro 1. Capo 3. dopo il mezzo: interdum valetudinis causa recte fieri, experimentis credo; cum eo tamen ne quis qui valere et senescere volet, hoc quotidianum habeat. * (Con questo però che ec. cioè, purchè locuzione pretta italiana.) E nel Lib. 2. c. 8. circa il fine: Quos lienis male habet, si tormina prehenderunt, deinde versa sunt vel in aquam inter cutem, vel in intestinorum lęvitatem[laevitatem], vix ulla medicina periculo subtrahit * . Si trova però frase simile cioè prehendo in significato di cogliere, ma presso i Comici latini. E parimente l. 2. c. 11. nel fine: huc potius confugiendum est, cum eo tamen ut sciamus, hic ut nullum periculum, ita levius auxilium esse * . E c. 17. alquanto sopra il mezzo: recte medicina ista tentatur, cum eo tamen ne pręcordia[praecordia] dura sint, neve * , etc. e lib. 3. C. 5. sul fine: scire licet... satius esse consistente jam incremento febris aliquid offerre, quam increscente..., cum eo tamen ut nullo tempore is qui deficit non sit sustinendus * . {Così c. 22. mezzo e c. 24. fine e l. 4. c. 6.} E c. 6. dopo il mezzo: In vicem ejus dari potest vel intrita ex aqua ec. * (in vece di questa.) e così altrove usa questa stessa frase, e nota che qui non vuol dire alternativamente, ma  33 assolutamente in vece, {cioè} escluso l'altro cibo ec. L'altro luogo dove l'usa è lib. 4. c. 6. nello stesso modo assoluto. E Lib. 4. c. 2. fine: Post quę[quae] vix fieri potest ut idem incommodum maneat * . (semplicemente come noi diciamo incomodo per piccola malattia.) E c. 22: quod fere post longos morbos vis pestifera huc se inclinat, quę[quae] ut alias partes liberat, sic hanc ipsam (nimirum coxas) quoque affectam prehendit * . E. c. 28. del Lib. 5. sect. 17. nam et rubet (impetiginis {genus I.um}) et durior est, et exulcerata est, et rodit * . (come diciamo noi {volgarmente talvolta neutro e spesso anche impersonale,} per prurire) E così ivi poco dopo: xml:lang="la">squamulę[squamulae] ex summa cute discedunt, rosio major est * . E poco dopo di un altro genere d'impetigine dice: in summa cute finditur, et vehementius rodit * . Dove s'ingannerebbe chi credesse che Celso volesse per rodere intendere lo stesso che erodere, poichè 1. egli usa sempre questo secondo quando si tratta di significare corrosione, 2. negli esempi che addurrò dove si vede il passivo di rodere, l'accompagnamento delle altre parole, mostra che non si tratta di corrosione ma di prurito; e dice dunque ib. sect. seguente di un altro male simigliante: in quo per minimas pustulas cutis exasperatur et rubet leviterque roditur: * e poco sotto: di un altro genere del sopraddetto male: in quo similiter quidem, sed magis cutis exasperaturque exulceraturque ac vehementius et roditur et rubet et interdum etiam pilos remittit * , 3. nella sezione precedente la 17. dice della scabbia {o} rogna per tutta definizione queste parole: Scabies vero est durior cutis, rubicunda; ex qua pustulę[pustulae] oriuntur, quędam[quaedam] humidiores, quędam[quaedam] sicciores. Exit ex quibusdam sanies, fitque ex his continuata exulceratio pruriens, serpitque in quibusdam cito. Atque in aliis quidem ex toto desinit, in aliis vero certo tempore anni revertitur. Quo asperior est, quoque prurit magis, eo difficilius tollitur. Itaque eam quę[quae] talis est, ἀγρίαν id est feram Gręci[Graeci] appellant * . Poi passa ai rimedi che sbriga in poche righe senza far altro motto della natura del male. Ora nella sezione seguente dice del primo genere d'impetigine, che similitudine scabiem repręsentat[repraesentat], nam et rubet etc. * come sopra; dove egli ha la mira a quello che ha detto di sopra della scabbia com'è evidente: ma ch'ella sia rossa, dura, esulcerata l'ha detto come io ho notato con lineette, che corroda non l'ha detto punto: ora come sarà simile alla scabbia la impetigine nam rodit, perchè rode? Bensì ha detto che la scabbia prurit, e questo segno sostanziale mancherebbe alla impetigine se il rodit non si prendesse in questo senso, che d'altronde non si può prendere per corrodere. V. se il Forcellini o l'Appendice ha nulla di rodere in significato di prurire. {+Non ha niente, e però questo significato è nuovo e da aggiungersi ai vocabolari latini, cioè rodere per prurire. (non è neutro però giacchè n'abbiamo veduto il passivo, quantunque si potrebbe disputare pro e contra. Nota ancora che rodere per erodere è bensì raro, appo Celso, pur si trova l. 7. c. 2. verso il fine. Nel lib. 7 c. 23. c'è il vocabolo rosio che non ha significato chiaro e si può spiegare in un modo e nell'altro, sebbene appena si può prendere anzi non si può per l'azione del corrodere, ma per il senso di ciò, vale a dire di un prurito veemente: fereque a {die} tertio spumans bilis alvo cum rosione redditur * . E questo mi pare anzi il significato suo certo in questo luogo, come apparisce dal contesto, dove nè prima nè dopo non si parla punto nè d'effetti nè di rimedi o altro analogo a corrosione. Rodere si trova anche in significato dubbio 3. volte nel l. 7. c. 26. sect. 4. circa il fine e c. 27. dopo il mezzo.} E lib. 6. c. 1. fine: Si parum per hęc[haec] proficitur, vehementioribus uti licet, cum eo ut sciamus, (senza il tamen) utique in recenti vitio id inutile esse * . E ib. c. 18. sect. 7.  34 Si quidquid lęsum[laesum] est, extra est, neque intus reconditum, eodem medicamento tinctum linamentum superdandum est, et quidquid ante adhibuimus cerato contegendum. In hoc autem casu neque acribus cibis utendum neque asperis nec alvum comprimentibus * . Così altrove spesso, in primo casu, in eo casu ec. come noi diciamo: in questo caso, nel primo caso ec. E lib. 7. c. 2. dopo il mezzo: Semper autem ubi scalpellus admovetur, id agendum est ut et quam minimę[minimae] et quam paucissimae plagae sint, cum eo tamen ut necessitati succurramus et in modo et in numero * . E c. 7. sect. 7. At quibus id in angulo est, potest adhiberi curatio, cum eo ne (senza il tamen) ignotum sit esse difficilem * . E c. 16. quia et rumpi facilius motu ventris potest, et non aeque magnis inflammationibus pars ea (venter), exposita est * . E c. 22. adurendus est tenuibus et acutis ferramentis quę[quae] ipsis venis infigantur, cum eo ne amplius quam has urant * (senza il tamen) E c. 27. circa il mezzo: Sub quibus perveniri ad sanitatem potest, cum eo tamen quod non * (nota il quod non in vece del ne ch'è anche più conforme alla frase italiana) ignoremus, orto cancro sępe[saepe] affici stomachum. * (l'edizione di cui mi servo non ha la virgola dopo orto cancro quantunque abbondantissima nell'interpunzione) E lib. 8. c. 10. sect. 7. ab init. Quibus periculis etiam magis id expositum quod juxta ipsos articulos ictum est * . In somma tutta la struttura della prosa di Celso è tale che accostandosi infinitamente per la maniera il giro la costruzione la frase i modi e le parole alla italiana, dà a conoscere più che forse qualunque altra prosa latina dei buoni secoli, anche a chi non lo sapesse per altra parte, che la lingua italiana deriva dalla latina. Onde non dubito che questa prosa non si accostasse ancora e non fosse presa in grandissima parte quanto al modo, e anche in qualche parte rispetto alle parole, dal volgare di Roma, o latino

[34,1]  Il libellus de Arte dicendi pubblicato sotto il nome di Celso da Sisto {a} Popma in Colonia nel 1569. e ristampato come rarissimo dal Fabricio in fondo alla Bibl. Lat. lo giudico un compendio o uno spoglio o un pezzo compendiato dell'opera di Celso sull'Eloquenza ch'era parte della grand'opera sulle arti di cui c'è rimasta la medicina. E raccolgo che sia di Celso dalla facile eleganza o piuttosto facilità elegante tutta propria di Celso che si trova in vari luoghetti sparsi per tutto il brevissimo libricciuolo misti a un rimanente confuso, o inelegante, e anche barbaro e inintelligibile, il che dimostra l'altra parte del mio giudizio, cioè che questa non sia l'opera intera di Celso come pare ch'abbia creduto il Fabricio l. 4. c. 8. fine p. 506. fine, oltrechè come vedo nel Tiraboschi qui non si trova  35 tutto quello che Quintiliano cita dell'opera di Celso. Anche Curio Fortunaziano Retore nei Rettorici latini del Pithou p. 69. cita Celso. Trovo poi anche parecchi modi e parole che mi persuadono che il libretto sia cavato veramente da Celso, perchè sono frequenti e familiari sue nei libri della Medicina, p. e. §. 3. Oratoris artibus nemo instrui potest, nisi cui ingenium et frequens studium est. Primum animi sit (assoluto) oportet qędam[quaedam] {naturalis} ad videndas ediscendasque res potentia. Tum vox, (nota l'omissione del sit oportet, e la dipendenza di questo periodo dal precedente familiarissimo a Celso) latus, decor, valetudo, frugalitas, laboris patientia * . E tutto il §. {è di} maniera {affatto Celsiana.} E §. 4. Super hoc, per oltre a ciò, {usitato da Celso,} e la particella ubi per quando, allorchè {se} familiariss. a Celso, e usata spesso qui pure, cioè §. 9. e 10. tre volte, 11. due volte, e 17. due volte. E §. 10. Neque alienum est, ubi longior fuerit expositio vel narratio, extrema ita finire, ut admoneas quęcunque[quaecunque] dixeris * . E ivi poco dopo: Nec semper debet orator veterum se pręceptis[praeceptis] addicere, sed scire debet incidere novam materiam quę[quae] novi aliquid postulet * . {+E quanto all'incidere, si trova anche in simile maniera §. 11. Evenit ut ante sit respondendum quam sit ponenda narratio, ut pro Milone: incidit caussę[caussae] genus quod summam habet quęstionis[quaestionis] * . E ib. ec.} E ib. più sopra: Alterum genus est in quo utique (modo familiarissimo a Celso) ęque[aeque] supervacua narratio est * e così §. 12. hęc[haec] enim verisimilia sunt, non utique vera * . E §. 13. Cum autem diu dicere volet, omne argumentum ornatius exequetur. * E ivi: Si unum argumentum validum est et unum frivolum, a valido incipies, frivolum persequeris, rursum validum repetes * . E ivi Cum aliquibus partibus causa laborat, utilius ordinem quęstionum[quaestionum] confundimus, quas ex toto tractare non expedit * . Modo totalmente Celsiano al quale è familiarissimo quando appo gli altri è se, non altro, raro, a mio parere; e che quasi solo basterebbe appresso me per farmi credere che il libretto sia cavato veramente da Celso. Modo del resto levato di peso dal greco ἐξ ἅπαντος, alla qual lingua s'accosta anche moltissimo e la maniera {di Celso} in generale, e molti modi frasi locuzioni ec. in particolare {(e la semplicità} {e la forma della costruzione tanto del tutto, quanto dei periodi, del collegamento loro ec.),} come a lingua madre, nel modo che alla italiana s'accosta come a lingua figlia. Si trova anche nel §. 3. l'avverbio in totum per totalmente, che, se ben mi ricorda,  36 si trova anche frequentemente appresso Celso.

[860,1]  Del resto la lingua latina scritta ne' primi veri e formati classici di essa, fu ridotta a tale artifizio, {squisitezza,} tortuosità, intrecciatura, composizione, lavoro, circuito, tessitura di periodi, {obliquità di costruzione ec.;} acquistò subito così stretta proprietà di modi, di frasi, di voci, proprietà inviolabile senza offesa formale della lingua; tanto precisa distinzione nell'uso de' suoi sinonimi, ossia delle innumerabili voci destinate alla significazione delle nuances di uno stesso oggetto; che quella lingua contenne il più di eleganza arbitraria che mai si vedesse, fu opera espressa dello scrittore più che qualunque altra; abbisognò di sì  861 profonda, {sottile,} minuta, esatta, e determinata cognizione non solo della sua indole, ma di ciascun modo, frase, parola, a volerla trattare senza offendere la sua sì propria e individuale e arbitraria altrettanto che definita proprietà; che allontanandosi estremamente dal volgare, e formando subito due lingue separate, cioè la scritta e la parlata, s'impossibilitò ancora, sì per questa, sì per quelle ragioni, alla universalità. Alcuni scrittori latini, che anche nel tempo della perfezionata loro lingua letterata, si accostarono un poco più degli altri ai loro antichi scrittori, o al popolo, e conservarono maggiormente l'antico carattere della lingua; si accostarono altresì più degli altri agli ottimi greci, furono più semplici, più facili e piani, meno contorti e lavorati ec. e si avvicinarono ancora al genio futuro della lingua italiana. Tali furono Cesare, Cornelio Nipote, e sopra tutti Celso, del quale vedi quello che ho notato altrove pp. 32-35  862 della gran somiglianza che ha, sì col greco, sì massimamente coll'italiano, tanto nell'andamento, come nelle minute forme, frasi, voci. E dovunque si trova nei latini scrittori, un tantino di quel candore e di quella grazia nativa, che non fu mai proprio della loro letteratura (eccetto i primi e non perfetti scrittori); si trova altresì maggiore e notabile somiglianza col carattere della lingua greca, e della nostra, e quindi anche del volgare latino, da cui la nostra è derivata, e a cui non dubito che Celso non si accostasse notabilmente, e più che ogni altro Classico conosciuto del secolo d'oro o d'argento. Tuttavia anche in questi scrittori medesimi, si trova sempre un'aria di maggior coltura, una lingua più lavorata, più nitida, meno semplice, meno piana e naturale che quella degli ottimi greci, anzi in tal grado che non è possibile mai di confonderli con questi. E certo {quel candore,} quella nuda venustà de' greci, e anche  863 (ma quanto alla sola lingua) de' nostri trecentisti, non fu mai propria della scrittura e letteratura latina, se non forse della primitiva. E verisimilmente non la comportava il carattere della nazione romana, assai più grave che graziosa, e quantunque naturale e semplice anch'essa (come tutte le antiche, non ancora, o non del tutto corrotte, e massime come tutte le nazioni libere e forti e grandi) tuttavia, padrona piuttosto della natura, di quello che amante e vagheggiatrice, come la nazione greca. (21-24. Marzo 1821.).

[949,1]  Dalla sciocca idea che si ha del bello assoluto deriva quella sciocchissima opinione che le cose utili non debbano esser belle, o possano non esser belle. Poniamo per esempio un'opera scientifica. Se non è bella, la scusano perciò ch'è utile, anzi dicono che la bellezza non le conviene. Ed io dico che se non è bella, e quindi è brutta, è dunque cattiva per questo verso, quando anche pregevolissima in tutto il resto. Per qual ragione è bello il Trattato di Celso, ch'è un trattato di Medicina? Forse perchè ha ornamenti poetici o rettorici? Anzi prima di tutto perchè ne manca onninamente, e perchè ha quel nudo candore e semplicità che conviene a siffatte opere. Poi perchè è chiaro, preciso, perchè ha una lingua ed uno stile puro. Questi pregi o bellezze convengono a qualunque libro. Ogni libro ha obbligo di esser bello in tutto il rigore di questo termine: cioè di essere intieramente buono. Se non è bello, per questo lato è cattivo, e non v'è cosa di mezzo tra il non esser bello, e il non essere perfettamente buono, e l'esser quindi per questa parte cattivo. E ciò che dico dei libri, si deve estendere a tutti  950 gli altri generi di cose chiamate utili, e generalmente a tutto. (16. Aprile 1821.)

[1010,1]  Della lingua volgare latina antica v. Andrès, Dell'Orig. d'ogni letteratura ec. Parte 1. c. 11. Edizione Veneta del Vitto. t. 2. p. 256.-257. nota. {+La qual nota è del Loschi. Che però egli s'inganni, lo mostrano le mie osservazioni sopra la lingua di Celso pp. 32-36 , scrittore non dell'antica e mal formata, ma della perfetta ed aurea latinità.} (4. Maggio 1821.).

[1312,1]  Alla p. 1255. marg. - e divenir maturo {pratico ec.} p. e. in uno stile, con una sola lettura, cioè con pochissimo esercizio ec. {+La qual facilità di assuefazione, segno ed effetto del talento io la notava in me anche nelle minuzie, come nell'assuefarmi ai diversi metodi di vita, e nel dissuefarmene agevolmente mediante una nuova assuefazione ec. ec. In somma io mi dava presto per esercitato in qualunque cosa a me più nuova.} (12. Luglio 1821.).

[1597,1]   1597 Tutto nella natura è armonia, ma soprattutto niente in essa è contraddizione. Non è possibile che, massime in un medesimo individuo, in un medesimo genere di esseri, e degli esseri più elevati nell'ordine naturale, siccom'è l'uomo, la perfezione di una parte principale e importantissima di esso, voluta e ordinata dalla natura, noccia a quella di un'altra parte similmente principalissima. Ora se quella che noi chiamiamo perfezione del nostro spirito, se la civiltà presente fosse stata voluta e ordinata dalla natura, e se ella fosse insomma veramente la nostra perfezione, allora la contraddizione assurda che ho detto, si verificherebbe; giacchè è incontrastabile che questa pretesa perfezione dell'animo nuoce al corpo.

[1937,1]  Quando si comincia a gustare una nuova lingua, le cose che più ci piacciono e ci rendono sapor di eleganza, sono quelle proprietà, quelle facoltà, modi, forme, metafore, usi di parole o di locuzioni, che si allontanano dal costume e dalla natura della nostra lingua, senza però esserle contrarie, e senza discostarsene di troppo. {(Così anche nel pronunziare o nel sentir pronunziare una lingua straniera, ci piacciono più di tutto quei suoni che non sono propri della nostra, o del nostro costume, nel qual proposito v. la p. 1965. fine.} (Ecco appunto la natura della grazia: lo straordinario fino a un certo segno, e in modo ch'egli faccia colpo senza choquer le nostre assuefazioni ec.) {+Questo ci accade nel leggere, nel parlare nello scrivere quella tal lingua. (In tutti tre i casi però può aver luogo un'altra sorgente di piacere, cioè l'ambizione o la compiacenza di sapere intendere o adoperare quelle tali frasi, di parer forestiere a se stesso, di aver fatto progressi, vinto le difficoltà ec.)} E ciò accade quando anche in quella lingua o in quel caso, quelle tali forme non sieno per verità eleganti. E dove noi vediamo una decisa e per noi eccessiva conformità colla nostra lingua, quivi noi proviamo un senso  1938 di trivialità ed iẽleganza[ineleganza], quando anche ella sia tutto l'opposto: come alla prima giunta ci accade nell'elegantissimo Celso, il quale ha molti modi ed si similissimi all'indole italiana: e così spesso ci accade negli scrittori latini antichi, o moderni massimamente (perchè questi non hanno in favor loro la prevenzione, e la certezza che dicono bene.) (17. Ott. 1821.). {{V. p. 1965.}}

[2728,1]  Ma io escludo dal bene scrivere i professori di scienze matematiche o fisiche, e {di quelle} che tengono dell'uno e dell'altro genere insieme, o che all'uno o all'altro s'avvicinano. E di questa sorta di scienze in verità non abbiamo buoni {ed eleganti} scrittori nè antichi nè moderni, se non pochissimi. I greci trattavano queste scienze in modo mezzo poetico, perchè poco sperimentavano e molto immaginavano. Quindi erano in esse meno lontani dall'eleganza. Ma certo essi ne furono tanto più lontani, quanto più furono esatti. {+Platone è fuori di questa classe.} Gli antichi lodano assai lo stile d'Aristotele e di Teofrasto. Può essere ch'abbiano riguardo ai loro scritti politici, morali, metafisici, piuttosto che ai naturali. Io dico il vero che nè in questi  2729 nè in quelli non sento grand'eleganza. {+(Quel ch'io ci trovo è purità di lingua e un sufficiente e moderato atticismo: l'uno e l'altro, effetto del secolo e della {dimora} anzi che dello scrittore {, e insomma natura e non arte}. Niuna eleganza però nè di stile nè di parole. Anzi sovente grandissima negligenza sì nella scelta sì nell'ordine e congiuntura de' vocaboli; poca proprietà, e non di rado niuna sintassi.)} Ben la sento e moltissima in Celso, vero e forse unico modello fra gli antichi e i moderni del bello stile scientifico-esatto. Col quale si potrà forse mettere Ippocrate. I latini ebbero pochi scrittori scientifici-esatti. E di questi, fuori di Celso, qual è che si possa chiamare elegante? Non certamente Plinio, il quale se si vorrà chiamar puro, si chiamera così, perchè anch'egli per noi fa testo di latinità. Lascio Mela, Solino, Varrone, Vegezio, Columella ec. Il nostro Galileo lo chiami elegante chi non conosce la nostra lingua, e non ha senso dell'eleganza. (V. Giordani, Vita del Cardinale Pallavicino). Il Buffon sarebbe unico fra' moderni per il modo elegante di trattare le scienze esatte: ma oltre che la storia naturale si presta all'eleganza più d'ogni altra di queste scienze; tutto ciò che è elegante in lui, è estrinseco alla scienza propriamente detta,  2730 ed appartiene a quella che io chiamo qui filosofia propria, la quale si può applicare ad ogni sorta di soggetti. Così fece il Bailly nell'Astronomia. Sempre che usciamo dei termini dottrinali e insegnativi d'una scienza esatta, siamo fuori del nostro caso. La scienza non è più la materia {ma l'occasione} di tali scritture; {+non s'impara la scienza da esse, nè questa fa progressi diretti, per mezzo loro, nè riceve aumento diretto dalle proposizioni ch'esse contengono:} elle sono considerazioni sopra la scienza. (28. Maggio. Vigilia del Corpus Domini. 1823.). {{I pensieri di Buffon non compongono e non espongono la scienza, non sono e non contengono i dogmi della medesima, o nuovi dogmi ch'esso {le} aggiunga, ma la considerano, e versano sopra di lei e sopra i suoi dogmi. Si può ornare una materia coi pensieri e colle parole. Tutte le materie sono capaci dell'ornamento de' pensieri, perchè sopra ogni cosa si può pensare, e stendersi col pensiero quanto si voglia, più o meno lontano dalla materia strettamente presa. Ma non tutte si possono ornare colle parole. Il Buffon adornò la scienza con pensieri  2731 filosofici, e a questi pensieri non somministrati ma occasionati dalla storia naturale, applicò l'eleganza delle parole, perch'essi n'erano materia capace. Ma i fisici, i matematici ordinariamente non possono e non vogliono andar dietro a tali pensieri, ma si ristringono alla sola scienza.}}

[3062,3]  Altri due italianismi veggansi in Fedro II. 5. v. 25., e 6. v. 4. - Desbillons loc. cit. p. LXIV e LXV. E notinsi i luoghi di Varrone il quale parla del latino illustre. {+Altro eziandio III. 6. v. 5. - Desbill. p. LXXI.} Ma Fedro seguiva o s'appressava in molte cose al latino volgare. Quindi è ch'ha delle frasi tutte sue, cioè che non si trovano negli altri autori latini, e che sono sembrate non latino. Vedi il Desbillons p. XXII-VI. e gli altri che trattano della sua latinità. Niuno de' quali, io credo, ha osservato la vera cagione della differenza di questa latinità dalla più nota. Tutti gli scrittori latini {(anche antichi e veri classici)} che hanno del familiare nello stile, come, oltre i Comici, Celso (che s'accosta molto a Fedro quanto può un prosatore a un poeta, e che fu pur creduto non appartenere al secolo d'oro) e  3063 lo stesso Cesare, inclinando per conseg. più degli altri al {linguaggio} volgare, (benchè moderatamente e con grazia, come molti degl'italiani, p. e. il Caro), si accostano eziandio più degli altri all'andamento, sapore ec. {e alle frasi, voci o significazioni ec.} dell'italiano. Così pure fa Ovidio fino a un certo segno, ma per altra ragione, cioè per la negligenza e fretta che non gli permetteva di ripulire bastantemente il suo linguaggio, di dargli dovunque il debito splendore, nobiltà ec.; di tenersi sempre lontano dalla favella usuale: insomma perchè non sapeva o non curava di scrivere perfettamente bene, e si lasciava trasportare dalla sua vena e copia, con poco uso della lima, siccome per lo stile, così per la lingua. (29. Luglio. 1823.)

[3625,1]  Alla p. 2821. fine. Nótisi il significato continuativo di confuto nell'esempio di Titinnio appo il Forcell. dove questo verbo sta nel senso proprio, e questo si è quello di confundo, ma continuato, come excepto in un luogo di Virgilio da me altrove esaminato p. 1107, per excipio. Nótisi ancora che nell'improprio suo ma più comune significato, confuto è vero continuativo di confundo. Anche noi diciamo (e così i francesi ec.) confondere uno colle ragioni, confondere le ragioni di uno, confondere l'avversario ec. e ciò vale confutare, ma questo esprime azione e quello è quasi un atto, e quasi il termine e l'effetto del confutare ec. Le quali osservazioni confermano la derivazione di confuto da noi e dagli etimologi stabilita. Così mi par di spiegare la traslazione del suo significato da quel di mescere insieme a quel di confutare, e così mi par di doverlo intendere; non ispiegarlo per compescere e derivar la metafora da questo lato, come fa il Vossio (ap. Forcell.) il quale anche  3626 par che derivi confuto da futum nome (dunque da questo anche futo?), per la solita ignoranza in materia de' continuativi. E se tal derivazione egli dà (come è anche più naturale ch'ei faccia) anche al confuto di Titinnio, e lo spiega pure per compesco, s'inganna assai. {V. p. 3635} Significazioni analoghe a quella nostra metaforica di confondere gli avversari ec. vedile nel Forcell. in confundo, confusio, confusus, {#1. e nel Gloss. in Confundere,} avvertendo che la lingua latina antichissima aveva delle metafore e degli usi di parole molto più simili ai moderni che non ebbe poi l'aurea latinità, o piuttosto il latino più illustre scritto; e n'ebbe in grandissima copia; e che queste parole e questi usi, e generalmente le proprietà del volgare o familiar latino, più si veggono negli scrittori de' bassi tempi (or v. gli esempi di Sulpicio Severo nel Forc. in confundo e confusus), e ne' volgari moderni che negli aurei scrittori, perchè questi seguivano più l'illustre, e quelli il familiare, questi fuggivano il volgo, e quelli o per ignoranza o  3627 per elezione, gli andavan dietro, questi avevano una lingua illustre e una parlata, quelli non avevano già più una lingua illustre che fosse per essere intesa quando anche l'avessero saputa scrivere, ma lingua scritta e parlata era per loro una cosa sola, o tra se molto meno diversa che non nell'aureo secolo e ne' prossimi a quello. Siccome eziandio tra gli scrittori aurei, i più antichi e i più familiari, semplici e rimessi di stile, più conservano dell'antico latino, più rappresentano della frase volgare e parlata, {+più hanno delle voci e locuzioni, e delle significazioni ed usi di voci, conformi ai volgari. Così Cornelio, Fedro, Celso ec.} più somigliano quella degli scrittori bassi e de' volgari moderni. I più antichi (coi quali vanno quelli che più si tennero all'antico per loro instituto, come Varrone, Frontone ec.) perchè il linguaggio illustre e scritto non era ancor ben formato e determinato, nè molto nè ben distinto dal parlato e familiare. I più semplici e rimessi perchè o per istituto o per un poco meno di abilità nello scrivere {e minore studio fatto della lingua, o minor diligenza posta nel comporre,} non vollero o non seppero troppo scostarsi dal linguaggio più noto e succhiato da loro col latte, cioè dal familiare e parlato. Onde a noi  3628 paiono amabilissimi e pregevolissimi per la loro semplicità ec. ma certo a' contemporanei dovettero riuscire poco colti. Osservo infatti che fra gli scrittori dell'aureo secolo quelli che fra noi tengono le prime lodi per la semplicità e dello stile e della lingua (la quale in loro è sempre notabilmente affine alla frase italiana e moderna, ed anche a quella de' tempi bassi), o non si trovano pur nominati dagli antichi, o appena, o in modo che la loro stima si vede essere stata come di autori, al più, di second'ordine. Tali sono Corn. Nepote, Celso, Fedro, giudicato dal Le Fevre il più vicino alla semplicità di Terenzio (v. Desbillons Disputat. II. de Phaedro, in fine), e simili. De' quali gli stessi moderni, vedendo la diversità della loro frase da quella degli altri aurei, e giudicandola non latina (perchè non molto illustre) hanno disputato se appartenessero al secol d'oro, ed anche se fossero antichi, ed hanno penato a riconoscerli per autori dell'aurea latinità; e le Vite di Cornelio sono state attribuite ad Emilio Probo {+(autore assai basso)} per ben lungo tempo e in molte edizioni ec., Celso è stato creduto più moderno di quello che è, ec. Fedro è stato attribuito al Perotti,  3629 e negato da molti che la sua latinità fosse latina ec. (v. la cit. Disput. del Desbillons). Non così è accaduto nè anticamente accadde agli scrittori greci più semplici. Effetto e segno che il linguaggio illustre in Grecia era, come altrove ho sostenuto pp. 844. sgg., assai men diviso dal volgare e parlato, e che la lingua e lo stile greco per sua natura e per sua formazione e circostanze è più semplice ec. Onde lo stile e la lingua p. e. di Senofonte fu subito acclamata, non men che fosse quella di Platone ch'è lavoratissima, ec. e gli scrittori greci più semplici e familiari non hanno aspettato i tempi moderni a divenir famosi e lodati ec. Senofonte e Platone nel loro secolo sono i due estremi quello della semplicità e bella sprezzatura, questo dell'eleganza, diligenza e artifizio. Pur l'uno e l'altro furono sempre quanto allo stile quasi parimente stimati da' Greci e contemporanei e posteri, e così da' latini e dagli altri in perpetuo ec. (8. Ott. 1823.).