Eleganza nelle scritture.
Elegance in writing.
1312,2 1323,segg. 1336,2 1434,12 1435,1 1456,2 1579,3 1806,3 1845,1 1900,2 1916,1 1917,2 1937,1 2012,2 2075,1 2130,2 2357 2418-9 2500,2 2578,22578,1 2639,1 2661,2 2700,1 2836,2 3633,1 3863,2 3866,1 4066,1 4214,3 4216,1[1312,2]
Alla p. 1226 marg.
fine. Se attentamente riguarderemo in che soglia consistere l'eleganza
delle parole, dei modi, delle forme, dello stile, vedremo quanto sovente {anzi sempre} ella consista nell'indeterminato, {(v. in tal proposito quello che altrove ho detto p.
61 circa un passo di Orazio)}
{+v. p. 1337. principio.} o in qualcosa d'irregolare, cioè
nelle qualità contrarie a quelle che principalmente si ricercano nello scrivere
didascalico {o dottrinale.} Non nego io già che questo
non sia pur suscettibile di eleganza, massime in quelle parti dove l'eleganza
non fa danno alla precisione, vale a dire massimamente nei modi e nelle forme. E
di questa associazione
1313 della precisione
coll'eleganza, è splendido esempio lo stile di Celso, e fra' nostri, di Galileo. Soprattutto poi conviene allo scrivere
didascalico la semplicità (che si ammira massimamente nel primo di detti
autori), la quale dentro i limiti del conveniente, è sempre eleganza, perch'è
naturalezza. Bensì dico che piuttosto la filosofia e le scienze, che sono opera
umana, si possono piegare e accomodare alla bella letteratura ed alla poesia,
che sono opera della natura, di quello che viceversa. E perciò ho detto pp.
1228-29
p.
1231 che dove regna la
filosofia, quivi non è poesia. La poesia, dovunque ella è, conviene che regni, e
non si adatta, perchè la natura ch'è sua fonte non varia secondo i tempi, nè
secondo i costumi o le cognizioni degli uomini, come varia il regno della
ragione. (13. Luglio 1821.).
[1322,1] Ho detto altrove pp. 198-203 che la grazia deriva bene spesso (e forse
sempre) dallo straordinario nel bello, e da uno straordinario che non distrugga
il bello. Ora aggiungo la cagione di questo effetto. Ed è, non solamente che lo
straordinario ci suol dare sorpresa, e quindi piacere, il che non appartiene al
discorso della grazia; ma che ci dà maggior sorpresa e piacere il veder che
quello straordinario non nuoce al bello, non distrugge il conveniente e il
regolare, nel mentre che è pure straordinario, e per se stesso irregolare; nel
mentre che per essere irregolare e straordinario, dà risalto a quella bellezza e
convenienza: e insomma il vedere una bellezza e una convenienza non ordinaria,
{{e}} di cose che non paiono poter convenire; una
bellezza e convenienza diversa dalle altre e comuni. Esempio. Un naso affatto
mostruoso, è tanto irregolare, che distrugge la regola, e quindi la convenienza
e la bellezza. Un naso come quello della Roxolane di Marmontel, è irregolare, e tuttavia non
distrugge il bello nè il conveniente, benchè per se stesso sia sconveniente; ed
ecco la grazia, e gli effetti mirabili di questa grazia, descritti festivamente
da
1323
Marmontel, e soverchianti quelli
d'ogni bellezza perfetta. {V. p. 1327.
fine.} Se osserveremo bene in che cosa consista
l'eleganza delle scritture, l'eleganza di una parola, di un modo ec. vedremo
ch'ella sempre consiste in un piccolo irregolare, o in un piccolo straordinario
o nuovo, che non distrugge punto il regolare e il conveniente dello stile o
della lingua, anzi gli dà risalto, e risalta esso stesso; e ci sorprende che
risaltando, ed essendo non ordinario, o fuor della regola, non disconvenga; e
questa sorpresa cagiona il piacere e il senso dell'eleganza e della grazia delle
scritture. {+(Qui discorrete
degl'idiotismi ec. ec.)} Il pellegrino delle voci o dei modi, se è
eccessivamente pellegrino, o eccessivo per frequenza ec. distrugge l'ordine, la
regola, la convenienza, ed è fonte di bruttezza. Nel caso contrario è fonte di
eleganza in modo che se osserverete lo stile di Virgilio o di Orazio, modelli di eleganza a tutti secoli, vedrete che l'eleganza
loro principalissimamente e generalmente consiste nel pellegrino dei modi e
delle voci, o delle loro applicazioni a quel tal uso, luogo, significazione, nel
pellegrino delle metafore ec. Cominciando
1324 dal
primo verso sino all'ultimo potrete far sempre la stessa osservazione.
[1336,2] In proposito e in prova di quanto ho detto p. 1322. - 28. che la
grazia deriva dallo straordinario medesimo, che quando è troppo, per un verso o
per un altro, cagiona l'effetto opposto; osservate che l'inusitato nelle
scritture nella lingua, nello stile, è fonte principalissima di affettazione di
sconvenienza, di barbarie, {d'ineleganza,} e di
bruttezza; e l'inusitato è pur l'unica
fonte dell'eleganza. V. il Monti Proposta ec. vol. 1. par. 1.
Append. p. 215. sotto il mezzo,
1337 seg.
{e la p. 1312.
capoverso ult.}
(17. Luglio 1821.)
[1434,2] In uno stesso tempo e nazione, quegli prova un vivo
senso di eleganza, in tale o tal parola, o metafora, o frase, o stile, perocchè
non v'è assuefatto; questi nessuno, per la contraria ragione. Una stessa
persona, oggi prova gran gusto di eleganza in uno scrittore, che alquanto dopo,
quand'egli s'è avvezzato ad altri scritti più eleganti, non gli pare elegante
per nulla, anzi forse inelegante. Così è accaduto a me, circa l'eleganza degli
scrittori italiani. Così coll'assuefazione (e non altro) si forma il gusto, il
quale come ci tende capaci di molti piaceri, che per l'addietro malgrado la
presenza degli
1435 stessi oggetti ec. non provavamo,
così anche ci spoglia di molti altri che provavamo, e generalmente, o almeno
bene spesso, e sotto molti aspetti, ci rende più difficili al piacere. (1.
Agosto. 1821.).
[1435,1] Il piacere che si prova della purità della lingua in
uno scrittore, è un piacere fattizio, che non nasce se non dopo le regole, e
quando è più difficile il conservare detta purità, ed essa meno spontanea e
naturale. I trecentisti ne se doutoient point di
questo piacere ne' loro scrittori, che sono il nostro modello a quello riguardo.
E quegli scrittori non pensavano nè di aver questo pregio, nè che questo fosse
un pregio ec. come si può vedere dalle molte parole provenzali, Lombarde,
genovesi, arabe, greche storpiate, {latine} ec. che
adoperavano in mezzo alle più pure italiane. Gl'inglesi la cui lingua non è
stata mai soggettata a più che tanta regola, ed ha mancato e manca di un
Vocabolario autorizzato, forse non
sanno che cosa sia purità di lingua inglese. Questo piacere deriva dal
confronto, e finchè non vi sono
1436 scrittori o
parlatori impuri (riconosciuti per tali, e disgustosi), non si gusta la purità
della lingua, anzi neppur si nomina nè si prescrive, nè si cerca, benchè senza
cercarla, si ottenga. Ho già detto altrove pp. 1325-26 che i
toscani sono meno suscettibili di noi alla purità della lingua toscana, e
infatti se ne intendono assai meno di noi, oggi che vi sono regole, {e che la purità dipende da esse,} e fin da quando esse
nacquero; perch'essi non le sanno, non le curano, e fin d'allora, generalmente
parlando, non le curarono. (Varchi, e
Speroni. V. Monti
Proposta ec. alla v. Becco, nel
Dialogo del Capro.) Tutto ciò accade presso a poco
anche in ordine alla purità dello stile {ec. ec.}
{{(2. Agos. 1821.)}}
[1456,2] Osserviamo nuovamente la forza dell'opinione sul
bello. Ho detto altrove p. 1312
p.
1323
p.
1336 che l'eleganza consiste in qualcosa d'irregolare. Quindi è che
mentre cento eleganze si gustano e piacciono negli scrittori accreditati,
infinite altre che meriterebbero lo stesso nome, e sono della stessa natura, non
paiono eleganze e non piacciono, perchè la loro irregolarità si trova in autori
non abbastanza accreditati, ancorchè sieno di vero merito, p. e. se sono
moderni, onde non possono avere l'
1457 autorità de'
secoli in loro favore. Anzi quelle stesse locuzioni, metafore, ec. ec. che
trovate in un autore accreditato ci daranno sapor di eleganza, trovate in autore
non accreditato ci daranno sapor di rozzezza, d'ignoranza, di ardire
irragionevole, di sproposito, di temerità ec. se non ci ricorderemo che quelle
hanno per se l'autorità di uno scrittore stimato. E ricordandocene in quel
momento, o anche dopo pronunziato il giudizio della mente, lo muteremo subito, e
troveremo effettivo gusto in quello che ci aveva dato effettivo disgusto. Il
qual effetto è frequentissimo negli studi di letteratura, e può stendersi a
considerazioni di molti generi, intorno al piacere che deriva dall'imitazione
del buono e classico, e bene spesso dalla sua contraffazione. Piacere non
naturale nè assoluto, ma secondario e fattizio, e pur vero piacere: anzi tanto
vero che la lettura dei classici, secondo me, non ha potuto mai dare agli
antichi quel piacere che dà a noi, e parimente i classici
1458 contemporanei non ci daranno mai nè tanto gusto quanto gli
antichi (cosa certissima), nè quanto ne daranno ai posteri. (6. Agos.
1821.).
[1579,3] Per un esempio e in conferma di quanto ho detto
altrove p. 1420
pp.
1434. sgg.
pp. 1449-50
pp.
1456-57, che l'eleganza, la grazia ec. dello scrivere antico, la
semplicità de' concetti e de' modi, la purità ec. della lingua, sono o in tutto
o in parte piaceri artifiziali, dipendenti dall'assuefazione e dall'opinione,
relativi ec. e fanno maggior effetto in noi, e ci piacciono più che agli stessi
antichi, a quegli stessi scrittori che ci recano oggidì tali piaceri ec. ec. si
può addurre il Petrarca,
1580 e il disprezzo in che egli teneva i suoi scritti
volgari, apprezzando i latini che più non si curano. Egli certo non sentiva in
quella lingua illetterata e spregiata ch'egli maneggiava, in quello stile
ch'egli formava, la bellezza, il pregio e il piacere di quell'eleganza, di
quella grazia, naturalezza, semplicità, nobiltà, forza, purità che noi vi
sentiamo a prima giunta. Egli non si credeva nè puro (in una lingua tutta impura
e barbara come giudicavasi la italiana, corruzione della latina) nè nobile, nè
elegante ec. ec. L'opinione, l'assuefazione ec. o piuttosto la mancanza di esse
glielo impedivano. (28. Agos. 1821.).
[1806,3] Una parola {o frase}
difficilmente è elegante se non si apparta in qualche modo dall'uso volgare.
Intendo che difficilmente le converrà l'attributo di elegante, non già ch'ella
debba perciò essere inelegante, e che una
1807
scrittura elegante, si debba comporre di sole voci e frasi segregate dal volgo.
Le parole antiche (non anticate) sogliono riuscire eleganti, perchè tanto rimote
dall'uso quotidiano, quanto basta perchè abbiano quello straordinario e
peregrino che non pregiudica nè alla chiarezza, nè alla disinvoltura, e
convenienza loro colle parole e frasi moderne.
[1845,1] Moltissime parole si trovano, comuni a più lingue, o
perchè derivate da questa a quella, ed immedesimate con lei, o perchè venute da
origine comune, le quali parole in una lingua sono eleganti, in
un[un'] altra no; in una affatto nobili anzi
sublimi, in un'altra affatto pedestri. Così dico delle frasi ec. Unica ragione è
la differenza dell'uso, e delle assuefazioni. Noi italiani possiamo facilmente
osservare
1846 nella lingua spagnuola, la più affine
alla nostra che esista, e di maniera che tanta affinità e somiglianza non si
trova forse fra due altre lingue colte; non poche parole e frasi {+o significazioni, o metafore ec.}
proprie della sola poesia, che nella nostra son proprie della sola prosa, e
viceversa: parte derivate dalla comune madre di ambe le lingue, parte dalla
italiana alla spagnuola, parte viceversa. Così pure possiamo osservar noi, e
possono pur gli spagnuoli, non poche altre notabilissime differenze di nobiltà
di eleganza di gusto ec. in parole e frasi comuni ad ambe le lingue nella
medesima significazione. Similmente discorrete dell'inglese e del tedesco, del
francese rispetto alle tante lingue che han preso da lei, o rispetto alle due
sue sorelle ec. del greco ancora rispetto al latino ec. (5. Ott.
1821.).
[1900,2] Non solo l'eleganza, ma la nobiltà la grandezza,
tutte le qualità del linguaggio poetico, anzi il linguaggio poetico esso stesso,
consiste, se ben l'osservi, in un modo di parlare indefinito, o non ben
definito, o sempre
1901 meno definito del parlar
prosaico o volgare. Questo è l'effetto dell'esser diviso dal volgo, e questo è
anche il mezzo e il modo di esserlo. Tutto ciò ch'è precisamente definito, potrà
bene aver luogo {talvolta} nel linguaggio poetico,
giacchè non bisogna considerar la sua natura che nell'insieme, ma certo
propriamente parlando, e per se stesso, non è poetico. Lo stesso effetto e la
stessa natura si osserva in una prosa che senza esser poetica, sia però sublime,
elevata, magnifica, grandiloquente. La {vera} nobiltà
dello stile prosaico, consiste essa pure {costantemente} in non so che d'indefinito. Tale suol essere la prosa
degli antichi, greci e latini. E v'è non pertanto assai notabile diversità fra
l'indefinito del linguaggio poetico, e quello del prosaico, oratorio ec.
[1916,1] Molte parole che in una lingua sono triviali e
volgari, molte applicazioni o di parole o di frasi che in quel tal senso sono
ordinarissime nella lingua da cui si prendono, riescono elegantissime e
nobilissime ec. trasportandole in un'altra lingua, a causa del pellegrino.
Questo è ciò che accade a noi spessissimo trasportando nell'italiano, voci o
frasi latine. Sarebbe ben poco accorto chi trovandole volgari e dozzinali in
latino, le credesse per ciò tali in italiano. Se in latino sono comuni e plebee,
in italiano possono essere del tutto divise dal volgo e nobilissime.
Elegantemente il Petrarca nel Proemio:
1917
Ma ben veggi'or sì come al popol tutto
Favola fui gran tempo. *
E pur questa frase potè ben essere molto, se non altro usitata, anche nel parlar latino, dove sappiamo che fabulare, e fabula si adopravano comunemente per parlare chiacchierare, giacchè n'è derivato il nostro favellare e favella, e lo spagnuolo fablar, oggi hablar. Ma favola in nostra lingua oggi non vuol dir propriamente altro che novella falsa; ond'è che presa questa voce nel detto senso riesce elegantissima e di più riceve presso noi un'intelligenza quanto significativa, tanto diversa da quella che le davano i latini nella frase simile, dove usurpavano fabula, per favella o ciancia.
Ma ben veggi'or sì come al popol tutto
Favola fui gran tempo. *
E pur questa frase potè ben essere molto, se non altro usitata, anche nel parlar latino, dove sappiamo che fabulare, e fabula si adopravano comunemente per parlare chiacchierare, giacchè n'è derivato il nostro favellare e favella, e lo spagnuolo fablar, oggi hablar. Ma favola in nostra lingua oggi non vuol dir propriamente altro che novella falsa; ond'è che presa questa voce nel detto senso riesce elegantissima e di più riceve presso noi un'intelligenza quanto significativa, tanto diversa da quella che le davano i latini nella frase simile, dove usurpavano fabula, per favella o ciancia.
[1917,2] Moltissime volte o l'eleganza o la nobiltà (quanto
alla lingua) deriva
1918 dall'uso metaforico delle
parole o frasi, quando anche, come spessissimo e necessariamente accade, il
metaforico appena o punto si ravvisi. Moltissime volte per lo contrario deriva
dalla proprietà delle stesse parole o frasi, quando elle non sono usitate nel
senso proprio, o quando non sono comunemente usitate in nessun modo, o essendo
usitate nella prosa non lo sono nella poesia, o viceversa, o in un genere di
scrittura sì, in altra no, ec. (La precisione sola non può mai produrre nè
eleganza nè nobiltà, nè altro che precisione e angolosità di stile.). {{V. p. 1925. fine.}}
[1937,1] Quando si comincia a gustare una nuova lingua, le
cose che più ci piacciono e ci rendono sapor di eleganza, sono quelle proprietà,
quelle facoltà, modi, forme, metafore, usi di parole o di locuzioni, che si
allontanano dal costume e dalla natura della nostra lingua, senza però esserle
contrarie, e senza discostarsene di troppo. {(Così anche nel pronunziare o nel
sentir pronunziare una lingua straniera, ci piacciono più di tutto quei
suoni che non sono propri della nostra, o del nostro costume, nel qual
proposito v. la p. 1965.
fine.} (Ecco appunto la natura della grazia: lo
straordinario fino a un certo segno, e in modo ch'egli faccia colpo senza choquer le nostre assuefazioni ec.) {+Questo ci accade nel leggere, nel parlare
nello scrivere quella tal lingua. (In tutti tre i casi però può aver luogo
un'altra sorgente di piacere, cioè l'ambizione o la compiacenza di sapere
intendere o adoperare quelle tali frasi, di parer forestiere a se stesso, di
aver fatto progressi, vinto le difficoltà ec.)} E ciò accade quando
anche in quella lingua o in quel caso, quelle tali forme non sieno per verità
eleganti. E dove noi vediamo una decisa e per noi eccessiva conformità colla
nostra lingua, quivi noi proviamo un senso
1938 di
trivialità ed iẽleganza[ineleganza], quando
anche ella sia tutto l'opposto: come alla prima giunta ci accade
nell'elegantissimo Celso, il quale ha
molti modi ed si similissimi all'indole italiana: e così spesso ci accade negli
scrittori latini antichi, o moderni massimamente (perchè questi non hanno in
favor loro la prevenzione, e la certezza che dicono bene.) (17. Ott.
1821.). {{V. p.
1965.}}
[2012,2] Non bisogna confondere la purità {della lingua} la quale è di debito in tutte le scritture di qualunque
nazione, coll'eleganza, la quale non è di debito se non in alcune
2013 scritture, ed in altre non solo non necessaria ma
impossibile; nè perchè la lingua italiana è capacissima di eleganza, e perchè ne
sentiamo un grandissimo sapore nella più parte de' nostri buoni scrittori,
credere che gli scritti didascalici ec. se e dove non ci riescono eleganti, non
sieno italiani. Torno a dire che la precisione moderna ch'è estrema, e che in tali scritti e generi è
di prima necessità, e che oggi si ricerca sopra tutte le qualità ec. è
assolutamente di sua natura incompatibile colla eleganza: ed infatti il nostro
secolo che è quello della precisione, non è certo quello della eleganza in
nessun genere. Bensì ell'è compatibilissima colla purità, come si può vedere in
Galileo, che dovunque è preciso e
matematico quivi non è mai elegante, ma sempre purissimo italiano. Perocchè la
nostra lingua, come qualunque altra è incapace di uno stile
2014 che abbia due qualità ripugnanti e contrarie essenzialmente, ma è
capacissima dello stile preciso, non meno che dell'elegante, a somiglianza della
greca, e al contrario della francese, ch'essendo capacissima di precisione è
incapace di eleganza (quella che noi, i latini i greci intendevano per
eleganza), e della latina, capacissima di eleganza e incapace di precisione, e
però corrotta appena fu applicata alle sottigliezze teologiche, scolastiche ec.
(fra le quali fu allevata per lo contrario la nostra, e crebbe la greca) ed
anche a quelle della filosofia greca, dopo Cicerone; e quindi affatto inadattabile alle cose moderne, ed alle
traduzioni di cose moderne. (30. Ott. 1821.)
[2075,1] Molte volte riescono eleganti delle parole
corrottissime e popolarissime, e ineleganti o meno eleganti delle altre
incorrotte o meno corrotte, e meno popolari. Per es. commessi in vece di commisi, potrà riuscire
più elegante in una scrittura, benchè sia una pura corruzione di commisi che viene dirittamente dal commisi latino. Ma questa corruzione sebben popolare,
essendo antica, ed avendo cessato oggi di essere in uso frequente, o presso il
popolo, o presso gli scrittori, e trovandosi ne' buoni scrittori antichi, essa
riesce, in una scrittura, elegante perchè fuori dell'ordinario, e più elegante
di commisi (ch'è incorrotto) perciò appunto che questo
è in uso commune, e che nell'uso la parola più antica; e non corrotta ha
prevaluto alla corrotta, così che la più moderna e corrotta, viene a parere più
antica e meno ordinaria della stessa antica. E quante volte le eleganze non
derivano e non sono altro
2076 che pure corruzioni di
voci, frasi ec. ec. ec. E chi perciò le condannasse, o stimasse più eleganti le
corrispondenti voci o frasi incorrotte, e più regolari, più corrispondenti
all'etimologia ec. non saprebbe che cosa sia eleganza per sua natura. ec.
(9. Nov. 1821.).
[2130,2] Pare sproposito, e pure è certo che una lingua è
tanto più atta alla più squisita eleganza e nobiltà del parlare il più elevato,
e dello stile più sublime, quanto la sua indole è più popolare, quanto ella è
più modellata sulla favella domestica e familiare
2131
e volgare. Lo prova l'esempio della lingua greca e italiana e il contrario
esempio della Francese. La ragione è, che sola una tal lingua è suscettibile di
eleganza, la quale non deriva se non dall'uso peregrino e ardito e figurato e
non logico, delle parole e locuzioni. Ora quest'uso è tutto proprio della
favella popolare, proprio per natura, proprio in tutti i climi e tempi, ma
soprattutto ne' tempi antichi, o in quelle nazioni che più tengono dell'antico,
e ne' climi meridionali. Quindi è che lo stesso esser popolare per indole, dà ad
una lingua la facoltà e la facilità di dividersi totalmente dal volgo e dalla
favella parlata, e di non esser popolare, e di variar tuono a piacer suo, e di
essere energica, nobile, sublime, ricca, bella, tenera ogni
volte[volta] che le piace. Insomma l'indole
popolare di una lingua rinchiude tutte le qualità delle quali una lingua umana
possa esser capace (siccome la natura rinchiude tutte le qualità e facoltà di
cui l'
2132 uomo o il vivente è suscettibile, ossia le
disposizioni a tutte le facoltà possibili); rinchiude il poetico come il logico
e il matematico ec. (siccome la natura rinchiude la ragione): laddove una lingua
d'indole modellata sulla conversazione civile, o sopra qualunque gusto,
andamento ec. linguaggio ec. di convenzione, non rinchiude se non quel tale
linguaggio e non più (siccome la ragione non rinchiude la natura, nè vi dispone
l'uomo, anzi la esclude precisamente), secondo che vediamo infatti nella lingua
latina, e molto più nella francese, proporzionatamente alle circostanze che asservissent e legano quest'ultima al suo modello ec.
molto più che la latina ec. (20. Nov. 1821.).
[2355,2] Noi diciamo leccare, i
francesi lécher, (gli spagnuoli vedilo), i greci
λείχειν, i latini nulla di simile. A primissima giunta è manifesto che il greco
λείχω, cioè lecho, o licho è
tuttuno col nostro lecco, che anche, volgarmente, si
dice licco. E notate pure che il francese non dice léquer o lecquer, ma lécher, conservando il χ greco. Queste parole sono
antichissimamente e primitivamente proprie delle nostre lingue. Sono
volgarissime, anzi plebee; nè s'usa altra voce nel linguaggio familiare per
dinotare la stessa azione.
2356 Antichissima e
proprissima della lingua greca è la voce λείχω. Come dunque questa conformità
fra l'antichissimo greco, e il modernissimo, vivente, ed usualissimo italiano,
francese ec? Non è egli evidente che leccare, lécher ec. ci viene dal volgare latino? E da qual
altra fonte che da un volgare ci può esser venuta una parola sì volgare, e
propria del nostro più familiare discorso? E qual altro volgare che il latino
può ed avere avuta questa parola greca, usandola volgarmente, ed averla
comunicata a queste due lingue moderne, nate l'una separatamente dall'altra? Ma
come potè nel volgare latino divenire sì familiare, e conservarsi poi sino
all'ultimo, un'[un] antichissimo verbo greco?
Certo il volgo latino non istudiava il greco, e più grecizzanti erano i nobili
che la plebe. È dunque manifesto che tal verbo deriva niente meno che da quella
primitiva sorgente da cui vennero il greco e il latino (volgari tutti due quando
nacquero, come son tutte le lingue); e che perduto poi, o escluso dalle polite
scritture, e dal linguaggio nobile, come tante altre,
2357 (e come accade appunto nell'italiano che
parecchie voci volgari benchè derivate dalla purissima latinità, cioè dalla
nostra madre, si escludono dalle polite scritture o discorsi, perchè appunto
fatte troppo familiari dall'uso quotidiano della plebe, ec. e si antepongono
altre d'origine o di forma corrottissima) si conservò perpetuamente nel
popolare. Ed appunto qui possiamo osservare un esempio di ciò che ho detto nella
parentesi, poichè lingo
(v. il Forcell.) non è che corruzione
di λείχω, o lecho, o licho;
pur quello fu adottato nelle scritture, questo escluso, benchè certo esistesse
nella lingua latina, come abbiamo veduto. V.
il Ducange in Lecator, e nota anche Licator sì quivi
in un esempio, come al suo luogo. (23. Gen. 1822.).
[2415,3] Una lingua non è bella se non è ardita, e in ultima
analisi troverete che in fatto di lingue, bellezza è lo stesso che ardire. E che altro sarebb'ella? L'armonia ec. del suono delle parole?
Quest'è una bellezza affatto esterna, e della quale poco o nulla si può
convenire, essendo diversissime in questo genere le opinioni e i gusti, secondo
le nazioni e i secoli. Per noi è bruttissimo il suono delle parole orientali, e
per gli orientali altrettanto sarà delle nostre. E parlando esattamente che cosa
intendiamo noi dell'armonia della lingua greca che pur chiamiamo bellissima? Che
sentimento, che gusto
2416 ne proviamo noi, se non, per
dir poco, incertissimo, confusissimo, e superficialissimo? Certo è che l'armonia
della lingua nostra, qualunque ella sia, ed ancorchè asprissima, ci diletta, ed
è sentita da noi molto più che quella della lingua greca, e quindi non avremmo
alcuna ragione di preferir questa lingua per la bellezza, neppure alla tedesca,
o alla russa. Forse la bellezza consisterà nella ricchezza? Ricchezza di frasi e
di modi non si dà se non in una lingua ardita, perchè di forme esatte e
matematiche, tutte le lingue ne sono o ne possono essere egualmente ricche nè
più nè meno: e questa ricchezza non può molto stendersi, essendo limitatissima
per natura sua: giacchè la dialettica poco può variare, anzi derivando da
principii uniformi e semplicissimi, tende e produce naturalmente somma
uniformità e semplicità di dicitura. La ricchezza poi di parole puramente, giova
alla bellezza, ma non basta di gran lunga; ed anch'essa è una qualità quasi
estrinseca, e senza quasi accidentale alla lingua, la quale senza punto punto
alterarsi, o scomporsi in niun
2417 modo può essere ed
è, oggi più abbondante di parole, domani meno, secondo le circostanze nazionali,
commerciali, politiche, scientifiche ec. Infatti la lingua francese è in verità
ricchissima di parole, massime in filosofia, scienze, conversazione,
manifatture, e in ogni uso e materia di società, di commercio ec. ec. e non per
questo è bella, nè più bella dell'italiana, e neanche della spagnuola. La vera e
non accidentale, ma essenziale bellezza di una lingua, quella che non si può
perdere, se la lingua non si corrompe formalmente, è una bellezza intrinseca, e
spetta all'indole della lingua; e questa non può consistere in altro che
nell'ardire. Or questo ardire che cos'è, fuorchè la libertà di non essere esatta
e matematica? Giacchè quanto all'esattezza, torno a dire, tutte le lingue ne
sono egualmente capaci, e tutte per mezzo suo posson divenire, e diverrebbero
uniformi affatto nell'indole, essendo la ragione, una; e non trovandosi varietà
se non se nella natura. Quindi se lingua
bella è lingua ardita e libera, ella è parimente lingua
non esatta, e non obbligata
2418 alle regole
dialettiche delle frasi, delle forme, e generalmente del discorso.
Osservate tutte le lingue chiamate belle, antiche e moderne, greca, latina,
italiana, spagnuola: in tutte troverete non altra bellezza propriamente che
ardire, e questo ardire non posto in altro che nelle cose sopraddette. Osservate
anche gli scrittori chiamati belli ed eleganti in ciascuna di tali lingue, e
paragonateli con quelli che non lo sono. Osservate per se, ciascuna frase, forma
ec. chiamata bella ed elegante, e paragonatela ec. Non v'è lingua bella che non
sia lingua poetica, cioè non solo capace, anzi posseditrice d'una lingua
distintamente poetica (come l'hanno tutte le suddette, e come non l'ha la
francese), ma poetiche, generalmente parlando, eziandio nella prosa, benchè
senza affettazione; vale a dir poetiche in quanto lingue, e non quanto allo
stile, come sono sconciamente, e discordantissimamente poetiche tutte le prose
francesi. Or lingua poetica, è lingua non matematica,
2419 anzi contraria per indole allo spirito matematico. (La sascrita,
riputata bellissima fra le orientali, è notatamente arditissima e
poeticissima.)
[2500,2] Per qual cagione il barbarismo reca inevitabilmente
agli scritti tanta trivialità di sapore, e ripugna sì dirittamente all'eleganza?
Intendo per barbarismo l'uso di parole o modi stranieri, che non sieno affatto
alieni e discordi dall'indole della propria lingua, e degli orecchi nazionali, e
delle abitudini ec. Perocchè
2501 se noi usassimo p. e.
delle costruzioni tedesche, o delle parole con terminazioni arabiche o indiane,
o delle congiugazioni ebraiche o cose simili, non ci sarebbe bisogno di cercare
perchè questi barbarismi ripugnassero all'eleganza, quando sarebbero in
contraddizione e sconvenienza col resto della favella, e cogli abiti nazionali.
Ma intendo di quei barbarismi quali sono p. e. nell'italiano i gallicismi (cioè
parole o modi francesi italianizzati, e non già trasportati p. e. colle stesse
forme e terminazioni e pronunziazioni francesi, chè questo pure sarebbe fuor del
caso e della quistione). E domando perchè il barbarismo così definito e inteso,
distrugga affatto l'eleganza delle scritture.
[2578,1] La lingua latina ebbe un modello d'altra lingua
regolata, ordinata, e stabilita, su cui formarsi. Ciò fu la greca, la quale non
n'ebbe alcuno. Tutte le cose umane si perfezionano grado per grado. L'aver avuto
un modello, al contrario della lingua greca, fu cagione che la lingua latina
fosse più perfetta della greca, e altresì che fosse meno libera. (Nè più nè meno
dico delle letterature greca e latina rispettivamente; questa più perfetta,
quella più originale e indipendente e varia.) I primi scrittori greci, anche
sommi, ed aurei, come Erodoto, Senofonte ec. erano i primi ad applicar
la dialettica, e l'ordine ragionato all'orazione. Non
2579 avevano alcun esempio di ciò sotto gli occhi. Quindi, com'è
naturale a chiunque incomincia, infinite sono le aberrazioni loro dalla
dialettica e dall'ordine ragionato. Le quali aberrazioni passate poi e
confermate nell'uso dello scrivere, sanzionate dall'autorità, e dallo stesso
errore di tali scrittori, sottoposte a regola esse pure, o divenute regola esse
medesime, si chiamarono, e si chiamano, e sono eleganze, e proprietà {della} lingua {greca.} Così è
accaduto alla lingua italiana. La ragione è ch'ella fu molto e da molti scritta
nel 300, secolo d'ignoranza, e che anche allora fu applicata alla letteratura in
modo sufficiente per far considerare quel secolo come classico, dare autorità a
quegli scrittori, {+presi in corpo e in
massa,} e farli seguire da' posteri. I greci o non avevano affatto
alcuna lingua coltivata a cui guardare, o se ve n'era, era molto lontana da
loro, come forse la sascrita, l'egiziana, ec. e poco o niente nota, neanche ai
loro più dotti. Gl'italiani n'avevano, cioè la
2580
latina e la greca. Ma quel secolo ignorante non conosceva la greca, pochissimo
la latina, massime la latina buona e regolata. {+(Fors'anche molti conoscendo passabilmente il latino, e
fors'anche scrivendolo con passabile regolatezza, erano sregolatissimi in
italiano, per incapacità di applicar quelle regole a questa lingua, che
tutto dì favellavano sregolatamente; di conoscere o scoprire i rapporti
delle cose ec.)} Quei pochi che conobbero un poco di latino, scrissero
con ordine più ragionato, come fecero principalmente i frati, Passavanti, F.
Bartolommeo, Cavalca ec.
Dante, e più ancora il Petrarca e il Boccaccio che meglio di tutti conoscevano il buono e
vero latino, meno di tutti aberrarono dall'ordine dialettico dell'orazione.
Questi principalmente diedero autorità presso i posteri a' loro scrittori
contemporanei, la massima parte ignoranti, non solo di fatto, ma anche di
professione laici e illetterati, e che
non pretendevano di scrivere se non per bisogno, come i nostri castaldi. I quali
abbondarono di sragionamenti, e disordini gramaticali d'ogni sorta.
[2639,1] Ho detto altrove pp. 1806. sgg.
pp.
2500. sgg. che gran parte delle voci che in poesia si chiamano
eleganti, e si tengono per poetiche, non sono tali, se non per esser fuori
dell'uso comune e familiare, nel quale già furono una volta (o furono certo
nell'uso degli scrittori in prosa); e conseguentemente per essere antiche
rispetto
2640 alla moderna lingua, benchè non sieno
antiquate. E ciò principalmente cade nelle voci (o frasi) che sono oggidì esclusivamente poetiche. Ho detto
ancora che per tal cagione, non potendo {i primi} poeti
o prosatori di niuna lingua, aver molte voci nè frasi antiche da usare ne' loro
scritti, e quindi mancando d'un'abbondantissima fonte d'eleganza, è convenuto
loro tenersi per lo più allo stile familiare, come familiarissimo è il Petrarca ec., e sono stati incapaci
dell'eleganza Virgiliana.
[2661,2]
E pensatamente io
chiamai figura non tutto quello, che si diparte dalla prima formazion
della lingua, ma dal più ordinario modo de' parlatori presenti.
Imperocchè ciò che fu figura in un tempo,
2662
non riman poi figura quando è sì accomunato dall'uso, che divien la più
trivial maniera del linguaggio usitato, dipendendo i linguaggi
dall'arbitrio degli uomini, tanto nell'introdursi, quanto
nell'alterarsi; ed essendo i Gramatici non legislatori, come alcun
pensa, ma compilatori di quelle Leggi che per avanti la Signoria
dell'Uso ha prescritte.
*
Trattato dello stile e del dialogo
del Padre Sforza Pallavicino
della Compagnia di Gesù. Capo 4. Modena 1819. p.
22. (26. Dicembre; festa di Santo Stefano Protomartire. 1822.)
[2700,1] La cagione per cui negli antichissimi scrittori
latini si trova maggiore conformità e di voci e di modi colla lingua italiana,
che non se ne trova negli scrittori latini dell'aureo secolo, e tanto maggiore
quanto sono più antichi, si è che i primi scrittori di una lingua, mentre non
v'è ancora lingua illustre, o non è abbastanza formata, divisa dalla plebea,
fatta propria della scrittura, usano un più gran numero di voci, frasi, forme
plebee, idiotismi ec. che non fanno gli scrittori seguenti; sono in somma più
vicini al plebeo da cui le lingue scritte per necessità incominciano, e da cui
si vanno dividendo solamente appoco appoco, usano una più gran parte della
lingua plebea ch'è la sola ch'esista allora nella nazione, o che
2701 non è abbastanza distinta dalla lingua nobile e
cortigiana ec. sì perchè quella lingua che si parla (com'è la cortigiana) tien sempre più o meno della plebea; sì
perchè allora i cortigiani ec. non hanno l'esempio e la coltura derivante dalle
Lettere nazionali e dalla lingua nazionale scritta, per parlare molto
diversamente dalla plebe. Ora l'unica lingua che possano seguire e prendere in
mano i primi scrittori di una lingua, si è la parlata, giacchè la scritta ancor
non esiste. E siccome la lingua italiana e le sue sorelle non derivano dal
latino scritto ma dal parlato, e questo in gran parte non illustre, ma
principalmente dal plebeo e volgare, quindi la molta conformità di queste nostre
lingue cogli antichissimi e primi scrittori latini. Vedi un luogo di Tiraboschi appresso Perticari, Apologia di Dante, capo 43.
pag. 430. (20. Maggio 1823).
[2836,2] Ho mostrato altrove p. 1808
p. 2640 che i poeti e gli scrittori primitivi {di
qualunque lingua} non potevano mai essere eleganti {quanto alla lingua,} mancando loro la {principal} materia di questa eleganza, che sono le parole e modi
rimoti dall'uso comune, i quali ancora non esistevano nella lingua, perchè
scrittori e poeti non v'erano stati, da' quali si potessero torre, e i quali
conservassero quelle parole e modi che già furono in uso. Onde {quando una lingua comincia}
{ad essere scritta,} tanto esiste della lingua quanto è
nell'uso comune: tutto quello che già fu in uso, e che poi ne cadde, è
dimenticato, non avendovi avuto chi lo conservasse, il che fanno gli scrittori,
che ancora non vi sono stati. Togliere più che tante parole o forme da quella
lingua la cui letteratura serve di modello alla nuova (come gl'italiani
avrebbero potuto fare dalla lingua latina), è pericoloso in quei principii molto
più che nel séguito (contro quello che si stimano i pedanti), anzi non si può,
perchè quando nasce la letteratura
2837 di una nazione,
questa nazione è naturalmente ignorante, e però lo scrittore o il poeta, così
facendo, non sarebbe inteso, e la letteratura non prenderebbe piede, non si
propagherebbe mai, non crescerebbe, non diverrebbe mai nazionale. {Di più, il poeta sembrerebbe affettato. Vedi in
questo proposito la p.
3015.} Questo medesimo vale anche per le parole
della stessa lingua, rimote più che tanto dall'uso comune, sia per disuso
(seppur lo scrittore stesso o il poeta avesse modo di conoscerle, mancando {fin allora} gli scrittori), sia per qualsivoglia altra
cagione. Bisogna considerare che la nazione in quel tempo è ignorante, e non
istudia, e non leggerebbe quella scrittura o quel poema, benchè scritto in
volgare, le cui parole o modi non fossero alla sua portata, o egli non potesse
capirli senza studiarvi sopra. E poca difficoltà, poca ricercatezza di parole o
di forme basta ad eccedere la capacità de' totalmente ignoranti, quali sono
allora quasi tutti, e degli a tutt'altro avvezzi che allo studio. Ho dunque
detto altrove p. 70
pp. 1808-11
pp. 2639-40 che i poeti e scrittori primitivi tutti o quasi tutti, e
sempre o per lo più, sì nella lingua sì nello stile, tirano al familiare. E
questo viene, sì per adattarsi alla capacità della nazione, sì perchè mancando
loro, come s'è detto, la principal materia dell'
2838
eleganza di lingua, sono costretti a pigliare una lingua domestica e rimessa, e
non volendo che questa ripugni e disconvenga allo stile, sono altresì costretti
di tenere anche questo, per così dire, a mezz'aria, e di familiarizzarlo. Onde
accade che questi tali poeti e scrittori sappiano di familiare anche ai posteri,
quando le loro parole e forme, già divenute abbastanza lontane dall'uso comune,
hanno pure acquistato quel che bisogna ad essere elegantissime, perlochè già
elle come tali s'adoprano dagli scrittori e poeti della nazione, ne' più alti
stili. Ma non essendo elle ancora eleganti a' tempi di que' poeti e scrittori,
questi dovettero assumere un tuono e uno stile adattato a parole non eleganti, e
un'aria, una maniera, nel totale, domestica e familiare, le quali cose ancora
restano, e queste qualità ancora si sentono, come nel Petrarca, benchè l'eleganza sia sopravvenuta alle loro
parole e a' loro modi che non l'avevano, com'è sopravvenuta, e somma, a quei del
Petrarca. Queste considerazioni si
possono fare, e questi effetti si scorgono, massimamente ne' poeti, non solo
perchè gli scrittori primitivi di una lingua e i fondatori di una letteratura
2839 sono per lo più poeti, ma perchè mancando ad
essi la detta materia dell'eleganza niente meno che a' prosatori, questa
mancanza e lo stile familiare che ne risulta è molto più sensibile in essi che
nella prosa, la quale non ha bisogno di voci o frasi molto rimote dall'uso
comune per esser elegante di quella eleganza che le conviene, e deve sempre
tener qualche poco del familiare. Quindi avviene che lo stile del Boccaccio, benchè familiare anch'esso,
massime ad ora ad ora, pur ci sa meno meno familiare, e ci rende più il senso
dell'eleganza e della squisitezza che quello del Petrarca, e dimostra meno sprezzatura, ch'è però nel
Petrarca bellissima. Così è: la
condizione del poeta e del prosatore in quel tempo, quanto ai materiali che si
trovano aver nella lingua, è la stessa (a differenza de' tempi nostri che
abbiamo appoco appoco acquistato un linguaggio poetico tutto distinto): il
prosatore si trova dunque aver poco meno del suo bisogno, e quasi anche tanto
che gli basti a una certa eleganza: il poeta che non si trova aver niente di
più, bisogna che si contenti di uno stile e di una maniera che si accosti alla
prosa. Ed infatti è benissimo definita
2840 la
familiarità che si sente ne' poeti primitivi, dicendo che il loro stile, senza
essere però basso, perchè tutto in loro è ben proporzionato e corrispondente,
tiene della prosa. Come fa l'Eneida del Caro, che quantunque non sia poema
primitivo, pure essendo stato {quasi} un primo tentame
di poema eroico in questa lingua, che ancora non n'era creduta capace, com'esso
medesimo scrive, può dirsi primitivo in certo modo nel genere e nello stile
eroico.
[3633,1] Scriveva Voltaire al Principe Reale di Prussia, poi Federico II. in proposito di una frase di Orazio e del modo in cui Federico l'aveva renduta traducendo in
francese l'ode in ch'ella si trova: Ces expressions sont bien plus nobles en français:
elles ne peignent pas comme le latin, et c'est-là le grand malheur
de notre langue qui n'est pas assez accoutumée aux
détails.
*
(Lettres du Prince Royal de Prusse et de M.
3634 de Voltaire, Lettre
118. le 6 avril 1740. Oeuvres complettes de Frédéric II, roi de Prusse. 1790.
tome 10, p. 500.) Aveva detto Voltaire che l'espressione latina serait très-basse en
français.
*
[3863,2] Accade nelle lingue come nella vita e ne' costumi; e
nel parlare come nell'operare, e trattare con gli uomini (e questa non è
similitudine, ma conseguenza.) Nei tempi e nelle nazioni dove la singolarità
dell'operare, de' costumi ec. non è tollerata, è ridicola ec. lo è similmente
anche quella del favellare. E a proporzione che la diversità dall'ordinario,
maggiore o minore, si tollera o piace, {ovvero} non
piace, non si tollera, è ridicola ec. più o meno; maggiore o minore o niuna
diversità piace, dispiace, si tollera o non si tollera nel favellare. Lasceremo
ora il comparare a questo proposito le lingue antiche colle moderne, e il
considerare come corrispondentemente
3864 alla diversa
natura dello stato e costume delle nazioni antiche e moderne, e dello spirito e
società umana antica e moderna, tutte le lingue antiche sieno o fossero più
ardite delle moderne, e sia proprio delle lingue antiche l'ardire, e quindi esse
sieno molto più delle moderne, per lor natura, atte alla poesia; perocchè tra
gli antichi, dove e quando più, dove e quando meno, ηὐδοκίμει la singolarità
dell'opere, delle maniere, de' costumi, de' caratteri, degl'istituti delle
persone, e quindi eziandio quella del lor favellare e scrivere. La nazion
francese, che di tutte l'altre sì antiche sì moderne, è quella che meno approva,
ammette e comporta, anzi che più riprende ed odia e rigetta e vieta, non pur la
singolarità, ma la nonconformità dell'operare e del conversare nella vita
civile, de' caratteri delle persone ec.; la nazion francese, dico, lasciando le
altre cose a ciò appartenenti, della sua lingua e del suo stile; manca affatto
di lingua poetica, e non può per sua natura averne, perocchè ella deve
naturalmente inimicare e odiare, ed odia infatti, come la singolarità delle
azioni ec. così la singolarità del favellare e scrivere. Ora il parlar poetico è
per sua natura diverso dal parlare ordinario. Dunque esso ripugna per sua natura
alla natura della società e della nazione francese. E di fatti la lingua
francese è incapace, non solo di quel peregrino che nasce dall'uso di voci,
modi, significati tratti da altre lingue,
3865 o dalla
sua medesima antichità, anche pochissimo remota, ma eziandio di quel peregrino e
quindi di quella eleganza che nasce dall'uso non ordinario delle voci e frasi
sue moderne e comuni, cioè di metafore non trite, di figure, sia di sentenza,
sia massimamente di dizione, di ardiri di ogni sorta, anche di quelli che non
pur nelle lingue antiche, ma in altre moderne, come p. e. nell'italiana,
sarebbero rispettivamente de' più leggeri, de' più comuni, e talvolta neppure
ardiri. Questa incapacità si attribuisce alla lingua; ella in verità è della
lingua, ma è acora della nazione, e non per altro è in quella, se non perch'ella
è in questa. Al contrario la nazion tedesca, che da una parte per la sua
divisione e costituzion politica, dall'altra pel carattere naturale de' suoi
individui, pe' lor costumi, usi ec. {+per
lo stato presente della lor civiltà, che siccome assai recente, non è in
generale così avanzata come in altri luoghi,} e finalmente per la
rigidità del clima che le rende naturalmente propria la vita casalinga, e
l'abitudine di questa, è forse di tutte le moderne nazioni civili la meno atta e
abituata alla società personale ed effettiva; sopportando perciò facilmente ed
anche approvando e celebrando, non pur la difformità, ma la singolarità delle
azioni, costumi, caratteri, modi ec. delle persone (la qual
singolata[singolarità] appo loro non ha
pochi nè leggeri esempi di fatto, anche in città e corpi interi, come in quello
de' fratelli moravi, e in altri molti istituti ec. ec. tedeschi, che per verità
non hanno
3866 punto del moderno, e parrebbero
impossibili a' tempi nostri, ed impropri affatto di essi), sopporta ancora, ed
ammette e loda ec. una grandissima singolarità d'ogni genere nel parlare e nello
scrivere, ed ha la lingua, non pur nel verso, ma nella prosa, più ardita {per sua natura} di tutte le moderne colte, e pari {in questo} eziandio alla più ardita delle antiche. La
qual lingua tedesca per conseguenza è poetichissima e {capace
e} ricca d'ogni varietà ec. (11. Nov. 1823.).
[3866,1] Il pellegrino e l'elegante che nasce dall'introdurre
nelle nostre lingue voci, modi, e significati tolti dal latino, è quasi della
stessa natura ed effetto con quello che nasce dall'uso delle nostre proprie
voci, modi e significati antichi, o passati dall'uso quotidiano, volgare,
parlato ec. Perocchè siccome queste, così quelle (e talor più delle seconde, che
siccome erano, così conservano talvolta del barbaro della {loro} origine o dell'incolto di que' tempi che le usarono {ec.}) hanno sempre (quando sieno convenientemente
scelte, ed atte alle lingue ove si vogliono introdurre) del proprio e del
nazionale, quando anche non sieno mai per l'addietro state parlate nè scritte in
quella tal lingua. E ciò è ben naturale, perocch'esse son proprie di una lingua
da cui le nostre sono nate ed uscite, e del cui sangue e delle cui ossa {queste} sono formate. Onde queste tali voci {ec.} spettano in certo modo all'antichità delle nostre
lingue, e riescono in queste quasi come lor {proprie}
voci antiche. Sicchè non è senza ragione verissima, se biasimando l'uso o
introduzione di voci ec. tolte dall'altre lingue, sieno antiche sieno moderne,
(eccetto le voci ec. già naturalizzate) lodiamo quella delle voci {ec.} latine. Perocchè quelle a differenza di queste,
sono come di sangue, così di {aspetto e di} effetto
straniero, e diverso
3867 da quello delle altre nostre
voci, e delle nostre lingue in genere, e del loro carattere ec. La novità tolta
{prudentemente} dal latino, benchè novità
assolutissima in fatto, è per le nostre lingue piuttosto restituzione
dell'antichità che novità, piuttosto peregrino che nuovo; e veramente (anche
quando non sia troppo prudente nè lodevole) ha più dell'arcaismo che del
neologismo. Al contrario dell'altre novità, e degli altri stranierismi ec. E per
queste ragioni, oltre l'altre, è ancor ragionevole e consentaneo che la lingua
francese sia, com'è, infinitamente men disposta ad arricchirsi di novità tolta
dal latino, che nol son le lingue sorelle. Perocchè essa lingua è molto più di
queste sformata e diversificata dalla sua origine, degenerata, allontanata ec.
Onde quel latinismo che a noi sarebbe convenientissimo e facilissimo perchè
consanguineo {e materno} ec. alla lingua francese,
tanto mutata dalla sua madre, riescirebbe affatto alieno e straniero e non
materno ec. Meglio infatti generalmente riesce e fa prova e si adatta e
s'immedesima e par naturale nella lingua francese la novità tolta dall'inglese e
dal tedesco (che agl'italiani e spagnuoli sarebbe insopportabile e barbara) che
quella dal latino. Questo può vedersi in certo modo anche ne' cognomi {e nomi propri} inglesi, tedeschi, ec. {che si} nominino nel francese. Paiono {sovente e gran parte di loro} molto men forestieri che
tra noi, e men diversi ed alieni da' nazionali.
[4066,1]
4066 La maniera familiare che come più volte ho detto
pp. 1808-10
pp. 2639-40
pp. 2836-41
pp. 3009. sgg.
pp. 3014-17
p. 3415, fu necessariamente scelta da' nostri classici antichi, o
necessariamente v'incorsero senz'avvedersene ed anche fuggendola, può ora in
parte o in tutto sfuggire massimamente alle persone di naso poco acuto, e a
quelle non molto esercitate e profonde nella cognizione, nel sentimento e nel
gusto dell'antica e buona lingua e stile italiano, che è quanto dire a quasi
tutti i presenti italiani. Ciò viene, fra l'altre cose, perchè quello che allora
fu familiare nella lingua, or non lo è più, anzi è antico ed elegante, ovvero è
arcaismo. Non per tanto è men vero quel che io altrove ho detto. Anzi è tanto
vero, che anche dopo che la lingua aveva acquistato la materia e i mezzi e la
capacità della eleganza e del parlar distinto da quello del volgo e dall'usuale,
si è pur seguitato sì nel 500 e 600 sì nel presente secolo da molti cultori e
amatori dello scriver classico, a usare una maniera familiare, sovente non
avvedendosene o non intendendo bene la proprietà e qualità della maniera che
sceglievano e usavano, e sovente anche {intendendo,}
credendo di usare una maniera elegante. E ciò si è fatto in due modi. O
adoperando le stesse forme antiche, le quali oggi non sono più familiari, anzi
eleganti, onde n'è risultata opinione di eleganza a tali stili ed opere
modellate sull'antico, ma veramente esse hanno del familiare, perchè il totale
dello stile antico da essi imitato, necessariamente ne aveva anche
indipendentemente dalle forme, bensì per cagion loro e per conformarsi e
corrispondere ad esse {forme} che allora erano
necessariamente familiari. Ovvero adoperando le forme familiari moderne a
esempio e imitazione degli antichi, e della familiarità che nelle forme e nello
stile loro si scorgeva, benchè non bene intendendola, e sovente confondendo sì
la familiarità imitata sì quella
4067 che adoperavano
ad imitarla, colla eleganza, dignità e nobiltà e col dir separato dall'usuale,
perciò appunto che la familiarità in genere non era {e non
è} più usuale, e l'uso della medesima è proprio degli antichi. Il
terzo modo, che sarebbe quello di usar l'antico e il moderno e tutte le risorse
della lingua, in vista e con intenzione di fare uno stile e una maniera nè
familiare nè antica, ma elegante in generale, nobile, maestosa, distinta affatto
dal dir comune, e proprio di una lingua che è già atta allo stile perfetto,
quale è appunto quello di Cicerone nella
prosa e di Virgilio nella poesia (stile
usato quando la lingua latina era appunto in {quelle
circostanze e} quello stato di capacità in cui è ora la lingua
nostra); questo terzo modo non è stato non che usato, ma concepito nè inteso da
quasi niuno, comechè egli è forse il solo conveniente, il solo perfetto, e
convenevole a una lingua {e letteratura già} perfetta.
(8. Aprile. 1824.).
[4214,3] I francesi non hanno lingua poetica perchè hanno
rigettata la lingua antica, perchè non sopportano l'antico nel verso niente più
che nella prosa: e senza l'antico non vi può esser lingua poetica. I Latini che ebbero pochissima antichità
di lingua, perchè il progresso della loro letteratura fu rapidissimo, e che
rigettarono, ad eccezione di pochissime {e
piccolissime} parti conservate nel verso, quella poca antichità che
avevano, non ebbero lingua poetica propriamente, nè avrebbero avuto dicitura e
stile poetico se non avessero usato nella poesia costruzioni ardite, e nuovi
significati e metafore di parole, che i francesi non sopportano nella loro.
{#(1) Notisi quindi che presso i latini
ciascun poeta era artefice della sua lingua poetica; la lingua poetica dei
latini era opera individuale del poeta, e se il poeta non se la facea, non
l'aveva: dove in italiano e in greco ella era cosa universale, e il poeta
l'avea già prima di porsi a comporre. E da ciò forse può nascere l'abuso e
la soverchia copia del verseggiare e dei verseggiatori ec. ec.} Del
resto l'avere i latini e i francesi a differenza dei greci e degl'italiani,
rigettata ne' loro buoni {e perfetti} secoli
l'antichità della lingua, venne, fra l'altre cose, dal non aver essi avuto nelle
loro lingue antiche scrittori veramente sommi, a differenza dei greci, che
ebbero Omero, Esiodo, Archiloco, Ippocrate, Erodoto ec. e degl'italiani, ch'ebbero
Dante, Petrarca, Boccaccio, insomma {(come i greci)} la
letteratura già stabilita, {fissata} e formata prima
della lingua e della maturità della civilizzazione.
(Bolog. 12. Ott. 1826.).
[4216,1] Rettorica. Citiamo qui un esempio di acutezza e di
filosofia de' rettorici. Demetrio (rettorico de' più
stimati) περὶ ἑρμηνείας, della
elocuzione, sezione 67. parlando delle figure
della {dizione} (σχήματα τῆς λέξεως {+opposte a σχήματα τῆς διανοίας
sententiarum o sententiae: λέξεως verborum.}), le quali non sono altro
che costrutti e frasi fuor di regola, di ragione, d'uso ec. sgrammaticature
*
, direbbe
l'Alfieri. Bisogna servirsi di tali figure non in troppa
abbondanza, chè ella è cosa poco elegante, e dà una certa
disuguaglianza al discorso, e fa il discorso disuguale. {Non bisogna tuttavolta usar le
figure a man piena: cosa goffa e che ec.} Gli antichi, i
quali usano però gran quantità di figure, riescono nel dir loro più
familiari e correnti che non fanno i moderni quando sono senza
figure. {La cagione è che} quelli le
adoperano con arte.
*
χρῆσϑαι μέν τοι τoῖς σχήμασι μὴ πυκνoῖς: ἀπειρόκαλον
γὰρ καὶ παρεμϕαῖνóν
4217 τινa τοῦ λóγου
ἀνωμαλίαν. Oἱ γοῦν ἀρχαῖοι, πολλὰ σχήματα ὲν τoῖς λóγοις τιϑέντες,
συνηϑέστεροι τῶν ἀσχηματίστων εἰσί, διὰ τὸ ἐντέχνως
τιϑέναι)
*
. L'osservazione è verissima in tutte le lingue; la
causa, proprio il contrario di quel che dice Demetrio. Gli antichi usavano le figure
naturalmente, senz'arte, e per non saper bene le regole generali della
grammatica: i moderni le pescano negli antichi, le usano a posta, sono
irregolari per arte. Perciò paiono, come sono, artifiziati, affettati, stentati,
diversi dal dir corrente. Caro Demetrio, non ogni buon {effetto o}
successo è da attribuirsi all'arte. Concedete qualche coserella alla natura,
{ed anche all'ignoranza,} benchè voi siate un
maestro di arte rettorica.
{{V. p.
4222.}}
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, e il suo libretto (1827) (1)
Piacere della purità della lingua. (1827) (1)
Della natura degli uomini e delle cose. (pnr) (1)
, e il suo libro (1827) (1)
Proprietà delle parole. (1827) (1)
Uniformità delle nazioni moderne ec. (1827) (1)
Letteratura italiana d'oggidì. (1827) (1)
Traduzioni. (1827) (1)
Novità nella lingua italiana: Latinismi, Grecismi, Spagnolismi ec. Regole e modi d'usarli. (1827) (1)
Libri belli, e libri utili. (1827) (1)
Arcaismi. Scrivere all'antica. (1827) (1)
Ricchezza delle lingue. (1827) (1)
Barbarismi. (1827) (1)
Sinonimi. (1827) (1)
Metafore. (1827) (1)
Romanticismo. (1827) (1)