Boccaccio.
Boccaccio.
1384,1 1525,1 1809 1810 2516-7 2533 2536,1 2540 2715,2 2724 2839 3413-4 3561 3979,1[1384,1]
Alla p. 1367.
fine. Chi vuol vedere che la lingua italiana nel 300 non fu formata
malgrado i 3 sommi sopraddetti, osservi che il Boccaccio, l'ultimo de' tre quanto al tempo, s'ingannò grossamente, e
fece un infelice tentativo nella
1385 prosa italiana,
togliendole il diretto e naturale andamento della sintassi, e
con intricate e penose trasposizioni infelicemente tentando di
darle
*
(alla detta sintassi) il processo della latina.
*
(Monti, Proposta t. 1. p. 231.). Il che dimostra che dunque se in
questi tre sommi si volesse anche riporre il perfezionamento ec. della lingua
italiana poetica, (che è falsissimo) non si può nel trecento riporre, a cagione
de' 3. sommi, quello della lingua italiana prosaica. Ora una lingua senza prosa,
come può dirsi formata? La prosa è la parte più naturale, usuale, e quindi
principale di una lingua, e la perfezione di una lingua consiste essenzialmente
nella prosa. Ma il Boccaccio primo ed
unico che applicasse nel 300 la prosa italiana alla letteratura, senza la quale
applicazione la lingua non si forma, non può servir di modello alla prosa. E
notate ancora che dunque il Boccaccio
ch'era pure sì grande ingegno, scrivendo dopo i 2 grandi maestri sopraddetti, e
dopo tanti altri prosatorelli italiani, s'ingannò di grosso intorno alla stessa
indole della lingua
1386 italiana, intorno alla forma
che le conveniva applicandola alla letteratura, vale a dire insomma alla sua
forma conveniente, o le ne diede una ch'ella ha poi del tutto abbandonata, e che
le divenne subito affatto sconveniente. Dunque la lingua italiana, almeno quanto
alla prosa, ch'è il principale, non era ancora formata; il Boccaccio non valse a formarla, anzi errò di gran
lunga. Come dunque la lingua italiana fu formata dai detti tre? come fu formata
nel 300. se il principale prosatore italiano di quel secolo, e l'unico che
appartenga alla letteratura, non conobbe la sua forma conveniente, e se non può
servire di modello a veruna prosa? (25. Luglio 1821.).
[1525,1] Degli stessi tre soli scrittori letterati del
trecento, un solo, cioè Dante, ebbe
intenzione scrivendo, di applicar la lingua italiana alla letteratura. Il che si
fa manifesto sì dal poema sacro, ch'egli considerava, non come trastullo, ma
come impresa di gran momento, e dov'egli trattò le materie più gravi della
filosofia e teologia; sì dall'opera, tutta filosofica, teologica, e insomma
dottrinale e gravissima del Convito, simile agli antichi Dialoghi
scientifici ec. (vedilo); sì finalmente dalle opinioni ch'egli manifesta nel
Volgare
Eloquio. Ond'è che Dante fu propriamente, com'è stato sempre considerato, e per
intenzione e per effetto, il fondatore della lingua italiana.
1526 Ma gli altri due, non iscrissero italiano che per passatempo, e
tanto è lungi che volessero applicarlo alla letteratura, che anzi non
iscrivevano quelle materie in quella lingua, se non perchè le credevano indegne
della lingua letterata, cioè latina, in cui scrivevano tutto ciò con cui
miravano a farsi nome di letterati, e ad accrescer la letteratura. Siccome
giudicavano (ancor dopo Dante, ed
espressamente contro il parere e l'esempio suo, specialmente il Petr.) che la lingua italiana fosse
indegna e incapace delle materie gravi e della letteratura. Sicchè non pur non
vollero applicarvela, ma non credettero di potere, nè che veruno potesse mai
farlo. Opinione che durò fin dopo la metà del Cinquecento circa il poema eroico,
del quale pochi anni dopo la morte dell'Ariosto, e pochi prima che uscisse la Gerusalemme, si
credeva in italia che la lingua italiana non fosse
capace: onde il Caro prese a tradurre
l'Eneide ec. (v. il 3. tomo delle sue lett. se non fallo). Ed è
notissima l'opinione che portava il Petr. del suo canzoniere: ed egli lo scrisse
1527 in italiano, come anche il Boccaccio le sue novelle e romanzi, per divertimento
delle brigate, come ora si scriverebbe in un dialetto vernacolo, e per li
cavalieri e dame, e genti di mondo, che non si credevano capaci di letteratura.
ec. ec. Ed è pur noto come nel 500. si scrivessero poemi sudatissimi in latino,
e storie ec. (19. Agos. 1821.).
[1809,1]
1809 Ma se noi non sentiamo perfettamente in essi il
familiare, qualità delle lingue la più difficile a ben sentirsi in una lingua
forestiera, e più in una lingua morta, lo sentiamo però ottimamente in Dante, nei prosatori trecentisti, escluso
il Boccaccio, che introdusse
nell'italiano tante voci, frasi, e forme latine, e nel Petrarca (v. un mio pensiero sulla familiarità del
Petrarca), eccetto dov'egli pure si
accosta ed imita (come fa, e felicemente, assai spesso) l'andamento latino.
Questi e tutti gli scrittori primitivi di ciascuna lingua, doverono
necessariamente dare un andamento, un insieme di familiarità al loro stile ed
alla maniera di esprimere il[i] loro pensieri,
{+sì per altre ragioni, sì}
perchè mancavano di uno de' principali fonti dell'eleganza, cioè le parole,
frasi forme rimosse dall'uso del volgo per una tal quale, non dirò antichità, ma
quasi maturità. {+(Infatti è notabile che
la vera imitazione degli antichi quanto alla lingua, dà subito un'aria di
familiarità allo stile).} E siccome altrove osservammo pp. 1482. sgg. che gli
scrittori primitivi sono sempre i più propri, così e per le stesse ragioni, essi
debbono
1810 cedere ai susseguenti nell'eleganza
(intendendo quella che ho dichiarato).
[1810,1] Da ciò segue 1. che noi bene spesso sentendo negli
antichi nostri, come nel Petrarca o nel
Boccaccio questa medesima eleganza,
vi sentiamo quello che non vi sentivano nè gli stessi autori nè i loro
contemporanei, in quanto quelle voci o modi sono oggi divenuti eleganti col
rimoversi, stante l'andar del tempo, dall'uso quotidiano, ma allora non lo
erano.
[2515,1] E quella ricchissima, {fecondissima,} potentissima, regolatissima, e al tempo stesso {variatissima, poetichissima e} naturalissima lingua del
cinquecento, ch'a noi (ne' suoi buoni scrittori) riesce così elegante, forse
ch'allora fu tenuta per tale? Signor no, ma per corrotta. E la buona lingua si
stimava solo quella del trecento, {+e se
ne deplorava la mutazione, chiamandola corruzione e scadimento totale della
lingua, (come noi facciamo rispetto al 500),} e gli scrittori tanto
più s'avevano eleganti, quanto meno scrivevano nella lingua loro per iscrivere
in quella di quell'altro secolo. Laddove a noi, a' quali l'una e l'altra è
divenuta pellegrina, tanto più piacciono i cinquecentisti quanto più seguono
l'uso
2516 del loro secolo, e meno imitano il trecento.
Ed è ben ragionevole perchè allora solo possono esser naturali e di vena, come è
il Caro che non fu mai imitatore.
{+(È notabile che di parecchi
cinquecentisti, le lettere dov'essi ponevano meno studio, e che stimavano
essi medesimi di lingua impurissima, mentr'era quella del loro secolo, sono
più grate a leggersi, e di migliore stile che l'altre opere, dove si
volevano accostare alla lingua del trecento, mentre nelle lettere usavano la
lingua loro, e riescono per noi elegantissimi e naturalissimi.). V. p. 2525.} Ma anche nel
cinquecento non si stimava veramente elegante se non il pellegrino, e lo
trovavano e cercavano nella lingua del trecento, che sola chiamavano pura,
quando per noi è purissima quella del cinquecento. V. Salviati, Avvertim.
della lingua, citati nelle op. del Casa, Venezia 1752. t. 3. p. 323. fine -
324. Nel trecento poi nemmen si parlava di purità, nè si poneva tra i
pregi della lingua o dello scrivere; e la lingua del loro secolo non si stimava
elegante (se non forse alcune smancerie fiorentine, di cui parla il Passavanti, e queste credo piuttosto che s'amassero nel
resto di Toscana o d'italia, che
in Firenze, come accade veramente anche oggi): e quelli
scrittori che più si stimavano eleganti, e che tali si credevano o pretendevano
essi medesimi, erano non quelli che oggi più s'ammirano per la naturalezza e la
semplicità, e che
2517 in somma usavano più puramente
la lingua nazionale o patria del tempo loro, ma quelli che oggi meno
s'apprezzano, cioè che la fornivano di parole e modi forestieri, e che si
studiavano di tirarla alle forme d'altre lingue, e d'altri stili, come fece il
Boccaccio rispetto al latino, e come
anche Dante, la cui lingua, s'è pura per
noi, che misuriamo la purità coll'autorità, niuno certamente avrebbe chiamato
pura a quei tempi, s'avessero pensato allora alla purità{{, e
gli stessi cinquecentisti non erano}}
{+molto inchinati a stimarlo tale, nè ad
accordargli un[un'] assoluta autorità e voto
decisivo in fatto di purità di lingua, restringendosi piuttosto al Petr. e al Boc.
V. Caro
Apolog. p. 28. fine ec. Lett. 172. t. 2. e se vuoi,
anche il Galateo del Casa circa la stima
ch'allora si faceva di tanto poeta.}
[2533,1] 1. La maggior fama degli scrittori del 500 fu a quei
tempi, come verseggiatori, e specialmente lirici, e questi ognun sa ch'erano
servili imitatori del Petrarca, e quindi
del 300, e si veda nell'Apologia del Caro, la misera presunzione ch'avevano di scrivere
come il Petrarca, e che non s'avessero a
usar parole o modi non usati da lui, come anche nelle prose volevano restringer
la lingua a quella sola del Boccaccio, e
siamo pur lì. Certo è, nè per chiunque è pratico dello spirito che governava la
repubblica nostra letteraria nel 500, è bisogno di molte parole a dimostrargli,
che l'apice della letteratura, e quello a cui nondimeno aspiravano
2534 tanto gl'infimi quanto i sommi, era la lirica
Petrarchesca, cioè 300istica, e non 500istica. E gli scrittori più grandi in
ogni altro genere o prosaico o poetico, divenivano famosi principalmente pe'
loro sonetti e canzoni petrarchesche che si divulgavano come un lampo per
l'italia, si trascrivevano subito, si domandavano,
erano il trattenimento delle Dame, e queste ne chiedevano ai letterati, e i
letterati se ne chiedevano scambievolmente, e ne ricevevano e restituivano con
proposte e risposte ec. E senza questi versi difficilmente s'arrivava alla
riputazion di letterato. Osservate, per non allontanarmi dall'esempio più volte
addotto, il Caro, le cui rime sono la
sola cosa che di lui non si legga più. Aveva il Caro grandissima fama, ma dalle sue lettere vedrete
che questa riposava essenzialmente e soprattutto nell'opinion ch'egli avea di
poeta (che nol fu mai), e
2535 tutto il restante suo
merito letterario, s'aveva in lui, come in tutti gli altri, per mero accessorio.
E fu stimato gran poeta, non già per l'Eneide,
{+ch'oggi s'ammira, e si
ristampa,} ch'è scritta in istile e lingua propria del suo tempo,
benchè abbellita al suo modo, e arricchita di latinismi. Questa fu opera postuma
e non levò molto grido nel 500. Il Caro fu creduto un sommo letterato perchè sapeva rimare alla
Petrarchesca, e giudicar di tali pretese poesie. E la sua famosa
Canzone fu strabocchevolmente ammirata (ed oggi non s'arriva
a poterla legger tutta) perchè si disse che il Petrarca non l'avrebbe scritta altrimenti. (Caro, Apolog. p.
18.). E chi non sa l'inferno che cagionò in
italia, e come nella disputa di quell'impiccio
petrarchesco ci prese parte tutta la nazion letterata, considerandola come affar
di tutta la letteratura? Fatto sta che le maravigliose prose del Caro, benchè stimate,
2536 non furono già ammirate nel 500 (quanto alla
lingua). Ed è certo che la lingua del Caro, come l'immaginazione e l'ingegno di Dante, son venute principalmente in onore, e riposte
nel sommo luogo che meritano, in questo e sulla fine del passato secolo. Il che,
di Dante, si vede anche fra gli
stranieri. E quanto a lui, ciò si deve al perfezionamento de' lumi, e del gusto,
e della filosofia, e della teoria dell'arti, e del sentimento del vero bello.
Quanto al Caro, ciò viene in gran
parte da circostanze materiali.
[2536,1] 2. Le prose italiane ch'ebbero fama nel 500,
l'ebbero per l'una di queste cagioni. 1.° Per essere scritte alla Boccaccevole
(e quindi fuor dell'uso di quel secolo), come sono l'Arcadia del
Sannazzaro nelle prose, le prose
del Bembo, e tutte quelle del Casa, tolte le lettere. E notate che
questi prosatori e i loro simili furono appunto i
2537
più stimati in quel secolo (al contrario del nostro), e dati per modello. Il che
dimostra ad evidenza che il gusto del cinquecento nella lingua era quello ch'io
dico, che s'apprezzava come elegante una lingua diversa dalla loro, e che sempre
si disprezza la lingua attualmente corrente nella nazione, per bellissima ed
ottima ch'ella sia.
[2538,1] 3.° Perchè molti (e questo fu vero e principal
pregio del cinquecento, ed a cui fu dovuto il perfezionamento della nostra
lingua) si studiavano anche di accostare e di modellare non solo lo stile, ma
anche la lingua italiana, sulla latina e greca, in quanto lo potea comportare la
sua natura. Questo fu comune alla massima parte de' veri buoni scrittori del
cinquecento, {massime prosatori.} E questo li rendeva
eleganti anche presso i contemporanei.
2539 Ma questa
eleganza veniva non da altro che dal pellegrino, {+(cioè dal latino e dal greco)} benchè quegli
scrittori volessero piuttosto perfezionare, accostare al latino o al greco,
render classica la lingua del loro secolo, che quella del 300, parlassero, come
facevano, e bene, più da 500isti, che da 300isti, più da moderni che da antichi
italiani; usassero la lingua viva e non la morta, le parole moderne più che le
antiche, e insomma innestassero il latino e il greco nella lingua del 500, e non
del 300, e però l'eleganza loro non venisse dall'uso dell'antico italiano, nè
dalla così detta purità, quantunque oggi per noi sieno purissimi. Ma tali non
erano allora per li pedanti, i quali chiamavano corrotto e barbaro quel che non
era del 300, proibivano il latinismo anche più di quello che facciano i pedanti
oggidì, poichè s'ardivano di chiamar barbara ogni voce latina che non fosse
stata usata
2540 dagli antichi, anzi dal Bocc. o dal Petrarca, per convenientissima che fosse all'italiano,
e anche nello stile, e nella composizione della dicitura, volevano piuttosto o
quella del Bocc. o del Petr. o quella degl'ignoranti non
iscrittori ma scrivani del 300, che quella de' classici latini e greci. (V. le opposizioni del Castelvetro alla canzone
del Caro, e l'Apol. del Caro).
[2715,2] Di quelli che nel 500. volevano restringere la
lingua italiana della poesia a quella del Petrarca, e della prosa a quella del solo Boccaccio, vedi
Perticari
Degli Scritt. del 300. l. 2. c. 12. p.
178. colle similitudini che ivi pone de' greci e de' latini, e Apologia di Dante c. 41. p.
407-{10.}
(23. Maggio 1823.).
[2723,1] I pedanti che oggi ci contrastano la facoltà di
arricchir la lingua, pigliano per pretesto ch'essa è già perfetta. Ma lo stesso
contrasto facevano nei cinquecento quand'essa si stava perfezionando,
2724 anzi nel momento ch'ella cominciavasi a
perfezionare, come fece il Bembo, il
quale volea che questo cominciamento fosse il toglierle la facoltà di crescer
mai più, e 'l ristringerla al solo Petrarca e al solo Boccaccio.
Lo stesso contrasto fecero al tempo di Cicerone e d'Orazio, cioè nel
secolo d'oro della lingua latina, nel quale ella si perfezionava, e fino al
quale non fu certamente perfetta. Ma la pedanteria nasce presto, e gli uomini
impotenti presto, anzi subito credono {e vogliono} che
sia perfetto e che non si possa nè si debba oltrepassare nè accrescere quel
tanto, più o manco, di buono ch'è stato fatto, per dispensarsi
dall'oltrepassarlo ed accrescerlo, e perch'essi non si sentono capaci di farlo.
(25. Maggio 1823.). {{E come pochissimo ci
vuole a superare l'abilità degli uomini da nulla, così pochissimo artifizio,
e pochissima bontà basta a fare ch'essi la credano insuperabile, qual è
veramente per loro, ancorchè piccolissima. Oltre che
2725 al loro scarso e torto giudizio spesso e in buona fede il
mediocre pare ottimo, e l'ottimo mediocre, e il cattivo buono, e al
contrario. (27. Maggio. 1823.).}}
[2836,2] Ho mostrato altrove p. 1808
p. 2640 che i poeti e gli scrittori primitivi {di
qualunque lingua} non potevano mai essere eleganti {quanto alla lingua,} mancando loro la {principal} materia di questa eleganza, che sono le parole e modi
rimoti dall'uso comune, i quali ancora non esistevano nella lingua, perchè
scrittori e poeti non v'erano stati, da' quali si potessero torre, e i quali
conservassero quelle parole e modi che già furono in uso. Onde {quando una lingua comincia}
{ad essere scritta,} tanto esiste della lingua quanto è
nell'uso comune: tutto quello che già fu in uso, e che poi ne cadde, è
dimenticato, non avendovi avuto chi lo conservasse, il che fanno gli scrittori,
che ancora non vi sono stati. Togliere più che tante parole o forme da quella
lingua la cui letteratura serve di modello alla nuova (come gl'italiani
avrebbero potuto fare dalla lingua latina), è pericoloso in quei principii molto
più che nel séguito (contro quello che si stimano i pedanti), anzi non si può,
perchè quando nasce la letteratura
2837 di una nazione,
questa nazione è naturalmente ignorante, e però lo scrittore o il poeta, così
facendo, non sarebbe inteso, e la letteratura non prenderebbe piede, non si
propagherebbe mai, non crescerebbe, non diverrebbe mai nazionale. {Di più, il poeta sembrerebbe affettato. Vedi in
questo proposito la p.
3015.} Questo medesimo vale anche per le parole
della stessa lingua, rimote più che tanto dall'uso comune, sia per disuso
(seppur lo scrittore stesso o il poeta avesse modo di conoscerle, mancando {fin allora} gli scrittori), sia per qualsivoglia altra
cagione. Bisogna considerare che la nazione in quel tempo è ignorante, e non
istudia, e non leggerebbe quella scrittura o quel poema, benchè scritto in
volgare, le cui parole o modi non fossero alla sua portata, o egli non potesse
capirli senza studiarvi sopra. E poca difficoltà, poca ricercatezza di parole o
di forme basta ad eccedere la capacità de' totalmente ignoranti, quali sono
allora quasi tutti, e degli a tutt'altro avvezzi che allo studio. Ho dunque
detto altrove p. 70
pp. 1808-11
pp. 2639-40 che i poeti e scrittori primitivi tutti o quasi tutti, e
sempre o per lo più, sì nella lingua sì nello stile, tirano al familiare. E
questo viene, sì per adattarsi alla capacità della nazione, sì perchè mancando
loro, come s'è detto, la principal materia dell'
2838
eleganza di lingua, sono costretti a pigliare una lingua domestica e rimessa, e
non volendo che questa ripugni e disconvenga allo stile, sono altresì costretti
di tenere anche questo, per così dire, a mezz'aria, e di familiarizzarlo. Onde
accade che questi tali poeti e scrittori sappiano di familiare anche ai posteri,
quando le loro parole e forme, già divenute abbastanza lontane dall'uso comune,
hanno pure acquistato quel che bisogna ad essere elegantissime, perlochè già
elle come tali s'adoprano dagli scrittori e poeti della nazione, ne' più alti
stili. Ma non essendo elle ancora eleganti a' tempi di que' poeti e scrittori,
questi dovettero assumere un tuono e uno stile adattato a parole non eleganti, e
un'aria, una maniera, nel totale, domestica e familiare, le quali cose ancora
restano, e queste qualità ancora si sentono, come nel Petrarca, benchè l'eleganza sia sopravvenuta alle loro
parole e a' loro modi che non l'avevano, com'è sopravvenuta, e somma, a quei del
Petrarca. Queste considerazioni si
possono fare, e questi effetti si scorgono, massimamente ne' poeti, non solo
perchè gli scrittori primitivi di una lingua e i fondatori di una letteratura
2839 sono per lo più poeti, ma perchè mancando ad
essi la detta materia dell'eleganza niente meno che a' prosatori, questa
mancanza e lo stile familiare che ne risulta è molto più sensibile in essi che
nella prosa, la quale non ha bisogno di voci o frasi molto rimote dall'uso
comune per esser elegante di quella eleganza che le conviene, e deve sempre
tener qualche poco del familiare. Quindi avviene che lo stile del Boccaccio, benchè familiare anch'esso,
massime ad ora ad ora, pur ci sa meno meno familiare, e ci rende più il senso
dell'eleganza e della squisitezza che quello del Petrarca, e dimostra meno sprezzatura, ch'è però nel
Petrarca bellissima. Così è: la
condizione del poeta e del prosatore in quel tempo, quanto ai materiali che si
trovano aver nella lingua, è la stessa (a differenza de' tempi nostri che
abbiamo appoco appoco acquistato un linguaggio poetico tutto distinto): il
prosatore si trova dunque aver poco meno del suo bisogno, e quasi anche tanto
che gli basti a una certa eleganza: il poeta che non si trova aver niente di
più, bisogna che si contenti di uno stile e di una maniera che si accosti alla
prosa. Ed infatti è benissimo definita
2840 la
familiarità che si sente ne' poeti primitivi, dicendo che il loro stile, senza
essere però basso, perchè tutto in loro è ben proporzionato e corrispondente,
tiene della prosa. Come fa l'Eneida del Caro, che quantunque non sia poema
primitivo, pure essendo stato {quasi} un primo tentame
di poema eroico in questa lingua, che ancora non n'era creduta capace, com'esso
medesimo scrive, può dirsi primitivo in certo modo nel genere e nello stile
eroico.
[3413,1]
3413
Alla p. 2841.
Sperone Speroni nell'Orazione in morte del Cardinal Bembo, quinta
delle Orazioni sue stampate in
Ven. 1596. pag. 144-5 poco innanzi il mezzo
dell'orazione suddetta.. I
medesimi verbi colla stessa construtione
*
(p. 145.)
usa il volgar
poeta,
*
(il poeta italiano) che suole usar l'oratore; onde non pur è lunge da
quell'errore, ove spesse fiate veggiamo incorrere i Greci, et
qualche volta i Latini, cioè a dire, che egli si paia di favellare
in un'altra lingua, che non è quella dell'oratore; anzi i più lodati
Toscani all'hora sperano di parlar bene nelle lor prose, et par quasi, che sene vantino, quando al modo, che
da' Poeti è tenuto hanno affettato di ragionare. Et chi questo non
crede, vada egli a leggere il Decameron del Boccaccio, terzo lume di questa
lingua, et troveravvi per entro cento versi di Dante così intieri, come li fece la sua
comedia.
*
{#1. V. p. 3561.} Non parrebbe da queste parole che
l'italia non avesse lingua propriamente
3414 poetica, o certo ben poco distinta dalla prosaica?
E non è d'altronde manifesto ch'ella ha una lingua poetica più distinta dalla
prosaica che non è quella di forse niun'altra lingua vivente, e certo più che
non è quella de' Latini, in quanto si vede che noi, imparato che abbiamo ad
intendere la prosa latina, intendiamo con poco più studio la poesia, {+(lo studio che ci vuole, e il divario tra
il linguaggio della poesia latina e
della prosa, consiste principalmente nella diversità di molta parte delle
trasposizioni, ossia nell'ordine e costruzione delle parole, ch'in parte è
diversa)} ma uno straniero non perciò ch'egli ottimamente intendesse
la nostra moderna lingua prosaica, intenderebbe senza molto apposito studio la
poetica? Tant'è. Nello stesso cinquecento, l'italia non
aveva ancora una lingua che fosse formalmente poetica, cioè la diversità del
linguaggio tra i poeti e gli oratori, non era per anche se non lieve, e male o
insufficientemente determinata. Gli scrittori prosaici che componevano con
istudio e con presunzione di bello stile, si accostavano alla lingua del Boccaccio e de' trecentisti, e questa era
similissima alla lingua poetica, perchè la lingua poetica del 300. era quasi una
colla prosaica. Gli scrittori poetici che scostandosi dalla lingua del 300,
volevano
3415 accostarsi a quella del loro secolo,
davano in uno stile familiare, bellissimo bensì, ma poco diverso da quel della
prosa. Testimonio l'Orlando dell'Ariosto e l'Eneide del Caro, i quali, a quello togliendo le
rime, a questa la misura {+(oltre le
immagini e la qualità de' concetti ec.)} in che eccedono o di che
mancano che non sieno una bellissima ed elegantissima prosa? E paragonando il
poema del Tasso (scritto nella {{propria}} lingua del suo tempo) colle prose eleganti di
quell'età, poco divario vi si potrà scoprire quanto alla lingua. Di più i poeti
italiani del 500. furono soliti (massime i lirici, che sono i più) di modellarsi
sullo stile di Petrarca e di Dante. Il carattere di questo stile {riuscì ed è} necessariamente familiare, come ho detto
altrove pp. 1808-10
pp.
2542-44
pp. 2639-42
pp. 2836-41. Seguendo
questo carattere, o che i poeti del 500 l'esprimessero nella stessa lingua di
que' due, come moltissimi faceano, o nella lingua del 500, come altri; doveano
necessariamente dare al loro stile un carattere di familiare e poco diverso da
quel della prosa. E così generalmente accadde. (Il linguaggio del Casa non è familiare, ed è molto
3416 più distinto dal prosaico, e così il suo stile.
Ciò perchè ne' suoi versi egli non si propose il carattere nè del Petrarca nè di Dante, ma un suo proprio. E quindi quanto il carattere
del suo linguaggio e stile poetico è distinto da quel della prosa, tanto egli è
ancora diverso da quello {+del linguaggio
e stile} sì di Dante e Petrarca, sì degli altri lirici, e poeti
quali si vogliano, del suo tempo.). La Coltivazione, le Api ec. sono {ben sovente}
bella prosa misurata {+quanto al
linguaggio, ed allo stile eziandio: e ciò quantunque l'uno e l'altro poema
sieno imitazioni, e l'Api nient'altro quasi che traduzione,
delle georgiche, il
capo d'opera dello stile il più poetico e il più separato dal familiare, dal
volgo, dal prosaico. Similmente si può discorrere dell'Eneide del Caro.}
[3561,1]
Alla p. 3413.
Infatti la scrittura dello Speroni è
tutta sparsa e talor quasi tessuta, non pur di vocaboli, o d'usi metaforici ec.
di parole, tutti propri di Dante e di
Petrarca, ma di frasi intere e
d'interi emistichi di questi poeti, dall'autore dissimulatamente appropriatisi e
convertiti all'uso della sua prosa. Nè tali voci, frasi ec. riescono in lui
punto poetiche, ma convenientissimamente prosaiche. Altrettanto fanno più o meno
molti altri autori del cinquecento, massime i più eleganti, ma lo Speroni singolarmente. Or andate e
ditemi che altrettanto potessero fare, non pur i prosatori greci con Omero, o altro lor poeta, ma i latini con
Virgilio ec. benchè il latino non
abbia linguaggio poetico distinto. Che
vuol dir ciò dunque, se non che il linguaggio di Dante e Petrarca era poco o nulla distinto da quel della prosa? Onde i
prosatori potevano farne lor pro, anche a sazietà, senza dar nel poetico. {#1. Le voci e frasi {e
significati più poetici ed eleganti} di Petr.
Dante ec. tengono come un luogo di
mezzo tra il prosaico e il poetico, onde in una prosa alta, com'è quella
dello Speroni, ci stanno
naturalissimamente. P. e. talento in quel
significato Che la ragion sommettono al
talento.
*
Non si sa ben dire se sia più del verso
che della prosa. Vedilo benissimo usato dallo Speroni
ne' Diall.
Ven. 1596. p. 69. fine.} Altri, e non
pochi, prosatori del 500, siccome nel 300 il Boccaccio, davano nel poetico sconveniente
3562 alla prosa, adoperando a ribocco e senza giudizio le voci, le
significazioni, le metafore, le frasi, gli ornamenti, l'epitetare ec. sì di Dante e Petrarca sì de' poeti del 500. stesso. E ciò per la medesima ragione
per cui i detti poeti adoperavano le frasi e voci ec. della prosa, come a pagg. 3414. segg. Ciò era perchè i
termini fra il linguaggio della poesia e della prosa non erano ancora ben
stabiliti nella nostra lingua. Onde come noi non avevamo ancora un linguaggio
propriamente poetico bene stabilito e determinato, (p. 3414.
3416.), così nè anche un linguaggio
prosaico. Nella stessa guisa (ma però molto meno) che i francesi non hanno quasi
altra prosa che poetica, perchè appunto non hanno lingua propriamente poetica,
distinta e determinata, e assegnata senza controversia alla poesia
(veggãsi[veggansi] le p. 3404-5. 3420-1. 3429. e il pensiero
seguente ). Nessun buon autore del seicento, del sette e
dell'ottocento dà nel poetico come molti buoni
{{e classici
del}} 500 (non ostante nel 600 la gran peste dello stile derivata
appunto dal cercare il florido, il sublime, il metaforico, lo straordinario modo
di parlare e di esprimere checchessia, il fantastico, l'immaginoso, l'ingegnoso;
e consistente in queste qualità ec. peste
3563 che nel
500 ancor non regnava; eppur tanto regnava il florido e il poetico nella prosa,
quanto non mai nelle buone e classiche prose del 600: segno che quel vizio nel
500. veniva da altra cagione, e ciò era quella che si è detta). Nessuno oggi (nè
nei due ultimi secoli) per poco che abbia, non pur di giudizio, ma sol di
pratica nelle buone lettere sarebbe capace di peccare, scrivendo in prosa, per
poeticità di stile e linguaggio, altrettanto quanto nell'ottimo ed aureo secolo
del 500 (mentre il nostro è ferreo) peccavano gli ottimi ingegni nelle classiche
prose, sì nel linguaggio, sì nello stile, che quello si tira dietro (p. 3429. fine). E come ho detto a
pagg. 3417-9. che il linguaggio
{propriamente} poetico in
italia non fu pienamente determinato, stabilito, e
distinto e separato dal prosaico, se non dopo il cinquecento, e massime in
questo e nella fine dell'ultimo secolo; così si deve dire del linguaggio
prosaico, quanto all'essere così esattamente determinato ch'ei non possa mai
confondersi col poetico, nè dar nel poetico senza biasimo ec. Il che non ha
potuto perfettamente essere finchè i termini fra questi due linguaggi non sono
stati fermamente posti, e chiaramente precisamente
3564
incontrovertibilmente segnati, tirati, descritti. Onde il linguaggio
perfettamente proprio e particolare della prosa, e il perfettamente proprio e
particolare della poesia sono dovuti venire in essere a un medesimo tempo, e non
prima l'uno che l'altro (o non prima esser perfetto ec. ec. l'uno che l'altro, e
crescer del pari quanto alla loro prosaicità e poeticità); perchè ciascun de'
due è rispettivo all'altro ec. ec. (30. Sett. 1823.).
[3979,1] Come la lingua e letteratura italiana si stimassero
nel 500 da molti {+anche dotti e gravi
uomini} non dovere {nè potere} uscire de'
termini in che le posero i 3. famosi trecentisti, anzi solamente il Petrarca e il Boccaccio, nè delle lor parole e modi e artifizi e
stili, e dell'abito ch'essi avevan dato all'una e all'altra ec. del che altrove
pp. 2515-17
pp. 2533-40
pp. 2723-24
pp.
3561-62, vedi il Dial. della Rettorica dello Speroni, Diall.
Ven. 1596. p. 147.-150. p. 157. fine. - 158.
principio, p. 162. verso il fine. (14. Dec. 1823.).
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