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[231,2]  Omero e Dante per l'età loro seppero moltissime cose, e più di quelle che sappiano la massima parte degli uomini colti d'oggidì, non solo in proporzione dei tempi, ma anche assolutamente. Bisogna distinguere la cognizione materiale dalla filosofica, la cognizione fisica dalla matematica, la cognizione degli effetti dalla cognizione delle cause. Quella è necessaria alla fecondità e varietà dell'immaginativa, alla proprietà verità evidenza ed efficacia dell'imitazione. Questa non può fare che non pregiudichi al poeta. Allora giova sommamente al poeta l'erudizione, quando l'ignoranza delle cause, concede al poeta, non solamente rispetto agli altri ma anche a se stesso, l'attribuire gli effetti che vede o conosce, alle cagioni che si figura la sua fantasia. (5. Settembre 1820.).

[288,1]  Tutte le cose si desiderano perfette relativamente al loro genere. Tuttavia perchè il perfetto è rarissimo in tutte le specie di cose, coloro che imitano o contraffanno, sogliono mescolare alla imitazione qualche difetto, cioè imitare piuttosto  289 e figurare e scegliere l'individuo difettoso che il perfetto, per render la imitazione più verisimile e credibile, e fare inganno, e persuadere che il finto sia vero. E laddove il difetto scema pregio all'imitato e vi si biasima, accresce pregio all'imitazione e vi si loda. Così se tu vuoi contraffare un filo di perle, non le fai tutte tonde perfettamente, sebbene in un filo vero le vorresti tutte così. Ed imiti piuttosto una gemma di un prezzo mediocre, di quello che contraffarne una inestimabile. Così dunque loderemo sempre più l'Achille difettoso di Omero, che l'Enea, il perfetto eroe di Virgilio, a cagione della credibilità, del vantaggio che ne cava l'illusione e la persuasione. Ed estenderemo questa osservazione a regolamento di tutti i poeti, quando scelgono qualche oggetto da imitare, acciocchè rifiutino gli eccessi tanto di perfezione quanto d'imperfezione, intorno alla quale siamo pure nello stesso caso. Applicate quest'ultima riflessione ai protagonisti di Lord Byron. (20. 8.bre 1820.)

[307,2]  Omero che scriveva innanzi ad ogni regola, non si sognava certo d'esser gravido delle regole come Giove di Minerva o di Bacco, nè che la sua irregolarità sarebbe stata misurata, analizzata, definita, e ridotta in capi ordinati per servir di regola agli altri, e impedirli di esser liberi, irregolari, grandi, e originali come lui. E si può ben dire che l'originalità di un grande scrittore, producendo la sua fama, (giacchè senza quella, sarebbe rimato oscuro, e non avrebbe servito di norma  308 e di modello) impedisce l'originalità de' successori. Io compatisco tutti, ma in ispecie i poveri gramatici, i quali dovendo formare la prosodia greca sopra Omero, hanno dovuto popolare il Parnaso greco di eccezioni, di sillabe comuni ec. o almeno avvertire che molti esempi di Omero ripugnavano ai loro insegnamenti, perchè Omero innocentemente, non sapendo il gran feto delle regole del quale erano pregni i suoi poemi, adoperava le sillabe a suo talento, e fino nello stesso piede, adoperava la stessa sillaba una volta {lunga,} e un'altra breve.

[801,1]  Alla p. 745. Difficilmente si vedrà che una qualunque nazione {una qualunque letteratura.} abbia avuto in due diversi tempi (eccetto se {il tempo e} la nazione è del tutto rinnuovata, come l'italiana rispetto alla latina) due scrittori eccellenti e sommi in  802 uno stesso genere. Da che quel genere ne ha avuto uno perfetto, e riguardato come perpetuo modello, sebbene quel genere possa avere diverse specie, gl'ingegni grandi e superiori, o sdegnando di non poter essere se non uguali a quello, e di dovere avere un compagno, o per la naturale modestia e diffidenza di chi conosce bene e sente la difficoltà delle imprese, temendo di restare inferiori in un assunto, di cui già è manifesta, sperimentata, conseguita, la perfezione, e posta negli occhi di tutti e nei propri loro; si sono sempre rivolti ad altro, e solamente i piccoli ingegni de' quali è propria la confidenza e temerità sono entrati nell'arringo, spronati dalle lodi di quell'eccellente, e dalla gola di quella celebrità, quasi fosse facile a conseguire, e misurando l'impresa non da se stessa e dalla sua difficoltà, ma dal loro desiderio di riuscirci, e dal premio che era proposto al buon successo. {Un'altra ragione, e fortissima è, che quando il genere ha già avuto uno sommo, il genere non è più nuovo; non vi si può più essere originale, senza che, è impossibile esser sommo. O se vi si potrebbe pur essere originale, v'è quella eterna difficoltà, che anche gl'ingegni sommi, vedendo una strada già fatta, in un modo o in un'[un] altro s'imbattono in quella; o confondono il genere con quella tale strada, quasi fosse l'unica a convenirgli, benchè mille ve ne siano da poter fare, e forse migliori assai.} La stessa Grecia in tanta copia di scrittori e poeti d'ogni genere,  803 e di buoni secoli letterati dopo Omero, e, quel ch'è forse più, in tanta distanza da lui, non ebbe mai più nessun epico, se non dappoco, come Apollonio Rodio. E lo stesso Omero (se è vero che l'Odissea è posteriore all'Iliade, come dice Longino) non aggiunse niente alla sua fama pubblicando l'Odissea. Sebbene, chiunque si fosse quest'Omero, io congetturo e credo che l'Iliade e l'Odissea non sieno di uno stesso autore, ma questa imitata dallo stile, dalla lingua, dal fare, e dall'Argomento di quella, con quel languore, e sovente noia che ognuno può vedere. La qual congettura io rimetto a quei critici che sono profondamente versati nelle antichità omeriche, e di quei tempi antichissimi, e conoscono intimamente i due poemi: purchè oltre a questo, siano anche persone di buon gusto e giudizio. Taccio de' latini e degl'infelici {loro} tentativi di Epopea dopo Virgilio, così prestante ed eminente in essa fra loro, come Cic. nell'eloquenza. Sebbene il Tasso non si può veramente nel  804 suo genere dire perfetto, neppur sommo come Omero (che sommo fu egli, ma non il suo poema, nè egli quivi), contuttociò l'italia dopo lui non ebbe poema epico degno di memoria, sebbene molti o piccoli o mediocri ingegni, tentassero la stessa carriera. Anzi quantunque vi sia tanta differenza fra il genere del poema dell'Ariosto e quello del Tasso, pure sembrò strano ch'egli si accingesse a quel travaglio dopo l'Ariosto, e pubblicata la Gerusalemme, i suoi nemici non mancarono di paragonarla all'Orlando, di posporla, di accusare il Tasso di temerità ec. {Dopo Molière la Francia non ha avuto grandi comici, nè l'Italia dopo Goldoni.} Tutto questo, sebbene apparisca forse principalmente nella letteratura, tuttavia si può applicare a molti altri rami del sapere, o di altri pregi umani. Si possono però citare in contrario il Racine dopo il Corneille, e il Voltaire dopo lui, e qualche tragico inglese dopo Shakespeare, ma nessuno però di quella eccellenza e fama. La quale per cadere nel mio discorso, dev'essere assolutamente prestante, sorpassante e somma sì nel modello, come nel successore o successori. (17. Marzo 1821.). {{V. p. 810. capoverso 1.}}

[1028,4]  La Bibbia ed Omero sono i due gran fonti dello scrivere, dice l'Alfieri nella sua Vita. {Così Dante nell'italiano, ec.} Non per altro se non perch'essendo i più antichi libri, sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita, della varietà. Introdotta la ragione nel mondo tutto a poco a poco, e in proporzione de' suoi progressi, divien brutto, piccolo, morto, monotono. (11. Maggio 1821.).

[1083,2]  Stante l'antico sistema di odio nazionale, non esistevano, massime ne' tempi antichissimi, le virtù verso il nemico, e la crudeltà verso il nemico vinto, l'abuso della vittoria ec. erano virtù, cioè forza di amor patrio. Da ciò si vede quanto profondi filosofi e conoscitori della storia dell'uomo, sieno quelli che riprendono Omero d'aver fatto i suoi Eroi troppo spietati e accaniti col nemico vinto. Egli gli ha fatti grandissimi e virtuosissimi nel senso di quei tempi, dove il nemico {della nazione} era lo stesso, che oggi è per li Cristiani il Demonio, il peccato ec. Nondimeno Omero che pel suo gran genio ed anima sublime e poetica, concepiva anche in que' suoi tempi antichissimi la bellezza della misericordia verso il nemico, della generosità verso il vinto ec. considerava però questo bello come figlio della sua immaginazione, e fece che Achille con grandissima difficoltà si piegasse ad usar misericordia a Priamo supplichevole nella sua tenda, e al corpo di Ettore. Difficoltà che a noi pare assurda. (E quindi incidentemente inferite l'autenticità  1084 di quell'Episodio, tanto controverso ec.) Ma a lui, ed a' suoi tempi pareva nobile, naturale e necessaria. E notate in questo proposito la differenza fra Omero e Virgilio. (24. Maggio 1821.).

[1366,1]  Non basta che Dante, Petr. Bocc. siano stati tre sommi scrittori. Nè la letteratura nè la lingua è perfetta e perfettamente formata in essi, nè quando pur  1367 fosse ciò basterebbe a porre nel 300 il secol d'oro della lingua. Qual poeta, anzi quale scrittore, anzi quale ingegno maggiore di Omero ebbe {mai, non dirò} la Grecia, ancorchè sì feconda per sì gran tempo, {ma il mondo?} E tuttavia nessuno può riporre la perfetta formazione e il secol d'oro della lingua greca, nel tempo, e neppur nella lingua d'Omero: {+(v. se vuoi, la lettera al Monti sulla Grecità del Frullone, in fine. Proposta ec. vol. 2. par. 1. appendice.)} quantunque la lingua greca sia molto più formata in Omero, che non è l'italiana massime in Dante; perchè Dante fu quasi il primo scrittore italiano, Omero non fu nè il primo scrittore nè il primo poeta greco. E la lingua greca architettata (siccome lingua veramente antica) sopra un piano assai più naturale ec. del nostro, era capace di arrivare alla perfezione sua propria in molto meno tempo dell'italiana, ch'è pur lingua moderna, e spetta (necessariamente) al genere moderno. (22. Luglio 1821.). {{V. p. 1384. fine.}}

[1449,1]  Non solo i contemporanei p. e. di Omero, sentivano e gustavano la di lui semplicità ben meno di noi, come ho detto altrove p. 1420, ma lo stesso Omero non si accorgeva di esser semplice, non credè non cercò di esser pregevole per questo, non sentì non conobbe pienamente il pregio e il gusto della semplicità (nè in genere, nè della sua propria): come si può vedere in quei soverchi epiteti ec. ed altri ornamenti ch'egli profonde fuor di luogo, come fanno i fanciulli  1450 quando cominciano a comporre, e si studiano e stiman pregio dell'opera tutto il contrario della semplicità, cioè l'esser manierati, ornati ec. Segni di un'arte bambina, la quale infanzia dell'arte produceva insaputamente la semplicità, e volutamente questi piccoli difetti in ordine alla stessa semplicità; difetti che un'arte più matura ha saputo facilmente evitare cercando la semplicità, la quale però non ha mai più potuto conseguire. Così dico dell'Ariosto ec. de' cui difetti ho parlato ne' miei primi pensieri pp. 4-5 , ed altrove p. 700. Così dei trecentisti manieratissimi, e scioccamente carichi di ornamenti in molte cose, benchè, per indole naturale, semplicissimi ec. (4. Agos. 1821.).

[1987,1]  Per la copia e la vivezza ec. delle rimembranze sono piacevolissime e e poeticissime tutte le imagini che tengono del fanciullesco, e tutto ciò che ce le desta (parole, frasi, poesie, pitture, imitazioni o realtà ec.). Nel che tengono il primo luogo gli antichi poeti, e fra questi Omero. Siccome le impressioni, così le ricordanze della fanciullezza in qualunque età, sono più vive che quelle di qualunque altra età. E son piacevoli per la loro vivezza, anche le ricordanze d'immagini e di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose, o spaventose ec. E per la stessa ragione ci è piacevole nella vita anche la ricordanza dolorosa, e quando bene la cagion del dolore non sia passata, e quando pure la ricordanza lo cagioni o l'accresca, come nella morte de' nostri  1988 cari, il ricordarsi del passato ec. (25. Ott. 1821.).

[2126,1]  La gran libertà, varietà, ricchezza della lingua greca, ed italiana, (siccome oggi della tedesca) qualità proprie del loro carattere, oltre le altre cagioni assegnatene altrove pp. 2060-65 , riconosce come una delle principali cause la circostanza contraria a quella che produsse le qualità contrarie nella lingua latina e francese; cioè la mancanza di capitale, di società nazionale, di unità politica, e di un centro di costumi, opinioni,  2127 spirito, letteratura e lingua nazionale. Omero e Dante (massime Dante) fecero espressa professione di non volere restringere la lingua a veruna o città o provincia d'italia, e per lingua cortigiana l'Alighieri, dichiarandosi di adottarla, intese una lingua altrettanto varia, quante erano le corti e le repubbliche e governi d'italia in que' tempi. Simile fu il caso d'Omero e della Grecia a' suoi tempi e poi. Simile è quello dell'italia anche oggi, e simile è stato da Dante in qua. Simile pertanto dev'essere assolutamente la massima fondamentale d'ogni vero filosofo linguista italiano, come lo è fra' tedeschi. (19. Nov. 1821.).

[2370,1]  Non basta. Questa radice, non solo è delle antichissime nella lingua greca, ma di quelle che s'avevano per antiquate negli stessi antichi tempi della greca letteratura. V. il simposio di Senofonte, c. 8. §. 30, dove ricerca l'etimologia del nome di Ganimede e per provare che Γανυ, viene da una radice che significa godimento, diletto, ec. ricorre ad Omero. Dunque al tempo di Senofonte, ell'era già disusata, e certo non era volgare, quantunque ella si trovi anche in alcuni pochi autori o contemporanei o posteriori a lui: il che non dee far maraviglia perchè l'imitazione di Omero durò sempre nella poesia greca; le sue parole e la sua lingua furono sempre tenute proprie d'essa poesia; oltre che il poeta usa senza biasimo molte parole antiquate per più ragioni che ve l'autorizzano, ed anche glielo prescrivono. Ora questa voce {(e suoi derivati)} non si trova quasi che ne' poeti, e si può dir poetica. Così durano fra  2371 nostri scrittori, e massime poeti, molte parole ec. di Dante, disusate nel resto ec. E dal luogo di Senofonte si vede che quella voce era sin d'allora in grecia, quel che sarebbe fra noi una voce detta dantesca.

[2503,1]  I primi scrittori e formatori di qualsivoglia lingua, e fondatori di qualsivoglia letteratura, non solo non fuggirono il barbarismo, ma lo cercarono. {+V. Caro, Apologia, p. 23-40. cioè l'introduzione del Predella.} Tolsero voci e modi {e forme e metafore e maniere di stile e costruzioni ec.} (e questo in gran copia) dalle lingue madri, dalle sorelle, e anche dalle affatto aliene,  2504 massimamente se a queste, benchè aliene, apparteneva quella letteratura sulla quale essi si modellavano, e dalla quale venivano derivando e imparavano a fabbricar la loro. Dante è pieno di barbarismi, cioè di maniere e voci tolte non solo dal latino, ma dall'altre lingue o dialetti ch'avevano una tal qual dimestichezza o commercio colla nostra nazione, e in particolare di provenzalismi (che vengono ad essere appunto {presso a poco} i gallicismi, tanto abominevoli oggidì); de' quali abbondano parimente gli altri trecentisti, e i ducentisti ec. Di barbarismi abbonda Omero, com'è bene osservato dagli eruditi: di barbarismi Erodoto: di barbarismi i primi scrittori francesi ec.

[2513,1]  Queste verità sono confermate dalla storia di qualunque letteratura e lingua. La purità dell'Atticismo non divenne un pregio nell'idea de' greci, nè fu sinonimo d'eleganza presso loro, se non dopo che i greci ebbero a udire ed usare familiarmente voci e frasi forestiere. Omero, Erodoto, Senofonte medesimo (specchio d'Atticismo) erano  2514 stati elegantissimi con voci e frasi forestiere, poco usate da' greci de' loro tempi; anzi per mezzo appunto d'esse voci e frasi, fra l'altre cose. Non si pregia la purità, nè anche si nomina, se non dopo la corruzione, cioè quand'essa e[è] pellegrina. E prima della corruzione si pregia il forestiero perchè pellegrino. Ennio, Plauto, Terenzio, Lucrezio ec. specchi della eleganza latina, son pieni di grecismi, cioè di barbarismi. Al tempo di Cicerone, di Orazio, e molto più di Seneca, di Frontone ec. che l'italia parlava già mezzo greco, erano sorti i zelanti della purità, e il grecismo lodato in Plauto e in Cecilio Oraz. ad Pison.) era impugnato ne' moderni, e proibito affatto da' pedanti, e usato con moderazione dai savi, e Cicerone se ne scusa spesso, e loda ed ama e deplora la purità dell'antico sermone, e la favella di sua nonna, ch'al tempo di sua nonna tutti i buoni scrittori posponevano al grecismo, quanto potevano  2515 farlo senza riuscire oscuri presso un popolo allora ignorante del forestiero, e del greco, e delle voci e frasi che non fossero nazionali. Dal che, e non da altro, e forse dalla stessa poca loro perizia del greco, nacque che gli antichi scrittori latini, benchè abbondanti di grecismi e barbarismi, pur si riputassero e fossero modelli del puro sermone Romano, rispetto agli scrittori più moderni. E lo stesso dico degli antichi italiani.

[2523,1]  Ovidio descrive, Virgilio dipinge, Dante (e così proporzionatamente nella prosa il nostro Bartoli) a parlar con proprietà, non solo dipinge da maestro in due colpi, e vi fa una figura con un tratto di pennello; non solo dipinge senza descrivere, (come fa anche Virgilio ed Omero), ma intaglia e scolpisce dinanzi agli occhi del lettore le proprie idee, concetti, immagini, sentimenti. (29. Giugno, 1822. dì di S. Pietro.).

[2544,2]  Della vita {e condizione} d'Omero ogni cosa è nascosta. E pure in questa universale ignoranza, una tradizione antichissima ed universale e perpetua si mantiene, e tutti, che tutto ignorano intorno a lui, questo solo n'affermano ed hanno per certo, che fosse povero {e} misero. Così la fama non ha voluto che si dubiti, nè che resti nel puro termine di congettura che il primo e il sommo de'  2545 poeti incontrasse la sorte comune di quelli che lo seguirono. Ed ha confermato coll'esempio dell'ἀρχηγός di questa infelice famiglia, che qualunque è d'animo veramente e fortemente poetico (intendo ogni uomo di viva immaginazione e di vivo sentimento, scriva o no, in prosa o in verso) {nasce} infallibilmente destinato all'infelicità. (4. Luglio 1822.).

[2573,1]  Omero è il padre e il perpetuo principe di tutti i poeti del mondo. Queste due qualità di padre e principe non si riuniscono in verun altro uomo rispetto a verun'altra arte o scienza umana. Di più, nessuno riconosciuto per principe in qualunque altra arte o scienza, se ne può con questa sicurezza, cagionata dall'esperienza di tanti secoli, chiamar principe  2574 perpetuo. Tale è la natura della poesia ch'ella sia somma nel cominciare. Dico somma e inarrivabile in appresso in quanto puramente poesia, ed in quanto vera poesia, non in quanto allo stile ec. ec. Esempio ripetuto in Dante, che in quanto poeta, non ebbe nè avrà mai pari fra gl'italiani. (21. Luglio 1822.).

[2645,2]  La storia greca, romana ed ebrea contengono le reminiscenze delle idee acquistate da ciascuno nella sua fanciullezza. Ciascun nome, ciascun fatto delle dette storie, e massime i principali e più noti ci richiamano idee quasi primitive per noi, e sono in certo modo legati alla storia della vita, e della fanciullezza  2646 massimente[massimamente], delle cognizioni, de' pensieri di ciascuno di noi. Quindi l'interesse che ispirano le dette storie, e loro parti, e tutto ciò che loro appartiene; interesse unico nel suo genere, come fu osservato da Chateaubriand (Génie ec.); interesse che non può esserci mai ispirato da verun'altra storia, sia anche più bella, varia, grande, e per se più importante delle sopraddette; sia anche più importante per noi, come le storie nazionali. Le suddette tre sono le più interessanti perchè sono le più note; perchè sono le più domestiche, familiari, pratiche, e quasi strette parenti di ciascun uomo civile e colto, ancorchè di patria diversissimo da queste tre nazioni. E perciò elle sono le più, anzi le sole, feconde di argomenti {storici} veramente propri d'epopea, di tragedia, ec.  2647 e all'interesse dei detti argomenti, massime nella poesia, non si può supplire in verun conto, nè con veruna industria, cavando argomenti {o dall'immaginazione, o} dalle altre storie, neppur dalle patrie. Aggiungasi alle tre dette storie, quella della guerra troiana, la quale interessa sommamente per le dette ragioni, anzi più delle altre tre, perchè i poemi d'Omero e di Virgilio, l'hanno resa più nota e familiare a ciascuno, che verun'altra, e perch'ella a cagione dei detti poemi, delle favole ec. è più legata alle ricordanze della nostra fanciullezza, che non sono la storia greca e romana, e neanche l'ebrea. Tutto ciò è relativo, e l'interesse delle dette storie non deriva particolarmente dalle loro proprie e intrinseche qualità, ma dalla circostanza estrinseca dell'essere le medesime familiari  2648 a ciascuno fin dalla sua fanciullezza; tolta la qual circostanza, che ben si potrebbe togliere, dipendendo dalla educazione ec., questo interesse o si confonderebbe e agguaglierebbe con quello delle altre storie, e argomenti storici, o sarebbe anche superato. (Roma. 25. Nov. 1822.).

[2759,2]  Chi vuol manifestamente vedere la differenza de' tempi d'Omero da quelli di Virgilio, quanto ai costumi, e alla civilizzazione, e alle opinioni che  2760 s'avevano intorno alla virtù e all'eroismo, {+siccome anche quanto ai rapporti scambievoli delle nazioni, ai diritti e al modo della guerra, alle relazioni del nimico col nimico;} e chi vuol notare la totale diversità che passa tra il carattere e l'idea della virtù eroica che si formarono questi due poeti, e che l'uno espresse in Achille e l'altro in Enea, consideri quel luogo dell'Eneide (X. 521-36.) dov'Enea fattosi sopra Magone che gittandosi in terra e abbracciandogli le ginocchia, lo supplica miserabilmente di lasciarlo in vita e di farlo cattivo, risponde, che morto Pallante, non ha più luogo co' Rutuli alcuna misericordia nè alcun commercio di guerra, e spietatamente pigliandolo per la celata, gl'immerge la spada dietro al collo per insino all'elsa. Questa scena e questo pensiero è tolto di peso da Omero, il quale introduce Menelao sul punto di lasciarsi commuovere da simili prieghi, ripreso da Agamennone, che senza alcuna pietà uccide il troiano già vinto e supplichevole.

[2976,1]  Benchè materiale, non sarà perciò vana l'osservazione che i poemi d'Omero, massime l'Iliade, avuto rispetto alla qualità della lingua greca, la quale in un dato numero di parole o di versi dice molto più che le lingue moderne naturalmente e ordinariamente non dicono, i poemi d'Omero, ripeto, sono i più lunghi di tutti i poemi Epici conosciuti nelle letterature Europee. Paragonati all'Eneide, ch'è poema scritto nella lingua più di tutte vicina alla detta facoltà della lingua greca, oltre ch'essi sono composti di 24 libri ciascuno, laddove l'Eneide di soli dodici, si trova che avendo l'Eneide 9896 versi, l'Odissea n'ha 12096, e l'Iliade 15703, il qual computo l'ho fatto io medesimo. Notisi che i versi di Virgilio sono della stessa misura che quelli di Omero. Questo parallelo così esatto non si potrebbe fare coi poemi scritti nelle lingue moderne, sì per la differente misura  2977 de' versi e quantità delle sillabe che questi contengono, sì molto maggiormente perchè le lingue moderne hanno bisogno d'assai più parole che non la lingua greca e latina per significare una stessa cosa. Onde quando anche v'avesse qualche poema epico moderno che di parole eccedesse quelli d'Omero, credo però che tutti debbano consentire che nel numero, per così dire, o nella quantità delle cose niuno ve n'ha che non sia notabilmente minore di questi, o certo dell'uno d'essi, cioè dell'iliade.

[2995,2]  {Alla p. 2891.} Il Fischer nella prefazione alla Grammat. Greca del Weller, ed. Lips. 1756. dice che i pleonasmi d'Omero derivano dalla lingua ebraica. Che che sia di questa proposizione, certo è che quel pleonasmo di νόστιμον ἦμαρ e simili, da me notato altrove p. 2890, e non osservato dal Fischer, può servire a spiegar molti passi della Scrittura nei quali la parola giorno non serve che ad una perifrasi, onde  2996 p. e. in die irae tuae, non vale altro che in ira tua; cosa finora, ch'io sappia, non veduta dagl'interpreti, i quali p. e. pensano che quel dies significhi il giorno del giudizio ec. (20. Luglio. 1823.).

[3010,1] Or questa diversa e poetica inflessione e pronunzia de' vocaboli correnti, che altro è per l'ordinario, se non inflessione e pronunzia antica, usitata dagli antichi prosatori, nell'antico discorso, ed ora andata in disuso nella prosa e nel parlar familiare? di modo che quelle parole così pronunziate e scritte non altro sono veramente che parole antiche e arcaismi, in quanto così sono scritte e pronunziate? nè altro è ordinariamente dire inflessioni, licenze, voci poetiche se non arcaismi? Vedi in questo proposito una bella riflessione di Perticari, Apologia, Capo 14. fine p. 131-2. Certo questa diversità d'inflessione per la più parte non è se  3011 non quello ch'io dico: così ne' poeti greci, così ne' latini (più schivi però dell'antico, e quindi il loro linguaggio poetico è assai meno distinto dalla lor prosa quanto a' vocaboli, che il greco), così negl'italiani. Perocchè non è da credere che {la inflession d'}una voce sia stimata, e quindi veramente sia, più elegante o per la prosa o pel verso, perchè e quanto ella è più conforme all'etimologia, ma solamente perchè e quanto ella è meno trita dall'uso familiare, essendo però bene intesa e non riuscendo ricercata. (Anzi bene spesso è trivialissima l'inflessione regolare ed etimologica, ed elegantissima e tutta poetica la medesima voce storpiata, come dichiaro in altro luogo pp. 2075-76). E questo non esser trita, nè anche ricercata, ma pur bene intesa, come può accadere a una voce, o ad una cotale inflessione della medesima? Il pigliarla da un particolar dialetto {o l'infletterla secondo questo} fa ch'ella non riesca trita all'universale, ma difficilmente può far ch'ella e non paia ricercata e sia bene intesa da tutti. {+Oltre ch'ella riesce anche trita a quella parte della nazione di cui quel dialetto è proprio.} In verità i dialetti particolari sono scarso sussidio e fonte al linguaggio poetico, e all'eleganza qualunque. Lo vediamo noi italiani in Dante, dove le  3012 le voci e inflessioni veramente proprie di dialetti particolari d'italia fanno molto mala riuscita, nè la poesia nostra, nè verun savio tra' nostri o poeti o prosatori ha mai voluto imitar Dante nell'uso de' dialetti, non solo generalmente, ma neppure in ordine a quelle medesime voci e pronunzie o inflessioni da lui adoperate. Circa l'uso e mescolanza de' dialetti greci nella inflessione delle parole appresso Omero, non volendo rinnovare le infinite discussioni già fatte da tanti e tanti in questo proposito, solamente dirò che o le circostanze della Grecia e d'Omero erano diverse da quelle che noi possiamo considerare, e quindi per l'antichità ed oscurità della materia non potendo nulla giudicarne di certo e di chiaro, niuno argomento ne possiamo dedurre; ovvero (e così penso) quelle inflessioni che in Omero s'attribuiscono a' dialetti, e da' dialetti si stima che Omero le prendesse, {o tutte o gran parte} erano in verità proprie della lingua greca comune del suo tempo, o d'una lingua, o vogliamo dir d'un uso più  3013 antico ancora di lui; dalla qual lingua comune, o {{fosse}} più antica, o allora usitata, Omero tolse quelle inflessioni ch'egli si stima aver pigliato da questo e da quel dialetto indifferentemente e confusamente. Non volendo ammetter nulla di questo, dirò che in Omero la mescolanza de' dialetti dovè riuscir così male come in Dante. Circa i poeti greci posteriori, i quali tutti (fuor di quelli che scrissero in dialetti privati, come Saffo, Teocrito ec.) seguirono interamente Omero, come in ogni altra cosa, così nella lingua, e da lui tolsero quanto il loro linguaggio ha di poetico, cioè della sua lingua formarono quella che si chiama dialetto poetico greco, ossia linguaggio poetico comune, la questione non è difficile a sciogliere. Perocchè quelle inflessioni ch'essi adoperavano, benchè proprie di particolari dialetti, essi non le toglievano da' dialetti ma dal dialetto o linguaggio Omerico, di modo ch'elle riuscivano eleganti e poetiche, non in quanto proprie di privati dialetti, ma in quanto antiche ed Omeriche; ed erano bene intese  3014 dall'universale della nazione, nè parevano ricercate perchè tutta la nazione benchè non usasse familiarmente nè in iscrittura prosaica le inflessioni e voci Omeriche, le conosceva però e v'aveva l'orecchio assuefatto per lo gran divulgamento de' versi d'Omero cantati da' rapsodi per le piazze e le taverne, e saputi a memoria fino da' fanciulli. {#1. V. p. 3041.} Il che non accadde a' poemi di Dante, il quale non fu mai in italia neppur poeta di scuola, come Omero in grecia presso i grammatisti medesimi, o certo presso i grammatici (vedi il Laerz. del Wetstenio, tom. 2. p. 583. not. 5.); nè il dialetto o linguaggio poetico italiano è o fu mai quello di Dante. Dico generalmente parlando, e non d'alcuni pochi e particolari poeti, suoi decisi imitatori, come Fazio degli Uberti, l'autore del Quadriregio Federico Frezzi, ed alcuni dell'ultimo secolo, come il Varano. Neppur la lingua del Petrarca è quella di Dante, nè da lui fu presa, nè punto si serve de' particolari dialetti.

[3041,1]   3041 Alla p. 3014. Io credo per certo che in qualunque modo, quelle inflessioni, voci, frasi ec. che in Omero si credono proprie di tale o tal altro dialetto, fossero al suo tempo per qualsivoglia cagione conosciute ed intese da tutte le nazioni greche, o se non altro, da una tal nazione (come forse la ionica), alla qual sola, in questo caso, egli avrà avuto in animo di cantare e di scrivere, e avrà probabilmente cantato e scritto. Quanto agli altri poeti, se le ragioni che ho addotte per ispiegare come, malgrado l'uso de' dialetti, essi fossero universalmente intesi, non paressero bastanti, si osservi che effettivamente in grecia, siccome altrove, i poeti cessarono ben presto di cantare al popolo, (e così pur gli altri scrittori), e il linguaggio poetico greco divenne certo inintelligibile al volgo, dal cui idioma esso era anche più separato che non è la lingua poetica italiana dalla volgare e familiare. Scrissero dunque i poeti per le persone colte, le quali intendendo e studiando tuttodì e sapendo a memoria i versi d'Omero, e citandoli, parodiandoli, alludendovi a ogni tratto  3042 nella colta conversazione e nella scrittura, intendevano anche facilmente gli altri poeti, e il linguaggio poetico greco, benchè composto delle proprietà di vari dialetti. Perocchè esso era tutto Omerico, come ho detto, sia in ispecie sia in genere; cioè le inflessioni, le frasi, le voci che lo componevano, o erano le identiche Omeriche (e tali erano in fatti forse la più gran parte), o erano di quel tenore, di quella origine, derivate o formate da quelle di Omero, o tolte dai fonti e dai luoghi ond'egli le trasse, e ciò secondo i modi e le leggi da lui seguite. Quei poeti che scrissero dopo Omero al popolo, e per il popolo composero, come i drammatici, poco o nulla mescolarono i dialetti, e ne segue effettivamente che se talvolta il loro stile è Omerico, come quello di Sofocle, il loro linguaggio però non è tale. Esso è attico veramente, {+siccome fatto per gli Ateniesi,} se non forse nei pezzi lirici, i quali anche per la natura del soggetto e del genere, sarebbero stati poco alla portata degl'ignoranti. In effetto Frinico appresso Fozio (cod. 158.) conta fra' modelli, regole  3043 norme del puro e schietto sermone attico i tragici Eschilo, Sofocle, Euripide, e i Comici in quanto sono attici, perocchè questi talora per ischerzo o per contraffazione mescolarono qualche cosa d'altri dialetti, e ciò non appartiene al nostro proposito, ed alcuni tragici, forse, avendo rispetto al gran concorso de' forestieri che d'ogni parte della grecia accorrevano alla rappresentazione dei drammi in Atene, non avranno avuto riguardo di usare alcuna cosa d'altri dialetti. Ma generalmente si vede che il dialetto de' drammatici greci è un solo. E del resto, siccome tra noi e ne' teatri di tutte le colte nazioni, benchè la più parte dell'uditorio sia popolo, nondimeno i drammi che s'espongono, non sono scritti nè in istile nè in lingua popolare, ma sempre colta, e bene spesso anzi poetichissima e diversissima dalla corrente e familiare ed eziandio dalla prosaica colta; così si deve stimare che accadesse appresso a poco più o meno anche in grecia e in Atene, dove i giudici de' drammi che concorrevano al premio,  3044 non era finalmente il popolo, ma uno scelto {e piccol} numero d'intelligenti, e dove le persone colte fra quelle che componevano l'uditorio, erano per lo meno in tanto numero come fra noi. {V. il Viaggio d'Anacar. cap. 70.}

[3095,2]  Riprendono {nell'iliade} la poca unità, l'interesse principale che i lettori prendono per Ettore, il doppio Eroe (Ettore ed Achille), e conchiudono che {se Omero} nelle parti è superiore agli altri poeti, nel tutto però preso insieme, nella condotta del poema, nella regolarità è inferiore agli altri epici, particolarmente a Virgilio. Certo se potessero esser vere regole {di poesia} quelle che si oppongono al buono e grande effetto della medesima e alla natura dell'uomo, io non disconverrei da queste sentenze. {In proposito delle cose contenute nel séguito di questo pensiero, vedi la pag. 470. capoverso 2.}

[3289,3]  Sogliono le opere umane servire di modello successivamente l'une all'altre, e così appoco perfezionandosi il genere, e ciascuna opera, o le più  3290 d'esse riuscendo migliori de' loro modelli fino all'intero perfezionamento, il primo modello apparire ed essere nel suo genere la più imperfetta opera di tutte l'altre, per infino alla decadenza e corruzione d'esso genere, che suole altresì ordinariamente succedere all'ultima sua perfezione. Non così nell'epopea; ma per lo contrario il primo poema epico, cioè l'iliade che fu modello di tutti gli altri, si trova essere il più perfetto di tutti. Più perfetto dico nel modo che ho dimostrato parlando della vera idea del poema epico p. 3095- 3169. Secondo le quali osservazioni da me fatte si può anzi dire che siccome l'ultima perfezione dell'epopea (almen quanto all'insieme e all'idea della medesima) si trova nel primo poema epico che si conosca, così la decadenza e corruzione di questo genere incominciò non più tardi che subito dopo il primo poema epico a noi noto. Similmente negli altri generi di poesia, per lo più, i migliori e più perfetti modelli ed opere sono le più antiche, o assolutamente parlando, o relativamente alle nazioni {e letterature} particolari,  3291 come tra noi la Commedia di Dante è nel suo genere, siccome la prima, così anche la migliore opera. (28. Agosto. 1823.).

[3479,1]  Il poeta dee mostrar di avere un fine più serio che quello di destar delle immagini e di far delle descrizioni. E quando pur questo sia il suo intento principale, ei deve cercarlo in modo come s'e' non se ne curasse, e far vista di non cercarlo, ma di mirare a cose più gravi; ma descrivere fra tanto, e introdurre nel suo poema le immagini, come cose a lui poco importanti che gli {scorrano} naturalmente dalla peña[penna]; e, per dir così, descrivere e introdurre immagini, con gravità, con serietà, senz'alcuna dimostrazione di compiacenza e di studio apposito, {+e di pensarci e badarci, nè di voler che il lettore ci si fermi.} Così fanno Omero e Virgilio e  3480 Dante, i quali pienissimi di vivissime immagini e descrizioni, non mostrano pur d'accorgersene, ma fanno vista di avere un fine molto più serio che stia loro unicamente a cuore, ed al qual solo festinent continuamente, cioè il racconto dell'azioni e l'evento o successo di esse. Al contrario fa Ovidio, il quale non dissimula, non che nasconda; ma dimostra e, per dir così, {confessa} quello che è; cioè a dir ch'ei non ha maggiore intento nè più grave, anzi a null'altro mira, che descrivere, ed eccitare e seminare immagini e pitturine, e figurare, e rappresentare continuamente. (20. Sett. 1823.).

[3931,1]   3931 Al detto altrove p. 961 pp. 3012-14 pp. 3041-47 sopra i dialetti d'Omero, e quello d'Empedocle, che benchè Dorico usò il dialetto Ionico, aggiungi che nello stesso caso è Ippocrate, e vedi Fabric. B. G. edit. vet. in Hippocr. §. 1. t. 1. p. 844. lin. 4-6. e nott. i. k. (27. Nov. 1823.).

[3964,3]  Parlo altrove p. 961 pp. 3012-14 pp. 3041-47 de' dialetti d'Omero. Posto che il dialetto Ionico non fosse il comune o il più comune, e perciò prescelto, l'avere Omero scritto in un dialetto piuttosto che nella lingua comune, non prova altro se non che questa a' suoi tempi non v'era; e il non esservi prova che non v'era ancora letteratura greca formata, perchè nè questa poteva esservi senza quella, e la mancanza di lingua comune è segno certo ed effetto non d'altro che della mancanza di letteratura nazionale o della sua infanzia, poca diffusione ec. Similmente dico di {#2. Democrito ec. Ctesia è più moderno, ma forse anteriore al pieno della letteratura ateniese ec} Erodoto {#1. V. p. 3982.} e degli altri che ne' più antichi tempi scrissero ne' dialetti loro nativi e non in lingua comune. Del resto se Omero usò {e mescolò} anche gli altri dialetti più di quello che poi fosse fatto dagli altri scrittori greci, anche poeti, prevalendo però in lui l'ionico; il simile fece Dante, che  3965 usò e mescolò i dialetti d'italia molto più che poi gli altri, anche poeti, e a lui vicini, non fecero, e che oggi niuno farebbe, perchè v'è lingua comune, e questa certa e formata e determinata, e tutto ciò principalmente a causa della letteratura. Se poi alcuni, come Empedocle e Ippocrate, non essendo ioni ec., scrissero nell'ionico, {V. p. 3982.} ciò fu perchè Omero l'aveva usato e fatto famoso e atto alla scrittura, e creduto solo o principalmente capace di essere scritto, nel modo stesso che poi l'abbondanza degli scrittori ateniesi, maggiore che quella degli altri, rese comune, e per sempre, il dialetto attico, o una lingua partecipante massimamente dell'attico, e lo ridusse ad essere il greco propriamente detto sì nell'uso dello scrivere, sì in quello del parlare, massime delle persone colte; e nel modo stesso che in italia per simil cagione è avvenuto rispetto al toscano, mentre prima, come in grecia l'ionico invece dell'attico, così in italia si era fatto comune ec. non il toscano, ma il siculo ec. per la coltura di quella corte e poeti ec. e loro abbondanza preponderante ec. {Del resto l'uso dell'ionico fatto anticamente dagli non ionici prova con certezza che il ionico o era il greco comune, o il più comune, o il solo o il più applicato e quindi atto alla letteratura e al dir colto ec. o il più famoso ec. v. p. 3991.} Onde molto s'ingannano, secondo me, quelli sì antichi (v. i luoghi citati alla pagina 3931.) sì moderni (che sono, io credo, non pochi) i quali riconoscono l'uso o preponderanza del dialetto ionico in Omero, in Ippocrate ec. e nelle scritture dell'antica grecia da questo, che il dialetto ionico, secondo loro, o almen quello di detti scrittori {+quale egli si è} ec. era l'antico dialetto attico, e usato dagli ateniesi. Il che, se non hanno altri argomenti per provarlo, certamente non è provato dall'uso di quegli scrittori, poichè che diritto e che mezzo aveva allora il dialetto ateniese per esser preferito agli altri nelle scritture? Essi cadono nel solito errore,  3966 sì comune per sì lungo tempo (e fin oggi) in italia, anche fra' più dotti e imparziali, circa il dialetto toscano, cioè di credere che l'attico prevalesse agli altri dialetti per se (mentre niun dialetto prevale per se, giacchè quanto all'ordine, forma ec. esso non l'ha prima della letteratura, quanto alla bellezza del suono materiale ec. questo è un sogno, perchè a tutti i popoli {+e parti di essi} è più bello degli altri suoni quello che gli è dettato dalla natura, e quindi quello del dialetto nativo, e imparato nella fanciullezza ec.), e non per causa della preponderante letteratura e scrittori attici, la qual causa a' tempi d'Omero ec. non esisteva, anzi Atene non aveva, che si sappia, scrittore alcuno, non che n'abbondasse particolarmente ec. Neanche era potente, nè commerciante, nè che si sappia, assai culta, o più culta degli altri, seppure aveva coltura alcuna notabile. Bensì lo erano gl'ioni ec. e questo appunto produsse o fece possibile un Omero ec. Se poi hanno altre prove della detta proposizione, certo ragionano a rovescio pigliando per effetto la causa, e per causa l'effetto. Poichè se quello fu allora il dialetto attico, ciò venne appunto perch'esso aveva avuto scrittori e letteratura, e così fattosi comune ec., ovvero a causa del commercio {+e potenza} e della coltura degl'ioni, alla qual coltura non avrà poco contribuito la stessa letteratura che n'aveva avuto origine ec. Del resto gli attici erano molto facili ad adottare le voci e modi greci stranieri, e anche i barbari, almeno ne' tempi susseguenti; e lo dice Senofonte in un luogo da me citato e discusso altrove p. 741 pp. 785-86 pp. 793. (9. Dec. 1823. Vigilia della Venuta della Santa Casa di Loreto.)

[3975,3]  In Omero tutto è vago, tutto è supremamente poetico nella maggior verità e proprietà e nella maggior forza ed estensione del termine; incominciando dalla persona {{e storia}} sua, ch'è tutta involta e seppellita nel mistero, oltre alla somma antichità e lontananza {+e diversità de' suoi tempi da' posteriori e da[da'] nostri massimamente e sempre maggiore di mano in mano.} (essendo esso il più antico, non solo scrittore che ci rimanga, ma monumento dell'antichità profana; la più antica parte dell'antichità superstite), che tanto contribuisce per se stessa a favorire l'immaginazione. Omero stesso è un'idea vaga e conseguentemente poetica. Tanto che si è anche dubitato e si dubita ch'ei non sia stato mai altro veramente che un'idea. (12. Dec. 1823.). Il qual dubbio,  3976 stoltissimo benchè d'uomini gravissimi, non lo ricordo se non per un segno di questo ch'io dico. (12. Dec. 1823.).

[4009,3]  Diminutivi greci positivati. οἰκίον per οἶκος ed οἰκία. Notisi ch'egli è antichissimo, perchè proprio di Omero. O forse degl'ioni, massime antichi. Arriano imitatore di questi l'usa nell'Indica 29. 16, 30. 9. Lo Scap. non cita che Omero. È positivato anche presso Arriano. (7. Gen. 1824.). Lo stesso discorso o dell'antichità o del dialetto ionico, massime antico, si può fare intorno al diminutivo positivato προβάτιον, ch'è d'Ippocrate, o di chi altro è l'autore del libro ec., e di cui altrove p. 4002. La quale osservazione unita con questa della voce οἰκίον, e coll'altre che si potranno fare, può dar luogo a buone conghietture circa l'uso de' diminutivi positivati nell'antico greco o ionico ec. (7. Gen. 1824.) πλημμυρίς ίδος. ϕυκίον. (7. Gen. 1824.).

[4030,10]  Neanche ad Erodoto par che fosse nativo il dialetto ionico (a proposito del detto altrove pp. 961-62), a quanto osservo nella nota del Palmerio al principio dell'Herodotus sive Aetion di Luciano. (15. Febbraio. 1824.).

[4214,3]  I francesi non hanno lingua poetica perchè hanno rigettata la lingua antica, perchè non sopportano l'antico nel verso niente più che nella prosa: e senza l'antico non vi può esser lingua poetica. I Latini che ebbero pochissima antichità di lingua, perchè il progresso della loro letteratura fu rapidissimo, e che rigettarono, ad eccezione di pochissime {e piccolissime} parti conservate nel verso, quella poca antichità che avevano, non ebbero lingua poetica propriamente, nè avrebbero avuto dicitura e stile poetico se non avessero usato nella poesia costruzioni ardite, e nuovi significati e metafore di parole, che i francesi non sopportano nella loro. {#(1) Notisi quindi che presso i latini ciascun poeta era artefice della sua lingua poetica; la lingua poetica dei latini era opera individuale del poeta, e se il poeta non se la facea, non l'aveva: dove in italiano e in greco ella era cosa universale, e il poeta l'avea già prima di porsi a comporre. E da ciò forse può nascere l'abuso e la soverchia copia del verseggiare e dei verseggiatori ec. ec.} Del resto l'avere i latini e i francesi a differenza dei greci e degl'italiani, rigettata ne' loro buoni {e perfetti} secoli l'antichità della lingua, venne, fra l'altre cose, dal non aver essi avuto nelle loro lingue antiche scrittori veramente sommi, a differenza dei greci, che ebbero Omero, Esiodo, Archiloco, Ippocrate, Erodoto ec. e degl'italiani, ch'ebbero Dante, Petrarca, Boccaccio, insomma {(come i greci)} la letteratura già stabilita, {fissata} e formata prima della lingua e della maturità della civilizzazione. (Bolog. 12. Ott. 1826.).

[4269,2]  Noi però abbiamo buonissima ragione di non porre più che tanto studio intorno allo stile dei libri, atteso la brevità della vita che essi in ogni modo (non ostante la bontà della stampa) sono per avere. Se mai fu chimerica la speranza dell'immortalità, essa lo è oggi per gli scrittori. Troppa è la copia dei libri o buoni o cattivi o mediocri che escono ogni giorno, e che per necessità fanno dimenticare quelli del giorno innanzi; sian pure eccellenti. Tutti i posti dell'immortalità in questo genere, sono già occupati. Gli antichi classici, voglio dire, conserveranno quella che hanno acquistata, o almeno è credibile che non morranno così tosto. Ma acquistarla ora, accrescere il numero degl'immortali; oh questo io non credo che sia più possibile.  4270 La sorte dei libri oggi, è come quella degl'insetti chiamati efimeri (éphémères): alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre 3 o 4 giorni; ma sempre si tratta di giorni. Noi siamo veramente oggidì passeggeri e pellegrini sulla terra: veramente caduchi: {+esseri di un giorno: la mattina in fiore, la sera appassiti, o secchi: soggetti anche a sopravvivere alla propria fama, e più longevi che la memoria di noi.} Oggi si può dire con verità maggiore che mai: Oἵη περ ϕύλλων γενεή, τοιήδε καὶ ἀνδρῶν * (Iliad. 6. v. 146.) Perchè non ai soli letterati, ma ormai a tutte le professioni è fatta impossibile l'immortalità, in tanta infinita moltitudine di fatti e di vicende umane, dapoi che la civiltà, la vita dell'uomo civile, e la ricordanza della storia ha abbracciato tutta la terra. Io non dubito punto che di qua a dugent'anni non sia per esser più noto il nome di Achille, vincitor di Troia, che quello di Napoleone, vincitore e signore del mondo civile. Questo sarà uno dei molti, si perderà tra la folla; quello sovrasterà, per esser montato in alto assai prima; conserverà il piedestallo, {il rialto,} che ha già occupato da tanti secoli.

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