Omero.
Homer.
231,2 288,1 307,2 801,1 1028,4 1083,2 1366,1 1449,1 1987,1 2126,1 2370,1 2504 2513 2523,1 2544,2 2573,1 2645,2 2759,2 2976,1 2995,2 3012-4 3041,1 3095,2 3289,3 3479,1 3931,1 3964,3 3975,3 4009,3 4030,10 4214,3 4270[231,2]
Omero e Dante per l'età loro seppero moltissime cose, e più di
quelle che sappiano la massima parte degli uomini colti d'oggidì, non solo in
proporzione dei tempi, ma anche assolutamente. Bisogna distinguere la cognizione
materiale dalla filosofica, la cognizione fisica dalla matematica, la cognizione
degli effetti dalla cognizione delle cause. Quella è necessaria alla fecondità e
varietà dell'immaginativa, alla proprietà verità evidenza ed efficacia
dell'imitazione. Questa non può fare che non pregiudichi al poeta. Allora giova
sommamente al poeta l'erudizione, quando l'ignoranza delle cause, concede al
poeta, non solamente rispetto agli altri ma anche a se stesso, l'attribuire gli
effetti che vede o conosce, alle cagioni che si figura la sua fantasia.
(5. Settembre 1820.).
[288,1] Tutte le cose si desiderano perfette relativamente al
loro genere. Tuttavia perchè il perfetto è rarissimo in tutte le specie di cose,
coloro che imitano o contraffanno, sogliono mescolare alla imitazione qualche
difetto, cioè imitare piuttosto
289 e figurare e
scegliere l'individuo difettoso che il perfetto, per render la imitazione più
verisimile e credibile, e fare inganno, e persuadere che il finto sia vero. E
laddove il difetto scema pregio all'imitato e vi si biasima, accresce pregio
all'imitazione e vi si loda. Così se tu vuoi contraffare un filo di perle, non
le fai tutte tonde perfettamente, sebbene in un filo vero le vorresti tutte
così. Ed imiti piuttosto una gemma di un prezzo mediocre, di quello che
contraffarne una inestimabile. Così dunque loderemo sempre più l'Achille difettoso di Omero, che l'Enea, il perfetto eroe di Virgilio, a cagione della credibilità, del vantaggio che ne cava
l'illusione e la persuasione. Ed estenderemo questa osservazione a regolamento
di tutti i poeti, quando scelgono qualche oggetto da imitare, acciocchè
rifiutino gli eccessi tanto di perfezione quanto d'imperfezione, intorno alla
quale siamo pure nello stesso caso. Applicate quest'ultima riflessione ai
protagonisti di Lord Byron. (20.
8.bre 1820.)
[307,2]
Omero che scriveva innanzi ad ogni
regola, non si sognava certo d'esser gravido delle regole come Giove di Minerva o di Bacco, nè che la sua irregolarità sarebbe stata misurata, analizzata,
definita, e ridotta in capi ordinati per servir di regola agli altri, e
impedirli di esser liberi, irregolari, grandi, e originali come lui. E si può
ben dire che l'originalità di un grande scrittore, producendo la sua fama,
(giacchè senza quella, sarebbe rimato oscuro, e non avrebbe servito di norma
308 e di modello) impedisce l'originalità de'
successori. Io compatisco tutti, ma in ispecie i poveri gramatici, i quali
dovendo formare la prosodia greca sopra Omero, hanno dovuto popolare il Parnaso greco di eccezioni, di
sillabe comuni ec. o almeno avvertire che molti esempi di Omero ripugnavano ai loro insegnamenti, perchè Omero innocentemente, non sapendo il gran
feto delle regole del quale erano pregni i suoi poemi, adoperava le sillabe a
suo talento, e fino nello stesso piede, adoperava la stessa sillaba una volta
{lunga,} e un'altra breve.
[801,1]
Alla p. 745.
Difficilmente si vedrà che una qualunque nazione {una
qualunque letteratura.} abbia avuto in due diversi tempi
(eccetto se {il tempo e} la nazione è del tutto
rinnuovata, come l'italiana rispetto alla latina) due scrittori eccellenti e
sommi in
802 uno stesso genere. Da che quel genere ne ha
avuto uno perfetto, e riguardato come perpetuo modello, sebbene quel genere
possa avere diverse specie, gl'ingegni grandi e superiori, o sdegnando di non
poter essere se non uguali a quello, e di dovere avere un compagno, o per la
naturale modestia e diffidenza di chi conosce bene e sente la difficoltà delle
imprese, temendo di restare inferiori in un assunto, di cui già è manifesta,
sperimentata, conseguita, la perfezione, e posta negli occhi di tutti e nei
propri loro; si sono sempre rivolti ad altro, e solamente i piccoli ingegni de'
quali è propria la confidenza e temerità sono entrati nell'arringo, spronati
dalle lodi di quell'eccellente, e dalla gola di quella celebrità, quasi fosse
facile a conseguire, e misurando l'impresa non da se stessa e dalla sua
difficoltà, ma dal loro desiderio di riuscirci, e dal premio che era proposto al
buon successo. {Un'altra ragione, e fortissima è, che quando il genere ha già avuto uno
sommo, il genere non è più nuovo; non vi si può più essere originale, senza
che, è impossibile esser sommo. O se vi si potrebbe pur essere originale,
v'è quella eterna difficoltà, che anche gl'ingegni sommi, vedendo una strada
già fatta, in un modo o in un'[un] altro
s'imbattono in quella; o confondono il genere con quella tale strada, quasi
fosse l'unica a convenirgli, benchè mille ve ne siano da poter fare, e forse
migliori assai.} La stessa Grecia in tanta
copia di scrittori e poeti d'ogni genere,
803 e di buoni
secoli letterati dopo Omero, e, quel
ch'è forse più, in tanta distanza da lui, non ebbe mai più nessun epico, se non
dappoco, come Apollonio Rodio. E lo
stesso Omero (se è vero che
l'Odissea è posteriore all'Iliade, come dice
Longino) non aggiunse niente alla sua fama pubblicando
l'Odissea. Sebbene, chiunque si fosse quest'Omero, io congetturo e credo che
l'Iliade e l'Odissea non sieno di uno stesso
autore, ma questa imitata dallo stile, dalla lingua, dal fare, e dall'Argomento
di quella, con quel languore, e sovente noia che ognuno può vedere. La qual
congettura io rimetto a quei critici che sono profondamente versati nelle
antichità omeriche, e di quei tempi antichissimi, e conoscono intimamente i due
poemi: purchè oltre a questo, siano anche persone di buon gusto e giudizio.
Taccio de' latini e degl'infelici {loro} tentativi di
Epopea dopo Virgilio, così prestante ed
eminente in essa fra loro, come Cic.
nell'eloquenza. Sebbene il Tasso non
si può veramente nel
804 suo genere dire perfetto,
neppur sommo come Omero (che sommo fu
egli, ma non il suo poema, nè egli quivi), contuttociò
l'italia dopo lui non ebbe poema epico degno di
memoria, sebbene molti o piccoli o mediocri ingegni, tentassero la stessa
carriera. Anzi quantunque vi sia tanta differenza fra il genere del poema
dell'Ariosto e quello del Tasso, pure sembrò strano ch'egli si
accingesse a quel travaglio dopo l'Ariosto, e pubblicata la Gerusalemme, i suoi nemici
non mancarono di paragonarla all'Orlando, di posporla, di accusare il Tasso di temerità ec. {Dopo Molière la
Francia non ha avuto grandi comici, nè
l'Italia dopo Goldoni.} Tutto questo, sebbene apparisca forse
principalmente nella letteratura, tuttavia si può applicare a molti altri rami
del sapere, o di altri pregi umani. Si possono però citare in contrario il Racine dopo il Corneille, e il Voltaire dopo lui, e qualche tragico inglese dopo Shakespeare, ma nessuno però di quella eccellenza e
fama. La quale per cadere nel mio discorso, dev'essere assolutamente prestante,
sorpassante e somma sì nel modello, come nel successore o successori. (17.
Marzo 1821.). {{V. p. 810. capoverso
1.}}
[1028,4] La Bibbia ed Omero sono i due gran fonti dello scrivere, dice l'Alfieri nella sua Vita.
{Così Dante nell'italiano,
ec.} Non per altro se non perch'essendo i più antichi libri,
sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita,
della varietà. Introdotta la ragione nel mondo tutto a poco a poco, e in
proporzione de' suoi progressi, divien brutto, piccolo, morto, monotono.
(11. Maggio 1821.).
[1083,2] Stante l'antico sistema di odio nazionale, non
esistevano, massime ne' tempi antichissimi, le virtù verso il nemico, e la
crudeltà verso il nemico vinto, l'abuso della vittoria ec. erano virtù, cioè
forza di amor patrio. Da ciò si vede quanto profondi filosofi e conoscitori
della storia dell'uomo, sieno quelli che riprendono Omero d'aver fatto i suoi Eroi troppo spietati e
accaniti col nemico vinto. Egli gli ha fatti grandissimi e virtuosissimi nel
senso di quei tempi, dove il nemico {della nazione} era
lo stesso, che oggi è per li Cristiani il Demonio, il peccato ec. Nondimeno Omero che pel suo gran genio ed anima
sublime e poetica, concepiva anche in que' suoi tempi antichissimi la bellezza
della misericordia verso il nemico, della generosità verso il vinto ec.
considerava però questo bello come figlio della sua immaginazione, e fece che
Achille con grandissima difficoltà
si piegasse ad usar misericordia a Priamo supplichevole nella sua tenda, e al corpo di Ettore.
Difficoltà che a noi pare assurda. (E quindi incidentemente inferite
l'autenticità
1084 di quell'Episodio, tanto controverso
ec.) Ma a lui, ed a' suoi tempi pareva nobile, naturale e necessaria. E notate
in questo proposito la differenza fra Omero e Virgilio. (24.
Maggio 1821.).
[1366,1] Non basta che Dante, Petr.
Bocc. siano stati tre sommi scrittori.
Nè la letteratura nè la lingua è perfetta e perfettamente formata in essi, nè
quando pur
1367 fosse ciò basterebbe a porre nel 300 il
secol d'oro della lingua. Qual poeta, anzi quale scrittore, anzi quale ingegno
maggiore di Omero ebbe {mai, non dirò} la Grecia,
ancorchè sì feconda per sì gran tempo, {ma il mondo?} E
tuttavia nessuno può riporre la perfetta formazione e il secol d'oro della
lingua greca, nel tempo, e neppur nella lingua d'Omero: {+(v. se vuoi, la lettera al Monti
sulla Grecità del Frullone, in fine.
Proposta ec. vol. 2. par. 1. appendice.)}
quantunque la lingua greca sia molto più formata in Omero, che non è l'italiana massime in Dante; perchè Dante fu quasi il primo scrittore italiano, Omero non fu nè il primo scrittore nè il
primo poeta greco. E la lingua greca architettata (siccome lingua veramente
antica) sopra un piano assai più naturale ec. del nostro, era capace di arrivare
alla perfezione sua propria in molto meno tempo dell'italiana, ch'è pur lingua
moderna, e spetta (necessariamente) al genere moderno. (22. Luglio
1821.). {{V. p. 1384. fine.}}
[1449,1] Non solo i contemporanei p. e. di Omero, sentivano e gustavano la di lui semplicità ben
meno di noi, come ho detto altrove p. 1420, ma lo stesso Omero non si accorgeva di esser semplice,
non credè non cercò di esser pregevole per questo, non sentì non conobbe
pienamente il pregio e il gusto della semplicità (nè in genere, nè della sua
propria): come si può vedere in quei soverchi epiteti ec. ed altri ornamenti
ch'egli profonde fuor di luogo, come fanno i fanciulli
1450 quando cominciano a comporre, e si studiano e stiman pregio
dell'opera tutto il contrario della semplicità, cioè l'esser manierati, ornati
ec. Segni di un'arte bambina, la quale infanzia dell'arte produceva
insaputamente la semplicità, e volutamente questi piccoli difetti in ordine alla
stessa semplicità; difetti che un'arte più matura ha saputo facilmente evitare
cercando la semplicità, la quale però non ha mai più potuto conseguire. Così
dico dell'Ariosto ec. de' cui difetti
ho parlato ne' miei primi pensieri pp. 4-5 , ed altrove p. 700. Così dei
trecentisti manieratissimi, e scioccamente carichi di ornamenti in molte cose,
benchè, per indole naturale,
semplicissimi ec. (4. Agos. 1821.).
[1987,1] Per la copia e la vivezza ec. delle rimembranze sono
piacevolissime e e poeticissime tutte le imagini che tengono del fanciullesco, e
tutto ciò che ce le desta (parole, frasi, poesie, pitture, imitazioni o realtà
ec.). Nel che tengono il primo luogo gli antichi poeti, e fra questi Omero. Siccome le impressioni, così le
ricordanze della fanciullezza in qualunque età, sono più vive che quelle di
qualunque altra età. E son piacevoli per la loro vivezza, anche le ricordanze
d'immagini e di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose, o spaventose ec.
E per la stessa ragione ci è piacevole nella vita anche la ricordanza dolorosa,
e quando bene la cagion del dolore non sia passata, e quando pure la ricordanza
lo cagioni o l'accresca, come nella morte de' nostri
1988 cari, il ricordarsi del passato ec. (25. Ott. 1821.).
[2126,1] La gran libertà, varietà, ricchezza della lingua
greca, ed italiana, (siccome oggi della tedesca) qualità proprie del loro
carattere, oltre le altre cagioni assegnatene altrove pp. 2060-65 , riconosce come una delle
principali cause la circostanza contraria a quella che produsse le qualità
contrarie nella lingua latina e francese; cioè la mancanza di capitale, di
società nazionale, di unità politica, e di un centro di costumi, opinioni,
2127 spirito, letteratura e lingua nazionale. Omero e Dante (massime Dante) fecero
espressa professione di non volere restringere la lingua a veruna o città o
provincia d'italia, e per lingua cortigiana l'Alighieri, dichiarandosi di adottarla,
intese una lingua altrettanto varia, quante erano le corti e le repubbliche e
governi d'italia in que' tempi. Simile fu il caso d'Omero e della
Grecia a' suoi tempi e poi. Simile è quello
dell'italia anche oggi, e simile è stato da Dante in qua. Simile pertanto dev'essere
assolutamente la massima fondamentale d'ogni vero filosofo linguista italiano,
come lo è fra' tedeschi. (19. Nov. 1821.).
[2370,1] Non basta. Questa radice, non solo è delle
antichissime nella lingua greca, ma di quelle che s'avevano per antiquate negli
stessi antichi tempi della greca letteratura. V. il simposio di Senofonte, c. 8. §. 30, dove ricerca
l'etimologia del nome di Ganimede e
per provare che Γανυ, viene da una radice che significa godimento, diletto, ec. ricorre ad Omero. Dunque al tempo di Senofonte, ell'era già disusata, e
certo non era volgare, quantunque ella si trovi anche in alcuni pochi autori o
contemporanei o posteriori a lui: il che non dee far maraviglia perchè
l'imitazione di Omero durò sempre nella
poesia greca; le sue parole e la sua lingua furono sempre tenute proprie d'essa
poesia; oltre che il poeta usa senza biasimo molte parole antiquate per più
ragioni che ve l'autorizzano, ed anche glielo prescrivono. Ora questa voce {(e suoi derivati)} non si trova quasi che ne' poeti, e
si può dir poetica. Così durano fra
2371 nostri
scrittori, e massime poeti, molte parole ec. di Dante, disusate nel resto ec. E dal luogo di Senofonte si vede che quella voce era
sin d'allora in grecia, quel che sarebbe fra noi una voce
detta dantesca.
[2503,1] I primi scrittori e formatori di qualsivoglia
lingua, e fondatori di qualsivoglia letteratura, non solo non fuggirono il
barbarismo, ma lo cercarono. {+V. Caro, Apologia, p. 23-40. cioè
l'introduzione del Predella.} Tolsero voci e modi {e
forme e metafore e maniere di stile e costruzioni ec.} (e questo in
gran copia) dalle lingue madri, dalle sorelle, e anche dalle affatto aliene,
2504 massimamente se a queste, benchè aliene,
apparteneva quella letteratura sulla quale essi si modellavano, e dalla quale
venivano derivando e imparavano a fabbricar la loro. Dante è pieno di barbarismi, cioè di maniere e voci
tolte non solo dal latino, ma dall'altre lingue o dialetti ch'avevano una tal
qual dimestichezza o commercio colla nostra nazione, e in particolare di
provenzalismi (che vengono ad essere appunto {presso a
poco} i gallicismi, tanto abominevoli oggidì); de' quali abbondano
parimente gli altri trecentisti, e i ducentisti ec. Di barbarismi abbonda Omero, com'è bene osservato dagli
eruditi: di barbarismi Erodoto: di
barbarismi i primi scrittori francesi ec.
[2513,1] Queste verità sono confermate dalla storia di
qualunque letteratura e lingua. La purità dell'Atticismo non divenne un pregio
nell'idea de' greci, nè fu sinonimo d'eleganza presso loro, se non dopo che i
greci ebbero a udire ed usare familiarmente voci e frasi forestiere. Omero, Erodoto, Senofonte medesimo
(specchio d'Atticismo) erano
2514 stati elegantissimi
con voci e frasi forestiere, poco usate da' greci de' loro tempi; anzi per mezzo
appunto d'esse voci e frasi, fra l'altre cose. Non si pregia la purità, nè anche
si nomina, se non dopo la corruzione, cioè quand'essa e[è] pellegrina. E prima della corruzione si pregia il
forestiero perchè pellegrino. Ennio,
Plauto, Terenzio, Lucrezio ec. specchi della eleganza latina, son pieni di grecismi,
cioè di barbarismi. Al tempo di Cicerone, di Orazio, e molto più
di Seneca, di Frontone ec. che l'italia
parlava già mezzo greco, erano sorti i zelanti della purità, e il grecismo
lodato in Plauto e in Cecilio
Oraz.
ad
Pison.) era impugnato ne' moderni, e proibito affatto da'
pedanti, e usato con moderazione dai savi, e Cicerone se ne scusa spesso, e loda ed ama e deplora la purità
dell'antico sermone, e la favella di sua nonna, ch'al tempo di sua nonna tutti i
buoni scrittori posponevano al grecismo, quanto potevano
2515 farlo senza riuscire oscuri presso un popolo allora ignorante del
forestiero, e del greco, e delle voci e frasi che non fossero nazionali. Dal
che, e non da altro, e forse dalla stessa poca loro perizia del greco, nacque
che gli antichi scrittori latini, benchè abbondanti di grecismi e barbarismi,
pur si riputassero e fossero modelli del puro sermone Romano, rispetto agli
scrittori più moderni. E lo stesso dico degli antichi italiani.
[2523,1]
Ovidio descrive, Virgilio dipinge, Dante (e così proporzionatamente nella prosa il nostro Bartoli) a parlar con proprietà, non
solo dipinge da maestro in due colpi, e vi fa una figura con un tratto di
pennello; non solo dipinge senza descrivere, (come fa anche Virgilio ed Omero), ma intaglia e scolpisce dinanzi agli occhi del lettore le
proprie idee, concetti, immagini, sentimenti. (29. Giugno, 1822. dì di
S.
Pietro.).
[2544,2] Della vita {e condizione}
d'Omero ogni cosa è nascosta. E pure
in questa universale ignoranza, una tradizione antichissima ed universale e
perpetua si mantiene, e tutti, che tutto ignorano intorno a lui, questo solo
n'affermano ed hanno per certo, che fosse povero {e}
misero. Così la fama non ha voluto che si dubiti, nè che resti nel puro termine
di congettura che il primo e il sommo de'
2545 poeti
incontrasse la sorte comune di quelli che lo seguirono. Ed ha confermato
coll'esempio dell'ἀρχηγός di questa infelice famiglia, che qualunque è d'animo
veramente e fortemente poetico (intendo ogni uomo di viva immaginazione e di
vivo sentimento, scriva o no, in prosa o in verso) {nasce} infallibilmente destinato all'infelicità. (4. Luglio
1822.).
[2573,1]
Omero è il padre e il perpetuo principe
di tutti i poeti del mondo. Queste due qualità di padre e principe non si
riuniscono in verun altro uomo rispetto a verun'altra arte o scienza umana. Di
più, nessuno riconosciuto per principe in qualunque altra arte o scienza, se ne
può con questa sicurezza, cagionata dall'esperienza di tanti secoli, chiamar
principe
2574 perpetuo. Tale è la natura della poesia
ch'ella sia somma nel cominciare. Dico somma e inarrivabile in appresso in
quanto puramente poesia, ed in quanto vera poesia, non in quanto allo stile ec.
ec. Esempio ripetuto in Dante, che in
quanto poeta, non ebbe nè avrà mai pari fra gl'italiani. (21. Luglio
1822.).
[2645,2] La storia greca, romana ed ebrea contengono le
reminiscenze delle idee acquistate da ciascuno nella sua fanciullezza. Ciascun
nome, ciascun fatto delle dette storie, e massime i principali e più noti ci
richiamano idee quasi primitive per noi, e sono in certo modo legati alla storia
della vita, e della fanciullezza
2646
massimente[massimamente], delle cognizioni, de'
pensieri di ciascuno di noi. Quindi l'interesse che ispirano le dette storie, e
loro parti, e tutto ciò che loro appartiene; interesse unico nel suo genere,
come fu osservato da Chateaubriand
(Génie ec.); interesse che non può esserci mai ispirato da
verun'altra storia, sia anche più bella, varia, grande, e per se più importante
delle sopraddette; sia anche più importante per noi, come le storie nazionali.
Le suddette tre sono le più interessanti perchè sono le più note; perchè sono le più domestiche, familiari, pratiche, e quasi
strette parenti di ciascun uomo civile e colto, ancorchè di patria diversissimo
da queste tre nazioni. E perciò elle sono le più, anzi le sole, feconde di
argomenti {storici} veramente propri d'epopea, di
tragedia, ec.
2647 e all'interesse dei detti argomenti,
massime nella poesia, non si può supplire in verun conto, nè con veruna
industria, cavando argomenti {o dall'immaginazione, o}
dalle altre storie, neppur dalle patrie. Aggiungasi alle tre dette storie,
quella della guerra troiana, la quale interessa sommamente per le dette ragioni,
anzi più delle altre tre, perchè i poemi d'Omero e di Virgilio, l'hanno
resa più nota e familiare a ciascuno, che verun'altra, e perch'ella a cagione
dei detti poemi, delle favole ec. è più legata alle ricordanze della nostra
fanciullezza, che non sono la storia greca e romana, e neanche l'ebrea. Tutto
ciò è relativo, e l'interesse delle dette storie non deriva particolarmente
dalle loro proprie e intrinseche qualità, ma dalla circostanza estrinseca
dell'essere le medesime familiari
2648 a ciascuno fin
dalla sua fanciullezza; tolta la qual circostanza, che ben si potrebbe togliere,
dipendendo dalla educazione ec., questo interesse o si confonderebbe e
agguaglierebbe con quello delle altre storie, e argomenti storici, o sarebbe
anche superato. (Roma. 25. Nov. 1822.).
[2759,2] Chi vuol manifestamente vedere la differenza de'
tempi d'Omero da quelli di Virgilio, quanto ai costumi, e alla
civilizzazione, e alle opinioni che
2760 s'avevano
intorno alla virtù e all'eroismo, {+siccome anche quanto ai rapporti scambievoli delle nazioni, ai diritti e al
modo della guerra, alle relazioni del nimico col nimico;} e chi vuol
notare la totale diversità che passa tra il carattere e l'idea della virtù
eroica che si formarono questi due poeti, e che l'uno espresse in Achille e l'altro in Enea, consideri quel luogo dell'Eneide (X. 521-36.) dov'Enea fattosi sopra Magone che gittandosi in terra e abbracciandogli le
ginocchia, lo supplica miserabilmente di lasciarlo in vita e di farlo cattivo,
risponde, che morto Pallante, non ha
più luogo co' Rutuli alcuna misericordia nè alcun commercio di guerra, e spietatamente pigliandolo per la
celata, gl'immerge la spada dietro al collo per insino all'elsa. Questa scena e
questo pensiero è tolto di peso da Omero, il quale introduce Menelao sul punto di lasciarsi commuovere da simili prieghi, ripreso
da Agamennone, che senza alcuna pietà
uccide il troiano già vinto e supplichevole.
[2976,1] Benchè materiale, non sarà perciò vana
l'osservazione che i poemi d'Omero,
massime l'Iliade, avuto rispetto alla qualità della lingua greca,
la quale in un dato numero di parole o di versi dice molto più che le lingue
moderne naturalmente e ordinariamente non dicono, i poemi d'Omero, ripeto, sono i più lunghi di tutti i poemi Epici
conosciuti nelle letterature Europee. Paragonati all'Eneide, ch'è poema scritto nella lingua più di tutte vicina alla
detta facoltà della lingua greca, oltre ch'essi sono composti di 24 libri
ciascuno, laddove l'Eneide di soli dodici, si
trova che avendo l'Eneide 9896 versi, l'Odissea n'ha 12096, e l'Iliade 15703, il qual computo l'ho fatto io medesimo. Notisi che i
versi di Virgilio sono della stessa
misura che quelli di Omero. Questo
parallelo così esatto non si potrebbe fare coi poemi scritti nelle lingue
moderne, sì per la differente misura
2977 de' versi e
quantità delle sillabe che questi contengono, sì molto maggiormente perchè le
lingue moderne hanno bisogno d'assai più parole che non la lingua greca e latina
per significare una stessa cosa. Onde quando anche v'avesse qualche poema epico
moderno che di parole eccedesse quelli d'Omero, credo però che tutti debbano consentire che nel numero, per
così dire, o nella quantità delle cose niuno ve n'ha che non sia notabilmente
minore di questi, o certo dell'uno d'essi, cioè dell'iliade.
[2995,2]
{Alla p.
2891.}
Il Fischer nella prefazione alla Grammat. Greca del Weller, ed.
Lips. 1756. dice che i pleonasmi d'Omero derivano dalla lingua ebraica. Che
che sia di questa proposizione, certo è che quel pleonasmo di νόστιμον ἦμαρ e
simili, da me notato altrove p. 2890, e non osservato dal Fischer, può servire a spiegar molti
passi della Scrittura nei quali la parola
giorno non serve che ad una perifrasi, onde
2996 p. e.
in die irae tuae, non vale altro che in ira tua; cosa finora, ch'io sappia, non veduta
dagl'interpreti, i quali p. e. pensano che quel dies
significhi il giorno del giudizio ec. (20. Luglio. 1823.).
[3010,1] Or questa diversa e poetica inflessione e pronunzia
de' vocaboli correnti, che altro è per l'ordinario, se non inflessione e
pronunzia antica, usitata dagli antichi prosatori, nell'antico discorso, ed ora
andata in disuso nella prosa e nel parlar familiare? di modo che quelle parole
così pronunziate e scritte non altro sono veramente che parole antiche e
arcaismi, in quanto così sono scritte e pronunziate? nè altro è ordinariamente
dire inflessioni, licenze, voci poetiche se non arcaismi? Vedi in questo proposito una bella
riflessione di Perticari, Apologia, Capo 14. fine p.
131-2. Certo questa diversità d'inflessione per la più parte non è se
3011 non quello ch'io dico: così ne' poeti greci,
così ne' latini (più schivi però dell'antico, e quindi il loro linguaggio
poetico è assai meno distinto dalla lor prosa quanto a' vocaboli, che il greco),
così negl'italiani. Perocchè non è da credere che {la
inflession d'}una voce sia stimata, e quindi veramente sia, più
elegante o per la prosa o pel verso, perchè e quanto ella è più conforme
all'etimologia, ma solamente perchè e quanto ella è meno trita dall'uso
familiare, essendo però bene intesa e non riuscendo ricercata. (Anzi bene spesso
è trivialissima l'inflessione regolare ed etimologica, ed elegantissima e tutta
poetica la medesima voce storpiata, come dichiaro in altro luogo pp.
2075-76). E questo non esser trita, nè anche ricercata, ma pur bene
intesa, come può accadere a una voce, o ad una cotale inflessione della
medesima? Il pigliarla da un particolar dialetto {o
l'infletterla secondo questo} fa ch'ella non riesca trita
all'universale, ma difficilmente può far ch'ella e non paia ricercata e sia bene
intesa da tutti. {+Oltre ch'ella riesce
anche trita a quella parte della nazione di cui quel dialetto è
proprio.} In verità i dialetti particolari sono scarso sussidio e
fonte al linguaggio poetico, e all'eleganza qualunque. Lo vediamo noi italiani
in Dante, dove le
3012 le voci e inflessioni veramente proprie di dialetti particolari
d'italia fanno molto mala riuscita, nè la poesia
nostra, nè verun savio tra' nostri o poeti o prosatori ha mai voluto imitar Dante nell'uso de' dialetti, non solo
generalmente, ma neppure in ordine a quelle medesime voci e pronunzie o
inflessioni da lui adoperate. Circa l'uso e mescolanza de' dialetti greci nella
inflessione delle parole appresso Omero,
non volendo rinnovare le infinite discussioni già fatte da tanti e tanti in
questo proposito, solamente dirò che o le circostanze della
Grecia e d'Omero erano diverse da quelle che noi possiamo considerare, e quindi
per l'antichità ed oscurità della materia non potendo nulla giudicarne di certo
e di chiaro, niuno argomento ne possiamo dedurre; ovvero (e così penso) quelle
inflessioni che in Omero s'attribuiscono
a' dialetti, e da' dialetti si stima che Omero le prendesse, {o tutte o gran parte}
erano in verità proprie della lingua greca comune del suo tempo, o d'una lingua,
o vogliamo dir d'un uso più
3013 antico ancora di lui;
dalla qual lingua comune, o {{fosse}} più antica, o
allora usitata, Omero tolse quelle
inflessioni ch'egli si stima aver pigliato da questo e da quel dialetto
indifferentemente e confusamente. Non volendo ammetter nulla di questo, dirò che
in Omero la mescolanza de' dialetti dovè
riuscir così male come in Dante. Circa i
poeti greci posteriori, i quali tutti (fuor di quelli che scrissero in dialetti
privati, come Saffo, Teocrito ec.) seguirono interamente Omero, come in ogni altra cosa, così
nella lingua, e da lui tolsero quanto il loro linguaggio ha di poetico, cioè della sua lingua
formarono quella che si chiama dialetto poetico greco, ossia linguaggio poetico
comune, la questione non è difficile a sciogliere. Perocchè quelle inflessioni
ch'essi adoperavano, benchè proprie di particolari dialetti, essi non le
toglievano da' dialetti ma dal dialetto o linguaggio Omerico, di modo ch'elle
riuscivano eleganti e poetiche, non in quanto proprie di privati dialetti, ma in
quanto antiche ed Omeriche; ed erano bene intese
3014
dall'universale della nazione, nè parevano ricercate perchè tutta la nazione
benchè non usasse familiarmente nè in iscrittura prosaica le inflessioni e voci
Omeriche, le conosceva però e v'aveva l'orecchio assuefatto per lo gran
divulgamento de' versi d'Omero cantati
da' rapsodi per le piazze e le taverne, e saputi a memoria fino da' fanciulli.
{#1. V. p. 3041.}
Il che non accadde a' poemi di Dante, il
quale non fu mai in italia neppur poeta di scuola, come
Omero in
grecia presso i grammatisti medesimi, o certo presso i grammatici
(vedi il Laerz. del Wetstenio, tom. 2. p. 583. not. 5.); nè il dialetto o
linguaggio poetico italiano è o fu mai quello di Dante. Dico generalmente parlando, e non d'alcuni pochi
e particolari poeti, suoi decisi imitatori, come Fazio degli
Uberti, l'autore del Quadriregio
Federico Frezzi, ed alcuni
dell'ultimo secolo, come il Varano.
Neppur la lingua del Petrarca è quella
di Dante, nè da lui fu presa, nè punto
si serve de' particolari dialetti.
[3041,1]
3041
Alla p. 3014.
Io credo per certo che in qualunque modo, quelle inflessioni, voci, frasi ec.
che in Omero si credono proprie di tale
o tal altro dialetto, fossero al suo tempo per qualsivoglia cagione conosciute
ed intese da tutte le nazioni greche, o se non altro, da una tal nazione (come
forse la ionica), alla qual sola, in questo caso, egli avrà avuto in animo di
cantare e di scrivere, e avrà probabilmente cantato e scritto. Quanto agli altri
poeti, se le ragioni che ho addotte per ispiegare come, malgrado l'uso de'
dialetti, essi fossero universalmente intesi, non paressero bastanti, si osservi
che effettivamente in grecia, siccome altrove, i poeti
cessarono ben presto di cantare al popolo, (e così pur gli altri scrittori), e
il linguaggio poetico greco divenne certo inintelligibile al volgo, dal cui
idioma esso era anche più separato che non è la lingua poetica italiana dalla
volgare e familiare. Scrissero dunque i poeti per le persone colte, le quali
intendendo e studiando tuttodì e sapendo a memoria i versi d'Omero, e citandoli, parodiandoli, alludendovi a ogni
tratto
3042 nella colta conversazione e nella
scrittura, intendevano anche facilmente gli altri poeti, e il linguaggio poetico
greco, benchè composto delle proprietà di vari dialetti. Perocchè esso era tutto
Omerico, come ho detto, sia in ispecie sia in genere; cioè le inflessioni, le
frasi, le voci che lo componevano, o erano le identiche Omeriche (e tali erano
in fatti forse la più gran parte), o erano di quel tenore, di quella origine,
derivate o formate da quelle di Omero, o
tolte dai fonti e dai luoghi ond'egli le trasse, e ciò secondo i modi e le leggi
da lui seguite. Quei poeti che scrissero dopo Omero al popolo, e per il popolo composero, come i drammatici, poco o
nulla mescolarono i dialetti, e ne segue effettivamente che se talvolta il loro
stile è Omerico, come quello di Sofocle,
il loro linguaggio però non è tale. Esso è attico veramente, {+siccome fatto per gli Ateniesi,} se
non forse nei pezzi lirici, i quali anche per la natura del soggetto e del
genere, sarebbero stati poco alla portata degl'ignoranti. In effetto Frinico appresso Fozio (cod.
158.) conta fra' modelli, regole
3043 norme del puro e schietto sermone attico i tragici Eschilo, Sofocle, Euripide, e i Comici in quanto sono attici, perocchè questi talora
per ischerzo o per contraffazione mescolarono qualche cosa d'altri dialetti, e
ciò non appartiene al nostro proposito, ed alcuni tragici, forse, avendo
rispetto al gran concorso de' forestieri che d'ogni parte della
grecia accorrevano alla rappresentazione dei drammi
in Atene, non avranno avuto riguardo di usare alcuna cosa
d'altri dialetti. Ma generalmente si vede che il dialetto de' drammatici greci è
un solo. E del resto, siccome tra noi e ne' teatri di tutte le colte nazioni,
benchè la più parte dell'uditorio sia popolo, nondimeno i drammi che
s'espongono, non sono scritti nè in istile nè in lingua popolare, ma sempre
colta, e bene spesso anzi poetichissima e diversissima dalla corrente e
familiare ed eziandio dalla prosaica colta; così si deve stimare che accadesse
appresso a poco più o meno anche in grecia e in
Atene, dove i giudici de' drammi che concorrevano al
premio,
3044 non era finalmente il popolo, ma uno
scelto {e piccol} numero d'intelligenti, e dove le
persone colte fra quelle che componevano l'uditorio, erano per lo meno in tanto
numero come fra noi. {V. il Viaggio
d'Anacar. cap. 70.}
[3095,2] Riprendono {nell'iliade} la poca unità, l'interesse principale
che i lettori prendono per Ettore, il
doppio Eroe (Ettore ed Achille), e
conchiudono che {se Omero} nelle parti è superiore agli altri poeti, nel tutto
però preso insieme, nella condotta del poema, nella regolarità è inferiore agli
altri epici, particolarmente a Virgilio.
Certo se potessero esser vere regole {di poesia} quelle
che si oppongono al buono e grande effetto della medesima e alla natura
dell'uomo, io non disconverrei da queste sentenze. {In proposito delle cose contenute nel séguito di questo
pensiero, vedi la pag. 470. capoverso
2.}
[3289,3] Sogliono le opere umane servire di modello
successivamente l'une all'altre, e così appoco perfezionandosi il genere, e
ciascuna opera, o le più
3290 d'esse riuscendo migliori
de' loro modelli fino all'intero perfezionamento, il primo modello apparire ed
essere nel suo genere la più imperfetta opera di tutte l'altre, per infino alla
decadenza e corruzione d'esso genere, che suole altresì ordinariamente succedere
all'ultima sua perfezione. Non così nell'epopea; ma per lo contrario il primo
poema epico, cioè l'iliade che fu modello di tutti gli altri, si
trova essere il più perfetto di tutti. Più perfetto dico nel modo che ho
dimostrato parlando della vera idea del poema epico p. 3095- 3169. Secondo le quali osservazioni da me
fatte si può anzi dire che siccome l'ultima perfezione dell'epopea (almen quanto
all'insieme e all'idea della medesima) si trova nel primo poema epico che si
conosca, così la decadenza e corruzione di questo genere incominciò non più
tardi che subito dopo il primo poema epico a noi noto. Similmente negli altri
generi di poesia, per lo più, i migliori e più perfetti modelli ed opere sono le
più antiche, o assolutamente parlando, o relativamente alle nazioni {e letterature} particolari,
3291 come tra noi la Commedia di Dante
è nel suo genere, siccome la prima, così anche la migliore opera. (28.
Agosto. 1823.).
[3479,1] Il poeta dee mostrar di avere un fine più serio che
quello di destar delle immagini e di far delle descrizioni. E quando pur questo
sia il suo intento principale, ei deve cercarlo in modo come s'e' non se ne
curasse, e far vista di non cercarlo, ma di mirare a cose più gravi; ma
descrivere fra tanto, e introdurre nel suo poema le immagini, come cose a lui
poco importanti che gli {scorrano} naturalmente dalla
peña[penna]; e, per dir così, descrivere e
introdurre immagini, con gravità, con serietà, senz'alcuna dimostrazione di
compiacenza e di studio apposito, {+e di
pensarci e badarci, nè di voler che il lettore ci si fermi.} Così
fanno Omero e Virgilio e
3480
Dante, i quali pienissimi di vivissime
immagini e descrizioni, non mostrano pur d'accorgersene, ma fanno vista di avere
un fine molto più serio che stia loro unicamente a cuore, ed al qual solo festinent continuamente, cioè il racconto dell'azioni
e l'evento o successo di esse. Al
contrario fa Ovidio, il quale non
dissimula, non che nasconda; ma dimostra e, per dir così, {confessa} quello che è; cioè a dir ch'ei non ha maggiore intento nè
più grave, anzi a null'altro mira, che descrivere, ed eccitare e seminare
immagini e pitturine, e figurare, e rappresentare continuamente. (20.
Sett. 1823.).
[3931,1]
3931 Al detto altrove p. 961
pp. 3012-14
pp. 3041-47 sopra i
dialetti d'Omero, e quello d'Empedocle, che benchè Dorico usò il
dialetto Ionico, aggiungi che nello stesso caso è Ippocrate, e vedi
Fabric.
B. G. edit. vet. in Hippocr. §. 1. t. 1. p. 844. lin. 4-6. e nott. i.
k.
(27. Nov. 1823.).
[3964,3] Parlo altrove p. 961
pp. 3012-14
pp. 3041-47 de' dialetti
d'Omero. Posto che il dialetto
Ionico non fosse il comune o il più comune, e perciò prescelto, l'avere Omero scritto in un dialetto piuttosto
che nella lingua comune, non prova altro se non che questa a' suoi tempi non
v'era; e il non esservi prova che non v'era ancora letteratura greca formata,
perchè nè questa poteva esservi senza quella, e la mancanza di lingua comune è
segno certo ed effetto non d'altro che della mancanza di letteratura nazionale o
della sua infanzia, poca diffusione ec. Similmente dico di {#2. Democrito
ec. Ctesia è più moderno, ma forse
anteriore al pieno della letteratura ateniese ec}
Erodoto
{#1. V. p. 3982.} e degli altri che ne' più antichi tempi
scrissero ne' dialetti loro nativi e non in lingua comune. Del resto se Omero usò {e
mescolò} anche gli altri dialetti più di quello che poi fosse fatto
dagli altri scrittori greci, anche poeti, prevalendo però in lui l'ionico; il
simile fece Dante, che
3965 usò e mescolò i dialetti
d'italia molto più che poi gli altri, anche poeti, e
a lui vicini, non fecero, e che oggi niuno farebbe, perchè v'è lingua comune, e
questa certa e formata e determinata, e tutto ciò principalmente a causa della
letteratura. Se poi alcuni, come Empedocle e Ippocrate, non
essendo ioni ec., scrissero nell'ionico, {V. p. 3982.} ciò fu
perchè Omero l'aveva usato e fatto
famoso e atto alla scrittura, e creduto solo o principalmente capace di essere
scritto, nel modo stesso che poi l'abbondanza degli scrittori ateniesi, maggiore
che quella degli altri, rese comune, e per sempre, il dialetto attico, o una
lingua partecipante massimamente dell'attico, e lo ridusse ad essere il greco
propriamente detto sì nell'uso dello scrivere, sì in quello del parlare, massime
delle persone colte; e nel modo stesso che in italia per
simil cagione è avvenuto rispetto al toscano, mentre prima, come in
grecia l'ionico invece dell'attico, così in
italia si era fatto comune ec. non il toscano, ma il
siculo ec. per la coltura di quella corte e poeti ec. e loro abbondanza
preponderante ec. {Del resto l'uso
dell'ionico fatto anticamente dagli non ionici prova con certezza che il
ionico o era il greco comune, o il più comune, o il solo o il più applicato
e quindi atto alla letteratura e al dir colto ec. o il più famoso ec. v. p. 3991.} Onde molto
s'ingannano, secondo me, quelli sì antichi (v. i luoghi citati alla pagina 3931.) sì moderni (che sono,
io credo, non pochi) i quali riconoscono l'uso o preponderanza del dialetto
ionico in Omero, in Ippocrate ec. e nelle scritture dell'antica
grecia da questo, che il dialetto ionico, secondo
loro, o almen quello di detti scrittori {+quale egli si è} ec. era l'antico dialetto attico, e usato dagli
ateniesi. Il che, se non hanno altri argomenti per provarlo, certamente non è
provato dall'uso di quegli scrittori, poichè che diritto e che mezzo aveva
allora il dialetto ateniese per esser preferito agli altri nelle scritture? Essi
cadono nel solito errore,
3966 sì comune per sì lungo
tempo (e fin oggi) in italia, anche fra' più dotti e
imparziali, circa il dialetto toscano, cioè di credere che l'attico prevalesse
agli altri dialetti per se (mentre niun dialetto prevale per se, giacchè quanto
all'ordine, forma ec. esso non l'ha prima della letteratura, quanto alla
bellezza del suono materiale ec. questo è un sogno, perchè a tutti i popoli
{+e parti di essi} è più bello
degli altri suoni quello che gli è dettato dalla natura, e quindi quello del
dialetto nativo, e imparato nella fanciullezza ec.), e non per causa della
preponderante letteratura e scrittori attici, la qual causa a' tempi d'Omero ec. non esisteva, anzi
Atene non aveva, che si sappia, scrittore alcuno, non
che n'abbondasse particolarmente ec. Neanche era potente, nè commerciante, nè
che si sappia, assai culta, o più culta degli altri, seppure aveva coltura
alcuna notabile. Bensì lo erano gl'ioni ec. e questo appunto produsse o fece
possibile un Omero ec. Se poi hanno
altre prove della detta proposizione, certo ragionano a rovescio pigliando per
effetto la causa, e per causa l'effetto. Poichè se quello fu allora il dialetto
attico, ciò venne appunto perch'esso aveva avuto scrittori e letteratura, e così
fattosi comune ec., ovvero a causa del commercio {+e potenza} e della coltura degl'ioni, alla qual
coltura non avrà poco contribuito la stessa letteratura che n'aveva avuto
origine ec. Del resto gli attici erano molto facili ad adottare le voci e modi
greci stranieri, e anche i barbari, almeno ne' tempi susseguenti; e lo dice Senofonte in un luogo da me citato e discusso altrove
p.
741
pp.
785-86
pp. 793. (9. Dec. 1823. Vigilia della Venuta della Santa Casa
di Loreto.)
[3975,3] In Omero
tutto è vago, tutto è supremamente poetico nella maggior verità e proprietà e
nella maggior forza ed estensione del termine; incominciando dalla persona {{e storia}} sua, ch'è tutta involta e seppellita nel
mistero, oltre alla somma antichità e lontananza {+e diversità de' suoi tempi da' posteriori e
da[da'] nostri massimamente e sempre
maggiore di mano in mano.} (essendo esso il più antico, non solo
scrittore che ci rimanga, ma monumento dell'antichità profana; la più antica
parte dell'antichità superstite), che tanto contribuisce per se stessa a
favorire l'immaginazione. Omero stesso è
un'idea vaga e conseguentemente poetica. Tanto che si è anche dubitato e si
dubita ch'ei non sia stato mai altro veramente che un'idea. (12. Dec.
1823.). Il qual dubbio,
3976 stoltissimo
benchè d'uomini gravissimi, non lo ricordo se non per un segno di questo ch'io
dico. (12. Dec. 1823.).
[4009,3] Diminutivi greci positivati. οἰκίον per οἶκος ed
οἰκία. Notisi ch'egli è antichissimo, perchè proprio di Omero. O forse degl'ioni, massime antichi. Arriano imitatore di questi l'usa nell'Indica 29. 16, 30. 9.
Lo Scap. non cita che Omero. È positivato anche presso Arriano. (7. Gen. 1824.). Lo stesso discorso o
dell'antichità o del dialetto ionico, massime antico, si può fare intorno al
diminutivo positivato προβάτιον, ch'è d'Ippocrate, o di chi altro è l'autore del libro ec., e di cui altrove
p.
4002. La quale osservazione unita con questa della voce οἰκίον, e
coll'altre che si potranno fare, può dar luogo a buone conghietture circa l'uso
de' diminutivi positivati nell'antico greco o ionico ec. (7. Gen.
1824.) πλημμυρίς ίδος. ϕυκίον. (7. Gen. 1824.).
[4030,10] Neanche ad Erodoto par che fosse nativo il dialetto ionico (a proposito del
detto altrove pp. 961-62), a quanto osservo nella nota del Palmerio al principio dell'Herodotus sive Aetion di Luciano.
(15. Febbraio. 1824.).
[4214,3] I francesi non hanno lingua poetica perchè hanno
rigettata la lingua antica, perchè non sopportano l'antico nel verso niente più
che nella prosa: e senza l'antico non vi può esser lingua poetica. I Latini che ebbero pochissima antichità
di lingua, perchè il progresso della loro letteratura fu rapidissimo, e che
rigettarono, ad eccezione di pochissime {e
piccolissime} parti conservate nel verso, quella poca antichità che
avevano, non ebbero lingua poetica propriamente, nè avrebbero avuto dicitura e
stile poetico se non avessero usato nella poesia costruzioni ardite, e nuovi
significati e metafore di parole, che i francesi non sopportano nella loro.
{#(1) Notisi quindi che presso i latini
ciascun poeta era artefice della sua lingua poetica; la lingua poetica dei
latini era opera individuale del poeta, e se il poeta non se la facea, non
l'aveva: dove in italiano e in greco ella era cosa universale, e il poeta
l'avea già prima di porsi a comporre. E da ciò forse può nascere l'abuso e
la soverchia copia del verseggiare e dei verseggiatori ec. ec.} Del
resto l'avere i latini e i francesi a differenza dei greci e degl'italiani,
rigettata ne' loro buoni {e perfetti} secoli
l'antichità della lingua, venne, fra l'altre cose, dal non aver essi avuto nelle
loro lingue antiche scrittori veramente sommi, a differenza dei greci, che
ebbero Omero, Esiodo, Archiloco, Ippocrate, Erodoto ec. e degl'italiani, ch'ebbero
Dante, Petrarca, Boccaccio, insomma {(come i greci)} la
letteratura già stabilita, {fissata} e formata prima
della lingua e della maturità della civilizzazione.
(Bolog. 12. Ott. 1826.).
[4269,2] Noi però abbiamo buonissima ragione di non porre più
che tanto studio intorno allo stile dei libri, atteso la brevità della vita che
essi in ogni modo (non ostante la bontà della stampa) sono per avere. Se mai fu
chimerica la speranza dell'immortalità, essa lo è oggi per gli scrittori. Troppa
è la copia dei libri o buoni o cattivi o mediocri che escono ogni giorno, e che
per necessità fanno dimenticare quelli del giorno innanzi; sian pure eccellenti.
Tutti i posti dell'immortalità in questo genere, sono già occupati. Gli antichi
classici, voglio dire, conserveranno quella che hanno acquistata, o almeno è
credibile che non morranno così tosto. Ma acquistarla ora, accrescere il numero
degl'immortali; oh questo io non credo che sia più possibile.
4270 La sorte dei libri oggi, è come quella degl'insetti chiamati
efimeri (éphémères): alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre 3 o
4 giorni; ma sempre si tratta di giorni. Noi siamo veramente oggidì passeggeri e
pellegrini sulla terra: veramente caduchi: {+esseri di un giorno: la mattina in fiore, la sera
appassiti, o secchi: soggetti anche a sopravvivere alla propria fama, e più
longevi che la memoria di noi.} Oggi si può dire con verità maggiore
che mai: Oἵη περ ϕύλλων
γενεή, τοιήδε καὶ ἀνδρῶν
*
(Iliad.
6. v. 146.) Perchè non ai soli letterati, ma ormai a tutte le
professioni è fatta impossibile l'immortalità, in tanta infinita moltitudine di
fatti e di vicende umane, dapoi che la civiltà, la vita dell'uomo civile, e la
ricordanza della storia ha abbracciato tutta la terra. Io non dubito punto che
di qua a dugent'anni non sia per esser più noto il nome di Achille, vincitor di Troia, che
quello di Napoleone, vincitore e signore
del mondo civile. Questo sarà uno dei molti, si perderà tra la folla; quello
sovrasterà, per esser montato in alto assai prima; conserverà il piedestallo,
{il rialto,} che ha già occupato da tanti
secoli.
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