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Alfieri.

Alfieri.

701 2453,1 2455,2 2595,1 3418 3458-9

[700,1]  Del resto quello ch'io dico della perfezione di stile nei cinquecentisti si deve intendere dei prosatori, non dei poeti. Anzi io mi maraviglio come quella tanta gravità e dignità che risplende ne' prosatori, si cerchi invano in quasi tutti i poeti di quel secolo, e bene spesso anche negli ottimi. I difetti dello stile poetico di quel secolo, anche negli ottimi, sono infiniti, massime la ridondanza, gli epiteti, i sinonimi accumulati (al contrario delle prose) ec. lasciando i più essenziali difetti di arguzie, insipidezze ec. anche nell'Ariosto e nel Tasso. E non è dubbio che Dante e Petrarca (sebbene non senza gran difetti di stile) furono nello stile più vicini alla  701 perfezione che i cinquecentisti, e così lo stile poetico del trecento (riguardo a questi due poeti) è superiore al cinquecento: (tanto è vero che la poesia migliore è la più antica, all'opposto della prosa, dove l'arte può aver più luogo). E dal trecento in poi lo stil poetico {italiano} non è stato richiamato agli antichi esemplari, massime latini, nè ridotto a una forma perfetta e finita, prima del Parini e del Monti. V. gli altri miei pensieri in questo proposito p. 10 pp. 59-60. Parlo però del stile poetico, perchè nel resto se si eccettuano quanto agli affetti il Metastasio e l'Alfieri (il quale però fu piuttosto filosofo che poeta), quanto ad alcune (e di rado nuove) immagini il Parini e il Monti (i quali sono piuttosto letterati di finissimo giudizio, che poeti); l'italia dal cinquecento in poi non solo non ha guadagnato in poesia, ma ha avuto solamente  702 versi senza poesia. Anzi la vera {poetica} facoltà creatrice, {sia quella del cuore o quella della immaginativa,} si può dire che dal cinquecento in qua non si sia più veduta in italia; e che un uomo degno del nome di poeta (se non forse il Metastasio) non sia nato in italia dopo il Tasso. (27. Feb. 1821.).

[2453,1]   2453 Se l'uomo sia nato per pensare o per operare, e se sia vero che il miglior uso della vita, come dicono alcuni, sia l'attendere alla filosofia ed alle lettere (quasi che queste potessero avere altro oggetto e materia che le cose e la vita umana, e il regolamento della medesima, e quasi che il mezzo fosse da preferirsi al fine), {+{+} Il fine della letteratura è principalmente il regolar la vita dei non letterati; è insomma l'utilità loro, ed essi se n'hanno a servire. Ora io non ho mai saputo che la condizione di chi è servito, fosse peggiore e inferiore che non è quella di chi serve.} osservatelo anche da questo. Nessun uomo fu nè sarà mai grande nella filosofia o nelle lettere, il quale non fosse nato per operare più, e più gran cose degli altri; non avesse in se maggior vita e maggior bisogno di vita che non ne hanno gli uomini ordinarii; e per natura ed inclinazione sua primitiva, non fosse più disposto all'azione e all'energia dell'esistenza, che gli altri non sogliono essere. La Staël lo dice dell'Alfieri (Corinne, t. 1. liv. dern.), anzi dice ch'egli non era nato per iscrivere, ma per fare, se la natura de' tempi suoi (e nostri) glielo avesse permesso. E perciò appunto egli fu vero scrittore, a differenza di quasi tutti i letterati o studiosi italiani del suo e del nostro tempo. Fra' quali siccome nessuno o quasi nessuno è nato per fare (altro che fagiolate), perciò nessuno o quasi nessuno è  2454 vero filosofo, nè letterato che vaglia un soldo. Al contrario degli stranieri, massime degl'inglesi e francesi, i quali (per la natura de' loro governi e condizioni nazionali) fanno, e sono nati per fare più degli altri. E quanto più fanno, o sono naturalmente disposti a fare, tanto meglio e più altamente e straordinariamente pensano e scrivono. (30. Maggio 1822.).

[2455,2]  {Alla p. 2451.} L'Alfieri fu arditissimo e frequentissimo formatore di parole derivate o composte nuovamente dalle nostrali, e sebbene io non credo ch'egli, facendo questo avesse l'occhio alla lingua greca, nondimeno questo suo costume dava alla lingua italiana una facoltà e una forma similissima (materialmente) all'una delle principalissime e più utili facoltà e potenze della lingua greca. Io non cercherò s'egli si servisse di questo mezzo d'espressione colla misura e moderatezza e discrezione che si richiede, nè se guardasse sempre alla necessità o alla molta utilità, nè anche se tutti i suoi derivati e composti, o se la maggior parte di loro sieno ben fatti. Ma li porto per esempio acciocchè, considerandoli, si veda più distintamente e per prova, {+quante idee sottili o rare o non mai ancora precisamente significate,} quante cose difficilissime e quasi impossibili ad esprimersi in altro modo (anche con voci forestiere), si esprimano chiarissimamente e precisamente e facilmente con questo mezzo, senza punto uscire della lingua nostra, e senza quindi nuocere alla purità. Certo  2456 è che quando l'Alfieri chiama il Voltaire Disinventore od inventor del nulla, * {+(vere {principali} e proprie qualità ed attributi della sapienza moderna)} quel disinventore dice tanto e tal cosa, quanto e quale appena si potrebbe dire per via d'una lunga circollocuzione, o spiegare e sminuzzare pazientemente, {stemperatamente} e languidamente in un periodo. (3. Giugno. 1822.).

[2595,1]  A ciò che ho detto altrove pp. 2455-56 di quel verso dell'Alfieri, Disinventore od inventor del nulla, soggiungi. Quest'appunto è la mirabile facoltà della lingua greca, ch'ella esprime facilmente, senza sforzo, senza affettazione, pienamente e chiarissimamente, in una sola parola, idee che l'altre lingue talvolta non possono propriamente e interamente esprimere in nessun modo, non solo in una parola, ma nè anche in più d'una. E questo non lo conseguisce la detta {lingua} per altro mezzo che della immensa facoltà de' composti.

[3416,1]  In somma la lingua italiana non aveva ancora bastante antichità, per potere avere abbastanza di quella eleganza di cui qui s'intende parlare, e un linguaggio ben propriamente poetico, e ben disgiunto dal prosaico. Le parole dello Speroni provano questa verità, e questa le mie teorie a cui la presente osservazione si riferisce. Il cui risultato è che dovunque non è sufficiente antichità di lingua colta, quivi non può ancora essere la detta eleganza di stile e di lingua, nè linguaggio poetico distinto e proprio ec. (11. Sett. 1823.). Ho già detto altrove pp. 701-702  3417 che non prima del passato secolo e del presente si è formato pienamente e perfezionato il linguaggio (e quindi anche lo stile) poetico italiano (dico il linguaggio e lo stile poetico, non già la poesia); s'è accostato al Virgiliano, vero, perfetto e sovrano modello dello stile propriamente e totalmente e distintissimamente poetico; ha perduto ogni aria di familiare; e si è con ben certi limiti, e ben certo, nè scarso, intervallo, distinto dal prosaico. O vogliamo dir che il linguaggio prosaico si è diviso esso medesimo dal poetico. Il che propriamente non sarebbe vero; ma e' s'è diviso dall'antico; e così sempre accade che il linguaggio prosaico, insieme coll'ordinario uso della lingua parlata, al quale ei non può fare a meno di somigliarsi, si vada di mano in mano cambiando e allontanando dall'antichità. I poeti (fuorchè in Francia) {#1. V. p. 3428.} serbano l'antico più che possono, perch'ei serve loro all'eleganza, {dignità} ec. anzi hanno bisogno dell'antichità della lingua. E così, contro quello  3418 che dee parere a prima giunta, i più licenziosi scrittori, che sono i poeti, son quelli che più lungamente e fedelmente conservano la purità e l'antichità della lingua, e che più la tengon ferma, mirando sempre e continuando il linguaggio de' primi istitutori della poesia ec. Dalla quale antichità la prosa, obbligata ad accostarsi all'uso corrente, sempre più s'allontana. Ond'è che il linguaggio prosaico si scosti per vero dire esso stesso dal poetico (piuttosto che questo da quello) ma non in quanto poetico, solo in quanto seguace dell'antico, e fermo (quanto più si può) all'antico, da cui il prosaico s'allontana. Del resto il linguaggio {e lo stile} delle poesie di Parini, Alfieri, Monti, Foscolo è {molto} più propriamente e più perfettamente poetico e distinto dal prosaico, che non è quello di verun altro de' nostri poeti, inclusi nominatamente i più classici e sommi antichi. Di modo che per quelli e per gli altri che li somigliano, e per l'uso de' poeti di questo e dell'ultimo secolo, l'italia ha oggidì una lingua poetica {a parte, e} distinta affatto dalla prosaica, una doppia lingua, l'una prosaica l'altra  3419 poetica, non altrimenti che l'avesse la grecia, e più che i latini. Ed è stato anche osservato (da Perticari sulla fine del Tratt. degli Scritt. del Trecento) che nella universale corruzione della lingua e stile delle nostre prose e del nostro familiar discorso accaduta nell'ultima metà del passato secolo, e ancora continuante, la lingua de' poeti si mantenne quasi pura e incorrotta, non solo ne' migliori o in chi pur seguì un buono stile, ma ne' pessimi eziandio, e negli stili falsi, tumidi, frondosissimi, ridondanti, strani o imbecilli degli arcadici, de' frugoniani, bettinelliani ec. Così pure era accaduto ne' barbari poeti del secento. La cagione di ciò è facile a raccorre da queste mie osservazioni, le quali sono ben confermati[confermate] da questi fatti. Laddove egli è pur certo che riguardo alla prosa, lo stile non si corrompe mai che non si corrompa altresì la lingua, nè viceversa, nè v'ha {prosatore} alcuno di stile corrotto e lingua incorrotta; del che puoi vedere le pagg. 3397-9. (12. Sett. 1823.)

[3448,1]  Tragedie {o drammi} di lieto fine. - L'effetto loro totale, si è di lasciar gli affetti dell'uditore in pieno equilibrio; cioè di esser nullo. - Il fine dei drammi non è, e non dev'essere, d'insegnare a temere il delitto, cioè di far che gli uomini temano di peccare. Meglio sarebbe una predica dell'inferno o del purgatorio; e meglio ancora una  3449 lettura del codice penale, che si facesse dalla scena. Il loro scopo si è d'ispirare odio verso il delitto. Questo è ciò che le leggi non possono. Laddove l'ispirar timore è proprio uffizio di esse, ed esse sole il possono, o certo più e meglio d'ogni altra cosa, eccetto forse l'esempio vivo de' gastighi, cioè l'effettiva esecuzione delle leggi penali. Ora la punizione del delitto non ispira odio. Anzi lo scema, perchè sottentra {e con lui si mescola} la compassione. Anzi lo distrugge, perchè la vendetta spegne tutti gli odi. Anzi produce un effetto a lui contrario, perchè la compassione è contraria all'odio; e spesso avviene che nel veder punito il delitto, questa superi ogni altro sentimento, e gli spenga, e resti sola; e spesso la pena, benchè giusta ed equa, par più grave del delitto; e spessissimo è odiosa, parte per la pietà, parte perchè alcuni per viltà d'animo e poca stima di se stessi, altri per cognizione dell'uomo, si sentono, più o meno, prossimamente o lontanamente, capaci di peccare; e niuno ama di esser punito, anzi tutti abborrono il gastigo in se stessi. - Il dramma  3450 di lieto fine coll'effetto di una sua parte distrugge quello dell'altra. {# 1. Veggasi la pag. 3122.} Voglio dire la compassione. (Dell'odio verso la colpa, ch'è pur distrutto dalla catastrofe, ho già detto pp. 3097. sgg. ). Il giusto {ec.} divenuto felice, per infelice che sia stato, non è più compatito. Ognuno quasi si contenterebbe di arrivare per la stessa strada alla stessa sorte. L'oppresso vendicato non è compatito. Ora egli è cosa stoltissima il travagliare in un dramma ec. ad eccitare un affetto che il dramma medesimo debba direttamente spegnere, e che, non a caso, ma per intenzione dell'autore e per natura dell'opera, finita la rappresentazione o la lettura, non debba lasciare alcun vestigio di se; un affetto che non debba esser durabile, che durando si opponga all'effetto voluto e cercato dall'autore e dalla qualità del dramma. E quando l'eccitar questo affetto, come la compassione per gl'immeritevolmente infelici, è il principale scopo che l'autore e il dramma si propongono (come ordinariamente accade), il farlo non durevole, il distruggerlo nel suddetto modo, è contraddizione ne' termini:  3451 principale e non durevole, principale e da distruggersi appostatamente e volutamente col dramma stesso, principale e non risultante dal totale del dramma, principale e da non dover perseverare nè sino alla fine nè dopo la fine, e da non dover esser prodotto dal dramma considerato nell'intero; dovere dal dramma considerato nell'intero esser prodotto un effetto diverso, anzi contrario, a quello ch'ei si propone per iscopo principale. - La naturalezza {#1. Veggasi la p. 3125. 3133.} e la verisimiglianza è maggiore assai ne' drammi di tristo che in quelli di lieto fine, perchè così va il mondo: il delitto e il vizio trionfa, i buoni sono oppressi, la felicità e l'infelicità sono ambedue di chi non le merita. - Ma nel mondo il felice per lo più ha nome di buono, e viceversa. Il dramma chiama la bontà e la malvagità col loro nome, e mostra il carattere e la condotta {morale} de' felici e degl'infelici qual ella è veramente. Quindi la sua grande utilità, quindi l'odio e il disprezzo {originato dal dramma,} verso i malvagi benchè felici, e viceversa. Non dall'alterar la natura e la verità delle cose, facendo sfortunato il vizio e la virtù.  3452 E ben grande utilità morale, e che ben di rado si proccura e si ottiene, e basta ben a produr l'odio e l'indignazione, il far conoscere e recar sotto gli occhi le vere qualità morali e i veri meriti de' felici e degl'infelici. E l'odio, {il disprezzo, il vitupero, l'infamia,} l'indignazione, la pietà, {la stima, la lode} sono non piccoli, e certo i soli, gastighi e compensi destinati in questo mondo al vizio e alla virtù. Non è poco il far che l'una[uno] e l'altra gli ottengano, che l'uno sia punito, l'altra premiata com'ambedue possono esserlo, che la natura delle cose abbia luogo, che l'ordine stabilito alle cose umane e il decreto della natura sia effettuato. Il qual ordine e decreto non è altro che questo: sieno i malvagi felici ed infami, i buoni infelici e gloriosi o compatiti. Ordine spesso turbato, e decreto ben sovente trasgredito, non quanto alla felicità ed infelicità, ma quanto al biasimo e alla lode, all'odio ed all'amore o compassione. - L'uditore vedendo il vizio e il delitto rappresentato con vivi e odiosi colori nel dramma, desidera fortemente di vederlo punito. E per lo contrario vedendo la  3453 virtù e il merito oppressi e infelici, e rendutigli con bella e viva pittura ed artifizio amabili e cari dal poeta, concepisce sensibile desiderio di vederli ristorati e premiati. Or se nè l'uno nè l'altro fa il dramma stesso, {#1. Veggasi la p. 3109-10} cioè lascia il vizio impunito anzi premiato, e la virtù non premiata anzi punita e sfortunata; ne seguono due bellissimi effetti, l'uno morale e l'altro poetico. Il primo si è che l'uditore, appunto per lo sfortunato esito della virtù e il contrario del vizio, che se gli è rappresentato nel dramma, si crede obbligato verso se stesso a cangiare quanto è in lui le sorti di que' malvagi e di que' virtuosi, punendo gli uni col maggior possibile odio ed ira, e gli altri premiando col maggior affetto di amore, di compassione e di lode. E con questa disposizione tutta di abborrimento e detestazione verso i malvagi e di tenerezza e pietà verso i buoni, egli parte dallo spettacolo. La qual disposizione quanto sia morale e buona e desiderabile che si desti, chi nol vede? E questo  3454 è veramente l'unico modo di far che l'uditore parta appassionato per la virtù, e passionatamente nemico del vizio; l'unico modo di ridurre a passione l'amor dell'una e l'odio dell'altro, cosa difficilissima a conseguirsi oggidì in chicchessia, e stata sempre difficile ad ottenersi ne' cuori volgari e plebei della moltitudine; ma cosa dall'altra parte così utile che più non può dirsi, perchè nè quell'amore nè quell'odio saranno nè furono mai efficaci nell'uomo essendo pura ragione, e s'ei non si convertano in passione, quali furono non di rado anticamente. L'effetto poetico si è che un dramma così formato lascia nel cuore degli uditori un affetto vivo, gli fa partire coll'animo agitato e commosso, dico agitato e commosso ancora, non prima commosso e poi racchetato, prima acceso e poi spento a furia d'acqua fredda, come fa il dramma di lieto fine; insomma produce un effetto grande e forte, un'impressione e una passion viva, nè la produce soltanto ma la lascia, il che non fa il dramma di lieto fine; e l'effetto è durevole  3455 e saldo. Or che altro si richiede {al totale di} una poesia, poeticamente parlando, che produrre e lasciare un sentimento forte e durevole? quando anche ei non fosse d'altronde utile e morale, come nel nostro caso. Certo ben pochissime sono quelle poesie qualunque, che ottengano il detto scopo; e quelle qualunque pochissime che l'ottengono, non sono e non possono esser altro che grandi, insigni, famose e vere poesie. Or fate che il dramma dopo avervi mosso all'odio verso il malvagio, ve lo dia, per così dir nelle mani, legato, punito, giustiziato. Voi partite dallo spettacolo col cuore in pienissima calma. E come no? qual vostro affetto resta superiore agli altri? non rimangon tutti in pienissimo equilibrio? e una poesia che lascia gli affetti de' lettori o uditori in pienissimo equilibrio, si chiama poesia? produce un effetto poetico? che altro vuol dire essere in pieno equilibrio, se non esser quieti, e senza tempesta nè commozione alcuna? e qual altro è il proprio {uffizio e} scopo della poesia se non il commuovere, così o così, ma  3456 sempre commuover gli affetti? E quanto all'equilibrio, vedete: da una parte l'odio e l'ira che avevate concepita, dall'altra la vendetta che placa e sfoga l'uno e l'altra; di qua il desiderio, di là l'oggetto desiderato, cioè il castigo del malvagio. Le partite sono uguali; l'affare è finito, il negozio è terminato, gl'interessi pareggiati: voi chiudete il vostro libro de' conti e non ci pensate più. Infatti l'uditore si parte dal dramma di lieto fine non altrimenti che chi abbia ricevuto un'offesa e fattone piena e tranquilla vendetta, o ne sia stato pienamente soddisfatto, il quale torna a casa e si corica colla stessa placidezza e coll'animo così riposato, come se non gli fosse stata fatta alcuna offesa, e di questa non serba pensiero alcuno. Bello effetto di un dramma, di una rappresentazione, di una poesia; lasciare di se tal vestigio negli animi degli spettatori o uditori o lettori, come s'e' non l'avessero nè veduta nè udita nè letta. Meglio varrebbe essere stato a uno spettacolo di forze, di giuochi, equestre, {e} che so io, i quali pur lasciano  3457 nell'animo alcuna orma o di maraviglia o di diletto o d'altro. {Ma} in verità in quella parte dell'anima in cui il dramma e la poesia deve agire, quivi il dramma di lieto fine non lascia alcun segno. Se lascia alcuna traccia in altra parte dell'anima, questo effetto o è alieno dalla poesia, o l'è secondario, o estrinseco, accidentale, di circostanza, parziale, cioè non prodotto dal totale della composizione, forse proprio della decorazione, dell'azione ec. dello spettacolo più che del dramma, non poetico ec. Or quanto all'effetto del dramma di lieto fine poeticamente considerato, esso è tale qual si è mostrato, anzi non è, perch'esso è nullo, e perciò che spetta al totale, il dramma di lieto fine non produce, poeticamente, alcuno effetto. Quanto all'effetto morale, che odio, che ira verso il vizio può rimanere in chi l'ha visto totalmente abbattuto, vinto, umiliato e punito? Quella punizione che l'uditore gli avrebbe dato nel cuor suo, l'ha preoccupata il poeta: questi ha fatto il tutto; l'uditore non ha a far più nulla, e nulla fa. Quella passione ch'egli avrebbe concepita, l'ha sfogata il poeta da se: al poeta  3458 dunque rimane. L'ira l'odio che l'uditore avrebbe portato seco, il poeta l'ha soddisfatto. Odio ed ira e qualunque passione soddisfatta, non resta. (Non resta, dico, quanto all'atto, di cui solo è padrone il poeta, e non dell'abito). Dunque l'uditore parte dal dramma senza nè odio nè ira nè altra passione alcuna contro i malvagi, il vizio, il delitto. Tutto questo discorso circa la parte che spetta nel dramma ai malvagi, si faccia altresì circa quella che spetta ai buoni. - Chiuderò queste osservazioni con un esempio di fatto, narratomi da chi si trovò presente. Si rappresentò in Bologna pochi anni fa l'Agamennone dell'Alfieri. Destò vivissimo interesse negli uditori, e fra l'altro, tanto odio verso Egisto, che quando Clitennestra esce dalla stanza del marito col pugnale insanguinato, e trova Egisto, la platea gridava furiosamente all'attrice che l'ammazzasse. Ma come in quella tragedia Egisto riesce fortunato e gl'innocenti restano oppressi, quivi si vide quello che possano le vere tragedie negli animi degli uditori, quando elle sono di  3459 tristo fine. Perchè promettendo gli attori che la sera vegnente avrebbero rappresentato l'Oreste pur d'Alfieri, ove avrebbero veduto la morte di Egisto, la gente uscì dal teatro fremendo perchè il delitto fosse rimaso ancora impunito, e dicendo che per qualunque prezzo erano risoluti l'indomani di trovarsi a veder la pena di questo scellerato. E l'altro dì prima di sera il teatro era già pieno in modo che più non ve ne capeva. O moralmente o poeticamente che si consideri un tanto odio verso un ribaldo {di 3000 anni addietro,} potuto ispirare e lasciare da quella tragedia, ed una passione così calda, un effetto così vivo, potuto da lei produrre e lasciare; per l'una e per l'altra parte si può vedere se le tragedie di lieto fine sieno poco o utili o dilettevoli. E paragonando gli effetti di questa con quelli dell'Oreste, che certo furono molto minori e men vivi (sebbene anche questa seconda tragedia sia bellissima), si sarà potuto notare da qualunque mediocre osservatore se il dramma di tristo, o quello di lieto fine, sia da preferirsi,  3460 e qual de' due abbia maggior forza negli animi, e sia d'effetto più teatrale e poetico, e più morale ed utile. - Si potrà applicare tutto il passato discorso, colle debite modificazioni, a quei drammi ne' quali l'infelicità de' buoni o degli immeritevoli, non vien da' cattivi, nè da altrui vizi o colpe, ma dal fato o da circostanze, quali sono l'Edipo re di Sofocle, {+la Sofonisba d'Alfieri, e molte tragedie di varie età e lingue,} e molti drammi sentimentali moderni, appresso varie nazioni. E similmente a quei drammi in cui l'infelicità viene da colpa, ma o involontaria o compassionevole ec. degli stessi infelici, come appunto si può dire che sia l'Edipo re, la Fedra, e molti drammi, {massimamente} moderni, o tragedie ec. E dalle stesse predette osservazioni si potrà raccogliere se sia meglio che lo scioglimento di tali drammi sia felice o infelice, che la sorte de' protagonisti si muti o si conservi la stessa, che di felice divenga infelice, o che per lo contrario, ec. (16-18. Settembre. 1823.).