Antichi.
Ancients.
112,12 115,2 116,2 121,1 123,2 125,2 130,1 131,2 162,2 163,1 195,2 197,1 204,2 207,2 222,1 231,1 253,1 254,1 266,1 270,3 274,1 277,1 280,2 285,2 328,1 338,1.2 340,1 343,1 352,2 420,2 453,1.2 473,3 459,1 463,1 474,2 484,1 503,1 520,1 528,1 536,3 543,1 590,1 593,2 598,4 601,3 611,1 618,2 625,3 661,2 663,1.2 678,3 684,2 725,1 866,1 872,1 911,1 923,12 926,2 931,2 1001,2 1004,1 1009,1.2 1016,1 1018,1 1026,1 1028,4 1037,1 1043,1 1078,1 1083,2 1096,1 1163,3 1165,2 1169,1 1174,2 1175,1 1315,1 1330,1 1347,1 1361,3 1362,1 1364,1 1378,1 1422,1 1470,1 1482,1 1487,1 1494,1 1554,2 1555,1 1563,1 1573,1 1606,2 1607,1 1794,1 1842,1 1860,1 1899 1975,1 1988,1.3 2088,1 2215,1 2420,1 2434,2 2544,1 2583,1 2736,1 2759,2 2987,3 3029,1.2 3251-3 3291,1 3482,1 3520,1 3613,1 3638,3 3676,1 3909,2 3921,1 4185,2 4256,1 4281,3 4289,2Ci resta ancor molto a ricuperare della civiltà antica, massime quanto al fisico; e il progresso della moderna civiltà è ancora, in gran parte, un risorgimento.
There is still a lot left for us to recover from ancient civilization, especially in terms of the body; and the progress of modern civilization is still for the most part a renaissance.
4289,1Gli antichi facevano ogni cosa per l'eternità, i moderni pel momento. Applicazione di questo pensiero all'architettura, letteratura ec. Osservazioni notabili.
The ancients did everything for eternity, the moderns for the moment. The application of this thought to architecture, literature, etc. Notable observations.
3435,1 4267,3 4268,7Umanità degli antichi, superiore alla moderna.
Humanity of the ancients, superior to that of the moderns.
4245,1[112,2]
Gesù Cristo fu il primo che
personificasse e col nome di mondo
circoscrivesse e definisse e stabilisse l'idea del perpetuo nemico della virtù
dell'innocenza dell'eroismo della sensibilità vera, d'ogni singolarità
dell'animo della vita e delle azioni, della natura in somma, che è quanto dire
la società, e così mettesse la moltitudine degli uomini fra i principali nemici
dell'uomo, essendo pur troppo vero che come l'individuo per natura è buono e
felice, così la moltitudine (e l'individuo in essa) è malvagia e infelice. {{(v. p. 611 capoverso
1.)}}
[115,2] Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il
vigore del corpo non erano solamente utili alla guerra, o ad eccitare l'amor
della gloria ec. ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor
dell'animo, il coraggio, le illusioni, l'entusiasmo che non saranno mai in un
corpo debole (vedete gli altri miei pensieri p.76
p.
96) in somma quelle cose che cagionano la grandezza e l'eroismo delle
nazioni. Ed è cosa già osservata che il vigor del corpo nuoce alle facoltà
intellettuali, e favorisce le immaginative, e per lo contrario l'imbecillità del
corpo è favorevolissimo[favorevolissima] al
riflettere, (7. Giugno 1820)
{{e chi riflette non opera, e poco immagina, e le {grandi} illusioni non son fatte per lui.}}
[116,2] Gli antichi supponevano che i morti non avessero altri
pensieri che de' negozi di questa vita, e la rimembranza de' loro fatti gli
occupasse continuamente, e s'attristassero o rallegrassero secondo che aveano
goduto o patito quassù, in maniera che secondo essi, questo mondo era la patria
degli uomini, e l'altra vita un esilio, al contrario de' cristiani. (8.
Giugno 1820.)
{{V. p. 253.}}
[121,1] La cagion vera secondo me di quello che dice Montesquieu loc. cit. ch. 14. p. 157. di uno fatto accusare
da Tiberio per aver venduta colla sua
casa la statua dell'imperatore, e di un altro che ec. è che il materiale e il
sensibile, avea molto più forza sugli antichi, ed era molto più considerato in
quei tempi d'immaginazione, che in questi nostri tutti intellettuali.
[123,2] Lo spatrio cioè il trapiantarsi d'un paese in un altro
era {possiamo dire} ignoto agli antichi popoli civili,
finchè durò la loro civiltà, segno di quanto fosse il loro amor patrio, e l'odio
o disprezzo degli stranieri. Al contrario quando declinarono alla barbarie. (V. Montesquieu
Grandeur ec. ch. 2. p. 20. fine e ch. 16.
p. 179 e la nota 6.) Le colonie non erano altro che ampliazioni della
patria, dove ciascuno restava fra' suoi compatriotti, colle stesse leggi,
costumi ec.
[125,2] In proposito di quello ch'io dico nei miei pensieri,
p. 112. e nel luogo quivi
citato, osservate che ora in uno stile sostenuto sarebbe vergogna il dare
all'uditore un epiteto che ricordasse un pregio del corpo. Non così presso i
greci, sia in ordine alla bellezza, sia alla robustezza ec. Il corpo non era in
così basso luogo presso gli antichi come presso noi. Par che questo sia un
vantaggio nostro, ma pur troppo le cose spirituali non hanno su di noi quella
forza che hanno le materiali, ed osservatelo nella poesia ch'è la imitatrice
della natura, e vedete ch'effetto facciano i poeti metafisici, rispetto agli
altri poeti.
[130,1] In proposito di quello che ho detto p. 96. osservate come ragionevolmente
gli antichi usassero la musica e la danza nei conviti, e segnatamente dopo il
pranzo, come dice Omero nel primo dell'Odissea, e forse anche dove parla di Demodoco. L'uomo non è
mai più disposto che in quel punto ad essere infiammato dalla musica e dalla
bellezza, e da tutte le illusioni della vita.
[131,2] Una conseguenza del materiale delle religioni antiche
e dell'importanza che davano a questa vita, era che il sacerdozio presso i
romani fosse come un grado secolare, e presso le altre nazioni, i sacerdoti,
come i Druidi presso i Galli, si mescolassero moltissimo negli affari civili, e
nelle guerre e nelle paci e combattessero ancora negli eserciti
132 per la loro patria, l'amor della quale tanto è lungi
che fosse sbandito dalla religion loro, che anzi n'era uno de' fondamenti. E
così a un di presso fra gli antichi Ebrei, dove anzi il governo civile e
militare era tutto fondato sopra la religione. E così dirò degli oracoli
consultati per le cose pubbliche, e di tutto l'apparato delle religioni antiche,
sempre ordinato ai negozi di questo mondo.
[162,2] Lo scopo dell'incivilimento moderno doveva essere di
ricondurci appresso a poco alla civiltà antica offuscata ed estinta dalla
barbarie dei tempi di mezzo. Ma quanto più considereremo l'antica civiltà, e la
paragoneremo alla presente, tanto più dovremo convenire ch'ella era quasi nel
giusto punto, e in quel mezzo tra i due eccessi, il quale solo poteva proccurare
all'uomo in società una certa felicità. La barbarie de' tempi bassi non era una
rozzezza primitiva, ma una corruzione del buono, perciò dannosissima e
funestissima. Lo scopo dell'incivilimento dovea esser di togliere la ruggine
alla spada già bella, o accrescergli solamente un poco di lustro. Ma siamo
andati tanto oltre volendola raffinare e aguzzare che siamo presso a romperla. E
osservate che l'incivilimento ha conservato in grandissima parte il cattivo dei
tempi bassi, ch'essendo proprio loro, era più moderno, e tolto tutto quello che
restava
163 loro di buono dall'antico per la maggior
vicinanza (del quale antico in tutto e per tutto abbiam fatto strage), come
l'esistenza e un certo vigore del popolo, {e
dell'individuo,} uno spirito nazionale, gli esercizi del corpo,
un'originalità e varietà di caratteri costumi usanze ec. L'incivilimento ha
mitigato la tirannide de' bassi tempi, ma l'ha resa eterna, laddove allora non
durava, tanto a cagione dell'eccesso, quanto per li motivi detti qui sopra.
Spegnendo le commozioni e le turbolenze civili, in luogo di frenarle com'era
scopo degli antichi (Montesquieu ripete sempre che le divisioni
sono necessarie alla conservazione delle repubbliche, e ad impedire lo
squilibrio dei poteri, ec. e nelle repubbliche ben ordinate non sono contrarie
all'ordine, perchè questo risulta dall'armonia e non dalla quiete e immobilità
delle parti, nè dalla gravitazione smoderata e oppressiva delle une sulle altre,
e che per regola generale, dove tutto è tranquillo non c'è libertà), non ha
assicurato l'ordine ma la perpetuità tranquillità e immutabilità del disordine,
e la nullità della vita umana. In somma la civiltà moderna ci ha portati al lato
opposto dell'antica, e non si può comprendere come due cose opposte debbano
esser tutt'uno, vale a dire civiltà tutt'e due. Non si tratta di piccole
differenze, si tratta di contrarietà sostanziali: o gli antichi non erano
civili, o noi non lo siamo. (10. Luglio 1820.).
[163,1] Io riguardo l'indebolimento corporale delle
generazioni umane, come l'una delle principali cause del gran cangiamento del
mondo e dell'animo e cuore umano dall'antico al moderno. Così anche della
barbarie de' secoli di mezzo, stante la depravazione de' costumi sotto i primi
imperatori e in seguito, la quale è certa cagione d'infiacchimento corporale,
come
164 appresso i Persiani divenuti fiacchissimi (e
perciò barbari e privi di libertà) per la depravazione degli antichi costumi e
istituti che li rendevano vigorosissimi. V.
la Ciroped. cap. ult. art. 5. e segg. sino
al fine.
[195,2] Sebbene è spento nel mondo il grande e il bello e il
vivo, non ne è spenta in noi l'inclinazione. Se è tolto l'ottenere, non è tolto
nè possibile a togliere il desiderare. Non è spento nei giovani l'ardore che li
porta a procacciarsi una vita, e a sdegnare la nullità e la monotonia. Ma tolti
gli oggetti ai quali anticamente si era rivolto questo ardore, vedete a che cosa
li debba portare e li porti effettivamente. L'ardor giovanile, cosa
naturalissima, universale, importantissima, una volta entrava grandemente nella
considerazione
196 degli uomini di stato. Questa materia
vivissima e di sommo peso, ora non entra più nella bilancia dei politici e dei
reggitori, ma è considerata appunto come non esistente. Fratanto[Frattanto] ella esiste ed opera senza direzione nessuna,
senza provvidenza, senza esser posta a frutto (opera perchè quantunque tutte le
istituzioni tendano a distruggerla, la natura non si distrugge, e la natura in
un vigor primo {freschissimo} e sommo com'è in
quell'età) e laddove anticamente era una materia impiegata {e
ordinata} alle grandi utilità pubbliche, ora questa materia così
naturale, e inestinguibile, divenuta estranea alla macchina e nociva, circola e
serpeggia e divora sordamente come un fuoco elettrico, che non si può sopire
{nè impiegare in bene} nè impedire che non iscoppi
in temporali in tremuoti ec. (1. Agosto 1820.).
[197,1] Dice Diogene Laerzio di Chilone che προσέταττε... ἰσχυρὸν ὄντα πρᾷον εἶναι ὅπως οἱ πλησίον αἰδῶνται μᾶλλον
ἢ ϕοβῶνται
*
. E questo precetto si deve estendere,
massimamente oggidì in tanta propagazione dell'egoismo, a tutti i vantaggi
particolari di cui l'individuo può godere. Perchè se tu sei bello non ti resta
altro mezzo per non essere odiosissimo agli uomini che un'affabilità
particolare, e come una certa noncuranza di te stesso, che plachi l'amor proprio
altrui offeso dall'avvantaggio che tu hai sopra di loro, o anche
dall'uguaglianza. Così se tu sei ricco, dotto, potente ec. Quanto maggiore è
l'avvantaggio che tu hai sopra gli altri, tanto più per fuggir l'odio, t'è
necessaria una maggiore amabilità, e quasi dimenticanza e disprezzo di te stesso
in faccia agli altri, perchè tu devi medicare una cagione d'odio che tu hai in
te stesso e che gli altri non hanno: una cagione assoluta, che ti fa odioso per
se sola, senza che tu sia nè ingiusto nè superbo nè ec. Ed era questa una cosa
notissima agli antichi, tanto persuasi della odiosità dei vantaggi individuali,
che ne credevano invidiosi gli stessi dei, e nella prosperità avevano cura
dell'invidiam deprecari tanto divina che umana, e
quindi un
198 seguito non interrotto di felicità li
rendeva paurosi di gravi sciagure. V. Frontone
de Bello Parthico.
(4. Agosto 1820.). {{v. p. 453. capoverso
ult.}}
[204,2] Tutti i caratteri {principali} dello spirito antico, che si trovano in Omero, e negli altri greci e latini, si
trovano anche
205 in Ossian, e nella sua nazione. Lo stesso pregio del
vigor del corpo, della giovanezza, del coraggio, di tutte le doti corporali. La
stessa divinizzazione della bellezza. Lo stesso entusiasmo per la gloria e per
la patria. In somma tutti i beati distintivi di una civilizzazione che sta nel
suo vero punto fra la natura e la ragione. Del resto, pietà filiale, e paterna,
e tutti gli altri sentimenti doverosi e naturali, hanno fra i caledoni tutta la
loro forza. Il divario tra i greci ed Ossian consiste principalmente in una malinconia generata dalle
disgrazie particolari, e non dalla disperante filosofia, ma più propriamente e
generalmente dal clima. Questa cagione non solo si conosce ma si sente nell'Ossian, e perciò rende la sua
malinconia molto inferiore a quella dei meridionali, Petrarca, Virgilio, ec. nei quali si conosce e sente anche una potenza di
allegria, come pure in Omero ec. cosa
necessaria alla varietà, all'ampiezza della poesia composta di diversissimi
generi, e quasi anche al sentimento.
[207,2] Oggidì è cosa molto ordinaria che un uomo veramente
singolare e grande si distingua al di fuori per un volto o un occhio assai vivo,
ma del resto per un corpo esilissimo e sparutissimo, e anche difettoso. Pope, Canova, Voltaire, {+Descartes, Pascal.} Tant'è: la grandezza appartenente
all'ingegno non si può ottenere oggidì senza una continua azione logoratrice
dell'anima sopra il corpo, della lama sopra il fodero. Non così anticamente,
dove il genio e la grandezza era più naturale e spontanea, e con meno ostacoli a
svilupparsi, oltre la minor forza della distruttrice cognizione del vero
inseparabile oggidì dai grandi talenti, e il maggior esercizio del corpo
riputato cosa nobile e necessaria, e come tale usato anche dalle persone di gran
genio, come Socrate
ec. E Chilone
{uno de' sette savi} non credeva alieno dalla sapienza
il consigliare come faceva, εὖ τὸ σῶμα ἀσκεῖν
*
(Laerz.), {e questo
consiglio si trova registrato fra i documenti della sua sapienza.} In
particolare poi quanto alla politica, oggidì l'uomo di stato si può dir che sia
come l'uomo di lettere, sempre occupato alle insaluberrime fatiche del
gabinetto. Ma nelle antiche repubbliche chi aspirava agli affari civili, e nella
sua giovanezza fortificava necessariamente il corpo cogli esercizi la milizia
ec. senza i quali sarebbe stato quasi infame; e lo stesso esercizio della
politica era pieno di azione corporale, trattandosi di agire col popolo,
clienti, impegni ec. ec. Così {anche} la vita di
qualunque {altro} uomo di genio era sempre piena di
azione nell'esercizio stesso delle sue facoltà.
208
Esempio ne può essere Omero, secondo
quello che si racconta della sua vita, viaggi ec. {+Di Cicerone che tanto
incredibilmente affaticò la mente e la penna, e che nacque di
quell'ingegno e natura unica che ognun sa, niun dice che fosse di corpo,
non che infermiccio, ma gracile, le quali qualità oggi s'hanno per segni
caratteristici, e condizioni indispensabili de' talenti non pur sommi ma
notabili, e massime di chi avesse coltivato e occupato tanto la mente
negli studi letterari e nello scrivere, come Cic. anzi per una metà. Quel che dico di Cic. può dirsi di Platone, e di quasi tutti i
grandissimi ingegni e laboriorissimi[laboriosissimi] letterati e scrittori antichi. V. però Plutarco
Vita di Cic.}
(11. Agosto 1820.)
{{V. p. 233. capoverso 3..}}
[222,1]
222
Ses
héros aiment mieux être écrasés par la foudre que de faire une
bassesse, et leur courage est plus inflexible
que la loi fatale de la nécessité.
*
Barthélemy dove discorre di Eschilo.
(22. Agosto 1820.).
[231,1]
231
Ἔλεγε δὲ
*
(Socrate) καὶ ἓν μόνον ἀγαθὸν εἶναι, τὴν ἐπιστήμην· καὶ ἓν μόνον
κακὸν, τὴν ἀμαθίαν
*
dice il Laer. in Socr. l. 2. segm.
31. Oggidì possiamo dire tutto l'opposto, e questa considerazione può
servire a definire la differenza che passa tra l'antica e la moderna
sapienza.
[253,1]
253
Dal 2. pensiero della p. 116.
inferite come, {anche} secondo questa sola
considerazione, il Cristianesimo debba aver reso l'uomo inattivo e ridottolo
invece ad esser contemplativo, e per conseguenza com'egli sia favorevole al
dispotismo, non per principio (perchè il cristianesimo nè loda la tirannia, nè
vieta di combatterla, o di fuggirla, o d'impedirla), ma per conseguenza
materiale, perchè se l'uomo considera questa terra come un esilio, e non ha cura
se non di una patria situata nell'altro mondo, che gl'importa della tirannia? Ed
i popoli abituati (massime il volgo) alla speranza di beni d'un'altra vita,
divengono inetti per questa, o se non altro, incapaci di quei grandi stimoli che
producono le grandi azioni. Laonde si può dire generalmente anche astraendo dal
dispotismo, che il cristianesimo ha contribuito non poco a distruggere il bello
il grande il vivo il vario di questo mondo, riducendo gli uomini dall'operare al
pensare e al pregare, o vero all'operar solamente cose dirette alla propria
santificazione ec. Sopra la quale specie di uomini è impossibile che non sorga
immediatamente un padrone. Non è veramente che la religion cristiana condanni o
non lodi l'attività. Esempio un {San}
Carlo Borromeo, un {San}
Vincenzo de Paolis. Ma in primo luogo
l'attività di questi santi
254 se bene li portava ad
azioni eroiche (e per questa parte grandi) ed utili, non dava gran vita al
mondo, perchè la grandezza delle loro azioni era piuttosto relativa ad essi
stessi che assoluta, e piuttosto intima e metafisica, che materiale. In secondo
luogo, parendo che il cristianesimo faccia consistere la perfezione piuttosto
nell'oscurità nel silenzio, e in somma nella totale dimenticanza di quanto
appartiene a questo esilio, egli ha prodotto e dovuto produrre cento Pacomi e Macari per un {San}
Carlo Borromeo, ed è certo che lo
spirito del Cristianesimo in genere portando gli uomini, come ho detto, alla
noncuranza di questa terra, se essi sono conseguenti, debbono tendere
necessariamente ad essere inattivi in tutto ciò che spetta a questa vita, e così
il mondo divenir monotono e morto. Paragonate ora queste conseguenze, a quelle
della religione antica, secondo cui questa era la patria, e l'altro mondo
l'esilio. (29. 7.bre 1820.).
[254,1] Il costume e la massima di macerare la carne, e
indebolire il corpo per ridurlo, come dice S. Paolo, in servitù, dovea
necessariamente illanguidire le passioni e l'entusiasmo, e render soggetti anche
gli animi di chi cercava di soggiogare il corpo, e così per una parte
contribuire infinitamente a spegner la vita del mondo, per l'altra ad appianar
la strada al dispotismo, perchè non ci son forse uomini così atti ad esser
tiranneggiati
255 come i deboli di corpo, da qualunque
cagione provenga questa debolezza, o da lascivia e mollezza, come presso i
Persiani, che dopo il tempo di Ciro
divennero l'esempio dell'avvilimento e della servitù; o da macerazione ec. Nel
corpo debole non alberga coraggio, non fervore, non altezza di sentimenti, non
forza d'illusioni ec. (30. 7.bre 1820.). {{Nel corpo servo anche l'anima è
serva.}}
[266,1] Le passioni e i sentimenti dell'uomo si può dire che
da principio stessero nella superficie, poi si rannicchiassero nel fondo più
cupo dell'anima, e finalmente siano venuti e rimasti nel mezzo. Perchè l'uomo
naturale, sebbene sensibilissimo, tuttavia si può dire che abbia le sue passioni
nella superficie, sfogandole con ogni sorta di azioni esterne, suggerite e
volute dalla natura per aprire una strada alla soverchia foga ed impeto del
sentimento, il quale appunto perchè violentissimo nel dimostrarsi, e perchè
richiamato {subito} al di fuori, dopo un grand'empito
esterno, presto veniva meno, {se bene fosse molto più
frequente.} L'uomo non più naturale, ma che tuttavia conserva un poco
di natura, risentendo tutta o quasi tutta la forza della passione, come l'uomo
primitivo, la contiene tutta al di dentro, non ne dà segni se non leggeri ed
equivoci, e però il sentimento si rannicchia tutto nel profondo, ed acquista
maggior forza e durevolezza, e se il sentimento è doloroso, non avendo lo sfogo
voluto dalla natura, diventa capace anche di uccidere o di tormentare più o
meno, secondo la qualità sua e dell'individuo. Di queste persone si trovano
anche oggidì,
267 perchè, tolto qualche parte del volgo,
nessuno conserva tanta natura da lasciar tutta la passione lanciarsi alla
superficie (eccetto in alcuni casi eccessivi, dove la natura trionfa); ma molti
ne hanno quanto basta per sentirla vivamente, e poterla provare contenuta e
chiusa nel fondo dell'animo. Tuttavia è certo che questi tali appartengono ad
un'epoca di mezza natura, a quel tempo in cui la vera sensibilità non era nè
così ordinaria nelle parole, nè così straordinaria nel fatto, come
presentemente. L'uomo perfettamente moderno, non prova quasi mai passione o
sentimento che si lanci all'esterno o si rannicchi nell'interno, ma {quasi} tutte le sue passioni si contengono per così dire
nel mezzo del suo animo, vale a dire che non lo commuovono se non mediocremente,
gli lasciano il libero esercizio di tutte le sue facoltà naturali, abitudini ec.
In maniera che la massima parte della sua vita si passa nell'indifferenza e
conseguentemente nella noia, mancando d'impressioni forti e straordinarie.
Esempio. Un amico o persona desiderata che ritorni dopo lungo tempo, o che
vediate per la prima volta. Il fanciullo e l'uomo selvaggio l'abbraccerà, lo
carezzerà, salterà, darà mille segni esterni di quella gioia che l'anima
veramente e vivamente; segni non fallaci, ma verissimi
268 e naturalissimi. L'uomo di sentimento, senza gesti nè moti forti, lo prenderà
per la mano, o al più l'abbraccerà lentamente, e resterà qualche tempo in questo
abbracciamento, o in altra positura, non dando segno della gioia che prova se
non colla immobilità della persona e dello sguardo, e forse con qualche lacrima,
{e mentre il di dentro è diversissimo, il di fuori sarà
quasi quello di prima.} L'uomo ordinario, o l'uomo di sentimento
affievolito e intorpidito dall'esperienza del mondo, e dalla misera cognizione
delle cose, {insomma l'uomo moderno,} conserverà di
dentro e di fuori il suo stato giornaliero, non proverà emozione se non piccola,
minore ancora di quello che forse si aspettava, ed o che lo prevedesse o no,
quello sarà per lui un avvenimento ordinario della vita, uno di quei piaceri che
si gustano con indifferenza, e che appena arrivati, quando anche voi lo
desideraste ansiosamente, vi par freddo e ordinario e incapace di riempiervi o
di scuotervi. V. p. 270 capoverso 1.
[270,3] La ragione è debolissima e inattiva al contrario della
natura. Laonde quei popoli e quei tempi nei quali prevale più o meno la ragione
saranno stati e saranno sempre inattivi in proporzione della influenza di essa
ragione. Al contrario dico della natura. Ed un popolo tutto ragionevole o
filosofo non potrebbe sussistere per mancanza di movimento e di chi si prestasse
agli uffizi scambievoli e necessari alla vita. ec. ec. E infatti osservate
quegli uomini (che non sono rari oggidì) stanchi del mondo e disingannati per
lunga esperienza, e possiamo dire, renduti perfettamente ragionevoli. Non sono
capaci d'impegnarsi in nessun'azione, e neanche desiderio. {+Simili al march. D'Argens, di cui dice Federico
nelle Lettere, che per pigrizia, non avrebbe voluto
pur respirare, se avesse potuto.} La conseguenza della loro
stanchezza, esperienza, e cognizione delle cose è una perfetta indifferenza che
li fa seguire il moto altrui senza muoversi da se stessi, {anche nelle cose che li riguardano.} Laonde se questa indifferenza
potesse divenire universale
271 in un popolo, non
esistendovi moto altrui, non vi sarebbe movimento di nessuna sorta.
[274,1]
Alla p. 252
capoverso 1. Vedi in questo proposito la p. 114. pensiero ultimo, e considera la gran
contrarietà di Catone ai progressi
dello studio presso i Romani, i quali sono un vivissimo esempio di quello ch'io
dico, cioè dell'esser gli studi, tanto ameni quanto seri e filosofici,
favorevolissimi alla tirannia. V. anche Montesquieu
Grandeur etc. ch. 10. principio.
Certo la profonda filosofia di Seneca,
di Lucano, di Trasea Peto, di Erennio Senecione, di Elvidio
Prisco, di Aruleno Rustico,
di Tacito ec. non
impedì la tirannia, anzi laddove i Romani erano stati liberi senza filosofi,
quando n'ebbero in buon numero, e così profondi come questi, e come non ne
avevano avuti mai, furono schiavi. E come giovano tali studi alla tirannia,
sebbene paiano suoi nemici, così scambievolmente la
275
tirannia giova loro, 1. perchè il tiranno ama e proccura che il popolo si
diverta, o pensi (quando non si possa impedire) in vece che operi, 2. perchè
l'inoperosità del suddito lo conduce naturalmente alla vita del pensiero,
mancando quella dell'azione, 3. perchè l'uomo snervato e ammollito è più capace
e più voglioso o di pensare, o di spassarsi coll'amenità ec. degli studi
eleganti, che di operare, 4. perchè il peso, la infelicità, la monotonia, il sombre della tirannia fomenta e introduce la
riflessione, la profondità del pensare, la sensibilità, lo scriver malinconico;
l'eloquenza non più viva ed energica, ma lugubre, profonda, filosofica ec. 5.
perchè la mancanza delle vive e grandi illusioni spegnendo l'immaginazione lieta
aerea brillante e insomma naturale come l'antica, introduce la considerazione
del vero, la cognizione della realtà delle cose, la meditazione ec. e dà anche
luogo all'immaginazione tetra astratta metafisica, e derivante più dalle verità,
dalla filosofia, dalla ragione, che dalla natura, e dalle vaghe idee proprie
naturalmente della immaginazione primitiva. Come è quella de' settentrionali,
massime oggidì, fra' quali la poca vita della natura, dà luogo all'immaginativa
fondata sul pensiero,
276 sulla metafisica, sulle
astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze, sulla cognizione delle cose, sui
dati esatti ec. Immaginativa che ha piuttosto che fare colla matematica sublime
che colla poesia. (14. 8.bre 1820.).
[277,1] Quel vecchio che non ha presente nè futuro, non è
privo perciò di vita. Se non è stato mai uomo, non ha bisogno se non di quel
nonnulla che gli somministra la sua situazione, e tutto gli basta per vivere. Se
è stato uomo, ha un passato, e vive in quello. La mancanza del presente, non è
la cosa più grave per gli uomini, anzi atteso la nullità di tutto quello che si
vede nella realtà e da vicino, si può dire che il presente sia nullo per tutti,
e che ogni uomo manchi del
presente. Il vuoto del futuro non è gran cosa per lui, 1. perch'è già sazio
della vita, che ha già provata, gustata, adoperata ec. 2. perchè i suoi
desideri, passioni, affetti, sentimenti, sono rintuzzati e
278 intorpiditi, e ristretti,
e non esigono più grandi beni, piaceri, movimenti, azioni presenti, nè grandi
speranze, gran vita attuale o avvenire: 3. perchè l'estensione materiale del suo
futuro è piccola, e non lo può spaventare gran fatto il vuoto di un piccolo
spazio. Ma il giovane senza presente nè futuro, cioè senza nè beni, attività,
piaceri, vita ec. nè speranze e prospettiva dell'avvenire, dev'essere
infelicissimo e disperato, mancare affatto di vita, e spaventarsi e inorridire
della sua sorte e del futuro. 1. Il giovane non ha passato. Tutto quello che ne
ha, {non} serve altro che ad attristarlo e stringergli
il cuore. Le rimembranze della fanciullezza e della prima adolescenza, dei
godimenti di quell'età perduti irreparabilmente, delle speranze fiorite, delle
immaginazioni ridenti, dei disegni aerei di prosperità futura, di azioni, di
vita, di gloria, di piacere, tutto svanito. 2. I desideri e le passioni sue,
sono ardentissime ed esigentissime. Non basta il poco; hanno bisogno di
moltissimo. Quanto è maggiore la sua vita interna, tanto maggiore è il bisogno e
l'estensione e intensità ec. della vita esterna che si desidera. E mancando
questa, quanto maggiore è la vita interna, tanto maggiore è il senso di
279 morte, di nullità, di noia ch'egli prova: insomma
tanto meno egli vive in tali circostanze, quanto la sua vita interiore è più
energica. 3. Il giovane non ha provato nè veduto. Non può esser sazio. I suoi
desideri e passioni sono più ardenti e bisognosi, come ho detto, non solo
assolutamente per l'età, ma anche materialmente, per non avere avuto ancora di
che cibarsi e riempiersi. Non può esser disingannato nell'intimo fondo e nella
natura, quando anche lo sia in tutta l'estensione della sua ragione. 4. Il suo
futuro è materialmente lunghissimo, e l'immensità dello spazio vuoto che resta a
percorrere, fa orrore, massime paragonandolo con quel poco che ha avuto tanta
pena a passare. Il giovane a questa considerazione si spaventa e dispera {eccessivamente,} sembrandogli quel futuro più lungo e
terribile di un'eternità. Di più tutta la sua vita consiste nel futuro. L'età
passata non è stata altro che un'introduzione alla vita. Dunque egli è nato
senza dover vivere. Il giovane prova disperazioni mortali, considerando che una
sola volta deve passare per questo mondo, e che questa volta non godrà della
vita, non vivrà, {avrà perduto e gli sarà inutile la sua
unica esistenza.} Ogn'istante che passa della sua gioventù in questa
guisa, gli sembra
280 una perdita irreparabile fatta
sopra un'età che per lui non può più tornare. (16. 8.bre
1820.).
[280,2] Anche la mancanza {sola} del
presente è più dolorosa al giovine che a qualunque altro. Le illusioni in lui
sono più vive, e perciò le speranze più capaci di pascerlo. Ma l'ardor giovanile
non sopporta la mancanza intera di una vita presente, non è soddisfatto del solo
vivere nel futuro, ma ha bisogno di un'energia attuale, e la monotonia e
l'inattività presente gli è di una pena di un peso di una noia maggiore che in
qualunque altra età, perchè l'assuefazione alleggerisce qualunque male, e l'uomo
col lungo uso si può assuefare anche all'intera e perfetta noia, e trovarla
molto meno insoffribile che da principio. L'ho provato io, che della noia da
principio mi disperava, poi questa crescendo in luogo di scemare, tuttavia
l'assuefazione me la rendeva appoco appoco meno spaventosa, e più suscettibile
di pazienza. La qual pazienza della noia in me divenne finalmente affatto
eroica. {Esempio de' carcerati, i quali talvolta si sono
anche affezionati a quella vita.}
[285,2] Si può applicare alla poesia (come anche anche alle
cose che hanno relazione o affinità con lei) quello che ho detto altrove pp. 14-21
[p. 125,1]
p. 215: che alle grandi azioni è necessario un misto di persuasione e
di passione o illusione. Così la poesia tanto riguardo al maraviglioso, quanto
alla commozione o impulso di qualunque genere, ha bisogno di un falso che pur
possa persuadere, non solo secondo le regole ordinarie della verisimiglianza, ma
anche rispetto ad un certo tal quale convincimento che la cosa stia o possa
stare effettivamente così. Perciò l'antica mitologia, o
286 qualunque altra invenzione poetica che la somigli, ha tutto il
necessario dalla parte dell'illusione, passione ec. ma mancando affatto dalla
parte della persuasione, non può più produrre gli effetti di una volta, e
massime negli argomenti moderni, perchè negli antichi, l'abitudine ci proccura
una tal quale persuasione, principalmente quando anche il poeta sia antico,
perchè immedesimatasi in noi l'idea di quei fatti, di quei tempi, di quelle
poesie ec. con quelle finzioni, queste ci paiono naturali e quasi ci persuadono,
perchè l'assuefazione c'impedisce quasi di distinguerle da quei poeti, tempi,
avvenimenti ec. e così machinalmente ci lasciamo persuadere quanto basta
all'effetto, che la cosa potesse star così. Ma applicate nuovamente le stesse o
altre tali finzioni, sia ad altri argomenti antichi, sia massimamente a soggetti
moderni o de' bassi tempi ec. ci troviamo sempre un non so che di arido e di
falso, perchè manca la tal quale persuasione, quando anche la parte del bello
immaginario, maraviglioso ec. sia perfetta. Ed anche per questa parte il Tasso non produrrà mai l'effetto dei
poeti antichi,
287 sebbene il suo favoloso e
maraviglioso è tratto dalla religion Cristiana. Ma oggidì in tanta propagazione
e incremento di lumi, nessuna finzione o nuova nuovamente applicata, trova il
menomo luogo nell'intelletto, mancando la detta assuefazione, la quale supplisce
al resto ne' poeti antichi. E questa è una gran ragione per cui la poesia oggidì
non può più produrre quei grandi effetti nè riguardo alla maraviglia e al
diletto, nè riguardo all'eccitamento degli animi, delle passioni ec. all'impulso
a grandi azioni ec. Tanto più che la religion cristiana non si presta alla
finzione persuadibile, come la pagana. A ogni modo è certo appunto per le
sopraddette osservazioni, che la pagana oggidì non potendo aver più effetto, il
poeta deve appigliarsi alla cristiana; e che questa maneggiata con vero
giudizio, {scelta,} e abilità, può tanto per la
maraviglia che per gli affetti {ec.} produrre
impressioni sufficienti e notabili. (19. 8.bre 1820.).
[328,1] È osservabile nella differenza tra i giuochi greci e i
romani, la naturalezza dei primi che combattevano nella lotta nel corso ec.
appresso a poco coi soli istrumenti datici dalla natura, laddove i romani colle
spade e altri istrumenti artifiziali. E quindi la diversa destinazione di quei
giuochi,
329 diretti presso gli uni ad ingrandir quasi
la natura ed eccitare le grandi immagini, sentimenti ec: presso gli altri o al
semplice sollazzo, o all'addestramento militare. Così che quelli andavano alla
sorgente universale delle grandi imprese, questi si fermavano ad un mezzo
particolare. E questa differenza è anche più notabile in ciò che gli spettacoli
greci erano eseguiti da uomini liberi per amor di gloria. Quindi l'effetto
favorevole all'entusiasmo, l'eccitamento, l'emulazione, gli esercizi
preparatorii ec. Gli spettacoli romani erano eseguiti da' servi. Quindi non
altro effetto utile che l'avvezzar gli occhi e l'animo agli spettacoli e
pericoli della guerra: utilità parziale e secondaria, non generale e primitiva
come l'altra. Nel che forse si potrà anche notare la differenza tra un popolo
libero e padrone, e un popolo libero bensì, ma non padrone, se non di se stesso,
com'era il greco. {{V. p. 360. capoverso
2.}}
[340,1] In somma considerate gli antichi e i moderni: vedrete
evidentemente una gradazione incontrastabile e notabilissima di grandezza,
sempre in ragion diretta dell'antichità. Cominciando dagli uomini di Omero, un palmo più alti dei moderni,
come dicea quel francese, e dalle piramidi di Egitto ec.
discendete alle imprese nobilissime e grandiosissime, ai lavori immensi, alle
fabbriche, {alla solidità delle loro costruzioni fatte per
l'eternità (cosa propria anche de' tempi bassi, e fino al cinque o
secento),} alla profondissima impronta delle monete, all'eroismo, e a
tutti gli altri generi di grandezza che distinguono i greci, i romani ec. E poi
venendo ai tempi bassi e gradatamente ai moderni, vedete come l'uomo si vada
sensibilmente impiccolendo, finchè giunge a quest'ultimo grado di piccolezza
{generale e individuale,} e d'impotenza in cui lo
vediamo oggidì. In maniera che l'eterna fonte del grande (come del bello) sono
gli scrittori, le opere d'ogni sorta, gli esempi, i costumi, i sentimenti degli
antichi; e degli antichi si pasce ogni anima straordinaria de' nostri tempi.
(V. p. 338. capoverso 1.) Che
segno è questo? La ragione ingrandisce o
341
impiccolisce? La natura era grande o piccola? (20. Nov. 1820.).
[343,1] La lingua italiana non si è mai tolto il potere di
adoperar quelle parole, frasi, modi, che sebbene antichi e non usati, sieno però
intesi da tutti senza difficoltà, e possano
344 cadere
nel discorso senza affettazione: i quali sono infiniti per chi conosce la
lingua, ma bene a fondo; e questi sono pochissimi o nessuno. La lingua francese
si è spogliata affatto di questa facoltà, e ammettendo facilmente vocaboli {e modi} nuovi (intorno ai quali si sgridano gl'italiani
perchè non gli ammettono) non si è legate le mani se non per gli antichi, cioè
per quelli ch'ella già possedeva, e ha creduto di far progressi quando ha
perduto l'infinito che aveva (giacchè veramente era ricca), e guadagnato il poco
che non aveva. Nel che 1. io non vedo come una lingua si possa accrescere,
perchè anche in parità di partite, se quanto si guadagna, tanto si perde, la
lingua sarà sempre stazionaria in fatto di ricchezza e varietà. 2. se, com'è
certissimo, infinite cose che non si sono potute esprimere se non con parole
nuove, forestiere ec. si potevano esprimere colle antiche, io non vedo perchè
queste dovessero esser posposte. Il caso è lo stesso in
italia, chi ben considera la ricchezza immensa de'
nostri antichi scrittori. 3. Le parole e modi che maggiormente conferiscono alla
evidenza, efficacia, forza, grazia ec. delle lingue sono sempre, e
incontrastabilmente le antiche, siccome quelle che erano cavate più da presso
dalla natura, e dall'oggetto significato (come deve necessariamente accadere
nella formazione delle lingue), e però lo rappresentavano al
345 vivo, e ne destavano più fortemente, sensibilmente, facilmente e
prontamente l'idea, secondo però 1o. i diversi aspetti o parti {più o meno vivi, principali, caratteristici,
esprimibili;} il diverso numero di aspetti, parti, o relazioni della
{cosa,} considerato dagl'inventori della parola:
2o. la diversa forza d'immaginazione, sentimento, delicatezza ec. nei detti
inventori: 3o. la diversa loro facoltà di applicare il suono alia cosa: 4o. il
diverso carattere della nazione, clima, circostanze naturali, morali, politiche,
geografiche intellettuali ec.: la dolcezza, o l'asprezza, la ruvidezza o
gentilezza ec. {5o. la diversa impressione prodotta dagli
stessi oggetti ne' diversi popoli o individui.} Solamente quella
grazia che non deriva dalla naturalezza, semplicità ec. {l'eleganza ec.} può guadagnare; ma quella che deriva dai detti fonti,
(massime nelle frasi e modi) ed è la principale, e più solida e durevole; la
forza poi assolutamente, l'evidenza e l'efficacia, non possono altro che perdere
infinitamente coll'abolizione delle parole antiche, e peggio colla sostituzione
delle nuove. Qui ancora ha luogo la grande inferiorità dell'arte e della ragione
alla natura, in tutto il bello, il grande, il forte, il grazioso ec. (21.
Nov. 1820.).
[352,2] Nominando i nostri antenati, sogliamo dire, i buoni
antichi, i nostri buoni antichi. Tutto il mondo ha opinione che gli antichi
fossero migliori di noi, tanto i vecchi che perciò gli lodano, quanto i giovani
che perciò li disprezzano. Il certo
353 è che il mondo
in questo non s'inganna: il certo è che, senza però pensarvi, egli riconosce e
confessa tutto giorno il suo deterioramento. E ciò non solamente con questa
frase, ma in cento altri modi; e tuttavia neppur gli viene in pensiero di
tornare indietro, anzi non crede onorevole se non l'andare sempre più avanti, e
per una delle solite contraddizioni, si persuade e tiene per indubitato, che
avanzando migliorerà, e non potrà migliorare se non avanzando; e stimerebbe di
esser perduto retrocedendo.
[420,2]
Alla p. 416.
L'ignoranza parziale può sussistere, come ho detto, anche nell'uomo alterato
dalla ragione, anche nell'uomo ridotto in società. Può dunque servire di stabile fondamento a un maggiore o
minor numero di credenze naturali; dunque tener l'uomo più o meno vicino allo
stato primitivo, dunque conservarlo più o meno felice. Per
421 conseguenza quanto maggiore per estensione, e per profondità sarà
questa ignoranza parziale, tanto più l'uomo sarà felice. Questo è chiarissimo in
fatto, per l'esperienza de' fanciulli, de' giovani, degl'ignoranti, de'
selvaggi. S'intende però un'ignoranza la quale serva di fondamento alle
credenze, giudizi, errori, illusioni naturali, non a quegli errori che non sono
primitivi e derivano da corruzione dell'uomo, o delle nazioni. Altro è ignoranza
naturale, altro ignoranza fattizia. Altro gli errori ispirati dalla natura, e
perciò convenienti all'uomo, e conducenti alla felicità; altro quelli fabbricati
dall'uomo. Questi non conducono alla felicità, anzi all'opposto, com'essendo
un'alterazione del suo stato naturale, e come tutto quello che si oppone a esso
stato. Perciò le superstizioni, le barbarie ec. non conducono alla felicità, ma
all'infelicità. V. p. 314. Quindi è
che dopo lo stato precisamente naturale, il più felice possibile in questa vita,
è quello di una civiltà media, dove un certo equilibrio fra la ragione e la
natura, una certa mezzana ignoranza,
422 mantengano
quanto è possibile delle credenze ed errori naturali (e quindi costumi
consuetudini ed azioni che ne derivano); ed escludano e scaccino gli errori
artifiziali, almeno i più gravi, importanti, e barbarizzanti. Tale appunto era
lo stato degli antichi popoli colti, pieni perciò di vita, perchè tanto più
vicini alla natura, e alla felicità naturale. Le Religioni antiche pertanto
(eccetto negli errori non naturali e perciò {dannosi e}
barbari, i quali non erano in gran numero, nè gravissimi) conferivano senza
dubbio alla felicità temporale molto più di quello che possa fare il
Cristianesimo; perchè contenendo un maggior numero e più importante di credenze
naturali, fondate sopra una più estesa e più profonda ignoranza, tenevano l'uomo
più vicino allo stato naturale: erano insomma più conformi alla natura, e minor
parte davano alla ragione. (All'opposto la barbarie de' tempi bassi derivata da
ignoranza non naturale ma di corruzione, non da ignoranza negativa ma positiva. Questa non poteva
conferire alla felicità, ma all'infelicità, allontanando maggiormente l'uomo
dalla natura: se non in
423 quanto quell'ignoranza
qualunque richiamava parte delle credenze e abitudini naturali, perchè la natura
trionfa ordinariamente, facilmente, e naturalmente quando manca il suo maggiore
ostacolo ch'è la scienza. E però quella barbarie produceva una vita meno lontana
dalla natura, e meno infelice, più attiva ec. di quella {che
produce} l'incivilimento non
medio ma eccessivo del nostro secolo. Del resto v. in questo proposito
p. 162. capoverso 1[2]. Tra la barbarie e la civiltà eccessiva non è
dubbio che quella non sia più conforme alla natura, e meno infelice, quando non
per altro, per la minor conoscenza della sua infelicità. Del rimanente per lo
stesso motivo della barbarie de' bassi tempi, è opposta alla felicità e natura,
la barbarie e ignoranza degli Asiatici generalmente, barbareschi Affricani,
Maomettani, persiani antichi dopo Ciro,
sibariti, ec. ec. Così proporzionatamente quella della
Spagna e simili più moderne ed europee.).
[473,3] Del vigore del corpo, quanto influisca sopra l'animo,
e in genere come lo stato dell'animo corrisponda a quello del corpo, v. alcune
sentenze degli antichi nella nota del Grutero a Velleio II. 102. sect. 2.
[459,1]
Le Filippiche di Cicerone, contengono l'ultima voce romana,
sono l'ultimo monumento della libertà antica, le ultime carte dov'ella sia
difesa e predicata apertamente e senza sospetto ai contemporanei. D'allora in
poi la libertà non fu più l'oggetto di culto pubblico, nè delle lodi, e
insinuazioni degli scrittori. {(non solo romani, ma quasi
possiamo dire di qualunque nazione, se non de' francesi ultimamente. E
infatti colla libertà romana spirò per sempre la libertà delle nazioni
civilizzate.)} Quelli che vennero dopo, la celebrarono nel passato
come un bene, la biasimarono e detestarono nel presente come un male. I suoi
fautori antichi furono esaltati nelle storie, nelle orazioni, nei versi, come
Eroi: i moderni biasimati ed esecrati come traditori. Si alzarono statue e
monumenti agli antichi liberali, si citarono, condannarono e proscrissero i
moderni. L'elogio della libertà, per una strana contraddizione, fu permesso ne'
discorsi negli scritti e nelle azioni, fino ad un certo tempo. Passato quel
termine, gli scrittori mutano linguaggio, e maledicono nei contemporanei, quello
che hanno divinizzato,
460 e divinizzano allo stesso
tempo, negli antenati. Tale è fra gli altri Velleio, grandissimo lodatore degli antichi fatti, libertà ec.
esecratore degli antichi nemici della libertà, e de' moderni amici; lodatore di
Nasica ed Opimio uccisori di Tib. e C. Gracchi, (uomini per altro, secondo lui,
egregi anzi sommi, se non in quanto attentarono alla libertà) ed esecratore
della congiura contro Cesare ec. Perchè
appena egli arriva a costui, si cambia scena manifestamente e tutto a un tratto,
e il suo linguaggio liberalissimo fino a quel punto, diviene abbiettissimo e
servilissimo nel seguito. Ed è tanto improvvisa e sensibile questa mutazione,
ch'egli è anche gran panegirista di Pompeo l'immediato antagonista di Cesare: e di Pompeo
repubblicano, perchè lo biasima dovunque egli manca ai doveri verso una patria
libera. (27. Dic. 1820.). {{V. p. 463.
capoverso 1.}}
[463,1]
463
Alla p. 460.
Se non altro non si potè più nè lodare nè insinuare e inculcare la libertà ai
contemporanei espressamente, e la libertà non fu più un nome pronunziabile con
lode, riguardo al presente o al moderno. Quando anche non tutti si macchiassero
della vile adulazione di Velleio, e
Livio fosse considerato come
Pompeiano nella sua storia, e sieno celeberrimi i sensi generosi di Tacito, ec. Ma
neppur egli troverete che, sebbene condanna la tirannia, lodi mai la libertà in
persona propria. Dei poeti, come Virgilio
Orazio, Ovidio, non discorro. Adulatori per lo più {de' tiranni presenti,} sebben lodatori degli antichi
repubblicani. Il più libero è Lucano.
(28. Dic. 1820.).
[474,2] Dai tempi di Giulio Cesare in poi, Velleio
nel tracciare, come suole, i caratteri delle persone illustri che descrive,
trovate spessissimo che dopo aver detto come quel tale era pazientissimo de'
travagli e de' pericoli, attivo nei negozi, vigilante al bisogno, atto alla
guerra, o ai maneggi politici, soggiunge poi, che nell'ozio era molle ed
effeminato, o almeno si compiaceva anche dell'ozio, e dei diletti pacifici, e
insomma delle frivolezze, e che tanto era pigro e voluttuoso nell'ozio, quanto
laborioso diligente e tollerante nel negozio. V. il libro II. c. 88. sect. 2. c. 98. sect. 3. c. 102.
sect. 3. c. 105. sect. 3. Dappertutto fa menzione dell'ozio, e sempre
li trova inclinati anche a questo e non poco, sebbene sieno gli uomini più
attivi di quel secolo. Cosa ignota agli antichi Eroi romani, i quali nell'ozio
non trovavano nè potevano trovare nessun piacere. E infatti questo lineamento
475 nei ritratti sbozzati da Velleio non si trova prima del detto tempo che fu
l'epoca della decisa e sviluppata corruzione de' Romani. Di Lucullo e di Antonio è cosa ben nota in questo proposito. (Di Scipione Emiliano parla bensì Velleio riguardo all'ozio, I. 13. sect. 3. ma molto diversamente) Notate
dunque gli effetti dell'incivilimento e della corruzione. Notate quanto ella
porti per sua natura all'inazione, all'ozio, e alla pigrizia: che anche gli
uomini più splendidi e attivi, in questa condizione della società, inclinano
naturalmente all'inazione. La causa è il piacere che nell'antico stato di
Roma non si poteva trovar nell'ozio, e perciò l'uomo
desiderando il piacere {e la vita} si dava
necessariamente all'azione: e così accade in tutte le nazioni non ancora o
mediocremente incivilite. La causa è pure l'egoismo, per cui l'uomo non si vuole
scomodare a profitto altrui, se non quanto è necessario, o quanto giova a se
stesso. La causa è la mancanza delle illusioni, delle idee di gloria, di
grandezza di virtù di eroismo, ec. tolte le quali idee, deve sottentrar quella
di non far nulla, lasciar correre le cose, e godere del presente. La causa
476 per ultimo nelle monarchie (come sotto Augusto) è la mancanza non solo delle
illusioni, ma del principio di esse, non solo della vita dell'animo, ma della
vita delle cose, cioè la mancanza di cose che realizzino e fomentino queste
illusioni; la difficoltà o impossibilità di far cose grandi o importanti, e di
essere o considerarsi come importante; la nullità, o piccolezza, e ristretta
esistenza del suddito ancorchè innalzato a posti sublimi. Del resto paragonate
questo tratto del carattere Romano a quei tempi, col carattere francese oggidì,
nazione snervata dall'eccessiva civiltà, col carattere de' loro uomini più
insigni per l'azione; e ci troverete un'evidente conformità. (5. Gen.
1821). {{V. p. 620. fine. e p. 629. capoverso
1.}}
[484,1] Non si è mai letto di nessun antico che si sia ucciso
per noia della vita, laddove si legge di molti moderni, e v. il Suicidio ragionato di Buonafede. Nè perchè questo
accade oggidì massimamente in Inghilterra, si creda che
questo fosse comune in quel paese anche anticamente, senza che ne rimanga
memoria. Dai poemi di Ossian si vede
quanto gli antichi abitatori di quel paese fossero lontani dal concepire la
nullità e noia necessaria della vita assolutamente; e molto più dal disperarsi e
uccidersi per questo. Gli antichi Celti e gli altri antichi si uccidevano per
disperazioni
485 nate da passioni e sventure, non mai
considerate come inevitabili e necessarie assolutamente all'uomo, ma come
proprie dell'individuo, perciò disgraziato e infelice, e disperantesi. La
disperazione e scoraggimento della vita in genere, l'odio della vita come vita
umana (non come individualmente e accidentalmente infelice), la miseria
destinata e inevitabile alla nostra specie, la nullità e noia inerente ed
essenziale alla nostra vita, in somma l'idea che la vita nostra per se stessa
non sia un bene, ma un peso e un male, non è mai entrata in intelletto antico,
nè in intelletto umano avanti questi ultimi secoli. Anzi gli antichi si
uccidevano o disperavano appunto per l'opinione e la persuasione di non potere,
a causa di sventure individuali, conseguire e godere quei beni ch'essi stimavano
ch'esistessero. (10. Gen. 1821.).
[503,1] In luogo che un'anima grande ceda alla necessità, non
è forse cosa che tanto la conduca all'odio atroce, dichiarato, e selvaggio
contro se stessa, e la vita, quanto la considerazione della necessità e
irreparabilità de' suoi mali, infelicità, disgrazie
504
ec. Soltanto l'uomo vile, o debole, o non costante, o senza forza di passioni,
sia per natura, sia per abito, sia per lungo uso ed esercizio di sventure e
patimenti, ed esperienza delle cose e della natura del mondo, che l'abbia domato
e mansuefatto; soltanto costoro cedono alla necessità, e se ne fanno anzi un
conforto nelle sventure, dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare e combatterla
ec. Ma gli antichi, sempre più grandi, magnanimi, e forti di noi, nell'eccesso
delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse, e della forza
invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria
senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro
il fato, e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo,
impotenti bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, nè
ammansati, nè meno, anzi tanto più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e
la necessità era maggiore. Di ciò si hanno molti esempi nelle storie. Il fatto
di Giuliano moribondo, non so se sia
storia o favola. Di Niobe, dopo la sua
sventura,
505
si racconta, se non fallo, come
bestemmiava gli Dei, e si professava vinta, ma non cedente. Noi che non
riconosciamo nè fortuna nè destino, nè forza alcuna di necessità personificata
che ci costringa, non abbiamo altra persona da rivolger l'odio e il furore (se
siamo magnanimi, e costanti, e incapaci di cedere) fuori di noi stessi; e quindi
concepiamo contro la nostra persona un odio veramente micidiale, come del più
feroce e capitale nemico, e ci compiaciamo nell'idea della morte volontaria,
dello strazio di noi stessi, della medesima infelicità che ci opprime, e che
arriviamo a desiderarci anche maggiore, come nell'idea della vendetta, contro un
oggetto di odio e di rabbia somma. Io ogni volta che mi persuadeva della
necessità e perpetuità del mio stato infelice, e che volgendomi disperatamente e
freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio possibile, nè speranza
nessuna; in luogo di cedere, o di consolarmi colla considerazione
dell'impossibile, e della necessità indipendente da me,
506 concepiva un odio furioso di me stesso, giacchè l'infelicità ch'io
odiava non risiedeva se non in me stesso; io dunque era il solo soggetto
possibile dell'odio, non avendo nè riconoscendo esternamente altra persona colla
quale potessi irritarmi de' miei mali, e quindi altro soggetto capace di essere
odiato per questo motivo. Concepiva un desiderio ardente di vendicarmi sopra me
stesso e colla mia vita della mia necessaria infelicità inseparabile
dall'esistenza mia, e provava una gioia feroce ma somma nell'idea del suicidio.
L'immobilità delle cose contrastando colla immobilità mia; nell'urto, non
essendo io capace di cedere, ammollirmi e piegare; molto meno le cose; la
vittima di questa battaglia non poteva essere se non io. Oggidì (eccetto nei
mali derivati dagli uomini) non si riconosce persona colpevole delle nostre
miserie, o tale che la Religione c'impedisce in tutti i modi di creder
colpevole, e quindi degna di odio. Tuttavia anche nella Religione di oggidì,
l'eccesso dell'infelicità indipendente
507 dagli uomini
e dalle persone visibili, spinge talvolta all'odio e alle bestemmie degli enti
invisibili e Superiori: e questo, tanto più quanto più l'uomo (per altra parte
costante e magnanimo) è credente e religioso. Giobbe si rivolse a
lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua
nascita ec. (15. Gen. 1821.).
[520,1]
520 L'intiera filosofia è del tutto inattiva, e un
popolo di filosofi perfetti non sarebbe capace di azione. In questo senso io
sostengo che la filosofia non ha mai cagionato nè potuto cagionare alcuna
rivoluzione, o movimento, o impresa ec. pubblica o privata; anzi ha dovuto per
natura sua piuttosto sopprimerli, come fra i Romani, i greci ec. Ma la mezza
filosofia è compatibile coll'azione, anzi può cagionarla. Così la filosofia avrà
potuto cagionare o immediatamente o mediatamente la rivoluzione di
Francia, di Spagna ec. perchè
la moltitudine, e il comune degli uomini anche istruiti, non è stato nè in
Francia nè altrove mai perfettamente filosofo, ma
solo a mezzo. Ora la mezza filosofia è madre di errori, ed errore essa stessa;
non è pura verità nè ragione, la quale non potrebbe cagionar movimento. E questi
errori semifilosofici, possono esser vitali, massime sostituiti ad altri errori
per loro particolar natura mortificanti, come quelli derivati da un'ignoranza
barbarica e diversa dalla naturale; anzi contrari ai dettami ed alle
521 credenze della natura, o primitiva, o ridotta a
stato sociale ec. Così gli errori della mezza filosofia, possono servire di
medicina ad errori più anti-vitali, sebben derivati anche questi in ultima
analisi dalla filosofia, cioè dalla corruzione prodotta dall'eccesso
dell'incivilimento, il quale non è mai separato dall'eccesso {relativo} dei lumi, dal quale anzi in gran parte deriva. E infatti la
mezza filosofia è la molla di quella poca vita e movimento popolare d'oggidì.
Trista molla, perchè, sebbene errore, e non perfettamente ragionevole, non ha la
sua base nella natura, come gli errori e le molle dell'antica vita, o della
fanciullesca, o selvaggia ec.: ma anzi finalmente nella ragione, nel sapere, in
credenze o cognizioni non naturali e contrarie alla natura: ed è piuttosto
imperfettamente ragionevole e vera, che irragionevole e falsa. E la sua tendenza
è parimente alla ragione, e quindi alla morte, alla distruzione, e all'inazione.
E presto o tardi, ci
522 deve arrivare, perchè tale è
l'essenza sua, al contrario degli errori naturali. E l'azione presente non può
essere se non effimera, e finirà nell'inazione come per sua natura è sempre
finito ogni impulso, ogni cangiamento operato nelle nazioni da principio e
sorgente filosofica, cioè da principio di ragione e non di natura inerente
sostanzialmente e primordialmente all'uomo. Del resto la mezza filosofia, non
già la perfetta filosofia, cagionava o lasciava sussistere l'amor patrio e le
azioni che ne derivano, in Catone, in
Cic. in Tacito, {Lucano, Trasea Peto, Elvidio Prisco,} e negli altri antichi filosofi e patrioti
allo stesso tempo. Quali poi fossero gli effetti de' progressi {e perfezionamento} della filosofia presso i Romani è ben
noto.
[528,1] Come i piaceri così anche i dolori sono molto più
grandi nello stato primitivo e nella fanciullezza, che nella nostra età e
condizione. E ciò per le stesse ragioni per le quali è maggiore il diletto.
Primieramente (massime ne' fanciulli) manca l'assuefazione al bene e al male. Il
bene dunque e il male dev'essere molto più sensibile ed energico relativamente
all'animo loro, che al nostro. Poi (e questo è il punto principale, e comune a
tutti gli uomini naturali) il dolore, la disgrazia ec. nel fanciullo, e nel
primitivo, sopravviene all'opinione della felicità possibile, o anche presente;
contrasta vivissimamente coll'aspetto del bene, creduto e reale e grande, del
bene o già provato, o sperato con ferma speranza, o veduto attualmente negli
altri; è l'opposto e la privazione di quella felicità che si crede vera,
importante, possibilissima, anzi destinata all'uomo, posseduta dagli altri,
529 e che sarebbe posseduta da noi, se quell'ostacolo
non ce l'impedisse, o per ora, o per sempre. Ed anche l'idea del male assoluto,
cioè indipendentemente dalla comparazione del bene, è forse maggiore in natura,
che nello stato di civiltà e di sapere.
[536,3] È degna di esser veduta, consultata, e anche
537 tradotta e riportata all'occasione, la bella disputazione di Tullio (Lael. sive de Amicitia
c. 13. Nam quibusdam
*
etc. sino alla fine)
contro quei filosofi greci i quali dicevano caput esse ad beate vivendum, securitatem; qua frui
non possit animus, si tanquam parturiat unus pro
pluribus:
*
e quindi venivano a prescrivere il curam fugere,
*
e l'honestum rem actionemve, ne
sollicitus
sis, aut non suscipere, aut susceptam
deponere.
*
La qual filosofia, è presso a poco la
filosofia dell'{inazione e del} nulla, la filosofia
perfettamente ragionevole, la filosofia de' nostri giorni. E quella disputazione
di Tullio si può avere per una
disputazione contro l'egoismo, sebbene, a quei tempi, ancora ignoto di nome.
Quę est enim ista securitas?
*
dice Cicerone; e segue facendo vedere a che cosa
porti. Ma il principale è, che non solamente porta a mille assurdità e
scelleraggini (secondo natura, non secondo ragione, ma Cic. chiama la
natura, optimam bene vivendi
ducem.
*
c. 5.): ma non ottiene neanche il suo
fine, ch'è la felicità dell'individuo
538 in qualunque
modo ottenuta. Anzi al contrario, l'impedisce, e la toglie di natura sua, ed è
contraddittoria e incompatibile colla felicità dell'individuo nello stato
sociale. Eccoci tutti seguaci di quella setta o dogma che Cicerone impugna. Eccoci tutti filosofi a quella
maniera. Eccoci tutti egoisti. Ebbene? siamo noi felici? che cosa godiamo noi?
Tolto il bello, il grande, il nobile, la virtù dal mondo, che piacere, che
vantaggio, che vita rimane? Non dico in genere, {e nella
società,} ma in particolare, e in ciascuno. Chi è o fu più felice? Gli
antichi coi loro sacrifizi, le loro cure, le loro inquietudini, negozi,
attività, imprese, pericoli: o noi colla nostra sicurezza, tranquillità, non
curanza, ordine, pace, {inazione}, amore del nostro
bene, e non curanza {di quello} degli altri, o del
pubblico ec.? Gli antichi col loro eroismo, o noi col nostro egoismo? (21.
Gen. 1821.).
[543,1] La superiorità della natura su la ragione e l'arte,
l'assoluta incapacità di queste a poter mai supplire a quella, la necessità
della natura alla felicità dell'uomo anche sociale, e l'impossibilità precisa di
rimediare alla mancanza o depravazione di lei, si può vedere anche nella
considerazione dei governi. Più si considera ed esamina a fondo la natura, le
qualità, gli effetti di qualsivoglia immaginabile governo; più l'uomo è saggio,
profondo, riflessivo, osservatore, istruito, esperto; più conchiude e risolve
con piena certezza, che nello stato in cui l'uomo è ridotto, non già da poco, ma
da lunghissimo tempo, e dall'alterazione, depravazione, e perdita della società (non dico natura) primitiva in
poi, non c'è governo possibile, che non sia imperfettissimo, che non racchiuda
{essenzialmente} i germi del male e della
infelicità maggiore o minore de' popoli e degli individui: non c'è nè c'è stato
544 nè sarà mai popolo, nè forse individuo, a cui
non derivino inconvenienti, incomodi, infelicità {(e non
poche nè leggere)} dalla natura e dai difetti intrinseci e ingeniti
del suo governo, qualunque sia stato, o sia, o possa essere. Insomma la
perfezione di un governo umano è cosa totalmente impossibile e disperata, e in
un grado maggiore di quello che sia disperata la perfezione di ogni altra cosa
umana. Eppure è certo che, se non tutti, certo molti governi sarebbono per se
stessi buoni, e possiamo dire perfetti, e l'imperfezione loro sebbene oggidì è
innata ed essenziale per le qualità irrimediabili e immutabili degli uomini
nelle cui mani necessariamente è riposto (giacchè il governo non può camminar da
se, nè per molle e macchine, nè per ministerio d'Angeli, o per altre forze
naturali o soprannaturali, ma per ministerio d'uomini); tuttavia non è
imperfezione primitiva, e inerente all'idea del governo stesso,
indipendentemente dalla considerazione de' suoi ministri, nè inerente alla
natura dell'uomo, ancorchè ridotto in società. Consideriamo.
[590,1] Del resto quanto sia facile, ovvia, e primitiva l'idea
che a qualunque società, per poco ch'ella sia formata, e che declini dalla
primissima forma di società, comune si può dire a tutte le {specie di} viventi, è necessaria l'unità, cioè un capo, e questo
veramente uno, cioè assoluto, si può vedere e nelle storie d'ogni nazione, e in
ogni genere di società, pubblica, privata ec. nelle milizie, nelle compagnie di
cacciatori, o in qualunque compagnia, che abbia uno scopo comune, e sia
destinata tutta insieme a un oggetto qualunque. Io mi sono abbattuto a sentire
un uomo di nessuna o coltura, o acutezza naturale d'ingegno, il quale a una
compagnia di negoziatori, che si mettevano a girare il mondo, per far guadagno
591 mediante un capitale comune e indivisibile (cioè
un panorama), dava questo consiglio: Sceglietevi e riconoscete un capo, e
ubbiditelo in tutto. (che altro
è questo se non l'idea precisa della necessità della monarchia assoluta?)
Altrimenti ciascuno cercando il suo interesse più dell'altrui, cosa
contrarissima all'interesse e allo scopo comune, l'uno farà pregiudizio
all'altro, e al tutto; e così ciascuno sarà pregiudicato, e la discordia
{(cioè il contrario dell'unità)}
v'impedirà di conseguire quello che cercate.
(31. Gen. 1821.). {{
V. p. 598 capoverso
1.2.3..}}
[593,2]
Quid autem est horum in
voluptate? melioremne efficit, aut laudabiliorem virum? an quisquam in potiundis voluptatibus
gloriando sese, et praedicatione effert?
*
(Cic., Paradox.
1. c. 3. fine) Oggi sibbene, o M.
Tullio, nè c'è maggior gloria per la gioventù, nè scopo alla carriera
loro più brillantemente, manifestamente e concordemente proposto, nè mezzo di
ottener lode e stima più sicuro e comune, che quello
594
di seguire e conseguire le voluttà, ed abbondarne, e ciò più degli altri.
L'oggetto delle gare ed emulazioni della più florida parte della gioventù, non è
altro che la voluttà, e il trionfo e la gloria è di colui che ne conseguisce
maggior porzione, e che sa {e può} godere e immergersi
nei vili piaceri più degli altri. Le voluttà sono lo stadio della gioventù
presente: tanto che {già} non si cercano principalmente
per se stesse, ma per la gloria che ridonda dall'averle cercate e conseguite. E
se non di tutte le voluttà si può gloriare colui che le ottiene, in quel momento
medesimo, in cui le gode, (sebbene di moltissimi generi di voluttà accade {tuttogiorno} ancor questo) certo desidererebbe di
poterlo fare, di aver testimoni del suo godimento: anzi questo godimento
consiste per la massima parte nella considerazione e aspettativa del vanto che
gliene risulterà: e subito dopo, non ha maggior cura, che di divulgare e
vantarsi della voluttà provata; e questo anche a rischio di chiudersi l'adito a
nuove voluttà; e colla certezza di nuocere, tradire, essere
595 ingiusto e ingrato verso coloro onde ha ottenuta la voluttà che
cercava. E sebbene certamente neanche oggi la voluttà rende l'uomo migliore, lo
rende {però} più lodevole agli occhi della presente
generazone, il che tu o M. Tullio,
stimavi che non potesse avvenire. (1 Feb. 1821.).
[598,4]
At populo Romano nunquam
ea copia fuit
*
, (praeclari ingenii scriptorum) quia prudentissimus quisque
*
(cioè, ceux qui avaient le plus de
lumières,
*
Dureau-Delamalle, qual più saggio
vi era, Alfieri) negotiosus maxume erat: ingenium nemo
sine corpore exercebat
*
: (luogo degno di essere
riportato qualunque volta io discorrerò di questa materia) optimus quisque facere quam dicere,
599 sua ab aliis benefacta laudari, quam ipse aliorum narrare,
malebat
*
. Sallustio,
Bell. Catilinar. c. 8. fine.
[601,3]
Quid enim habet vita
commodi? quid non potius laboris? sed habeat sane: habet certe tamen,
aut satietatem, aut modum. Non lubet enim mihi deplorare vitam, quod multi, et ii docti, saepe fecerunt; neque
me vixisse poenitet; quoniam ita vixi, ut non frustra me natum
existimem.
*
Cic.
Cato mai. seu de Senect. c. 23. in persona
di Catone.
[611,1]
Alla p. 112.
Prima di Gesù Cristo, o fino a quel
tempo, e ancor dopo, da' pagani, non si era mai considerata la società come
espressamente, e per sua natura, nemica della virtù, e tale che qualunque
individuo il più buono ed onesto, trovi in lei senza fallo e inevitabilmente, o
la corruzione, o il sommo pericolo di corrompersi. E infatti sino a quell'ora,
la natura della società, non era stata espressamente e perfettamente tale.
Osservate gli scrittori antichi, e non ci troverete mai quest'idea del mondo nemico del bene, che si trova a
ogni passo nel Vangelo, e negli scrittori moderni ancorchè profani. Anzi (ed
avevano
612 ragione in quei tempi) consideravano la
società e l'esempio come naturalmente capace di stimolare alla virtù, e di
rendere virtuoso anche chi non lo fosse: e in somma il buono e la società, non
solo non parevano incompatibili, ma {cose} naturalmente
amiche e compagne. (4. Feb. 1821.).
[618,2] La disperazione della natura è sempre feroce,
frenetica, sanguinaria, non cede alla necessità, alla fortuna, ma la vuol
vincere in se stesso, cioè coi propri danni, colla propria morte ec. Quella
disperazione placida, tranquilla, rassegnata, colla quale l'uomo, perduta ogni
speranza di felicità, o in genere per la condizione umana, o in particolare per
le circostanze sue; tuttavolta si piega, e si adatta a vivere e a tollerare il
tempo e gli anni; cedendo alla necessità riconosciuta; questa disperazione,
sebbene deriva dalla prima, in quel modo che ho spiegato di sopra p. 616. fine, 617. principio,
tuttavia non è {quasi} propria se non della ragione e
della filosofia, e quindi specialmente e singolarmente propria de' tempi
moderni. Ed ora infatti, si può dir che qualunque ha
619
un certo grado d'ingegno e di sentimento, fatta che ha l'esperienza del mondo, e
in particolare poi tutti quelli ch'essendo tali, e giunti a un'età matura, sono
sventurati; cadono e rimangono sino alla morte in questo stato di tranquilla
disperazione. Stato quasi del tutto sconosciuto agli antichi, ed anche oggi alla
gioventù sensibile, magnanima, e sventurata. Conseguenza della prima
disperazione è l'odio di se stesso, {(perchè resta ancora
all'uomo tanta forza di amor proprio, da potersi odiare)} ma cura e
stima delle cose. Della seconda, la noncuranza e il disprezzo e l'indifferenza
verso le cose; verso se stesso un certo languido amore {(perchè l'uomo non ha più tanto amor proprio da aver forza di
odiarsi)} che somiglia alla noncuranza, ma pure amore, tale però che
non porta l'uomo ad angustiarsi, addolorarsi, sentir compassione delle proprie
sventure, e molto meno a sforzarsi, ed intraprender nulla per se, considerando
le cose come indifferenti, ed avendo quasi perduto il tatto e il senso
dell'animo, e coperta di un callo tutta la facoltà sensitiva, desiderativa ec.
insomma le passioni e gli affetti d'ogni sorta; e quasi perduta per lungo uso, e
forte e lunga pressione, quasi tutta l'elasticità delle
620 molle e forze dell'anima. Ordinariamente la maggior cura di questi
tali è di conservare lo stato presente, {di tenere una vita metodica.} e di nulla mutare o
innovare, non già per indole pusillanime o inerte, che anzi ella sarà stata
tutto l'opposto, ma per una timidità derivata dall'esperienza delle sciagure, la
quale porta l'uomo a temere di perdere a causa delle novità, quel tal quale
riposo o quiete o sonno, in cui dopo lunghi combattimenti e resistenze, l'animo
suo finalmente s'è addormentato e raccolto, e quasi accovacciato. Il mondo è
pieno oggidì di disperati di questa seconda sorta (come fra gli antichi erano
frequentissimi quelli della prima specie). Quindi si può facilmente vedere
quanto debba guadagnare l'attività, la varietà, la mobilità, la vita di questo
mondo; quando tutti, {si può dire,} i migliori animi,
giunti a una certa maturità, divengono incapaci di azione, ed inutili a se
medesimi, e agli altri. (6. Feb. 1821.).
[625,3] Lo scopo dei governi {(siccome quello dell'uomo)} è la felicità dei
governati. Forse che la felicità e la diuturnità della vita, sono la stessa
cosa? Hanno sempre che dire delle turbolenze e pericoli degli antichi stati, e
pretendono che costassero all'umanità molto più sangue e molte più vite, che non
costano i governi ordinati e regolari e monarchici, ancorchè guerrieri, ancorchè
tirannici. Sia pure: che ora non voglio contrastarlo.
626 Orsù, ragguagliamo le partite, dirò così, delle vite. Poniamo che negli stati
presenti, che si chiamano ordinati e quieti, la gente viva, un uomo per l'altro,
70 anni l'uno: negli antichi che si chiamano disordinati e turbolenti, vivessero
50 soli anni, a distribuir tutta la somma delle vite, ugualmente fra
ciascheduno. E che quei 70 anni sieno tutti pieni di noia e di miseria in
qualsivoglia condizione individuale, che così pur troppo accade oggidì; quei
cinquanta pieni di attività {e varietà} ch'è il solo
mezzo di felicità per l'uomo sociale. Domando io, quale dei due stati è il
migliore? quale dei due corrisponde meglio allo scopo, che è la felicità
pubblica e privata, in somma la felicità possibile degli uomini come uomini?
cioè felicità relativa e reale, e adattata e realizzabile in natura, tal qual
ella è, non riposta nelle chimeriche e assolute idee, di ordine, e perfezione
matematica. Oltracciò domando: la somma vera della vita, dov'è maggiore? in
quello stato dove ancorchè gli uomini vivessero cent'anni l'uno, quella vita
monotona e inattiva, sarebbe {(com'è realmente)}
esistenza, ma non vita,
627 anzi nel fatto, un sinonimo
di morte? ovvero in quello stato, dove l'esistenza ancorchè più breve, tutta
però sarebbe vera vita? Anche ponendo dall'una parte 100 anni di esistenza, e
dall'altra non più che 40, o 30 di vita, la somma della vita, non sarebbe
maggiore in quest'ultima? 30 anni di vita non contengono maggior vita che 100 di
morta esistenza? Questi sono i veri calcoli convenienti al filosofo, che non si
contenti di misurar le cose, ma le pesi, e ne stimi il valore. E non faccia come
il secco matematico che calcola {le quantità} in genere
e in astratto, ma relativamente alla loro sostanza, e qualità, e natura, e peso,
e forza specifica e reale.
[661,2] Dell'influenza del corpo sull'animo, e dell'esercizio
sulla virtù, v. le sentenze di Diogene
ap. Laert. in Diog. Cyn. VI.
70. e quivi il Menag. se ha
nulla. (14. Feb. 1821.).
[678,3]
Nous n'avons qu'une portion d'attention et de
sentiment; dès que nous nous livrons aux objets extérieurs, le
sentiment dominant s'affoiblit: nos desirs ne sont-ils pas plus vifs
et plus forts dans la retraite?
*
Mme. de Lambert, lieu cité
ci-derrière (p. 677. fine) p.
188.
679 La solitudine è lo stato naturale di gran parte, o
piuttosto del più degli animali, e probabilmente dell'uomo ancora. Quindi non è
maraviglia se nello stato naturale, egli ritrovava la sua maggior felicità nella
solitudine, e neanche se ora ci trova un conforto, giacchè il maggior bene degli
uomini deriva dall'ubbidire alla natura, e secondare quanto oggi si possa, il
nostro primo destino. Ma anche per altra cagione la solitudine è oggi un
conforto all'uomo nello stato sociale al quale è ridotto. Non mai per la
cognizione del vero in quanto vero. Questa non sarà mai sorgente di felicità, nè
oggi; nè era allora quando l'uomo primitivo se la passava in solitudine, ben
lontano certamente dalle meditazioni filosofiche; nè agli animali la felicità
della solitudine deriva dalla cognizione del vero. Ma anzi per lo contrario
questa consolazione della solitudine deriva all'uomo oggidì, e derivava
primitivamente dalle illusioni. Come ciò fosse primitivamente, in quella vita
occupata o da continua
680 sebben solitaria azione, o da
continua attività {interna} e successione d'immagini
{disegni ec.} ec. e come questo accada parimente
ne' fanciulli, l'ho già spiegato più volte. Come poi accada negli uomini oggidì,
eccolo. La società manca affatto di cose che realizzino le illusioni per quanto
sono realizzabili. Non così anticamente, e anticamente la vita solitaria fra le
nazioni civili, o non esisteva, o era ben rara. Ed osservate che quanto si
racconta de' famosi solitari cristiani, cade appunto in quell'epoca, dove la
vita, l'energia, la forza, la varietà originata dalle antiche forme di
reggimento e di stato pubblico, e in somma di società, erano svanite o
sommamente illanguidite, col cadere del mondo sotto il despotismo. Così dunque
torna per altra cagione ad esser proprio degli stati e popoli corrotti, quello
ch'era proprio dell'uomo primitivo, dico la tendenza dell'uomo alla solitudine:
tendenza stata interrotta dalla prima energia della vita sociale. Perchè oggidì
è così la cosa. La presenza e l'atto della società spegne le illusioni,
681 laddove anticamente le fomentava e accendeva, e la
solitudine le fomenta o le risveglia, laddove non primitivamente, ma anticamente
le sopiva. Il giovanetto ancora chiuso fra le mura domestiche, o in casa di
educazione, o soggetto all'altrui comando, è felice nella solitudine per le
illusioni, i disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe:
e questo ancorchè egli sia d'ingegno penetrante, e istruito, ed anche, quanto
alla ragione, persuaso della nullità del mondo. L'uomo disingannato, stanco,
esperto, esaurito di tutti i desideri, nella solitudine appoco appoco si rifa,
ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno vivamente, a ogni
modo risorge, ancorchè penetrantissimo d'ingegno, e sventuratissimo. Come
questo? forse per la cognizione del vero? Anzi per la dimenticanza del vero, pel
diverso e più vago aspetto che prendono per lui, quelle cose già sperimentate e
vedute, ma che ora essendo lontane dai sensi e dall'intelletto, tornano a
passare per la immaginazione sua, e quindi abbellirsi. Ed egli torna a sperare
682 e desiderare, e vivere, per poi tutto riperdere,
e morire di nuovo, ma più presto assai di prima, se rientra nel mondo.
[684,2]
*
*
Aristofane, Pluto, o la Ricchezza, Atto 4. Scena 3.
(23. Feb. 1821.).
Δι. {#* Δίκαιος. Dabbene,
uomo probo} ᾽Εκεῖνο δ᾽ οὐ βούλοι᾽ ἄν, ἡσυχίαν ἔχων
Ζῇν[ζῆν] ἀργός;
Συ. {#+ Συκοϕάντης.
Calunniatore, delatore, spione. Non sono nomi propri.}
᾽Αλλὰ προβατίου βίον λέγεις, Εί μὴ ϕανεῖται διαριβή τις τῷ
βιῳ.
[725,1] La forza {creatrice}
dell'animo appartenente alla immaginazione, è esclusivamente propria degli
antichi. Dopo che l'uomo è divenuto stabilmente infelice, e, che peggio è, l'ha
conosciuto,
726 e così ha realizzata e confermata la sua
infelicità; inoltre dopo ch'egli ha conosciuto se stesso e le cose, tanto più
addentro che non doveva, e dopo che il mondo è divenuto filosofo,
l'immaginazione veramente forte, verde, feconda, creatrice, fruttuosa, non è più
propria se non de' fanciulli, o al più de' poco esperti e poco istruiti, che son
fuori del nostro caso. L'animo del poeta o scrittore ancorchè nato pieno di
entusiasmo di genio e di fantasia, non si piega più alla creazione delle
immagini, se non di mala voglia, e contro la sottentrata o vogliamo dire la
rinnuovata natura sua. Quando vi si pieghi, vi si piega ex
instituto, ἐπιτηδές, per forza di volontà, non d'inclinazione, per
forza estrinseca alla facoltà immaginativa, e non intima sua. La forza di un tal
animo ogni volta che si abbandona all'entusiasmo (il che non è più così
frequente) si rivolge all'affetto,
727 al sentimento,
alla malinconia, al dolore. Un Omero, un
Ariosto non sono per li nostri
tempi, nè, credo, per gli avvenire. Quindi molto e giudiziosamente e
naturalmente le altre nazioni hanno rivolto il nervo e il forte e il principale
della poesia dalla immaginazione all'affetto, cangiamento necessario, e
derivante per se stesso dal cangiamento dell'uomo. Così accadde
proporzionatamente anche {ai} latini, eccetto Ovidio. E anche
l'italia ne' principii della sua poesia, cioè quando
ebbe veri poeti, Dante, il Petrarca, il Tasso, (eccetto l'Ariosto) sentì e seguì questo cangiamento, anzi ne diede l'esempio
alle altre nazioni. Perchè dunque ora torna indietro? Vorrei che anche i tempi
ritornassero indietro. Ma la nostra infelicità, e la cognizione che abbiamo, e
non dovremmo aver, delle cose, in vece di scemare, si accresce. Che smania è
questa dunque di voler fare quello stesso che facevano i nostri avoli, quando
noi siamo così mutati? di ripugnare alla natura delle cose? di voler fingere una
728 facoltà che non abbiamo, o abbiamo perduta, cioè
l'andamento delle cose ce l'ha renduta infruttuosa e sterile, e inabile a
creare? di voler essere Omeri, in tanta
diversità di tempi? Facciamo dunque quello che si faceva ai tempi di Omero, viviamo in quello stesso modo,
ignoriamo quello che allora s'ignorava, proviamoci a quelle fatiche a quegli
esercizi corporali che si usavano in quei tempi. E se tutto questo ci è
impossibile, impariamo che insieme colla vita e col corpo, è cambiato anche
l'animo, e che la mutazione di questo è un effetto necessario, perpetuo, e
immancabile della mutazione di quelli. Diranno che gl'italiani sono per clima e
natura più immaginosi delle altre nazioni, e che perciò la facoltà creatrice
della immaginativa, ancorchè quasi spenta negli altri, vive in loro. Vorrei che
così fosse, come sento in me dalla fanciullezza e dalla prima giovanezza in poi,
e vedo negli
729 altri, anche ne' poeti più riputati,
che questo non è vero. Se anche gli stranieri l'affermano, o s'ingannano, come
in cose lontane, e come il lontano suol parere bellissimo o notabilissimo;
ovvero intendono solamente di parlare in proporzione degli altri popoli, non mai
nè assolutamente, nè in comparazione degli antichi, perchè anche l'immaginativa
italiana, in vigore dell'andamento universale delle cose umane, è illanguidita e
spossata in maniera, che per quel che spetta al creare, non ha quasi più se non
quella disposizione che gli deriva dalla volontà e dal comando dell'uomo, non da
sua propria ed intrinseca virtù, ed inclinazione.
[866,1] Che vuol dire che i così detti barbari, o popoli non
ancora arrivati se non ad una mezza o anche inferiore civiltà, hanno sempre
trionfato de' popoli civili, e del mondo? I Persiani degli Assiri inciviliti, i
greci de' Persiani già corrotti, i Romani de' greci giunti al colmo della
civiltà, i settentrionali de' Romani nello
867 stesso
caso? Anzi che vuol dire che i Romani non furono grandi se non fino a tanto che
furono quasi barbari? Vuol dire che tutte le forze dell'uomo sono nella natura e
illusioni; che la civiltà, la scienza ec. e l'impotenza sono compagne
inseparabili; {+vuol dire che il fare non è proprio nè
facoltà che della natura, e non della ragione; e siccome quegli che fa è
sempre signore di chi solamente pensa, così i popoli o naturali o
barbari che si vogliano chiamare, saranno sempre signori dei civili, per
qualunque motivo e scopo agiscano.} Non dubito di
pronosticarlo. L'europa, tutta civilizzata, sarà preda di
quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi del Settentrione; e quando questi
di conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma
finattanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e
piene {e
persuasive, e costanti, e non ragionate,} e grandi
illusioni, i popoli civili saranno lor preda. Dopo quel tempo, quando à son tour la civiltà divenuta oggi sì rapida vasta e
potente conquistatrice, non avrà più nulla da conquistare, allora o si tornerà
alla barbarie, e se sarà possibile, alla natura per una nuova strada, e tutta
opposta al naturale, cioè la strada dell'universale corruzione come ne' bassi
tempi; o io non so pronosticare più oltre quello che si dovrà aspettare. {{Il mondo allora comincerà un altro andamento, e quasi
un'altra essenza ed esistenza.}}
868
(24. Marzo 1821.)
[872,1] L'amor proprio dell'uomo, e di qualunque individuo di
qualunque specie, è un amore di preferenza. Cioè l'individuo amandosi
naturalmente quanto può amarsi, si preferisce dunque agli altri, dunque cerca di
soverchiarli in quanto può, dunque effettivamente l'individuo odia l'altro
individuo, e l'odio degli altri è una conseguenza necessaria ed immediata
dell'amore di se stesso, il quale essendo innato, anche l'odio degli altri viene
ad essere innato in ogni vivente. {{V. p. 926. capoverso 1.}}
[910,1] 6. Non solamente le virtù pubbliche, come ho
dimostrato, ma anche le private, e la morale e i costumi delle nazioni, sono
distrutti dal loro stato presente. Dovunque ha esistito vero e caldo amor di
patria, e massime dove più, cioè ne' popoli liberi, i costumi sono stati sempre
quanto fieri, altrettanto gravi, fermi, nobili, virtuosi, onesti, e pieni
d'integrità. Quest'è una conseguenza naturale dell'amor patrio, del sentimento
che le nazioni, e quindi gl'individui hanno di se stessi, della libertà, del
valore, della forza delle nazioni, della rivalità che hanno colle straniere, e
di quelle illusioni grandi e costanti e persuasive che nascono da tutto ciò, e
che vicendevolmente lo producono: ed ella è cosa evidente che la virtù non ha
fondamento se non se nelle illusioni, e che dove mancano le illusioni, manca la
virtù, e regna il vizio, {nello stesso modo che} la
dappocaggine e la viltà. Queste son cose evidenti nelle storie, ed osservate da
tutti i filosofi, e politici. Ed è tanto vero; che le virtù private si trovano
sempre in proporzione coll'amor patrio, e colla forza e magnanimità di una
nazione; e l'indebolimento di queste
911 cose, colla
corruttela dei costumi; e la perdita della morale si trova {nella storia} sempre compagna della perdita dell'amor patrio, della
indipendenza, delle nazioni, della libertà interna, e di tutte le antiche {e moderne} repubbliche: influendo sommamente e con
perfetta scambievolezza, la morale e le illusioni che la producono, sull'amor
patrio, e l'amor patrio sulle illusioni e sulla morale. È cosa troppo nota qual
fosse la depravazione interna de' costumi in Francia da
Luigi 14. il cui secolo, come ho
detto, fu la {prima} epoca vera della perfezione del
dispotismo, ed estinzione e nullità delle nazioni e della moltitudine, sino alla
rivoluzione. La quale tutti notano che ha molto giovato alla {perduta} morale francese, quanto era possibile 1. in questo secolo
così illuminato, e munito contro le illusioni, e quindi contro le virtù: 2.
secondo in tanta, e tanto radicata e vecchia depravazione, a cui la
Francia era assuefatta: 3. in una nazione {particolarmente} ch'è centro dell'incivilimento, e
quindi del vizio: 4. col mezzo di una rivoluzione operata in gran parte dalla
filosofia, che volere o non volere, in ultima analisi è nemica mortale della
virtù, perch'è amica anzi quasi la stessa cosa colla ragione, ch'è nemica della
natura, sola sorgente della virtù. (30. Marzo - 4. Aprile
1821.)
[923,2] Siccome l'amor patrio o nazionale non è altro che una
illusione, ma facilmente derivante dalla natura, posta la società, com'è
naturale l'amor proprio nell'individuo, e posta la famiglia, l'amor di famiglia,
che si vede anche ne' bruti; così esso non si mantiene, e non produce buon
frutto senza le illusioni e i pregiudizi che naturalmente ne derivano, o che
anche ne sono il fondamento. L'uomo non è sempre ragionevole, ma sempre
conseguente in un modo o nell'altro. Come dunque amerà
924 la sua patria sopra tutte, e come sarà disposto nei fatti, a tutte le
conseguenze che derivano da questo amore di preferenza, se effettivamente egli
non la crederà degna di essere amata sopra tutte, e perciò la migliore di tutte;
e molto più s'egli crederà le altre, o qualcun'altra, migliore di lei? Come sarà
intollerante del giogo straniero, e geloso della nazionalità per tutti i versi,
{e disposto a dar la vita e la roba per sottrarsi al
dominio forestiero,} se egli crederà lo straniero uguale al
compatriota, e peggio, se lo crederà migliore? Cosa indubitata: da che il
nazionale ha potuto {o voluto} ragionare sulle nazioni,
e giudicarle; da che tutti gli uomini sono stati uguali nella sua mente; da che
il merito presso lui non ha dipenduto dalla comunanza della patria ec. ec.; da
che egli ha cessato di persuadersi che la sua nazione fosse il fiore delle
nazioni, la sua razza, la cima delle razze umane; dopo, dico, che questo ha
avuto luogo, le nazioni sono finite, e come nella opinione, così nel fatto, si
sono confuse insieme; passando inevitabilmente la indifferenza dello spirito e
del giudizio e del concetto, alla indifferenza del sentimento, della
inclinazione, e dell'azione. E questi pregiudizi che si rimproverano alla
Francia, perchè offendono l'amor proprio degli
stranieri, sono la somma salvaguardia della sua nazionale indipendenza, come lo
furono presso gli antichi;
925 la causa di quello
spirito nazionale che in lei sussiste, di quei sacrifizi che i francesi son
pronti a fare ed hanno sempre fatto, per conservarsi nazione, e per non
dipendere dallo straniero; e il motivo per cui quella nazione, sebbene così
colta ed istruita (cose contrarissime all'amor patrio), tuttavia serba ancora,
forse più che qualunque altra, la sembianza di nazione. E non è dubbio che dalla
forza di questi pregiudizi, come preso[presso]
gli antichi, così nella Francia, doveva seguire quella
preponderanza sulle altre nazioni d'europa, ch'ella ebbe
finora, e che riacquisterà verisimilmente. (6. Aprile 1821.).
[926,2] In qualunque nazione o antica o moderna s'incontrano
grandi errori contrari alla natura, come dovunque grandi cognizioni contrarie
alla natura; quivi non s'incontra niente o ben poco di grande di bello di buono.
E questo è l'uno de' principali motivi per cui le nazioni orientali, ancorchè
grandi, ancorchè la loro storia rimonti a tempi antichissimi, tempi
ordinariamente compagni del grande e del bello; ancorchè ignorantissime in
ultima analisi, e quindi prive dei grandi ostacoli della ragione e del vero, e
questo anche oggidì; tuttavia non offrano quasi niente di {vero} grande nè di {vero} bello, e ciò tanto
927 riguardo alle azioni, ai costumi, all'entusiasmo
e virtù della vita, quanto alle produzioni dell'ingegno e della immaginazione. E
la causa per la quale i Greci e i Romani soprastanno a tutti i popoli antichi, è
in gran parte questa, che i loro errori e illusioni furono nella massima parte
conformissime alla natura, sicchè si trovarono egualmente lontani dalla
corruzione dell'ignoranza, e dal difetto di questa. Al contrario de' popoli
orientali le cui superstizioni ed errori, che sebbene moderni e presenti, si
trovano per lo più di antichissima data, furono e sono in gran parte contrarie
alla natura, e quindi con verità si possono chiamar barbare. E si può dire che
nessun popolo antico, nell'ordine del grande e del bello, può venire in paragone
de' greci e de' Romani. Il che può derivare anche da questo, che forse i secoli
d'oro degli altri popoli, come degli Egiziani, degl'Indiani, de' Cinesi, de'
Persiani ec. ec. essendo venuti più per tempo, giacchè questi popoli sono molto
più antichi, la memoria loro non è passata fino a noi, ma rimasta nel buio
dell'antichità, col quale viene a coincidere la epoca dei detti secoli; e per lo
contrario ci è pervenuta la memoria sola della loro corruzione e barbarie,
succeduta naturalmente alla civiltà, e abbattutasi ad esser contemporanea della
grandezza e del fiore dei popoli greco e Romano, la qual grandezza occupa
928 e signoreggia le storie nostre, alle quali per la
maggior vicinanza de' tempi ha potuto pervenire, e perch'ella signoreggiò
effettivamente in tempi più vicini a noi. Anzi si può dire che quanto ci ha di
grande {e di bello} rispetto all'antichità nelle
storie, e generalmente in qualunque memoria nostra, tutto appartiene all'ultima
epoca dell'antichità, della quale i greci e i Romani furono effettivamente gli
ultimi popoli. Ὦ Ἕλληνες
ἀεὶ παῖδες ἐοτὲ
*
ec. Platone in persona di quel sacerdote Egiziano. (10.
Aprile. 1821). {{V. p. 2331.}}
[931,2] La stessa proporzionata disparità ch'è fra gli antichi
e i moderni, in ordine al bello, alla immaginazione, alla letizia, alla felicità
per l'una parte, e al vero, alla ragione, alla malinconia, alla infelicità per
l'altra parte; la stessa, dico, si trova proporzionatamente in ciascheduna età
antica o moderna, fra i popoli meridionali e i settentrionali. Sebbene
l'antichità era il tempo del bello,
932 e della immaginazione, tuttavia anche allora la
grecia e l'italia ne erano la patria, e il luogo. E quantunque non
fossero quei tempi adattati alla profondità dell'intelletto, al vero, alla
malinconia, contuttociò ne' Settentrionali si vede l'inclinazione loro naturale
a queste qualità, e negl'inni, nei canti, nelle sentenze staccate dei Bardi, si
nota, oltre alla famosa malinconia, una certa profondità di pensiero, e la
osservazione di certe verità che anche oggi in tanto progresso della filosofia,
non sono le più triviali. Insomma vi si nota un carattere di pensiero
diversissimo nella profondità, da quello de' meridionali degli stessi tempi. (V.
se vuoi, gli Annali di Scienze e Lettere,
Milano. Vol. 6. N. 18. Giugno 1811.
Memoria intorno ai Druidi e ai Bardi Britanni, p.
376-378. e 383 fine - 385. dove si riportano parecchi aforismi e
documenti de' Bardi) Così per lo contrario, sebbene l'età moderna è il tempo del pensiero, nondimeno il
settentrione ne è la patria, e
l'italia conserva tuttavia qualche poco della sua
naturale immaginazione, del suo bello, della sua naturale disposizione alla
letizia ed alla felicità. In quello dunque che ho detto de' miei diversi stati
pp.
143-44, rispetto alla immaginazione e alla filosofia, paragonandomi
col successo de' tempi moderni agli antichi, si può anche aggiungere il paragone
coi popoli meridionali e settentrionali. (12. Aprile 1821.).
[1001,2] Quello che ho detto pp. 970-73 della difficoltà naturale che
hanno e debbono avere i francesi a conoscere e molto più a gustare le altrui
lingue, cresce se si applica alle lingue antiche, e fra le moderne Europee e
colte, alla lingua nostra. Giacchè la lingua
1002
francese è per eccellenza, lingua moderna; vale a dire che occupa l'ultimo degli
estremi fra le lingue {nella cui indole ec.}
signoreggia l'immaginazione, e quelle dove la ragione. (Intendo la lingua
francese qual è ne' suoi classici, qual è oggi, qual è stata sempre da che ha
preso una forma stabile, e quale fu ridotta dall'Accademia). Si giudichi dunque
quanto ella sia propria a servire d'istrumento per conoscere e gustare le lingue
antiche, e molto più a tradurle: e si veda quanto male Mad. di Staël (v. p. 962.) la creda più atta ad esprimere la lingua romana che le
altre, perciocch'è nata da lei. Anzi tutto all'opposto, se c'è lingua
difficilissima a gustare ai francesi, e impossibile a rendere in francese, è la
latina, la quale occupa forse l'altra estremità o grado nella detta scala delle
lingue, ristringendoci alle lingue Europee. Giacchè la lingua latina è quella
fra le dette lingue (almeno fra le {ben} note, {e colte,} per non parlare adesso della Celtica poco nota
ec.) dove meno signoreggia la ragione. Generalmente poi le lingue antiche sono
tutte suddite della immaginazione, e però estremamente separate dalla lingua
francese. Ed è ben naturale che le lingue antiche fossero signoreggiate
dall'immaginazione più che qualunque moderna, e quindi siano senza contrasto, le
meno adattabili alla lingua francese, all'indole sua; ed alla conoscenza e molto
più al gusto de' francesi.
1003 Nella scala poi e
proporzione delle lingue moderne, la lingua italiana, {(alla
quale tien subito dietro la Spagnuola)} occupa senza contrasto
l'estremità della immaginazione, ed è la più simile alle antiche, ed al carattere antico. Parlo delle
lingue moderne colte, se non altro delle Europee: giacchè non voglio entrare
nelle Orientali, e nelle incolte regna sempre l'immaginazione più che in
qualunque colta, e la ragione vi ha meno parte che in qualunque lingua formata.
Proporzionatamente dunque dovremo dire della lingua francese rispetto
all'italiana, quello stesso che diciamo rispetto alle antiche. E il fatto lo
conferma, giacchè nessuna lingua {moderna colta,} è
tanto o ignorata, o malissimo e assurdamente gustata dai francesi, quanto
l'italiana: di nessuna essi conoscono meno lo spirito e il genio, che
dell'italiana; di nessuna discorrono con tanti spropositi non solo di teorica,
ma anche di fatto e di pratica; non ostante che la lingua italiana sia sorella
della loro, e similissima ad essa nella più gran parte delle sue radici, e nel
materiale delle lettere componenti il radicale delle parole (siano radici, o
derivati, o composti); e non ostante che p. e. la lingua inglese e la tedesca,
nelle quali essi riescono molto meglio, (anche nel tradurre ec. mentre una
traduzione francese dall'italiano dal latino o dal greco non è riconoscibile)
appartengano a tutt'altra famiglia di lingue. (1 Maggio 1821).
{{V. p. 1007. capoverso 1.}}
[1004,1]
1004 Uno dei principali dogmi del Cristianesimo è la
degenerazione dell'uomo da uno stato primitivo più perfetto e felice: e con
questo dogma è legato quello della Redenzione, e si può dir, tutta quanta la
Religion Cristiana. Il principale
insegnamento del mio sistema, è appunto la detta degenerazione. Tutte, per
tanto, le infinite osservazioni e prove generali o particolari, ch'io adduco per
dimostrare come l'uomo fosse fatto primitivamente alla felicità, come il suo
stato perfettamente naturale (che non si trova mai nel fatto) fosse per lui il
solo perfetto, come quanto più ci allontaniamo dalla natura, tanto più diveniamo
infelici ec. ec: tutte queste, dico, sono altrettante prove dirette di uno dei
dogmi principali del Cristianesimo, e possiamo dire, della verità dello stesso
Cristianesimo. (1. Maggio 1821.).
[1016,1] Un effetto dell'antico sistema di odio nazionale,
era in Roma il costume del trionfo,
costume che nel presente sistema dell'uguaglianza delle nazioni, {anche delle vinte colle vincitrici,} sarebbe
intollerabile; costume, fra tanto, che dava sì gran vita alla nazione, che
produceva sì grandi effetti, e sì utili per lei, e che forse fu la cagione di
molte sue vittorie, e felicità militari e politiche. (6. Maggio
1821.).
[1018,1] I filosofi moderni, anche i più veri ed effettivi, e
quelli che più mettono in pratica la loro filosofia, sono persuasi che il mondo
non potendo mai esser filosofo, bisogna che chi lo è, dissimuli questa sua
qualità, e nel commercio sociale si diporti per lo più nello stesso modo, come
se non fosse filosofo. All'opposto i filosofi antichi. All'opposto Socrate, il quale si
mostrò nel teatro al popolo che rideva di lui; i Cinici, gli Stoici, e tutti gli
altri. Così che i filosofi antichi formavano una classe e una professione
formalmente distinta dalle altre, ed anche dalle altre sette di filosofi: a
differenza de' moderni, che eccetto nel proprio interiore, si confondono {appresso a poco} intieramente colla moltitudine e colla
universalità. Conseguenza necessaria del predominio della natura fra gli
antichi, e della sua nessuna influenza sui moderni. Dalla qual natura deriva il
fare: e il dare una vita, una realtà, un corpo visibile, una forma sensibile,
un'azione allo
1019 stesso pensiero, alla stessa
ragione. Laddove i moderni pensatori e ragionevoli, si contentano dello stesso
pensiero, il quale resta nell'interno, e non ha veruna o poca influenza sul loro
esterno; e non produce quasi nulla nell'esteriore. E generalmente, e per la
detta ragione della naturalezza, l'apparenza e la sostanza erano assai meno
discordi fra gli antichi i più istruiti, e per conseguenza allontanati dalla
natura; di quello che sia fra i moderni i più ignoranti e inesperti, o più
naturali. (6. Maggio 1821.).
[1026,1] Se i principi risuscitassero le illusioni, dessero
vita e spirito ai popoli, e sentimento di se stessi; rianimassero con qualche
sostanza, con qualche realtà gli errori e le immaginazioni costitutrici e
fondamentali delle nazioni e delle società; se ci restituissero una patria; se
il trionfo, se i concorsi pubblici, i giuochi, le feste patriotiche, gli onori
renduti al merito, ed ai servigi prestati alla patria tornassero in usanza;
tutte le nazioni certamente acquisterebbero, o piuttosto risorgerebbero a vita,
e diverrebbero grandi e forti e formidabili. Ma le nazioni meridionali
massimamente, e fra queste singolarmente l'italia e la
grecia (purchè tornassero ad esser nazioni)
diverrebbero un'altra volta invincibili. Ed allora
1027
si tornerebbe a conoscere la vera ed innata eminenza della natura meridionale
sopra la settentrionale, eminenza che le nostre nazioni ebbero sempre, mentre
non mancarono di forti, grandi, e generali illusioni, e de' motivi e
dell'alimento di esse; eminenza che da gran tempo, ma specialmente oggi, sembra
per lo contrario, con vergogna, dirò così, della natura, appartenere (e non solo
nella guerra, ma in ogni genere di azione, di energia, e di vita) agli abitatori dei ghiacci e delle nebbie, alle regioni meno
favorite, anzi quasi odiate dalla natura:
*
.
Quod latus mundi nebulae malusque
Juppiter urget.
[1028,4] La Bibbia ed Omero sono i due gran fonti dello scrivere, dice l'Alfieri nella sua Vita.
{Così Dante nell'italiano,
ec.} Non per altro se non perch'essendo i più antichi libri,
sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita,
della varietà. Introdotta la ragione nel mondo tutto a poco a poco, e in
proporzione de' suoi progressi, divien brutto, piccolo, morto, monotono.
(11. Maggio 1821.).
[1037,1] Basta vedere il principio dell'Orazione ᾽Eπιτάϕιος attribuita a Demostene, dove discorre della nobiltà del popolo Ateniese, per
conoscere come fosse fermo fra gli antichi il dogma della disuguaglianza delle
nazioni, e come si aiutassero delle favole, delle tradizioni ec. per
persuadersi, e tener come cosa non arbitraria, ma ragionata e fondata, che la
propria nazione fosse di genere e di natura, e quindi di diritti ec. ec. diversa
dalle altre. Persuasione utilissima e necessaria, come altrove pp.
914-15
pp. 923-25 ho dimostrato. (12. Maggio 1821.).
[1043,1]
L'inghilterra in dispetto del suo clima, della sua
posizione geografica, credo anche dell'origine de' suoi abitanti, appartiene
oggi piuttosto al sistema meridionale che al settentrionale. Essa ha del
settentrionale tutto il buono (l'attività, il coraggio, la profondità del pensiero e dell'immaginazione, {l'indipendenza,} ec. ec.) senz'averne il cattivo. E così del
meridionale ha la vivacità, {la politezza, la sottigliezza
(attribuita già a' Greci: v. Montesquieu
Grandeur etc. ch. 22. p. 264.} raffinatezza
di civilizzazione e di carattere (a cui non si trova simile se non in
Francia o in italia), ed anche
bastante amenità e fecondità d'immaginazione, e simili buone qualità,
senz'averne il torpore, la inclinazione all'ozio o alla inerte voluttà, la
mollezza, l'effeminatezza, {la corruzione debole, sibaritica,
vile, francese;} il genio pacifico ec. ec. Basta paragonare un soldato
inglese a un soldato tedesco o russo ec. per conoscere l'enorme differenza che
passa fra il carattere inglese e il settentrionale. E siccome
l'italia non ha milizia, e la
spagna non la sa più adoperare, ec. non v'è milizia
in europa più somigliante alla francese dell'inglese, più
competente colla francese, per l'ardore e la vita individuale, la forza morale,
1044 la suscettibilità ec. del soldato, e non la
semplice forza materiale, come quella de' tedeschi, de' russi ec. {{V. p. 1046.}}
[1078,1] Altro esempio e conseguenza dell'odio nazionale
presso gli antichi. Ai tempi antichissimi, quando il mondo non era sì popolato,
che non si trovasse
1079 facilmente da cambiar sede, le
nazioni vinte, non solo perdevano libertà, proprietà ec. ma anche quel suolo che
calpestavano. E se non erano portate schiave; o tutte intere, o quella parte che
avanzava alla guerra, alla strage susseguente, e alla schiavitù, se n'andava in
esilio. E ciò tanto per volontà loro, non sopportando in nessun modo di obbedire
al vincitore, e volendo piuttosto mancar di tutto, e rinunziare ad ogni menoma
proprietà passata, che dipendere dallo straniero: parte per forza, giacchè il
vincitore occupava le terre e i paesi vinti non solo col governo e colle leggi,
non solo colla proprietà o de' campi o de' tributi ec. ma intieramente e
pienamente col venirci ad abitare, colle colonie ec. col mutare insomma nome e
natura al paese conquistato, spiantandone affatto la nazione vinta, e
trapiantandovi parte della vincitrice. Così accadde alla
Frigia, ad Enea ec. o se non vogliamo credere quello che se ne racconta, questo
però dimostra qual fosse il costume di que' tempi. (23. Maggio
1821.).
[1083,2] Stante l'antico sistema di odio nazionale, non
esistevano, massime ne' tempi antichissimi, le virtù verso il nemico, e la
crudeltà verso il nemico vinto, l'abuso della vittoria ec. erano virtù, cioè
forza di amor patrio. Da ciò si vede quanto profondi filosofi e conoscitori
della storia dell'uomo, sieno quelli che riprendono Omero d'aver fatto i suoi Eroi troppo spietati e
accaniti col nemico vinto. Egli gli ha fatti grandissimi e virtuosissimi nel
senso di quei tempi, dove il nemico {della nazione} era
lo stesso, che oggi è per li Cristiani il Demonio, il peccato ec. Nondimeno Omero che pel suo gran genio ed anima
sublime e poetica, concepiva anche in que' suoi tempi antichissimi la bellezza
della misericordia verso il nemico, della generosità verso il vinto ec.
considerava però questo bello come figlio della sua immaginazione, e fece che
Achille con grandissima difficoltà
si piegasse ad usar misericordia a Priamo supplichevole nella sua tenda, e al corpo di Ettore.
Difficoltà che a noi pare assurda. (E quindi incidentemente inferite
l'autenticità
1084 di quell'Episodio, tanto controverso
ec.) Ma a lui, ed a' suoi tempi pareva nobile, naturale e necessaria. E notate
in questo proposito la differenza fra Omero e Virgilio. (24.
Maggio 1821.).
[1096,1] Non si stimino esagerazioni le lodi ch'io fo dello
stato antico, e delle antiche repubbliche. So bene ancor io, com'erano soggette
a molte calamità, molti dolori, molti mali. Inconvenienti inevitabili nello
stesso sistema magistrale della natura; quanto più negli ordini che finalmente
sono, più o meno, opera umana! Ma il mio argomento consiste nella proporzione e
nel paragone della felicità, o se vogliamo,
1097
infelicità degli uomini antichi, con quella de' moderni, nel bilancio e
nell'analisi della massa de' beni e de' mali presso gli uni e presso gli altri.
Converrò che l'uomo, specialmente uscito dei limiti della natura primitiva, non
sia stato mai capace di piena felicità, sia anche stato sempre infelice. Ma
l'opinione comune è quello[quella] della
indefinita perfettibilità dell'uomo, e che quindi egli sia tanto più felice o
meno infelice, quanto più s'allontana dalla natura; per conseguenza, che
l'infelicità moderna sia minore dell'antica. Io dimostro che l'uomo essendo
perfetto in natura, quanto più s'allontana da lei, più cresce l'infelicità sua:
dimostro che la perfettibilità dello stato
sociale è definitissima, e benchè nessuno stato sociale possa farci
felici, tanto più ci fa miseri, quanto più colla pretesa sua perfezione ci
allontana dalla natura; dimostro che l'antico stato sociale aveva toccato i
limiti della sua perfettibilità, limiti tanto poco distanti dalla natura, quanto
è compatibile coll'essenza di stato sociale, e coll'alterazione inevitabile che
l'uomo ne riceve da quello ch'era primitivamente: dimostro infine con prove
teoriche, e con prove storiche e di fatto,
1098 che
l'antico stato sociale, stimato dagli altri imperfettissimo, e da me perfetto,
era meno infelice del moderno. (27. Maggio 1821.).
[1163,3] Altra prova dell'antico odio nazionale. Presso gli
antichi latini o romani, forestiero e nemico si denotavano colla stessa parola
hostis. V.
Giordani nella lettera al
Monti, in fine; (Proposta ec. vol. 1. par. 2. p. 265. fine.
alle voci Effemeride. Endica. Epidemia)
il
Forcellini, e il mio pensiero su questa voce, {{p. 205. fin.}}
dove si porta anche l'esempio simile, della lingua Celtica. (13. Giugno
1821.).
[1165,2] Tutti quanti i giovani, benchè qual più qual meno,
sono per natura disposti all'entusiasmo, e ne provano. Ma l'entusiasmo de'
giovani oggidì, coll'uso del mondo, e coll'esperienza delle cose che {quelli} da principio vedevano da lontano, si spegne non
in altro modo nè per diversa cagione, che una facella per difetto di alimento:
anche durando la gioventù, e la potenza naturale dell'entusiasmo. (13.
Giugno 1821.).
[1169,1] L'ardore giovanile è la maggior forza, l'apice, la
perfezione, l'ἀκμή della natura umana. Si consideri dunque la convenienza di
quei sistemi politici, nei quali l'ἀκμή dell'uomo, cioè l'ardore e la
1170 forza giovanile, non è punto considerata, ed è
messa del tutto fuori del calcolo, come ho detto in altro pensiero pp.
195-96. (15. Giugno 1821.).
[1174,2] Ho detto più volte p. 1030
pp.
1039-40 che la letteratura francese è precisamente letteratura
moderna, ed è quanto dire che non è letteratura. Perchè considerando bene
vedremo che i tempi moderni hanno filosofia, dottrina, scienze d'ogni sorta, ma
non hanno propriamente letteratura, e se l'hanno, non è moderna, ma di carattere
antico, ed è quasi un innesto dell'antico sul moderno. L'immaginazione ch'è la
base della letteratura strettamente considerata,
1175
sì poetica come prosaica, non è propria, anzi impropria de' tempi moderni, e se
anche oggi si trova in qualche individuo, non è moderna, perchè non solamente
non deriva dalla natura de' tempi, ma questa l'è sommamente contraria, anzi
nemica e micidiale. E vedete infatti che la letteratura francese, {nata e formata} in tempi moderni, è la meno immaginosa
non solo delle antiche, ma anche di tutte le moderne letterature. E per questo
appunto è letteratura pienamente moderna, cioè falsissima, perchè il predominio
{odierno} della ragione quanto giova alle scienze,
e a tutte le cognizioni del vero e dell'utile (così detto), tanto nuoce alla
letteratura e a tutte le arti del bello e del grande, il cui fondamento, la cui
sorgente e nutrice è la sola natura, bisognosa bensì di un mezzano aiuto della
ragione, ma sommamente schiva del suo predominio che l'uccide, come pur troppo
vediamo nei nostri costumi, e in tutta la nostra vita d'oggidì. (16.
Giugno 1821.).
[1175,1] Quanto più cresce il mondo rispetto all'individuo,
tanto più l'individuo impiccolisce. I nostri antichi, conoscendo pochissima
parte di mondo,
1176 ed essendo in relazione con molto
più piccola parte, e bene spesso colla sola loro patria, erano grandissimi. Noi
conoscendo tutto il mondo, ed essendo in relazione con tutto il mondo, siamo
piccolissimi. Applicate questo pensiero ai diversissimi aspetti sotto i quali si
verifica che essendo cresciuto il mondo, l'individuo s'è impiccolito sì
fisicamente che moralmente; e vedrete esser vero in tutti i sensi che l'uomo
{e le sue facoltà} impiccoliscono a misura che il
mondo cresce in riguardo loro. (16. Giugno 1821.).
[1315,1] Il successivo cambiamento delle disposizioni
dell'animo di ciascun uomo secondo l'età, è una fedele e costante immagine del
cambiamento delle generazioni umane nel processo de' secoli. {+(E così viceversa).} Eccetto che è
sproporzionamente[sproporzionatamente]
rapido, massimamente oggidì, perchè il giovane di venticinque anni non serba più
somiglianza alcuna col tempo antico, nè veruna qualità, opinione, disposizione,
inclinazione antica, come l'immaginazione, la virtù ec. ec. ec. (13.
Luglio 1821.).
[1330,1] Ho detto altrove pp. 625-29 che nell'antico sistema delle nazioni la
vitalità era molto maggiore e la mortalità minore che nel moderno. Non intendo
con
1331 ciò di fondarmi principalmente sopra la
maggior durata possibile della vita umana in quei tempi che adesso. Le storie
provano che fra la più lunga vita degli antichi e la più lunga de' moderni
(almeno fin da quei tempi de' quali si hanno notizie precise) non v'è divario, o
poco; e smentiscono in questo i sogni di alcuni. Ed è ben simile al vero che la
natura abbia stabilito appresso a poco i confini possibili della vita umana,
oltre a' quali non si possa per nessuna cagione passare, come gli ha stabiliti
agli altri animali, {+nella cui longevità
presente non credo che si trovi differenza coi tempi antichi.} Almeno
ciò si può dire in ordine a quel sistema terrestre, a quell'epoca del globo
terraqueo che ci è nota; potendo però il detto sistema avere avuto altre epoche
e grandi rivoluzioni. Ed anche ci può essere {(o esserci
stata)} qualche razza umana più longeva o meno, come vediamo
differenze notabili di longevità nelle razze p. e. de' cavalli.
[1346,3] Dalle lettere consonanti che cadono necessariamente
in e, bisogna eccettuare il nostro c e g chiuso, e il ch degli spagnuoli, le quali
1347 lettere non si possono pronunziare se non cogli organi, vale a
dire la lingua, il palato, e i denti così serrati, che il suono, anche nel mezzo
della parola e in qualunque luogo, esce inevitabilmente in un i, quanto si voglia tenue, e ciò perchè l'i è la vocale più esile e stretta. {+Esce dico in un i ma poi termina veramente in un e
(quasi ie), qualunque volta le dette lettere, e i
suoni loro analoghi si pronunzino isolati, o nel fine di una parola, o
insomma senz'altro appoggio di vocale.} Così accade anche ai suoni che
partecipano dei sopraddetti, come gli (che noi non
iscriviamo mai senza l'i, o lo pronunziamo in altro
modo) e gn. {+V. p. 1363.} Del
resto il nostro c e g
chiusi, noi li poniamo anche avanti alla e, quantunque
questa insieme coll'i sia la sola vocale a cui la
preponiamo. Ciò per altro nella scrittura. Ma la pronunzia frappone sempre un
i anche al c ed e, ec.; e così solevano fare i nostri antichi anche
nella scrittura di quelle voci, dalle quali una poco analitica ortografia ha
escluso l'i. (19. Luglio 1821.).
[1361,3] Chi vuol vedere la differenza fra l'amor patrio
antico e moderno, e fra lo stato antico e moderno delle nazioni, e fra l'idea
che s'aveva anticamente, e che si ha presentemente del proprio paese ec.
consideri la pena dell'esilio, usitatissima e somma presso gli antichi, ed
ultima pena de' cittadini romani; ed oggi quasi disusata, e sempre minima, e
1362 spesso ridicola. Nè vale addurre la piccolezza
degli stati. Presso gli antichi l'essere esiliato da una sola città, fosse pur
piccola, povera, infelice quanto si voglia, era formidabile, se quella era
patria dell'esiliato. {+Così forse anche
oggi nelle parti meno civili; o più naturali, come la
Svizzera ec. ec. il cui straordinario amor patrio
è ben noto. ec.} Oggi l'esilio non si suol dare veramente per pena, ma
come misura di convenienza, di utilità ec. per liberarsi della presenza di una
persona, per impedirla da quel tal luogo ec. Non così anticamente dove il fine
principale dell'esiliare, era il gastigo dell'esiliato. ec. ec. (21.
Luglio. 1821.). {{La gravità
della pena d'esilio consisteva nel trovarsi l'esiliato privo de' diritti
e vantaggi di cittadino (giacchè altrove non poteva essere cittadino), i
quali anticamente erano qualche cosa.}}
[1362,1] Tutte le battaglie, le guerre ec. degli antichi,
stante il sistema dell'odio nazionale, che altrove ho largamente esposto pp. 879. sgg.
pp. 1004-1005
pp.
1078-79
pp. 1083-84, erano disperate, e con quella risoluzione di vincere o morire, e con quella
certezza di nulla guadagnare o salvare cedendo, che oggi non si trovano più.
(21. Luglio 1821.).
[1364,1] Noi facilmente ci avvezziamo a giudicar piccole, o
compensabili ec. le disgrazie che ci accadono, le privazioni ec. perchè
conosciamo e sentiamo il nulla del mondo, la poca importanza delle cose, il poco
peso degli uomini che ci ricusano i loro favori ec. Viceversa gli antichi, i
quali giudicavano tanto importanti le cose del mondo, e gli uomini, da credere
che i morti e gl'immortali se ne interessassero sopra qualunque altro affare.
(21. Luglio 1821.).
[1378,1]
1378 L'animale assalito o in se stesso, o nelle cose
sue care massimamente, non fa i conti s'egli possa o non possa resistere, se la
resistenza gioverà o no, se gli torni meglio il cedere, se il pericolo sia
grande o piccolo, se le forze competano, se il resistere gli possa portare un
male maggiore ec. ma resiste immediatamente e combatte con tutte le sue forze,
ancorchè piccolissime contro grandissime. Disturbate i pulcinelli ad una
gallina, ed ella vi verrà sopra col becco e cogli artigli, e vi farà tutto il
male che saprà. Così facevano le antiche nazioni ancorchè piccolissime contro
grandissime, come ho detto altrove pp. 1004-1007. {+Similmente dico dei privati rispetto ai più forti o potenti ec.}
{+V. il Gelli, Circe, nel Dial. dove parla
della fortezza delle bestie, e il Segneri
Incredulo dove parla
delle loro guerre.} È vergognoso che il calcolo ci renda
meno magnanimi, meno coraggiosi delle bestie. Da ciò si può vedere quanto la
grand'arte del computare, sì propria de' nostri tempi, giovi e promuova la
grandezza delle cose, delle azioni, della vita, degli avvenimenti, degli animi,
dell'uomo. (23. Luglio 1821.).
[1422,1]
1422 Il sistema di odio nazionale si vede anche oggidì,
sì nelle nazioni che meglio conservano la nazionalità (come tra i francesi e
gl'inglesi ec.), sì massimamente ne' selvaggi, i quali, come gli antichissimi,
combattono per la vita e le sostanze, non danno quartiere ai vinti, o menano
schiave le tribù intiere, sono in perpetua nemicizia fra loro, abbruciano,
scorticano, fanno morire fra i più terribili tormenti i nemici della loro tribù
ec. ne mangiano le viscere ec. ec. ec. (31. Luglio. 1821.)
[1470,1] Una delle principali e universali e caratteristiche
inseparabili proprietà dello stile degli
1471 antichi
non corrotti, cioè o classici, o anteriori alla perfezione della letteratura, si
è la forza e l'efficacia. Quest'è la prima, anzi l'unica qualità ch'io {ho} sentito notare da uomini poco avvezzi a letture
classiche, ogni volta che venivano dal leggere qualche libro de' buoni antichi,
o qualche libro moderno su quel gusto di stile. Ed era l'unica perchè forse essi
non erano capaci di discernere a prima vista, nè gustare le altre. Ma questa dà
subito nell'occhio, e si distingue e si separa facilmente dalle altre. Quindi
osservate quanto sia vero che la natura è sorgente di forza, e che questa è sua
qualità caratteristica, come la debolezza lo è della ragione. Perciocchè 1. gli
antichi scrittori, massime quelli anteriori al perfezionamento della
letteratura, i quali sono ordinariamente più energici degli altri, non cercavano
gran fatto l'energia, nè se ne pregiavano, nè volevano esser famosi per questo
ec. come ho detto altrove p. 207
pp. 691-94
p. 1325
p.
1335
p. 1420
pp. 1435-36
pp. 1449-50 della semplicità, dell'eleganza, della purità di lingua
ec. Tali sono i
1472 trecentisti ec. Eppure senza
cercarlo, riuscivano robustissimi e nervosissimi per la sola forza della natura
che in loro parlava e regnava, e quindi per la loro propria forza. 2. Quando
anche la cercassero, già la cercavano assai meno di noi che tanto meno la
troviamo, poi se la cercavano in proporzione della riuscita, vuol dire che la
cercavano sopra tutto, e che quindi nel tempo che la natura regnava, l'efficacia
e l'energia si stimava la principal dote dello stile. E così accadeva in tutto:
e così la prima e perenne sorgente di forza, sia nello stile, sia nella lingua,
sia ne' concetti, sia nelle azioni, sarà sempre l'esempio degli antichi, cioè la
natura. E i tempi moderni con tutti i loro lumi non possono mai supplire a
questa fonte. (8. Agos. 1821.).
[1482,1] Queste osservazioni spiegano il perchè sia sempre
maravigliosa, e caratteristica negli antichi scrittori la proprietà della
favella. Ciò non avviene di gran lunga perch'essi fossero più diligenti. Chi può
pur paragonare la diligenza de' nostri tempi in qualunque genere, con quella
degli antichi? L'esattezza e la minutezza non era propria de' tempi antichi,
bensì precisamente de' moderni, per le stesse ragioni per cui non è propria di
questi la grandezza, ch'era propria di quelli. {Anche}
In ogni cosa appartenente a lingua o stile, i diligenti scrittori moderni, ed
anche i mediocri la vincono in esattezza sopra i più diligenti scrittori
antichi. Basta conoscerli bene per avvedersene. V. la mia lett. sull'Eusebio del Mai,
nell'osservazione segnata XVI. 23. 71. 23. Recherò fra i moltissimi esempi che
si potrebbero, una nota che fa un Traduttore francese alla Catilinaria di Sallustio, solamente per dar meglio ad
intendere il mio pensiero. (Dureau-Delamalle, Oeuvres de Salluste. Traduction nouvelle. Note 45. sur la Conjurat. de Catilina à
Paris 1808. t. 1. p. 213.) Les bons écrivains de l'antiquité
1483 n'avaient pas, il s'en faut, nos
petits scrupules minutieux sur ces répétitions des mêmes mots,
surtout lorsque la différence de cas en mettait dans la terminaison,
comme dans ce passage-ci, où l'on voit
magnae copiae
après
magnas copias.
*
Parla di quel
luogo (Sall.
Bell. Catilinar. c. 59. {al. 56.}) Sperabat
propediem magnas copias se habiturum, si
Romae socii incepta patravissent: interea
servitia repudiabat, cuius initio ad eum magnae copiae
concurrebant.
*
[1487,1] Quindi potremo spiegare un fenomeno intorno alla
ricchezza delle lingue antiche, che non mi pare nè abbastanza osservato, nè
dilucidato. Le lingue si accrescono col progresso delle cognizioni e dello
spirito umano. Il numero delle parole di senso certo, dicono i filosofi,
determina il numero delle idee chiare di una nazione. (Sulzer.) Viceversa dunque potremmo dire delle idee
chiare, le quali non sono quasi mai tali se non hanno la parola corrispondente.
Ora
1488 chi dubita che il numero delle nostre idee
chiare non vinca d'assai quello delle antiche? che il nostro spirito non solo
abbracci molto maggior estensione di cose, ma veda sempre più sottile e minuto,
ed abbia acquistato un abito di precisione ed esattezza, senza paragone maggiore
che gli antichi? E pure consideriamo le antiche lingue colte, e non ci
troveremo, com'è naturale {la facoltà} di esprimere le
cose {o gli accidenti} ch'essi non conoscevano, e le
idee moderne ch'essi non avevano; {+o
quelle parti delle loro stesse idee, ch'essi non discernevano, almeno
chiaramente,} ma quanto a tutto ciò che gli antichi potevano aver da
significare, o voler significare, quanto a tutte le idee che potevano cadere nel
loro discorso, troveremo {generalmente parlando} nelle
lingue antiche colte, una facoltà di esprimersi tanto maggiore che nelle
moderne, una onnipotenza, {un'aggiustatezza,} una
capacità di variar l'espressione secondo le minime varietà delle cose da
esprimersi, {+e delle congiunture e
circostanze del discorso,} che forse {e senza
forse} non ha pari in veruna delle più colte lingue moderne: ed è
perciò che le lingue antiche sono generalmente riconosciute superiori in
ricchezza alle moderne.
[1494,1] Qual lingua è più varia della latina? (se non forse
la greca). E quale è più propria? neppur forse la greca. E dalla proprietà
deriva naturalmente la varietà, come ho detto p. 1479. Ella era {strettamente} propria per legge, e non avrebbe scritto latino ma
barbaro, chi non avesse scritto con proprietà: laddove la greca potendo essere
altrettanto e più propria, era più libera, ed ho già osservato altrove p.
244 come ciascuno scrittor greco, abbia un vocabolarietto particolare,
cioè faccia uso continuo delle stesse voci, e si restringa ad una sola parte
della sua lingua, con che la proprietà non può esser perfetta. Ai latini
bisognava una perfetta cognizione ed uso della loro lingua, non solo in grosso
ma in particolare, e quindi il vocabolario che si può formare a ciascun {buono} scrittore latino è
1495
generalmente molto più ampio che a qualunque greco classico. E pur la lingua
greca era più ricca della latina. Ma la lingua di ciascun latino era più ricca
che di ciascuno scrittor greco. Eccetto gli scrittori greci più bassi, come Luciano, Longino ec. i quali sono ricchissimi, e tanto più
quanto il loro stile è meno antico, perchè i contemporanei, come Arriano, Dionigi Alicarnasseo, sono più antichi di stile, e
meno ricchi di lingua. La stessa {immensa} ricchezza
della lingua greca impoveriva gli scrittori, finch'ella non fu studiata con
un'arte perfetta ch'è sempre propria de' tempi imperfetti e scaduti.
[1554,2] In questo presente stato di cose, non abbiamo gran
mali, è vero, ma nessun bene; e questa mancanza è un male grandissimo, continuo,
intollerabile, che rende penosa tutta quanta la vita, laddove i mali parziali,
ne affliggono solamente una parte. L'amor proprio, e quindi il desiderio
ardentissimo della felicità, perpetuo ed essenzial compagno della vita
1555 umana, se non è calmato da verun piacere {vivo,} affligge la nostra esistenza crudelmente, quando
anche non v'abbiano altri mali. E i mali son meno dannosi alla felicità che la
noia ec. anzi talvolta utili alla stessa felicità. L'indifferenza non è lo stato
dell'uomo; è contrario dirittamente alla sua natura, e quindi alla sua felicità.
V. la mia teoria del piacere,
applicandola a queste osservazioni, che dimostrano la superiorità del mondo
antico sul moderno, in ordine alla felicità, come pure dell'età fanciullesca o
giovanile sulla matura. (24. Agos. 1821.).
[1555,1] Consideriamo la natura. Qual è quell'età che la
natura ha ordinato nell'uomo alla maggior felicità di cui egli è capace? Forse
la vecchiezza? cioè quando le facoltà dell'uomo decadono visibilmente; quando
egli si appassisce, indebolisce, deperisce? Questa sarebbe una contraddizione,
che la felicità, cioè la perfezione dell'essere, dovesse naturalmente trovarsi
nel tempo della decadenza e quasi corruzione di detto essere. Dunque la
gioventù, cioè il fior dell'età, quando le facoltà dell'uomo sono in pieno
vigore ec. ec.
1556 Quella è l'epoca della perfezione e
quindi della possibile felicità sì dell'uomo che delle altre cose. Ora la
gioventù è l'evidente immagine del tempo antico, la vecchiezza del moderno. Il
giovane e l'antico presentano grandi mali, congiunti a grandi beni, passioni
vive, attività, entusiasmo, follie non poche, movimento, vita d'ogni sorta. Se
dunque la gioventù è visibilmente l'età destinata dalla natura alla maggior
felicità, l'ἀκμή della vita, e per conseguenza della felicità ec. ec. se il
nostro intimo senso ce ne convince (che nessun vecchio non desidera di esser
giovane, e nessun giovane vorrebbe esser vecchio); se la considerazione del
sistema e delle armonie della natura ce lo dimostra a primissima vista; dunque
l'antico tempo era più felice del moderno; dunque che cosa è la sognata
perfettibilità dell'uomo? dunque ec. ec. Quest'osservazione si può stendere a
larghissime conseguenze. (24. Agos. 1821.).
[1563,1] La virtù, l'eroismo, la grandezza d'animo non può
trovarsi in grado eminente, splendido e capace di giovare al pubblico, se non
che in uno stato popolare, o dove la nazione è partecipe del potere. Ecco com'io
la discorro. Tutto al mondo è amor proprio. Non è mai nè forte, nè grande, nè
costante, nè ordinaria in un popolo la virtù, s'ella non giova per se medesima a
colui che la pratica. Ora i principali vantaggi che l'uomo può desiderare e
ottenere, si ottengon mediante i potenti, cioè quelli che hanno in mano il bene
e il male, le sostanze, gli onori, e tutto ciò che spetta alla nazione. Quindi
il piacere, il cattivarsi in qualunque modo, o da vicino o da lontano, i
potenti, è lo scopo più o meno degl'individui di ciascuna nazione generalmente
parlando. Ed è cosa già mille volte osservata che i potenti imprimono il loro
carattere, le loro inclinazioni ec. alle nazioni loro soggette.
1564 Perchè dunque la virtù, l'eroismo, la magnanimità
ec. siano praticate generalmente e in grado considerabile da una nazione,
bisognando che questo le sia utile, e l'utilità non derivando principalmente che
dal potere, bisogna che tutto ciò sia amato ec. da coloro che hanno in mano il
potere, e sia quindi un mezzo di far fortuna presso loro, che è quanto dire far
fortuna nel mondo.
[1573,1] Dice Cicerone (il luogo lo cita, se ben mi ricordo, il Mai, prefazione alla versione d'isocrate, de
Permutatione) che gli uomini di gusto nell'eloquenza non
si appagano mai pienamente nè delle loro opere nè delle altrui, e che la mente
loro semper divinum aliquid atque infinitum
desiderat,
*
a cui le forze dell'eloquenza non
arrivano. Questo detto è notabilissimo riguardo all'arte, alla critica, al
gusto.
[1606,2]
Alla p. 1602
fine. Nè solo il vigor del
1607 corpo, ma
anche quello dello spirito è singolarmente ordinato dalla natura. Almeno i primi
progressi dello spirito umano sono sempre compagni di una forza (in tutta
l'estensione e le classificazioni del termine) che va di mano in mano scemando e
perdendosi coi successivi progressi della civiltà. Parlino le storie. V. il pensiero precedente che
appartiene pure a questo, perchè l'odio è una delle più vigorose passioni
dell'anima; ed è oggi o estinto o travisato in maniera che è fonte di tutt'altro
che di forza. V. pure il pensiero seguente [p. 1607,1].
(2. Sett. 1821.).
[1607,1] I moti e gli atti degli uomini (e de' viventi in
proporzione delle rispettive qualità) sono naturalmente vivissimi, specialmente
nella passione. La civiltà gli raddolcisce, gli modera, e va tanto innanzi che
oramai gran parte del bel trattare consiste nel non muoversi, siccome nel
parlare a voce bassa ec. e l'uomo appassionato quasi non {si} distingue dall'indifferente per verun segno esterno. L'individuo
civilizzato copia in se stesso lo stato a cui la società è ridotta
dall'incivilimento {+come una
camera oscura ricopia un[in]
piccolissimo una vasta prospettiva.} Non più moto nè in
questa nè in
1608 quello. Questa corrispondenza non è
nè casuale nè frivola. E ben importante l'osservare come i menomi effetti
derivino dalle grandi cagioni, come armonizzino insieme le cose grandi e le
piccole, come la natura del secolo influisca sulle menome parti de' costumi,
come dalle piccolissime e giornaliere osservazioni si possa rimontare alle
grandissime e generali. L'animo e il corpo dell'uomo civile si rende appoco
appoco immobile in ragione de' progressi della civiltà: e si va quasi
distruggendo (gran perfezionamento dell'uomo!) la principal distinzione che la
natura ha posto fra le cose animate e inanimate, fra la vita e la morte, cioè la
facoltà del movimento. (2 Sett. 1821.).
[1794,1]
᾽Εγὼ μέντοι
*
, (io
però) καίπερ ὑπερχαίρω[ὑπερχαίρων] ὅταν ἐχϑρὸν τιμωρῶμαι πολὺ μᾶλλόν μοι δοκῶ
ἥδεσϑαι ὅταν τι τοῖς ϕίλοις ἀγαϑὸν ἐξευρίσκω
*
. Parole di Agesilao (modello di virtù,
secondo Senofonte, dovunque egli ne
parla) a Coti re de' Paflagoni,
messegli in bocca da Senofonte, l'uno
de' primi maestri di morale a' suoi tempi. (῾Eλληνικῶν ἱστοριῶν
β. δ΄. κ. α΄, § ε΄.) Oggi chi volesse dire una sentenza notabile, direbbe tutto
il rovescio. Così cambia la morale. (26. Sett. 1821.).
[1842,1] Oggi la gara di onore è più fra coloro che
compongono una stessa armata che fra le armate nemiche; anticamente per lo
contrario: oggi per conseguenza il soldato invidia e quindi odia il suo compagno
più
1843 che il nemico; anticamente per lo contrario:
oggi egli si duol più di un vantaggio riportato da un suo emulo sopra il nemico,
che de' vantaggi del nemico; anticamente per lo contrario: oggi insomma anche
nelle armate dove regna quella utilissima e grande illusione che si chiama punto
di onore, tutto è egoismo individuale; anticamente tutto era egoismo nazionale.
Signori filosofi, giacchè non si può fare a meno dell'uno o dell'altro, quale vi
sembra il migliore? Anticamente erano emule le nazioni, oggi gl'individui, e più
quelli di una stessa che di diverse nazioni; e così quando anche si cerca la
gloria, cosa ben rara, {+e quando ella si
cerca operando per la nazione e contro i di lei nemici,} ella non è
cercata e non ha per fine che l'individuo in luogo della nazione a cui esso
appartiene. (5. Ott. 1821.).
[1860,1] Ho detto pp. 1548-51 che l'immaginazione può risorgere o durare
anche ne' vecchi e disingannati. Aggiungo che l'immaginazione e il piacere che
ne deriva, consistendo in gran parte nelle rimembranze, lo stesso aver perduto
l'abito della continua immaginativa, contribuisce ad accrescere il piacere delle
rimembranze, giacch'elle, se fossero presenti ed abituali, 1. non sarebbero, o
sarebbero meno rimembranze, 2. non sarebbero così dilettevoli, perchè il
presente non illude mai, bensì il lontano, e quanto è più lontano. Onde non è
dubbio che le immagini della vita degli antichi, non riescano più dilettevoli a
noi per cui sono rimembranze lontanissime, che agli stessi antichi per cui erano
o presenze, o ricordanze poco lontane. Del resto la rimembranza quanto più è
lontana, e meno abituale, tanto più innalza, stringe, addolora dolcemente,
diletta
1861 l'anima, e fa più viva, energica,
profonda, sensibile, e fruttuosa
impressione, perch'essendo più lontana, è più sottoposta all'illusione; e non
essendo abituale nè essa individualmente, nè nel suo genere, va esente
dall'influenza dell'assuefazione che indebolisce ogni sensazione. Ciò che dico
dell'immaginativa, si può applicare alla sensibilità. Certo è però che tali
lontane rimembranze, quanto dolci, tanto separate dalla nostra vita presente, e
di genere contrario a quello delle nostre sensazioni abituali, ispirando della
poesia ec. non ponno ispirare che poesia malinconica, come è naturale,
trattandosi di ciò che si è perduto; all'opposto degli antichi a cui tali
immagini, poteano ben far minore effetto a causa dell'abitudine, ma erano sempre
proprie, presenti, si rinnovavano tuttogiorno, nè mai si consideravano come cose
perdute, o riconosciute per vane; quindi la loro poesia dovea esser lieta, come
quella che verteva sopra dei beni e delle dolcezze da
1862 loro ancor possedute, e senza timore. (7. Ott.
1821.).
[1899,1] Ben è verissimo che quanto la lingua italiana è
incorruttibile nella teoria, tanto nelle presenti circostanze è più d'ogni altra
corruttibile nella pratica. I riformatori del moderno stile corrotto, in luogo
di conservarle la libertà essenziale alla sua indole, gliela tolgono, ed oltre
ch'essi stessi con ciò solo la corrompono, assicurano poi la sua corruzione
riguardo agli altri, mentre la libertà è il principale e indispensabile
preservativo di questo male. Gli altri non istudiano la lingua, non la
conoscono, si prevalgono della sola sua libertà, senza considerare come vada
applicata ed usata, non sanno le forze della lingua, ed in vece di queste,
adoprano delle forze straniere ec. L'indole antica della
1900 lingua italiana pare a prima vista incompatibile con quella delle
cose moderne. Senza cercare dunque nè scoprire come queste indoli si possano
accordare (il che non può conoscere chi non conosce la lingua), si sacrifica
quella a questa, o questa a quella, o si uniscono mostruosamente con danno di
tutt'e due. Laddove la lingua italiana deve e può conservare la sua indole
antica adattandosi alle cose moderne, esser bella trattando il vero; parere
anche antica qual è, senza però mancare a nessuno de' moderni usi, e adattarvisi
senza alcuno sforzo.
[1975,1] Un uomo di forte e viva immaginazione, avvezzo a
pensare ed approfondare, in un punto di straordinario e passeggero vigore
corporale, di entusiasmo, {+di
disperazione, di vivissimo dolore o passione qualunque, di pianto, insomma di
quasi ubbriachezza, e furore,} ec. scopre delle verità che molti
secoli non bastano alla pura e fredda e geometrica ragione per iscoprire; e che
annunziate da lui non sono ascoltate, ma considerate come sogni, perchè lo
spirito umano manca tuttavia delle condizioni necessarie per sentirle, e
comprenderle come verità, e perch'esso non può universalmente fare in un punto
tutta la strada che ha fatto quel pensatore, ma segue necessariamente la sua
marcia, e il suo progresso gradato, senza sconcertarsi. Ma l'uomo in quello
stato vede tali rapporti, passa da una proposizione all'altra così rapidamente,
ne comprende così vivamente e facilmente il legame, accumula in un momento
1976 tanti sillogismi, e così ben legati e ordinati, e
così chiaramente concepiti, che fa d'un salto la strada di più secoli. E forse
esso stesso dopo quel punto, non crede più alle verità che allora avea concepite
e trovate, cioè o non si ricorda, o non vede più con egual chiarezza, i
rapporti, le proposizioni, i sillogismi, e le loro concatenazioni che l'avevano
portato a quelle conseguenze. Il mondo alla fine è sempre in istato di freddo, e
le verità scoperte nel calore, per grandi che siano non mettono radici nella
mente umana, finchè non sono sanzionate dal placido progresso della fredda
ragione, arrivata che sia dopo lungo tempo a quel segno. Grandi verità
scoprivano certamente gli antichi colla lor grande immaginazione, grandi salti
facevano nel cammino della ragione, ridendosi della lentezza, e degl'infiniti
mezzi che abbisognano al puro raziocinio ed esperienza per avanzarsi
altrettanto, grandi spazi occupati poi da' loro posteri, preoccupavano essi e
1977 conquistavano in un baleno, ma questi
progressi restavano necessariamente individuali, perchè molto tempo abbisognava
a renderli generali; queste conquiste non si conservavano, anzi erano piuttosto
viaggi che conquiste, perchè l'individuo penetrava solamente in quei nuovi
paesi, e li riconosceva, senza esser seguito dalla moltitudine che vi stabilisse
il suo dominio; i progressi de' grandi individui non giovavano gli uni agli
altri, perchè mancanti di una disposizione generale e comune nel mondo, che li
rendesse intelligibili gli uni agli altri, mancanti anche di una lingua atta a
stabilire, dar corpo, determinare e render a tutti egualmente chiaro quello che
ciascun individuo scopriva. Così che gli antichi grandi spiriti penetravano
nelle terre della verità, ciascuno isolatamente, e senza aiutarsi l'un l'altro,
e quando anche si scontrassero nel cammino, o giungessero ad un medesimo
1978 punto, e quivi casualmente si riunissero, non si
riconoscevano; e tornati dalla loro corsa, e narrandola altrui, non
s'accorgevano di dir le stesse cose, nè il pubblico se n'avvedeva, perchè non le
dicevano allo stesso modo, mancando di un linguaggio filosofico, uniforme; oltre
che le stesse ragioni che impedivano all'universale di riconoscere quelle
proposizioni per pienamente vere, gl'impediva altresì di scoprire l'uniformità
che esisteva tra le proposizioni e i sentimenti di questo e di quel grand'uomo.
E così le grandi scoperte de' grandi antichi, appassivano, e non producevano
frutto, e non erano applicate, mancando i mezzi e di coltivarle, e di aiutare e
legare una verità coll'altra mediante il commercio de' pensieri, e della società
pensante. (23. Ott. 1821.).
[2088,1] Ma prescindendo da ciò, quest'esempio di fatto prova
e conferma quello che in diversi luoghi pp. 1478. sgg.
pp.
1862-63
pp. 2008-2009 ho detto: 1. che
2089 le
lingue d'indole antica sono capacissime della più sottile filosofia, e di
esprimere ogni più riposta ed elementare idea umana; 2. che la lingua greca
(simile alla tedesca) lo fu, e lo sarebbe anche oggi se vivesse, ed avrebbe
potuto servire ai nostri tempi molto meglio della latina se ec. ec. ec. 3. che
la lingua italiana essendo fra le lingue moderne formate la più antica di fatto
e d'indole, la più libera ec. (tanto ch'ella vince in queste qualità la stessa
latina sua madre) è sommamente capace di filosofia, per astrusa che possa
essere, quando coloro che l'adoprano, sappiano conoscere e impiegare le sue
qualità, e le immense sue forze, e le forme di cui è suscettibile per sua
natura, e volerla applicare alle cose moderne ec. (14. Nov.
1821.).
[2215,1]
Virtù presso i latini era sinonimo di valore, fortezza d'animo, e
anche s'applicava in senso di forza alle cose non
umane, o inanimate, come virtus Bacchi, cioè del
vino, virtus virium, ferri,
herbarum. V.
onninamente il Forcellini.
Anche noi diciamo virtù per potenza, virtù del fuoco, dell'acqua, de' medicamenti
ec. V. la
Crusca.
Virtù insomma presso i latini non era propriamente altro che fortitudo, applicata particolarmente all'uomo, da vir. E anche dopo il grand'uso
2216 di questa parola presso i latini, tardò ella molto a poter essere
applicata alle virtù non forti non vive per gli effetti e la natura loro, alla
pazienza (quella che oggi costuma), alla mansuetudine, alla compassione ec.
Qualità che gli scrittori latini cristiani chiamarono virtutes, non si potrebbero nemmen oggi chiamar così volendo scrivere
in buon latino, benchè virtù elle si chiamino nelle
sue lingue figlie, e con nomi equivalenti nelle altre moderne. Di ἀρετή (da
ἄρης) V. i Lessici, e gli etimografi: sebbene la sua etimologia, perchè parola
più antica, o più anticamente frequentata dagli scrittori, sia più scura. E così
credo che in tutte le lingue la parola significativa di virtù, non abbia mai originariamente significato altro che forza, vigore, (o d'anima o
di corpo, o d'ambedue, o confusamente dell'una e dell'altro, ma certo prima e
più di
2217 questo che di quella). Tanto è vero che
l'uomo primitivo, e l'antichità, non riconosce e non riconobbe altra virtù,
altra perfezione nell'uomo e nelle cose, fuorchè il vigore e la forza, o certo
non ne riconobbe nessuna che fosse scompagnata da queste qualità, e che non
avesse in elle la sua essenza, e carattere {principale,} e forma di essere, e la ragione di esser virtù e
perfezioni. (3. Dic. 1821.).
[2420,1] Il punto d'onore (come dicono gli spagnuoli) fu
conosciuto egualmente dagli antichi e dai moderni, e quasi da tutte le società,
benchè poco o
2421 niente civili, in qualunque tempo,
come anche da' Messicani, anche da' selvaggi. Ed è naturale all'uomo posto in
relazione cogli uomini. Tuttavia in questo punto gli antichi differiscono dai
moderni, e i selvaggi dai civili, infinitamente, e l'utilità del punto d'onore
che fra gli antichi e i selvaggi era somma, fra i moderni e civili è nulla o
quasi nulla, o anche il contrario dell'utilità. Le ragioni eccole.
[2434,2] Che le passioni antiche fossero senza comparazione
più gagliarde delle moderne, e gli effetti loro più strepitosi, più risaltati,
più materiali,
2435 più furiosi, e che però
nell'espression loro convenga impiegare colori e tratti molto più risentiti che
in quella delle passioni moderne, è cosa già nota e ripetuta pp. 76.
sgg. Ma io credo che una differenza notabile bisogni fare tra le varie
passioni, appunto in riguardo alla maggiore o minor veemenza loro fra gli
antichi e i moderni comparativamente; e per comprenderle tutte sotto due capi
generali, io tengo per fermo (come fanno tutti) che il dolore antico fosse di
gran lunga più veemente, più attivo, più versato al di fuori, più smanioso e
terribile (quantunque forse per le stesse ragioni più breve) del moderno. Ma in
quanto alla gioia, ne dubiterei, e crederei che, se non altro in molti casi,
ella potesse esser più furiosa e violenta presso i moderni che presso gli
antichi, e ciò non per altro se non perch'ella oggidì è appunto più rara e breve
che fosse mai, come lo era nè più nè meno il dolore anticamente. Questa
osservazione potrebbe forse servire al tragico, al pittore, ed altri imitatori
delle passioni. Vero è che nel fanciullo e la gioia e il dolore sono del pari
2436 più violenti, ed altresì per la stessa ragione
più brevi che nell'adulto. Ed è vero ancora che l'abitudine dell'animo de'
moderni li porta a contenere dentro di se, ed a riflettere sullo spirito, senza
punto o quasi punto lasciarla spargere ed operare al di fuori, qualunque più
gagliarda impressione e affezione. Contuttociò credo che la detta osservazione
possa essere di qualche rilievo, massime intorno alle persone non molto o non
interamente colte e disciplinate, sia nella vita civile, sia nelle dottrine e
nella scienza delle cose e dell'uomo; e intorno a quelle che dall'esperienza e
dall'uso della vita, della società, e de' casi umani non sono {stati} bastantemente ammaestrati ad uniformarsi col
generale, nè accostumati a quell'apatia e noncuranza di se stesso e di tutto il
resto, che caratterizza il nostro secolo. (9. Maggio. 1822.).
[2544,1] Quello ch'altrove ho detto pp. 1624-25 del
modo che in greco si chiama la malattia, cioè debolezza (ἀσϑένεια), si deve anche dire del latino, infirmitas, infirmus. (4. Luglio. 1822.).
{{Così anche languor ec.}}
[2583,1] Adesso chi nasce grande, nasce infelice. Non così
anticamente, quando il mondo abbondava e di pascolo (cioè di spettacolo e
trattenimento), e di esercizio, e di fini, e di premi all'anime grandi. Anzi a
quei tempi era fortuna il nascer grande come oggi il nascer nobile e ricco.
Perocchè siccome nella monarchia quelli che nascono di grande e ricca famiglia,
ricevono le dignità, gli onori, le cariche dalla mano dell'ostetrice (per
servirmi di un'espressione di Frontone), {ad Ver.[Verum] l. 2. ep. 4. p. 121.} così nè
più nè meno accadeva anticamente ai grandi e magnanimi {e
valorosi} ingegni. I quali nelle circostanze, nell'attività e
nell'immensa vita di quei tempi, non potevano mancare di svilupparsi, coltivarsi
e formarsi; e sviluppati, formati e coltivati non potevano mancar di prevalere e
primeggiare; come oggidì possono esser certi di tutto il contrario.
2584 Lascio che quanto gli animi erano più grandi,
tanto meglio erano disposti a godere della vita, la quale in quei tempi non
mancava, e di tanto maggior vita erano
capaci, e quindi di tanto maggior
godimento; e perciò ancora era da riputarsi a vera fortuna e privilegio della
natura il nascer grand'uomo, e s'aveva a considerare come un effettivo e
realizzabilissimo mezzo di felicità: all'opposto di quello che oggi interviene.
(26. Luglio, dì di S. Anna. 1822.).
[2736,1] È cosa indubitata che i giovani, almeno nel presente
stato degli uomini, dello spirito umano e delle nazioni, non solamente soffrono
più che i vecchi (dico quanto all'animo), ma eziandio (contro quello che può
parere, e che si è sempre detto e si crede comunemente), s'annoiano più che i
vecchi, e sentono molto più di questi il peso della vita, e la fatica e la pena
e la difficoltà di portarlo e di strascinarlo. E questa si è una conseguenza dei
principii posti nella mia teoria del
piacere. Perciocchè ne' giovani è
2737 più
vita o più vitalità che nei vecchi, cioè maggior sentimento dell'esistenza e di
se stesso; e dove è più vita, quivi è maggior grado di amor proprio, o maggiore
intensità e sentimento e stimolo {e vivacità} e forza
del medesimo; e dove è maggior grado o efficacia di amor proprio, quivi è
maggior desiderio e bisogno di felicità; e dove è maggior desiderio di felicità,
quivi è maggiore appetito e smania ed avidità e fame {e
bisogno} di piacere: e non trovandosi il piacere nelle cose umane è
necessario che dove n'è maggior desiderio quivi sia maggiore infelicità, ossia
maggior sentimento dell'infelicità; {quivi maggior senso di
privazione e di mancanza e di vuoto; quivi} maggior noia, maggior
fastidio della vita, maggior difficoltà e pena di sopportarla, maggior disprezzo
e noncuranza della medesima. Quindi tutte queste cose debbono essere in maggior
grado ne' giovani che ne' vecchi; siccome
2738 sono,
massime in questa presente mortificazione e monotonia della vita umana, che
contrastano colla vitalità ed energia della giovanezza; in questa mancanza di
distrazioni violente che stacchino il giovine da se medesimo, e lo tirino fuori
del suo interno; in questa impossibilità di adoperare sufficientemente la forza
vitale, di darle sfogo ed uscita dall'individuo, di versarla fuori, e
liberarsene al possibile; in somma in questo ristagno della vita al cuore e alla
mente e alle facoltà interne dell'uomo, e del giovane massimamente.
[2759,2] Chi vuol manifestamente vedere la differenza de'
tempi d'Omero da quelli di Virgilio, quanto ai costumi, e alla
civilizzazione, e alle opinioni che
2760 s'avevano
intorno alla virtù e all'eroismo, {+siccome anche quanto ai rapporti scambievoli delle nazioni, ai diritti e al
modo della guerra, alle relazioni del nimico col nimico;} e chi vuol
notare la totale diversità che passa tra il carattere e l'idea della virtù
eroica che si formarono questi due poeti, e che l'uno espresse in Achille e l'altro in Enea, consideri quel luogo dell'Eneide (X. 521-36.) dov'Enea fattosi sopra Magone che gittandosi in terra e abbracciandogli le
ginocchia, lo supplica miserabilmente di lasciarlo in vita e di farlo cattivo,
risponde, che morto Pallante, non ha
più luogo co' Rutuli alcuna misericordia nè alcun commercio di guerra, e spietatamente pigliandolo per la
celata, gl'immerge la spada dietro al collo per insino all'elsa. Questa scena e
questo pensiero è tolto di peso da Omero, il quale introduce Menelao sul punto di lasciarsi commuovere da simili prieghi, ripreso
da Agamennone, che senza alcuna pietà
uccide il troiano già vinto e supplichevole.
[2987,3] La gioventù non era fra gli antichi un bene inutile,
e un vantaggio di cui niun frutto si potesse cavare, nè la vecchiezza era uno
incomodo e uno
2988 svantaggio che niun bene, {niun comodo,} niun godimento togliesse, e niuna
privazione recasse seco. Quindi e molto meno frequente che a' tempi nostri era
il numero di quelli che in gioventù si uccidevano, e molti più vecchi suicidi si
trovano commemorati nell'antichità che non si veggono al presente. Come dire
Pomponio Attico e molti filosofi
greci e romani. Perocchè al presente le contrarie cagioni producono effetto
contrario. Il giovane moltissimo desidera e nulla ha, neppure ha come distrarre,
divertire, ingannare il suo desiderio, e occupare la sua forza vitale,
adoperarla, sfogarla. Quindi più giovani suicidi oggidì che fra gli antichi non
pur giovani solamente, ma giovani e vecchi insieme. Il vecchio nulla perde per
la vecchiezza, e poco, o meno ferventemente e impetuosamente e smaniosamente,
desidera. Quindi è così raro un vecchio suicida oggidì, che parrebbe quasi
miracolo. E pure il giovane che si uccide, privasi della gioventù, e rinunzia a
una vita, ch'ei si può ancora promettere,
2989 di molti
anni. Il vecchio si priva della vecchiezza (qual privazione Dio buono) e
rinunzia a pochi anni o mesi di vita. Nonpertanto per mille giovani suicidi
appena e forse neanche si troverà oggi un solo vecchio suicida, e questo, se pur
si troverà, sarà forse tale per qualche estrema disgrazia, in qualche caso ove
la vita fosse già disperata, e per salvarsi da una morte più trista, e sicura.
Ma neanche nell'estreme sventure è costume de nostri vecchi il ricorrere
volontariamente alla morte. Applicate queste considerazioni a quello che ho
detto altrove p. 294
p.
2643 circa l'amor della vita nei vecchi, l'amore e la cura della vita
crescenti in proporzione che per l'aumento dell'età scema il valore d'essa vita.
(18. Luglio 1823.).
[3251,1]
3251 Tornando al proposito {debbono} esser, come ho detto, cose osservate queste proporzioni che
passano tra le diverse nature dei climi e i diversi caratteri delle rispettive
pronunzie e geni delle rispettive lingue, ed altresì il modo di queste
proporzioni, cioè il modo in che il clima opera sulle favelle, e da quali
proprietà del clima quali proprietà derivino alle pronunzie e alle lingue. Ma
forse non sarà stato egualmente notato che {trovandosi}
in un medesimo clima {e paese} essere stati in diversi
tempi diversi caratteri di pronunzia e di lingua, queste diversità
corrispondettero sempre alle qualità fisiche degli uomini che ciascuna d'esse
pronunzie e lingue, l'una dopo l'altra usarono, le quali fisiche qualità
variarono secondo le diverse circostanze morali, politiche, religiose,
intellettuali {ec.} che in diverse generazioni in quel
medesimo clima e paese ebber luogo. Ond'è che sebbene il clima meridionale
naturalmente ispira dolcezza ne' caratteri delle pronunzie e de' suoni, tuttavia
suono della lingua greca, e quello della lingua romana, certo più molle che non
era a quel tempo, e che adesso non è, il suono delle
3252 lingue settentrionali, pur fu {molto} men delicato
{e più forte} di quello che oggi si sente nella
nuova lingua dello stesso Lazio e di
Roma e d'italia. E ciò non per
altra {cagione fisica immediata,} se non perchè, stante
le loro circostanze morali e politiche e il lor genere di vita e di costumi, gli
antichi Greci e Romani (il che anche per mille altri segni e notizie si prova)
furono di corpo molto più forti che i moderni italiani non sono. {La stessa pronunzia della
moderna lingua francese (e così delle altre) si è addolcita coi costumi
della nazione, come dice Voltaire ec. giacchè un dì si pronunziava come oggi si scrive
ec.} Ond'è che siccome la pronunzia francese per la
geografica posizione e natural qualità del suo clima, ch'è mezzo tra meridionale
e settentrionale, tiene quasi tanto delle pronunzie del sud quanto di quelle del
nord, {#1.
pendendo però più al sud.} ed è un temperamento dell'une e
dell'altre e un anello che queste a quelle congiunge, {#2. Puoi vedere la pp. 2989 -
91.,} così il carattere delle pronunzie greca e latina,
tiene, non dirò già il proprio mezzo tra il settentrionale e il meridionale, ma
tra il carattere dell'italiana, ch'è l'uno estremo delle moderne pronunzie
meridionali, e l'estremo assoluto della dolcezza; e quello della pronunzia
settentrionale meno aspra e che più
3253 s'accosti a
dolcezza, e sia per questa parte l'estremo delle pronunzie settentrionali, alle
meridionali più vicino. O volessimo piuttosto dire che le pronunzie greca e
latina sieno medie tra l'italiana {+ch'è
la più meridionale,} e la francese, che non è nè {ben} meridionale nè {per anco}
settentrionale. {+Le lingue orientali,
{la greca moderna, la turca,} quelle de'
selvaggi e indigeni d'America sotto la zona, parlate
e scritte in climi assai più meridionali che quel
d'italia o di Spagna, sono
tuttavia molto men dolci dell'italiana e della spagnuola, e taluna anche
delle settentrionali europee. Ciò per la rozzezza o per la acquisita
barbarie de' popoli che l'usano o che l'usarono, per li costumi aspri e
crudeli ec. antiche o moderne ch'esse lingue si considerino.}
(23. Agos. 1823.).
[3291,1]
Alla p. 3282.
Bisogna distinguere tra egoismo e amor proprio. Il primo non è che una specie
del secondo. L'egoismo è quando l'uomo ripone il suo amor proprio in non pensare
{che} a se stesso, non operare che per se stesso
immediatamente, rigettando l'operare per altrui con intenzione lontana e non ben
distinta dall'operante, ma reale, saldissima e continua, d'indirizzare quelle
medesime operazioni a se stesso come ad ultimo ed unico vero fine, {+il che l'amor proprio può ben fare, e
fa.} Ho detto altrove p. 1382
pp. 2410-12
pp. 2736-38
pp.
2752-55 che l'amor proprio è tanto maggiore nell'uomo quanto in esso è
maggiore la vita o la vitalità, e questa è tanto maggiore quanto è maggiore la
forza {+e l'attività dell'animo, e del
corpo ancora.} Ma questo, ch'è verissimo dell'amor proprio, non è nè
si deve intendere dell'egoismo. Altrimenti i vecchi, i moderni, gli uomini poco
sensibili e poco immaginosi sarebbero meno egoisti dei {fanciulli e dei} giovani, degli antichi, degli uomini sensibili e di
forte immaginazione.
3292 Il che si trova essere
appunto in contrario. Ma non già quanto all'amor proprio. Perocchè l'amor
proprio è veramente maggiore assai ne' fanciulli e ne' giovani che ne' maturi e
ne' vecchi, maggiore negli uomini sensibili e immaginosi che ne' torpidi. {Che l'amor proprio sia maggiore ne'
fanciulli e ne' giovani che nell'altre età, segno n'è quella infinita e
sensibilissima tenerezza verso se stessi, e quella suscettibilità e
sensibilità e delicatezza intorno a se medesimi che coll'andar degli anni e
coll'uso della vita proporzionatamente si scema, e in fine si suol
perdere.} I fanciulli, i giovani, gli uomini sensibili sono assai più
teneri di se stessi che nol sono i loro contrarii. Così generalmente furono gli
antichi rispetto ai moderni, e i selvaggi rispetto ai civili, perchè più forti
di corpo, più forti ed attivi e vivaci d'animo e d'immaginazione (sì per le
circostanze fisiche, sì per le morali), meno disingannati, e insomma
maggiormente e più intensamente viventi. {Nella stessa guisa discorrasi dei deboli rispetto ai forti e simili.}
(Dal che seguirebbe che gli antichi fossero stati più infelici generalmente de'
moderni, secondo che la infelicità è in proporzion diretta del maggiore amor
proprio, come altrove ho mostrato: p. 1382
pp. 2410-11
pp. 2752-55
pp. 2736-37
pp.
2495-96
p. 2754 ma l'occupazione {e l'uso} delle proprie forze, la distrazione e simili
cose, essendo state infinitamente maggiori in antico che oggidì; e il maggior
grado di vita esteriore essendo stato anticamente più che in
3293 proporzione del maggior grado di vita interiore, resta, come ho
in mille luoghi provato, che gli antichi fossero anzi mille volte meno infelici
de' moderni: e similmente ragionisi de' selvaggi e de' civili: non così de'
giovani e de' vecchi oggidì, perchè a' giovani presentemente è interdetto il
sufficiente uso delle proprie forze, e la vita esterna, della quale tanto ha
quasi il vecchio oggidì quanto il giovane; per la quale e per l'altre cagioni da
me in più luoghi accennate, maggiore presentemente è l'infelicità del giovane
che del vecchio, come pure altrove ho conchiuso pp. 277-80
pp. 2736-38
pp.
2752-55).
[3482,1] Ne' tragici greci (così negli altri poeti o
scrittori antichi) non s'incontrano quelle minutezze, quella particolare e
distinta descrizione e sviluppo delle passioni e de' caratteri che è propria de'
drammi (e così degli altri poemi e componimenti) moderni, non solo perchè gli
antichi erano molto inferiori a' moderni nella cognizione del cuore umano, il
che a tutti è noto, ma perchè gli antichi nè valevano gran fatto nel dettaglio,
nè lo curavano, anzi lo disprezzavano e fuggivano, e tanto era impropria degli
antichi l'esattezza e la minutezza quanto ella è propria e caratteristica de'
moderni. Ciò nel modo e per le ragioni da me spiegate altrove pp. 1482-83.
[3520,1] Tre stati e condizioni della vecchiezza rispetto
alla giovanezza ed alle altre età. {+Puoi vedere la p. 3846.}1.o
Quando il genere umano era appresso a poco incorrotto, o certo proclive ed
abituato generalmente alla virtù, e quando l'esperienza insegnava all'individuo
le cose utili {a se ed agli altri,} senza disingannarlo
delle oneste, e delle inclinazioni virtuose, nobili, magnanime
3521 ec.; nè gli dimostrava la perversità degli uomini,
che ancora non erano perversi, nè lo disgustava e faceva pentire della virtù,
che ancor non era, se non altro, dannosa, e ch'egli per naturale istituto aveva
intrapreso fin da principio di seguire, e seguiva; allora i vecchi, come più
ricchi d'esperienza e più saggi, erano più venerabili e venerati, più stimabili
e stimati, ed anche in molte parti più utili a' loro simili {e compagni} ed al corpo della società, che non i giovani e quelli
dell'altre età. 2. Cominciata a corrompere la società umana e giunta la
corruzione al mezzo, o più oltre, l'esperienza dovette fare tutto il contrario
delle cose dette di sopra, e distruggendo le buone disposizioni naturali, e le
qualità contratte ne' primi anni, render l'individuo tanto peggiore di
carattere, d'animo, di costumi, di qualità, di azioni o di desiderii, quanto più
egli avesse sperimentato. Allora dunque i vecchi furono (nella gran società)
molto meno stimabili e stimati, quanto alla virtù ed all'onestà, che i giovani
{ec.}; molto più tristi, svergognati,
3522 finti, coperti, furbi, traditori, malvagi insomma,
{alieni dal ben fare,} e dannosi, o inclinati a far
danno, a' compagni e alla società. Laddove quei dell'altre età, e massime i
giovani, furono molto più degni di stima e molto più utili o men dannosi, perchè
meno corrotti; più buoni perchè più naturali; più proprii a ben fare, più
misericordiosi, più benefici, perchè men freddi, più generosi per natura
dell'età, men guasti dall'esempio {e dalle cattive
massime,} o non ancor guasti ec. 3. Passata che fu la corruzione
sociale di gran lunga oltre il mezzo, e giunta, si può dire, al suo colmo, nel
quale oggidì si trova e riposa, ed è, a quel che sembra per riposar lungamente o
in perpetuo; non fu e non è bisogno di molta nè lunga esperienza nè d'assai mali
esempi per corrompere negl'individui la sempre buona natura ed indole primitiva;
nascono, si può dir, gli uomini già corrotti; il primitivo, e seco la virtù ed
ogni sorta di bontà effettiva, è sparito quasi onninamente dal mondo; il
giovane, anzi pure il fanciullo, in brevissimo tratto è maturo e vecchio di
malizia,
3523 di frode, di malvagità, e conosce il
mondo assai più che i vecchi stessi per lo passato non facevano ec. Quindi per
ben contrarie cagioni {+e con ben
contrari effetti veggasi la (p.
3517-8.)} son tornate le cose appresso a poco nel loro stato
primiero. I giovani massimamente, sono ben più odiosi e dannosi de' vecchi,
perchè in essi alla disposizione intera e alla decisa volontà di mal fare si
aggiunge il potere e la facoltà; e l'ardor giovanile, e la forza e l'impeto e il
fiore delle passioni, che un dì conduceva gli uomini al bene, ora conducendogli
dirittamente e pienamente e decisamente al male, rende gl'individui tanto più
{cattivi,} perniciosi ed odiabili, quanto esso
ardore è più grande. Laddove i vecchi sono, non dirò già più stimabili nè
venerabili, ma più tollerabili e meno da essere odiati e fuggiti che quelli
dell'altre età, siccome meno potenti di mal fare, benchè a ciò solo inclinati; e
siccome anche meno desiderosi di nuocere e di far bene a se e male altrui,
perchè più freddi, e di più sedate passioni, e dalla lunga esperienza più
disingannati
3524 de' piaceri e de' vantaggi di questa
vita, e fatti meno avidi, e di desiderii men vivi: essendo la freddezza e
l'esperienza che un dì furon cagione d'ogni male e malvagità, divenute oggi
cagione, non già di bene nè di bontà, ma di minor male e cattiveria, che non il
calor naturale e l'inesperienza che già furon cagioni principali di bontà, ed or
sono cagioni di maggiore ribalderia. Da principio dunque fu la vecchiezza {rispetto} alla gioventù (e proporzionatamente all'altre
età), come il meglio al bene; poscia come il cattivo al buono; in ultimo è (e
probabilmente sarà sempre) come il manco male al male, o come il cattivo al
pessimo.
[3613,1] Da tutte queste considerazioni risulta che
l'iliade oltre all'essere il più perfetto poema epico quanto
al disegno, in contrario di quel che generalmente si stima, lo è ancora quanto
ai caratteri principali, perchè questi sono più interessanti che negli altri
poemi. E ciò perchè sono più amabili. E sono più amabili perchè più conformi a
natura, più umani, e meno perfetti che negli altri poemi. Gli autori de' quali,
secondo la misera spiritualizzazione delle idee che da Omero in poi {hanno} prodotta
e sempre vanno accrescendo i progressi della civiltà e dell'intelletto umano,
hanno stimato che i loro Eroi dovessero eccedere il comune non nelle qualità che
natura {+mediocremente dirozzata e
indirizzata} produce {e promuove} (le quali
dalle nostre opinioni sono in gran parte e ben sovente considerate per vizi e
difetti), ma in quelle che nascono e sono nutrite dalla civiltà e dalla coltura
e dalle cognizioni e dall'esperienza
3614 e dall'uso
degli affari e della vita sociale, e dalla sapienza e saviezza, {+e dalla prudenza} e dalle massime
morali e insomma dalla ragione. Or quelle qualità sono amabili, queste
stimabili, e sovente inamabili ed anche odiose. Gli Eroi
dell'iliade sono grandi uomini secondo natura, gli eroi degli
altri poeti epici sono grandi secondo ragione; le qualità di quelli sono più
materiali, esteriori, appartenenti al corpo, sensibili; le qualità di questi
sono tutte spirituali, interiori, morali, proprie dell'animo, e che dall'animo
solo hanno ad esser concepite, {e valutate.} Dico
tutte, e voglio intender le principali, e quelle che formano propriamente e
secondo l'intenzion de' poeti, il carattere di tali Eroi; perocchè se i poeti
v'aggiunsero anche i pregi più esteriori e corporali, gli aggiunsero come
secondarii e di minor conto, e vollero e ottennero che nell'idea de' lettori
essi fossero offuscati dai pregi morali, e poco considerati a rispetto di
questi; e in verità essi son quasi dimenticati, e, come ho detto in proposito di
Enea, paion quasi fuor di luogo, e
poco convenienti con gli altri pregi, o pare fuor di luogo
3615 il farne menzione e il fermarcisi, come cose degne da esser
notate ed espresse. {Queste
considerazioni hanno tanto maggior forza in favore di Omero, e in favore della nostra opinione che vuol
che si segua il suo esempio, quanto che è natura della poesia il seguir la
natura, e vizio grandissimo e dannosissimo anzi distruttivo d'ogni buono
effetto, e contraddittorio in lei, si è il preferire alla natura la ragione.
La mutata qualità dell'idea dell'Eroe perfetto ne' poemi posteriori
all'iliade, proviene da quello stesso principio che poi
crescendo, ha resa la poesia allegorica, metafisica ec. e corrottala del
tutto, e resala non poesia, perchè divenuta seguace onninamente della
ragione, il che non può stare colla sua vera essenza, ma solo col discorso
misurato e rimato ec. Puoi vedere la p. 2944.sgg.} E sembra, ed è vero, che i poeti l'han fatto
più tosto per usanza e per conformarsi alle regole ed agli esempi, che perchè
convenisse al loro proposito e al loro intento, e perchè la natura e lo spirito
de' loro poemi e de' loro personaggi lo richiedesse, anzi lo comportasse. Or,
siccome l'uomo in ogni tempo, malgrado qualsivoglia spiritualizzazione e
qualunque alterazione della natura, sono sempre mossi {e
dominati} dalla materia assai più che dallo spirito, ne segue che i
pregi materiali e gli Eroi, dirò così, materiali dell'iliade,
riescano e sieno per sempre riuscire più amabili e quindi più interessanti degli
Eroi spirituali e de' pregi morali divisati negli altri poemi epici. E che Omero, ch'è il cantore e il
personificatore della natura, sia per vincer sempre gli altri epici, che hanno
voluto essere (qual più qual meno) i cantori e i personificatori della ragione.
(Perocchè veramente gli Eroi dell'iliade sono il tipo del
perfetto grand'uomo naturale, e quelli degli altri poemi epici
3616 del perfetto grand'uomo ragionevole, il quale in
natura e secondo natura, è forse ben sovente il più piccolo uomo).
[3638,3]
Primos in orbe deos fecit timor.
*
Intorno a ciò
altrove p. 2208
pp. 2387-89. Or si aggiunga, che siccome quanto è maggior l'ignoranza
tanto è maggiore il timore, e quanta più la barbarie tanta {è} più l'ignoranza, però si vede che le idee de' più barbari e
selvaggi popoli circa la divinità, se non forse in alcuni climi tutti piacevoli,
sono per lo più spaventose ed odiose, come di esseri tanto di noi invidiosi e
vaghi del nostro male quanto più forti di noi. Onde le immagini ed idoli che
costoro si fabbricano de' loro Dei, sono mostruosi e di forme terribili, non
solo per lo poco artifizio di chi fabbricolle, ma eziandio perchè tale si fu la
intenzione e la idea dell'artefice. E vedesi questo medesimo anche in molte
nazioni che benchè lungi da civiltà pur non sono senza cognizione ed
3639 uso sufficiente di arte in tali ed altre opere di
mano ec. come fu quella de' Messicani, {#1.
i cui idoli più venerati eran pure bruttissimi e terribilissimi d'aspetto
{come} d'opinione. Molte nazioni selvagge, o
ne' lor principii, riconobbero per deità questi o quelli animali più forti
dell'uomo, e forse tanto più quanto maggiori danni ne riceveano, e maggior
timore ne aveano, e minori mezzi di liberarsene, combatterli, vincerli ec.
La forza superiore all'umana è il primo attributo riconosciuto dagli uomini
nella divinità. V. p.
3878.} E certo egli è segno di civiltà molto cresciuta e bene
istradata il ritrovare in una nazione e la idea e le immagini o simboli o
significazioni della divinità, piacevoli o non terribili. Come fu in
Grecia, sebben molto a ciò dovette contribuire la
piacevolezza e moderatezza di quel clima, che nulla o quasi nulla offre mai di
terribile. Perocchè le forze della natura vedute negli elementi ec.,
riconosciute per superiori di gran lunga a quelle degli uomini, e, a causa
dell'ignoranza, credute esser proprie di qualche cosa animata e capace, come
l'uomo, di volontà, poichè è capace di movimento, di muovere ec.; sono state le
cose che hanno suscitata l'idea della divinità (perchè gli uomini amano e son
soliti di spiegar con un mistero un altro mistero, e d'immaginar cause
indefinibili degli effetti che non intendono, e di rassomigliare l'ignoto al
noto; come le cause ignote de' movimenti naturali, alla volontà ed all'altre
forze note che producono i movimenti animali ec.), ond'è ben naturale che tale
3640 idea corrispondesse alla natura di tali
effetti, e fosse terribile se terribili, moderata se moderati, piacevole se
piacevoli ec. e più e meno secondo i gradi ec. Se non che nell'idea primitiva
dovette sempre prevalere o aver gran parte il {terribile,} perchè essendo l'uomo naturalmente inclinato più al
timore che alla speranza, {#1. come altrove
in più luoghi pp. 458-59
pp. 1303-304
pp. 2206-208
pp. 3433-35} una forza superiore
affatto all'umana, dovette agl'ignoranti naturalmente aver sempre del
formidabile. Oltre che in ogni paese v'ha tempeste, benchè più o meno terribili
ec. E tra le varie divinità di una nazione che ne riconosca più d'una, di una
mitologia ec., le più antiche son certamente le più formidabili e cattive, e le
più amabili e benefiche ec. son certamente le più moderne. {Le nazioni più civilizzate adoravano gli animali utili,
domestici, mansueti ec. come gli egizi il bue, il cane, o loro immagini. Le
più rozze, gli animali più feroci, o loro sembianze (v. la parte 1. della Cron. del
Peru di Cieça,
cap. 55. fine. car. 152. p. 2.). Quelle p. e. il sole o solo o principalmente, queste, o sola o principalmente la tempesta ovvero ec. ec.
{+E a proporzione della rozzezza
o civiltà, gli Dei ec. malefici e benefici erano stimati più o men
principali e potenti, ed acquistavano o perdevano nell'opinione e
religion del popolo, e nelle mitologie, e riti ec.}
V. p. 3833.} Come della
mitologia greca e latina ec. senza dubbio si dee dire. Infatti anche
indipendentemente da questa osservazione, s'hanno argomenti di fatto per
asserire che {p. e.}
Saturno, Dio
crudele e malefico, {#2. e rappresentato
per vecchio, brutto, e d'aspetto come d'indole e di opere, odioso,} fu
l'uno de' più antichi Dei della Grecia o della nazione
onde venne la greca e latina mitologia, e più antico di Giove ec. Effettivamente la
detta mitologia favoleggia che Saturno regnò prima di Giove,
3641 e da costui fu privato del regno. La qual favola o volle
espressamente significare la mutazione delle idee de' greci ec. circa la
divinità, e il loro passaggio dallo spaventoso all'amabile ec. cagionato dal
progresso della civiltà, e decremento dell'ignoranza; o (più verisimilmente)
ebbe origine e occasione da questo passaggio, di essere inventata
naturalmente.
[3676,1]
3676
Alla p. 3349.
Non è da trascurare una differenza che si trova fra il carattere, {il costume ec.} degli antichi settentrionali e abitatori
de' paesi freddi, e quel de' moderni; differenza maggior di quella che suol
trovarsi generalmente dagli antichi ai moderni. Perocchè gli antichi
settentrionali ci sono dipinti dagli storici per ferocissimi, inquietissimi,
attivissimi non solo di carattere, ma di fatto, {+per impazienti del giogo, sempre vaghi di novità, sempre
macchinanti, sempre ricalcitranti e insorgenti,} e per quasi
assolutamente indomabili e indomiti. Germani, Sciti ec. I moderni al contrario
sono così domabili, che certo niun popolo meridionale lo è altrettanto. E tanto
son lungi dalla ferocia, che non v'ha gente più buona, più mansueta, più
ubbidiente, più tollerante di loro. E se v'ha parte
d'europa dove meno si macchini, e si ricalcitri al
comando, e si desideri novità e si odi la soggezione, ciò è per l'appunto fra i
popoli settentrionali. In questa tanta diversità di effetti hanno certamente
gran parte da un lato la diversità de' governi antico e moderno, dall'altro la
poca coltura del popolo nelle regioni settentrionali. Ma grandissima parte v'ha
certamente ancora la differenza materiale della vita. Gli antichi
3677 settentrionali, mal difesi contra le inclemenze
dell'aria dalle spelonche, proccurantisi il vitto colla caccia (Georg. 3. 370. sqq.
etc.), alcuni anche erranti e senza tetto, come gli Sciti ec., erano
anche più ὑπαίθριοι di vita, che non sono i meridionali oggidì. Introdotti gli
usi e i comodi sociali, i popoli {civilizzati} del Nord
divennero naturalmente i più casalinghi della terra. Niuna cosa rende
maggiormente quiete e pacifiche sì le nazioni che gl'individui, niuna men
cupidi, anzi più nemici di novità, che la vita casalinga e le abitudini
domestiche, le quali affezionano al metodo, rendono contenti del presente ec.
come ho detto ne' pensieri citati in quello a cui questo si riferisce pp. 2752-55
pp. 2926-28. Quindi è
seguíto che non per sole circostanze passeggere e accidentali, come la maggiore
o più divulgata e comune coltura di spirito ec. ma naturalmente e costantemente,
nel sistema di vita sociale, e dopo resa la civiltà comune al nord come al sud,
i popoli del mezzogiorno, come meno casalinghi, sieno
stati, sieno, ed abbiano a essere più inquieti e più attivi di quelli del settentrione, sì d'animo, sì di fatti,
3678 al contrario di quello che porterebbe la pura
natura degli uni e degli altri comparativamente considerata. Ond'è che i
settentrionali moderni e civili sieno in verità molto più diversi e mutati da'
loro antichi, che non sono i meridionali dagli antichi loro, sì di carattere, sì
di usi, di azioni ec.
[3909,2]
Alla p. 3310.
Quanto influisca sempre l'immaginazione, l'opinione, la prevenzione ec.
sull'amore anche corporale, sui sentimenti che un uomo prova in particolare
verso una donna, o una donna verso un uomo, è cosa notissima. E in particolare
ha forza sull'amore, non solo platonico o sentimentale, ma eziandio corporale
verso gl'individui particolari, tutto ciò che ha del misterioso, e che serve a
rendere poco noto all'amante l'oggetto del suo amore, e quindi a dar campo alla
sua immaginazione di fabbricare, per dir così, intorno ad esso oggetto. Perciò
moltissimo contribuisce all'amore e al desiderio anche corporale, tutto ciò che
ha relazione ai pregi {+o alle qualità
comunque amabili} dell'animo nell'oggetto amabile, e in particolare un
certo carattere profondo, malinconico, sentimentale, o un mostrar di rinchiudere
in se più che non apparisce di fuori. Perocchè l'animo e le sue qualità, e
massimamente queste che ho specificate, son cose occulte, ed ignote all'altre
persone, e dan luogo in queste all'immaginare, ai concetti vaghi e
indeterminati; i quali concetti e le quali immaginazioni congiungendosi al
natural desiderio che porta l'individuo dell'un sesso verso quello dell'altro,
danno un infinito risalto a questo desiderio, accrescono strabocchevolmente
3910 il piacere che si prova nel soddisfarlo; le idee
misteriose e naturalmente indeterminate, che hanno relazione all'animo
dell'oggetto amato, che nascono dalle qualità e parti apparenti del suo spirito,
e massime se da qualità che abbiano del profondo e del nascosto e dell'incerto,
e che promettano o dimostrino {+altre lor
parti o} altre qualità occulte ed amabili ec., queste idee dico,
congiungendosi alle idee chiare e determinate che hanno relazione al materiale
dell'oggetto amato, e comunicando loro del misterioso e del vago, le rendono
infinitamente più belle, e il corpo della persona amata o amabile, infinitamente
più amabile, pregiato, desiderabile; e caro quando si ottenga.
[3921,1]
3921 Dico altrove in più luoghi p. 1382
pp. 2410-14
pp. 2736-39
pp.
3291. sgg.
pp. 3835-36
p.
3906 che gli uomini e i viventi più forti o per età o per complessione
{o per clima} o per qualunque causa, abitualmente o
attualmente o comunque, avendo più vita ec. hanno anche più amor proprio ec. e
quindi sono più infelici. Ciò è vero per una parte. Ma essi sono anche tanto più
capaci e di azion viva ed esterna, e di piaceri {forti
e} vivi. Quindi tanto più capaci di viva distrazione ed occupazione, e
di poter fortemente divertire l'operazione {interna}
dell'amor proprio e del desiderio di felicità sopra loro stessi e sul loro
animo. La qual potenza ridotta in atto è uno de' principalissimi mezzi, anzi
forse il principal mezzo di felicità o di minore infelicità conceduto ai
viventi. (Io considero quelli che si chiamano piaceri come utili e conducenti
alla felicità, solo in quanto distrazioni forti, e vivi divertimenti dell'amor
proprio, (chè infatti essi non sono utili in altro modo) e tanto più forti
distrazioni, quanto più vivi e forti sono essi piaceri, così chiamati, e
maggiore il loro essere di piacere, e la sensazion loro più viva. I deboli sono
incapaci di piaceri forti, o solo di rado e poco frequenti, e men forti sempre
che non ne provano i vigorosi, perchè la lor natura non ha la facoltà o di
sentire più che tanto vivamente, o di sentire piacevolmente quando le sensazioni
sieno più che tanto vive.) Se l'uomo forte in qualunque modo, è privo, per
qualunque cagione, di piaceri, o di piaceri abbastanza forti, e di sensazioni
vive, e di poter mettere in opera la sua facoltà di azione, o di metterla in
opera più che il debole, egli è veramente più infelice che il debole, e soffre
3922 di più. Perciò, fra le altre cose, nel
presente stato delle nazioni e quanto alla sua natura, i giovani sono
generalmente più infelici dei vecchi, e questo stato è più conveniente e buono
alla vecchiezza che alla giovanezza. L'uomo forte è meno infelice del debole in
uguali dispiaceri e dolori; più infelice s'egli è privo di piaceri, o di piaceri
più vivi {e frequenti} che non son quelli del debole.
Egli {è} più atto a soffrire, e meno atto a non godere;
o vogliamo dire men disadatto all'uno, e più disadatto all'altro.
[4185,2] Pare affatto contraddittorio nel mio sistema sopra
la felicità umana, il lodare io sì grandemente l'azione, l'attività,
l'abbondanza della vita, e quindi preferire il costume e lo stato antico al
moderno, e nel tempo stesso considerare come il più felice o il meno infelice di
tutti i modi di vita, quello degli uomini i più stupidi, degli animali meno
animali, ossia più poveri di vita, l'inazione e la infingardaggine dei selvaggi;
insomma esaltare sopra tutti gli stati quello di somma vita, e quello di tanta
morte quanta è compatibile coll'esistenza animale. Ma in vero queste due cose si
accordano molto bene insieme, procedono da uno stesso principio, e ne sono
conseguenze necessarie non meno l'una
4186 che l'altra.
Riconosciuta la impossibilità tanto dell'esser felice, quanto del lasciar mai di
desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza
della vita dell'anima ad un fine impossibile a conseguirsi; riconosciuto che
l'infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro nè
deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il
suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto
maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più
sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado
possibile d'infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta
tendenza. Le specie e gl'individui {animali} meno
sensibili, {men vivi} per natura loro, hanno il minor
grado possibile di tal sentimento. Gli stati di animo meno sviluppato, e quindi
di minor vita dell'animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli
stati umani. Tale è quello del primitivo o selvaggio. Ecco perchè io preferisco
lo stato selvaggio al civile. Ma incominciato ed arrivato fino a un certo segno
lo sviluppo dell'animo, è impossibile il farlo tornare indietro, impossibile,
tanto negl'individui che nei popoli, l'impedirne il progresso. Gl'individui e le
nazioni d'europa e di una gran parte del mondo, hanno da
tempo incalcolabile l'animo sviluppato. Ridurli allo stato primitivo e selvaggio
e[è] impossibile. Intanto dallo
4187 sviluppo e dalla vita del loro animo, segue {una} maggior sensibilità, quindi un maggior sentimento
della suddetta tendenza, quindi maggiore infelicità. Resta un solo rimedio: La
distrazione. Questa consiste nella maggior somma possibile di attività, di
azione, che occupi e riempia le sviluppate facoltà e la vita dell'animo. Per tal
modo il sentimento della detta tendenza sarà o interrotto, o quasi oscurato,
confuso, coperta e soffocata la sua voce, ecclissato. Il rimedio è ben lungi
dall'equivalere allo stato primitivo, ma i suoi effetti sono il meglio che
resti, lo stato che esso produce è il miglior possibile, da che l'uomo è
incivilito. - Questo delle nazioni. Degl'individui similmente. P. e. il più
felice italiano è quello che per natura {e per abito} è
più stupido, meno sensibile, di animo più morto. Ma un italiano che o per natura
o per abito abbia l'animo vivo, non può in modo alcuno acquistare o ricuperare
la insensibilità. Per tanto io lo consiglio di occupare quanto può più la sua
sensibilità. - Da questo discorso segue che il mio sistema, in vece di esser
contrario all'attività, allo spirito di energia che ora domina una gran parte di
europa, {+agli
sforzi diretti a far progredire la civilizzazione in modo da render le
nazioni e gli uomini {sempre} più attivi e più
occupati,} gli è anzi direttamente e fondamentalmente favorevole
(quanto al principio, dico, di attività {+e quanto alla civilizzazione considerata come aumentatrice di occupazione,
di movimento, di vita reale, di azione, e somministratrice dei mezzi
analoghi}), non ostante e nel tempo stesso che esso sistema considera
lo stato selvaggio, l'animo il meno sviluppato, il meno sensibile, il meno
attivo, come la miglior condizione possibile
4188 per
la felicità umana. (Bologna 13. Luglio
1826.).
[4256,1] È molto notabile nella considerazione comparativa
delle antiche e delle moderne nazioni civili, che quelle furono tutte quante di
situazione meridionali. Dell'Italia non era ben civile
che la parte meridionale. Del resto dell'europa, la
grecia sola. Dell'Asia, solo
il mezzodì, sì quello civilizzato dai greci, e sì
l'India, la Persia ec.
Dell'Affrica non parlo, la quale è meridionale tutta.
Or questo doveva necessariamente produrre, e produsse, una grandissima
differenza, sì nei costumi, nei modi del vivere, negli esercizi, nelle
instituzioni pubbliche e private, sì nei caratteri dei popoli civili e della
civiltà antica, dai costumi, dai caratteri, dalla civiltà moderna. Perchè,
secondo quella verissima osservazione già fatta da altri, che la civiltà è
andata sempre, e va tuttavia progredendo dal sud al nord, ritirandosi da quello;
i popoli civili moderni sono tutti settentrionali, o più settentrionali che gli
antichi; o certo risedendo, come è manifesto, la maggior civiltà moderna nel
settentrione (ciò si vede anche in America), il resto dei
popoli più o manco civili, pigliano dai settentrionali il carattere della lor
civiltà. E in somma la civiltà antica fu una civiltà meridionale, la nostra è
una civiltà settentrionale. Proposizione che siccome a prima vista si riconosce
per verissima moralmente, così nè più nè meno è vera letteralmente presa, e
geograficamente. Differenza del resto grandissima e sostanzialissima, se non
principale, e includente in se tutte le altre. L'antichità medesima e la maggior
naturalezza degli antichi, è una specie di meridionalità nel tempo. (14.
Marzo. 1827. Recanati.).
[4281,3]
Alla p. 4255.
principio. Vir gente et fama nobilis,
*
dice il
Reimar,
Praefat. ad Dion. §. 6, di Giovanni Leunclavio, famoso erudito
tedesco del secolo 16.o, quem
merito admiratur Marquardus Freherus in epistola
dedicatoria ad Leunclavii Jus Graeco - Romanum quod inter varias
peregrinationes, in multis principum aulis, legationibus et negotiis
occupatus, tot ac tanta opera summa accuratione ediderit, quot et
quanta quis otiosus et huic uni rei operatus vix proferret in
lucem.
*
Le soprascritte pp. 4254-55
osservazioni del Chesterfield spiegano
questo fenomeno, ripetuto del resto assai spesso; e notato colla stessa
ammirazione da molti, in molti e molti altri; e certamente non raro. Esse
spiegano il simile e maggior fenomeno di Cicerone tra gli antichi, di Federico di Prussia tra i moderni, e di tanti altri tali. A segno che
sarà forse più difficile il trovare un letterato, altronde ozioso e disoccupato,
che abbia molto scritto e con accuratezza grande, di quello che un letterato
che, occupato d'altronde, abbia prodotto molte e studiate opere. Certo di questi
non è difficile a trovarne, e ciò conferma le osservazioni del Chesterfield; secondo le quali, le
stesse occupazioni di siffatti uomini, debbono servire a render ragione della
moltitudine e dell'accuratezza dei loro lavori, e a scemarne la meraviglia,
mostrandole occasionate da un abito di attività prodotto o sostenuto da esse
occupazioni; attività tanto maggiore {e più viva ed
acuta,} quanto la copia e la folla {e
l'assiduità} di esse occupazioni era più grande.
(Recanati. 17. Aprile. Martedì di Pasqua.
1827.). Esempio mio,
4282 per lo più ozioso,
ed inclinato all'inerzia, o per natura o per abito; pure in mezzo a questa
inazione profonda, un giorno che io abbia occasione di adoperarmi, e molte cose
da fare, non solo trovo tempo da sbrigar tutto, ma me ne avanza, e in
quell'avanzo, io provo (e m'è avvenuto più volte) un vero bisogno, una smania,
di far qualche cosa, un orrore del non far nulla, che mi pare incomportabile,
come se io non fossi avvezzo a passar le ore, e per così dire i mesi, nella mia
stanza colle braccia in croce. (Recanati. 17. Apr.
Martedì di Pasqua. 1827.).
[4289,2] Addolcendosi i costumi, diffondendosi le cognizioni
e la coltura delle maniere nelle classi inferiori, avanzandosi la civiltà,
veggiamo che i grandi delitti {o} spariscono, o si
fanno più rari. Se mancati i grandi delitti e i grandi vizi, potranno aver luogo
le grandi virtù, le grandi azioni, questo è un problema, che l'effetto e
l'esperienza della civilizzazion presente deciderà per la prima volta. -
Parlando con un famoso ed eloquente avvocato napoletano, il Baron Poerio, che ha avuto a
trattare un gran numero di cause criminali nella capitale e nelle provincie del
Regno di Napoli, ho dovuto ammirare in quel popolo
semibarbaro {o semicivile piuttosto,} una quantità di
delitti atroci che vincono l'immaginazione, una quantità di azioni eroiche di
virtù (spesso occasionate da quei medesimi delitti), che esaltano l'anima la più
fredda (come è la mia). Certo niente o ben poco di simile nelle parti men
barbare dell'italia, e
4290 nel
resto d'europa, nè per l'una nè per l'altra parte.
(Firenze. 18. Sett. 1827.)
[4289,1] Ci resta ancora molto a ricuperare della civiltà
antica, dico di quella de' greci e de' romani. Vedesi appunto da quel tanto
d'instituzioni e di usi antichi che recentissimamente si son rinnovati: le
scuole e l'uso della ginnastica, l'uso dei bagni e simili. Nella educazione
fisica della gioventù e puerizia, nella dieta corporale della virilità e d'ogni
età dell'uomo, in ogni parte dell'igiene pratica, in tutto il fisico della
civiltà, {+v. p. 4291.} gli antichi ci sono ancora
d'assai superiori: parte, se io non m'inganno, non piccola e non di poco
momento. La tendenza di questi ultimi anni, più decisa che mai, al miglioramento
sociale, ha cagionato e cagiona il rinnovamento di moltissime cose antiche, sì
fisiche, sì politiche e morali, abbandonate e dimenticati[dimenticate] per la barbarie, da cui non siamo ancora del
tutto risorti. Il presente progresso della civiltà, è ancora un risorgimento;
consiste ancora, in gran parte, in ricuperare il perduto. (18. Sett.
1827.)
[3435,1] L'immaginazione e le grandi illusioni onde gli
antichi erano governati, e l'amor della gloria che in lor bolliva, li facea
sempre mirare alla posterità ed all'eternità, e {cercare} in ogni loro opera la perpetuità {+e proccurar sempre l'immortalità loro e delle opere
loro.} Volendo onorare un defonto[defunto] innalzavano un monumento che contrastasse coi secoli, e che
ancor dura forse, dopo migliaia d'anni. Noi spendiamo sovente nelle stesse
occasioni quasi altrettanto in un apparato funebre, che dopo il dì dell'esequie
si disfa, e non ne resta vestigio. La portentosa solidità delle antiche
fabbriche d'ogni genere, fabbriche che ancor vivono, mentre le nostre, {anche pubbliche,} non saranno certo vedute da posteri
molto lontani; le piramidi, gli obelischi, gli archi di trionfo,
3436 la profondissima impronta delle antiche {medaglie e} monete, che passate per tante mani, dopo
tante vicende, tanti secoli ec. ancor si veggono belle e fresche, e si leggono,
dove i coni delle nostre monete di cent'anni fa son già scancellati; tutte
queste e tant'altre simili cose sono opere, effetti, e segni delle antiche
illusioni e dell'antica forza e dominio d'immaginazione. Se fabbricavano per
fasto i monumenti del loro fasto dovevano durare in eterno, e il loro orgoglio
non si appagava dell'ammirazione di un secolo, ma tutti in perpetuo dovevano
esser testimoni della sua potenza e {contribuire a}
pascere la sua vanità: se per diletto, per bellezza, ornamento ec. tutto questo
s'aveva da propagare nel futuro in perpetuo; se per utile tutte le generazioni
avvenire avevano a partecipare di quella utilità; se il principe, se il comune,
se i privati, se per comodo, {per onore, per vantaggio}
particolare o pubblico; se in memoria di successi ricordevoli o privati o
pubblici; se in ricompensa di virtù, di belle azioni, di beneficii pubblici o
privati; se in onor privato o pubblico, di vivi o di morti; se in testimonianza
d'amore ec. ec. qualunque fine si proponessero, qualunque
3437 effetto dovesse seguitare a quell'opera, esso aveva ad essere
eterno, s'aveva a stendere in tutto l'avvenire, non aveva {a} cessar mai. Le grandi illusioni onde gli antichi erano animati non
permettevano loro di contentarsi di un effetto piccolo e passeggero, di
proccurare un effetto che avesse a durar poco, instabile, breve; di soddisfarsi
d'una idea ristretta a poco più che a quello ch'essi vedevano. L'immaginazione
spinge sempre verso quello che non cade sotto i sensi. Quindi verso il futuro e
la posterità, perocchè il presente è limitato e non può contentarla; è misero ed
arido, ed ella si pasce di speranza, e vive promettendo sempre a se stessa. Ma
il futuro per una immaginazione gagliardissima non debbe aver limiti; altrimenti
non la soddisfa. Dunque ella guarda e tira verso l'eternità.
[4267,3]
Τhe ancients (to
say the least of them) had as much genius as we; they constantly applied
themselves not only to that art, but to that single branch of an art, to
which their talent was most powerfully bent; and it was the business of
their lives to correct and finish their works for posterity. If we can
pretend to have used the same industry, let us expect the same
immortality: Though, if we took the same care, we should still lie under
a farther misfortune: Τhey writ in languages that became universal and
everlasting, while ours are extremely limited both in extent and {in} duration. A mighty foundation for our pride!
when the utmost we can hope, is but to be read in one island, and to be
thrown aside at the end of an age.
*
4268
Pope
Prefazione generale alla Collezione delle sue
Opere {giovanili (Collezione pubblicata nel
1717.)} data Nov. 10. 1716.
Pope era nato del 1688.
[4268,7] È osservazione antica che quanto decrescono nelle
repubbliche e negli stati le virtù vere, tanto crescono le vantate, e le
adulazioni; e similmente, che a misura che decadono le lettere e i buoni studi,
si aumentano di magnificenza i titoli di lode che si danno agli scienziati e a'
letterati, o a quelli che in sì fatti tempi sono tenuti per tali. Il somigliante
par che avvenga circa il modo della pubblicazione dei libri. Quanto lo stile
peggiora, e divien più vile, più incolto, più εὐτελής, di meno spesa; tanto
cresce l'eleganza, la nitidezza, lo splendore, la magnificenza, {il costo e vero pregio e valore} delle edizioni.
Guardate le stampe francesi d'oggidì, anche quelle delle semplici brochures e fogli volanti ed efimeri. Direste che non
si può dar cosa più perfetta
4269 in tal genere, se le
stampe d'Inghilterra, quelle eziandio de' più passeggeri
pamphlets, non vi mostrassero una perfezione molto
maggiore. Guardate poi lo stile di tali opere, così stampate; il quale a prima
giunta vi parrebbe che dovesse esser cosa di gran valore, di grande squisitezza,
condotta con grand'arte e studio. Disgraziatamente l'arte e lo studio son cose
oramai ignote e sbandite dalla professione di scriver libri. Lo stile non è più
oggetto di pensiero alcuno. Paragonate ora e le stampe dei secoli passati, e gli
stili di quei libri così modestamente, così umilmente, e spesso {(vilmente, abbiettamente)} poveramente impressi; colle
stampe e gli stili moderni. Il risultato di questa comparazione sarà che gli
stili antichi e le stampe moderne paion fatte per la posterità e per l'eternità;
gli stili moderni e le stampe antiche, per il momento, e quasi per il
bisogno.
[4245,1]
Alla p. 4184.
Molte cose si trovano presso gli antichi, come sarebbe questa opinione
sopraddetta, che appartengono e fanno fede ad una squisita umanità, molto
superiore ad ogn'idea moderna. Di tal genere era l'uso di quegli ἔρανοι tanto
famosi presso i greci, e tanto usitati, fino a nascerne, come di ogni buona e
umana istituzione o usanza, abusi che oggi paiono stranissimi. Veggansi nel Casaubono, ad Ateneo libro
7. capo 5. fin.
{(v. p.
4469.)}
E veggansi pure nel medesimo, libro 6.
capo 19. {{princip.}} l'umanità con cui erano
trattati i servi, {cioè schiavi,} dagli Ateniesi, e gli
strani diritti che erano loro dati per le leggi di quella repubblica. {+V. la p.
4280, capoverso 3.}
(15. 1827.). {{V. p. 4286.}}
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Galateo morale. (1827) (2)
Diritti degli Schiavi in . (1827) (1)
Schiavitù. (1827) (1)
Opinioni (diversità delle). (1827) (1)
Monotonia. (1827) (1)
Casalinga (vita). (1827) (1)
Egoismo del timore. (1827) (1)
Timore. (1827) (1)
Sacrifizi. (1827) (1)
Religione. Culto. (1827) (1)
Interesse in poesia ec. (1827) (1)
Drammatica. (1827) (1)
Commedia greca. (1827) (1)
Condizioni che portano a farne. (1827) (1)
Sacrifizi di se stesso ec. (1827) (1)
Fanciulli. (1827) (1)
definizione dell'egoismo. (1827) (1)
Donne. (1827) (1)
Carattere, lingua ec. ec. (1827) (1)
Cause dell'amore dei vecchi alla vita. (danno) (1)
Vecchi, perchè amino tanto la vita. (1827) (1)
Compassione. (1827) (1)
Noia. (1827) (1)
Gioia. (1827) (1)
Dolore antico. (1827) (1)
Dolore. (1827) (1)
Punto d'onore antico e moderno. (danno) (1)
Greca (lingua), se avesse tenuto e tenesse in il luogo della latina, gran vantaggio ne seguirebbe. (1827) (1)
Vocabolario universale, proposto all'. (1827) (1)
Modo in cui le grandi verità si scuoprono. (1827) (1)
Ubbriachezza. (1827) (1)
Progressi dello spirito umano. (1827) (1)
Immaginazione, quanto serva al filosofare. (1827) (1)
Disperazione. (1827) (1)
Rimembranze. (1827) (1)
Malinconia. (1827) (1)
Immaginazione e sentimento. (1827) (1)
Emulazione militare antica e moderna. (1827) (1)
Vendetta. (1827) (1)
Gesti. (1827) (1)
Principe. (1827) (1)
Despotismo. (1827) (1)
Sinonimi. (1827) (1)
Proprietà delle parole. (1827) (1)
Cinquecentisti. Trecentisti, ec. (1827) (1)
Consolazioni degli antichi. (1827) (1)
Esilio. (1827) (1)
Ortografia. (1827) (1)
Lettere. Nomi delle lettere dell'alfabeto. (1827) (1)
I, U, Y. (1827) (1)
Alfabeti vari in natura. (1827) (1)
(b) Pensieri isolati filosofici. (danno) (1)
I moderni, propriamente non possono averne. (1827) (1)
Letteratura. (1827) (1)
Celtica (lingua ec.). (1827) (1)
Bibbia. Poesia biblica. (1827) (1)
Differenza pratica tra i filosofi antichi e i moderni derivante dalla natura delle due filosofie. (danno) (1)
Filosofi antichi, e Filosofi moderni. (1827) (1)
Trionfo presso i Romani. (1827) (1)
Corruzione e decadenza dell'uomo, cagionata dal sapere, è riconosciuta dagli antichissimi. (1827) (1)
Traduzioni. (1827) (1)
Orientali. (1827) (1)
Superbia nazionale. (1827) (1)
Odio verso i nostri simili. (1827) (1)
Eserciti (grandezza degli). (1827) (1)
Amore di parte. (1827) (1)
Amore di corpo. (1827) (1)
Sventure. (1827) (1)
dai disperati rassegnati. (1827) (1)
deplorata da molti antichi. (1827) (1)
Vita umana, una commedia. (1827) (1)
Gloria letteraria. (danno) (1)
Tranquillità della vita. (1827) (1)
Filosofia perfetta, e mezza Filosofia. (1827) (1)
Indifferenza. (1827) (1)
Romani primarii, sotto i medesimi. (1827) (1)
Giuochi greci e Giuochi romani. (1827) (1)
Tirannia. (1827) (1)
Invidia. (1827) (1)
Musica. (1827) (1)
Mondo nel senso del Vangelo. (1827) (1)