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15. Gennaio 1821.

[503,1]  In luogo che un'anima grande ceda alla necessità, non è forse cosa che tanto la conduca all'odio atroce, dichiarato, e selvaggio contro se stessa, e la vita, quanto la considerazione della necessità e irreparabilità de' suoi mali, infelicità, disgrazie  504 ec. Soltanto l'uomo vile, o debole, o non costante, o senza forza di passioni, sia per natura, sia per abito, sia per lungo uso ed esercizio di sventure e patimenti, ed esperienza delle cose e della natura del mondo, che l'abbia domato e mansuefatto; soltanto costoro cedono alla necessità, e se ne fanno anzi un conforto nelle sventure, dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare e combatterla ec. Ma gli antichi, sempre più grandi, magnanimi, e forti di noi, nell'eccesso delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato, e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma non perciò domati, nè ammansati, nè meno, anzi tanto più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore. Di ciò si hanno molti esempi nelle storie. Il fatto di Giuliano moribondo, non so se sia storia o favola. Di Niobe, dopo la sua sventura,  505 si racconta, se non fallo, come bestemmiava gli Dei, e si professava vinta, ma non cedente. Noi che non riconosciamo nè fortuna nè destino, nè forza alcuna di necessità personificata che ci costringa, non abbiamo altra persona da rivolger l'odio e il furore (se siamo magnanimi, e costanti, e incapaci di cedere) fuori di noi stessi; e quindi concepiamo contro la nostra persona un odio veramente micidiale, come del più feroce e capitale nemico, e ci compiaciamo nell'idea della morte volontaria, dello strazio di noi stessi, della medesima infelicità che ci opprime, e che arriviamo a desiderarci anche maggiore, come nell'idea della vendetta, contro un oggetto di odio e di rabbia somma. Io ogni volta che mi persuadeva della necessità e perpetuità del mio stato infelice, e che volgendomi disperatamente e freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio possibile, nè speranza nessuna; in luogo di cedere, o di consolarmi colla considerazione dell'impossibile, e della necessità indipendente da me,  506 concepiva un odio furioso di me stesso, giacchè l'infelicità ch'io odiava non risiedeva se non in me stesso; io dunque era il solo soggetto possibile dell'odio, non avendo nè riconoscendo esternamente altra persona colla quale potessi irritarmi de' miei mali, e quindi altro soggetto capace di essere odiato per questo motivo. Concepiva un desiderio ardente di vendicarmi sopra me stesso e colla mia vita della mia necessaria infelicità inseparabile dall'esistenza mia, e provava una gioia feroce ma somma nell'idea del suicidio. L'immobilità delle cose contrastando colla immobilità mia; nell'urto, non essendo io capace di cedere, ammollirmi e piegare; molto meno le cose; la vittima di questa battaglia non poteva essere se non io. Oggidì (eccetto nei mali derivati dagli uomini) non si riconosce persona colpevole delle nostre miserie, o tale che la Religione c'impedisce in tutti i modi di creder colpevole, e quindi degna di odio. Tuttavia anche nella Religione di oggidì, l'eccesso dell'infelicità indipendente  507 dagli uomini e dalle persone visibili, spinge talvolta all'odio e alle bestemmie degli enti invisibili e Superiori: e questo, tanto più quanto più l'uomo (per altra parte costante e magnanimo) è credente e religioso. Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita ec. (15. Gen. 1821.).