6 Feb. 1821.
[618,2] La disperazione della natura è sempre feroce,
frenetica, sanguinaria, non cede alla necessità, alla fortuna, ma la vuol
vincere in se stesso, cioè coi propri danni, colla propria morte ec. Quella
disperazione placida, tranquilla, rassegnata, colla quale l'uomo, perduta ogni
speranza di felicità, o in genere per la condizione umana, o in particolare per
le circostanze sue; tuttavolta si piega, e si adatta a vivere e a tollerare il
tempo e gli anni; cedendo alla necessità riconosciuta; questa disperazione,
sebbene deriva dalla prima, in quel modo che ho spiegato di sopra p. 616. fine, 617. principio,
tuttavia non è {quasi} propria se non della ragione e
della filosofia, e quindi specialmente e singolarmente propria de' tempi
moderni. Ed ora infatti, si può dir che qualunque ha
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un certo grado d'ingegno e di sentimento, fatta che ha l'esperienza del mondo, e
in particolare poi tutti quelli ch'essendo tali, e giunti a un'età matura, sono
sventurati; cadono e rimangono sino alla morte in questo stato di tranquilla
disperazione. Stato quasi del tutto sconosciuto agli antichi, ed anche oggi alla
gioventù sensibile, magnanima, e sventurata. Conseguenza della prima
disperazione è l'odio di se stesso, {(perchè resta ancora
all'uomo tanta forza di amor proprio, da potersi odiare)} ma cura e
stima delle cose. Della seconda, la noncuranza e il disprezzo e l'indifferenza
verso le cose; verso se stesso un certo languido amore {(perchè l'uomo non ha più tanto amor proprio da aver forza di
odiarsi)} che somiglia alla noncuranza, ma pure amore, tale però che
non porta l'uomo ad angustiarsi, addolorarsi, sentir compassione delle proprie
sventure, e molto meno a sforzarsi, ed intraprender nulla per se, considerando
le cose come indifferenti, ed avendo quasi perduto il tatto e il senso
dell'animo, e coperta di un callo tutta la facoltà sensitiva, desiderativa ec.
insomma le passioni e gli affetti d'ogni sorta; e quasi perduta per lungo uso, e
forte e lunga pressione, quasi tutta l'elasticità delle
620 molle e forze dell'anima. Ordinariamente la maggior cura di questi
tali è di conservare lo stato presente, {di tenere una vita metodica.} e di nulla mutare o
innovare, non già per indole pusillanime o inerte, che anzi ella sarà stata
tutto l'opposto, ma per una timidità derivata dall'esperienza delle sciagure, la
quale porta l'uomo a temere di perdere a causa delle novità, quel tal quale
riposo o quiete o sonno, in cui dopo lunghi combattimenti e resistenze, l'animo
suo finalmente s'è addormentato e raccolto, e quasi accovacciato. Il mondo è
pieno oggidì di disperati di questa seconda sorta (come fra gli antichi erano
frequentissimi quelli della prima specie). Quindi si può facilmente vedere
quanto debba guadagnare l'attività, la varietà, la mobilità, la vita di questo
mondo; quando tutti, {si può dire,} i migliori animi,
giunti a una certa maturità, divengono incapaci di azione, ed inutili a se
medesimi, e agli altri. (6. Feb. 1821.).