18. Dic. 1820.
[420,2]
Alla p. 416.
L'ignoranza parziale può sussistere, come ho detto, anche nell'uomo alterato
dalla ragione, anche nell'uomo ridotto in società. Può dunque servire di stabile fondamento a un maggiore o
minor numero di credenze naturali; dunque tener l'uomo più o meno vicino allo
stato primitivo, dunque conservarlo più o meno felice. Per
421 conseguenza quanto maggiore per estensione, e per profondità sarà
questa ignoranza parziale, tanto più l'uomo sarà felice. Questo è chiarissimo in
fatto, per l'esperienza de' fanciulli, de' giovani, degl'ignoranti, de'
selvaggi. S'intende però un'ignoranza la quale serva di fondamento alle
credenze, giudizi, errori, illusioni naturali, non a quegli errori che non sono
primitivi e derivano da corruzione dell'uomo, o delle nazioni. Altro è ignoranza
naturale, altro ignoranza fattizia. Altro gli errori ispirati dalla natura, e
perciò convenienti all'uomo, e conducenti alla felicità; altro quelli fabbricati
dall'uomo. Questi non conducono alla felicità, anzi all'opposto, com'essendo
un'alterazione del suo stato naturale, e come tutto quello che si oppone a esso
stato. Perciò le superstizioni, le barbarie ec. non conducono alla felicità, ma
all'infelicità. V. p. 314. Quindi è
che dopo lo stato precisamente naturale, il più felice possibile in questa vita,
è quello di una civiltà media, dove un certo equilibrio fra la ragione e la
natura, una certa mezzana ignoranza,
422 mantengano
quanto è possibile delle credenze ed errori naturali (e quindi costumi
consuetudini ed azioni che ne derivano); ed escludano e scaccino gli errori
artifiziali, almeno i più gravi, importanti, e barbarizzanti. Tale appunto era
lo stato degli antichi popoli colti, pieni perciò di vita, perchè tanto più
vicini alla natura, e alla felicità naturale. Le Religioni antiche pertanto
(eccetto negli errori non naturali e perciò {dannosi e}
barbari, i quali non erano in gran numero, nè gravissimi) conferivano senza
dubbio alla felicità temporale molto più di quello che possa fare il
Cristianesimo; perchè contenendo un maggior numero e più importante di credenze
naturali, fondate sopra una più estesa e più profonda ignoranza, tenevano l'uomo
più vicino allo stato naturale: erano insomma più conformi alla natura, e minor
parte davano alla ragione. (All'opposto la barbarie de' tempi bassi derivata da
ignoranza non naturale ma di corruzione, non da ignoranza negativa ma positiva. Questa non poteva
conferire alla felicità, ma all'infelicità, allontanando maggiormente l'uomo
dalla natura: se non in
423 quanto quell'ignoranza
qualunque richiamava parte delle credenze e abitudini naturali, perchè la natura
trionfa ordinariamente, facilmente, e naturalmente quando manca il suo maggiore
ostacolo ch'è la scienza. E però quella barbarie produceva una vita meno lontana
dalla natura, e meno infelice, più attiva ec. di quella {che
produce} l'incivilimento non
medio ma eccessivo del nostro secolo. Del resto v. in questo proposito
p. 162. capoverso 1[2]. Tra la barbarie e la civiltà eccessiva non è
dubbio che quella non sia più conforme alla natura, e meno infelice, quando non
per altro, per la minor conoscenza della sua infelicità. Del rimanente per lo
stesso motivo della barbarie de' bassi tempi, è opposta alla felicità e natura,
la barbarie e ignoranza degli Asiatici generalmente, barbareschi Affricani,
Maomettani, persiani antichi dopo Ciro,
sibariti, ec. ec. Così proporzionatamente quella della Spagna e simili più moderne
ed europee.).
[423,1] Ma il detto effetto delle antiche religioni non poteva
durare, se non quanto durasse la credenza della verità reale di esse religioni:
vale a dire, quanto durasse quella tal misura e profondità d'ignoranza che
permettesse di credere veramente
424 e stabilmente dette
religioni, e gli errori e illusioni naturali che vi erano fondate. Prevalendo
sempre più la ragione e il sapere, e scemando l'ignoranza parziale, quelle
religioni più naturali e felici, ma perciò appunto più rozze, non potevano più
esser credute, nè servire di fondamento a illusioni reali e stabili, alle azioni
che ne derivano, e quindi alla felicità. Le nazioni pertanto disingannandosi
appoco appoco, perdevano colle illusioni ogni vita. Bisognava richiamare quelle
illusioni. Ma come, se restavano e non potevano più allontanarsi la ragione e il
sapere che le avevano distrutte, e la ragione e il sapere erano padroni
dell'uomo? (qui osservate gl'inutili sforzi di Cic. nelle Filippiche, dove si
studiava di richiamare le illusioni come illusioni, non più come verità, perchè
tali non erano più credute; e com'egli non avendo altro fondamento di esse
illusioni, cercava di persuadersi dell'immortalità dell'anima, e del premio
delle buone azioni nell'altra vita; insomma proccurava di farsi nuovamente una
ragione delle illusioni col mezzo di una tal qual religione, e v. gli altri
pensieri [p. 22]
[p.
161]). Bisognava dunque richiamare quelle illusioni col consentimento,
anzi col mezzo della
425 stessa ragione e sapere. Dico
col mezzo, perchè non c'era altro modo di richiamarle, se non tornare a
giudicarle vere, e questo giudizio non poteva farlo se non la ragione e il
sapere già stabilito. Ma come quella stessa ragione e sapere che le avevano
distrutte, potevano permettere che risorgessero, anzi introdurle di nuovo
nell'anima? Sarebbe convenuto che la ragione rinegasse se stessa. (come conviene
ora a qualunque filosofo vuol vivere). Non c'era altro mezzo se non che una
nuova religione, ammessa e creduta per vera dalla ragione, e conforme ai lumi di
quel tempo: la qual religione tornasse a far la base delle illusioni perdute:
(altrimenti a che valeva nel nostro caso?) in maniera che queste ripigliassero
l'aspetto stabile di verità agli occhi
degli uomini. In somma bisognava che questa religione, nuova base delle
illusioni naturali e necessarie, fosse il parto della ragione e del sapere. O
parlando cristianamente, bisognava che una espressa rivelazione assicurasse la
ragione, che quelle credenze ch'ella aveva ripudiate, erano vere. Ecco dunque
arrivata la necessità di una religione perfettamente ragionevole
426 (cioè rivelata, perchè senza il fondamento della
rivelazione, come può una perfetta ragione credere o tornare a credere quello
che, umanamente parlando, è veramente falso?) o almeno perfettamente conforme a
quella tal misura della ragione e sapere di quei tali tempi. Ed ecco il punto in
cui comparve il Cristianesimo, cioè quel momento in cui l'eccessivo progresso
della ragione e del sapere, negando tutto o dubitando di tutto (perchè tutto è
veramente falso o dubbio senza la rivelazione), spegnendo tutte le illusioni o
credenze primitive, gettava l'uomo nell'inazione, nell'indifferenza,
nell'egoismo (e quindi nella malvagità); riduceva la vita affatto morta, e
barbara di quella orrenda barbarie nella quale, in maggior grado però, siamo
caduti in questi ultimi secoli: quel momento in cui la virtù, l'eroismo, l'amor
patrio, l'amore scambievole ec. erano considerati per quei fantasmi che sono
(umanamente parlando): quel momento in cui per conseguenza erano rotti tutti i
legami sociali, e anche individuali, cioè dell'uomo con se stesso e con la vita:
quel momento in cui non solo le illusioni primitive, ma anche quelle che si
sviluppano naturalmente nell'uomo ridotto in società,
(quali sono quasi tutte le illusioni sopraddette), erano pure estinte:
427 quel momento a cui forse si dee riferire il maggior
progresso della setta scettica o Pirroniana. (V. Diog. Laerz. l. 9, Luciano passim, e Sesto Empirico, i quali furono bensì sotto Aurelio, e Comodo, cioè dopo nato il Cristianesimo, ma non però
divulgato, anzi bambino).
[427,1] Con ciò si potrà spiegare perchè il Cristianesimo
fosse rivelato in quel tempo, e non prima nè dopo: e per la pienezza de' tempi famosa nel Vecchio Testamento si
potrà ingegnosamente e sodamente intendere quel punto in cui la ragione e il
sapere divenuti affatto soverchianti e preponderanti, aveano incominciato una
devastazione, e una rivoluzione micidiale nell'uomo, e una mortificazione
generale dei popoli colti e degl'individui. In maniera che quello era il punto
in cui {(se esiste un Dio che curi le cose umane) una grande
rivelazione del vero relativo all'uomo} diveniva precisamente, e per
la prima volta necessaria.
[427,2] E il Cristianesimo fece certo un gran bene, e sostenne
il mondo crollante, sovvenendo con una medicina composta della ragione, alla
malattia mortale cagionata da essa ragione. Ma appunto perchè la medicina era
composta di ragione, e perchè le origini del Cristianesimo furono quelle che ho
spiegate, cioè il guasto fatto dalla ragione e la necessità di un rimedio
ragionevole, perciò
428 quel rimedio era bensì l'unico
applicabile a quei tempi, e giovò, ma relativamente al peggiore stato in cui si
era, non a quello anteriore al male. Giacchè questo era necessariamente più
naturale, e quindi più conducente alla felicità di quaggiù. E infatti la vita,
sebben tornò ad esser vita, fu però molto minore, meno attiva, meno bella, {meno varia,} e precisamente più infelice, giacchè il
Cristianesimo non aveva insegnato all'uomo che la vita è ragionevole, e ch'egli
deve vivere, se non insegnandogli che deve indirizzar questa ad un'altra vita,
rispetto alla quale solamente, è ragionevole questa vita: e che questa sarebbe
necessariamente infelice.
[428,1] Ma il detto effetto non fu colpa del Cristianesimo, ma
delle cause che aveano, come si è detto, prodotta la necessità di questo
rimedio; cause che presto o tardi doveano necessariamente emergere
dall'andamento che avea preso la ragione (ossia dalla superiorità che aveva
acquistata, e che dovea naturalmente crescere e portar gli uomini a quel punto)
e dallo stato di società, a cui l'uomo era irrevocabilmente ridotto. Sicchè
presto o tardi era indispensabile e certa la nascita del Cristianesimo, o di una
429 Religione ammissibile dalla ragione, anzi
prodotta in certo modo da essa, e molto più ragionevole delle antiche le quali
non erano conformi nè adattabili se non ad un grado di ragione e di sapere molto
minore. Quindi, posta la corruzione dell'uomo operata dalla ragione e dal
sapere, l'uomo doveva necessariamente arrivare una volta, a quella poca felicità
di vita, che il Cristianesimo stabilisce dogmaticamente, e anche produce
attivamente, ma come seconda e necessaria, non come prima e libera cagione. Era
dico indispensabile presto o tardi il Cristianesimo, posta la corruzione operata
dalla ragione, e lo era 1. umanamente: perchè la ragione prima di arrivare a
quell'estremo al quale è giunta oggidì, doveva naturalmente spaventarsi di se
stessa; e vedendosi sparir dagli occhi la realtà delle cose, e quindi venirsi a
distruggere la vita e il mondo, doveva considerar se stessa come assurda, e
concludere che ci doveva esser qualche verità ignota la quale dasse alle cose
quella realtà ch'essa non poteva più scoprire nè ammettere. Quindi anche da se
stessa
430 dovea rifugiarsi nel seno di una religione
astratta e metafisica, adattata alla sua natura speculativa; di una religione
misteriosa, e perciò appunto ragionevole, perchè la realtà delle cose di cui la
ragione non poteva persuadersi chiaramente nè particolarmente colle sue forze,
veniva stabilita dall'opinione verisimile, e creduta vera, di un Dio
infallibile, e rivelatore di arcani, conducenti a stabilire in genere la detta
realtà. Così che la ragione sopra un fondamento oscuro, ma creduto vero, veniva
a creder quelle cose, che dall'una parte non poteva credere sopra un fondamento
chiaro e dettagliato; dall'altra parte le sembrava ancora assurdo il negare, a
dispetto della natura e del sentimento intimo che le asseriva. Sicchè la ragione
anche da se, nel suo corso naturale, prima di distrugger tutto, doveva
necessariamente immaginare, e persuadersi di una religion rivelata. 2. molto più
divinamente. Perchè supposto un Dio, e che questi abbia cura delle sue creature,
quando per non veder perire
431 il primo degli enti
terrestri, e distruggersi immancabilmente la sua vita quaggiù, o ridursi
all'ultima infelicità, non rimase altro mezzo che la credenza di una
rivelazione, era troppo conveniente alla sua misericordia l'adoperarlo, e perchè
questa credenza fosse stabile {e certa,} fare che fosse
vera, cioè rivelar da vero.
[431,1] Del resto sebbene io dico che la civiltà media è il
migliore stato dell'uomo corrotto e sociale, e che il Cristianesimo lo mette nè
più nè meno in questo stato, ciò non contraddice a quello ch'io soggiungo, che
l'uomo era più felice prima che dopo il Cristianesimo. Perchè questo stato di
civiltà media può avere diversi gradi, cioè contener più o meno di natura, o di
ragione; di credenze naturali o non naturali; e quindi essere più o meno felice.
Ma oggidì non essendo più possibile tornare allo stato di civiltà antica, pel
maggiore incremento della ragione, sostengo che il più felice possibile in
questa vita, è lo stato di vero e puro Cristianesimo. V. poi gli altri miei
pensieri [p.105,1]
[p.
253,1]
[p.
393,1]
[p.
393,2]
[p.
403,1]
[p.
407,1]
[p.
409,1]
[p.
411,1]
[p.
413,1]
[p.
416,1] circa gli effetti del Cristianesimo (o delle cause che lo
produssero)
432 sulla società, sulla qualità e sulla
felicità di questa vita.
[432,1] Del resto osservate che il Cristianesimo limita
estremamente l'esercizio della ragione, di quella facoltà distruttrice della
vita; di quella facoltà che l'aveva reso necessario; di quella al cui guasto
egli è venuto a riparare; di quella che in certo modo l'invocò e lo produsse.
Perchè, tranne alcune proposizioni {generali}
fondamentali, che hanno bisogno della ragione per esser giudicate e credute,
vale a dire, l'esistenza, la provvidenza, la manifestazione, e l'infallibilità
di un Dio, tutte le altre proposizioni particolari che la religione insegna,
sono indipendenti dall'{esame e dall'intervento della}
ragione. E sebben questa, credendole, e regolando con esse le azioni e la vita,
opera ragionevolmente e conseguentemente, in vista di quelle proposizioni
generali, contuttociò, l'uso e l'esercizio suo resta scarsissimo nella vita
cristiana, limitandosi al solo fondamento, e al solo generale, il quale esclude
essenzialmente ogni operazion della ragione in tutti i particolari, che sono il
433 più, e che formano e regolano la vita. Anche per
questo capo il Cristianesimo conduce l'uomo alla civiltà media, ingiungendo
l'inazione e l'acciecamento della ragione nella vita, sebbene essa ragione sia
la fonte di questa inazione ec. dipendente dalla persuasione attiva ch'ella ha, delle proposizioni
fondamentali. (18. Dic. 1820.).