20. Gen. 1821.
[528,1] Come i piaceri così anche i dolori sono molto più
grandi nello stato primitivo e nella fanciullezza, che nella nostra età e
condizione. E ciò per le stesse ragioni per le quali è maggiore il diletto.
Primieramente (massime ne' fanciulli) manca l'assuefazione al bene e al male. Il
bene dunque e il male dev'essere molto più sensibile ed energico relativamente
all'animo loro, che al nostro. Poi (e questo è il punto principale, e comune a
tutti gli uomini naturali) il dolore, la disgrazia ec. nel fanciullo, e nel
primitivo, sopravviene all'opinione della felicità possibile, o anche presente;
contrasta vivissimamente coll'aspetto del bene, creduto e reale e grande, del
bene o già provato, o sperato con ferma speranza, o veduto attualmente negli
altri; è l'opposto e la privazione di quella felicità che si crede vera,
importante, possibilissima, anzi destinata all'uomo, posseduta dagli altri,
529 e che sarebbe posseduta da noi, se quell'ostacolo
non ce l'impedisse, o per ora, o per sempre. Ed anche l'idea del male assoluto,
cioè indipendentemente dalla comparazione del bene, è forse maggiore in natura,
che nello stato di civiltà e di sapere.
[529,1] Osservate ancora che dolor cupo e vivo sperimentavamo
noi da fanciulli, terminato un divertimento, passata una giornata di festa ec.
Ed è ben naturale che il dolore seguente dovesse corrispondere all'aspettativa,
al giubilo precedente. E che il dolore della speranza delusa sia proporzionato
alla misura di detta speranza. Non dico {alla misura}
del piacere provato realmente, perchè infatti neanche i fanciulli provano mai
soddisfazione nell'atto del
piacere, non potendo nessun vivente esser soddisfatto se non da un piacere
infinito, come ho detto altrove pp. 165. sgg.
pp. 177-83. Anzi il nostro
dolore, dopo tali circostanze, era inconsolabile non tanto perchè il piacere
fosse passato, quanto perchè non avea corrisposto alla speranza. Dal che seguiva
talvolta una specie di rimorso o pentimento, come se non avessimo goduto
530 per nostra colpa. Giacchè l'esperienza non ci aveva
ancora istruiti a sperar poco, preparati a veder la speranza delusa, assuefatti
a consolarci facilmente di tali e maggiori perdite ec.
[530,1] Insomma considerando in quella età le cose come
importanti, o più importanti di quello che le consideriamo in altra età, {(così relativamente e in particolare, come in generale e
assolutamente)} è naturale che come i piaceri, così i dolori di
quell'età sieno maggiori in proporzione dell'importanza che gli oggetti del
dolore o del piacere hanno nella nostra opinione.
[530,2] Così nella speranza di qualche bene, quale non era la
nostra inquietudine, i nostri timori, i nostri palpiti, le nostre angosce ad
ogni piccolo ostacolo, o apparenza di difficoltà, che si opponesse al
conseguimento della detta speranza!
[530,3] E se poi l'oggetto stesso della speranza (ancorchè
minimo, rispetto alle nostre opinioni presenti) non si conseguiva, quale non era
la nostra disperazione! In maniera che forse in seguito, nelle più grandi
sventure della vita, non abbiamo provato, nè proveremo mai tanto dolore e
accoramento, come per quelle minime sventure fanciullesche.
[531,1]
531 Lascio stare il timore e lo spavento proprio di
quell'età (per mancanza di esperienza e sapere, e {per}
forza d'immaginazione {ancor vergine e fresca):} timor
di pericoli di ogni sorta, timore di vanità e chimere proprio solamente di
quell'età, e di nessun'altra; timor delle larve, sogni, cadaveri, strepiti
notturni, immagini reali, spaventose per quell'età e indifferenti poi, come
maschere ec. ec. (v. il Saggio sugli Errori popolari
degli antichi.) Quest'ultimo timore era così terribile in
quell'età, che nessuna sventura, nessuno spavento, nessun pericolo per
formidabile che sia, ha forza in altra età, di produrre in noi angosce, smanie,
orrori, spasimi, travaglio insomma paragonabile a quello dei detti timori
fanciulleschi. L'idea degli spettri, quel timore spirituale, soprannaturale,
{sacro,} e di un altro mondo, che ci agitava
frequentemente in quell'età, aveva un non so che di sì formidabile e smanioso,
che non può esser paragonato con verun altro sentimento dispiacevole dell'uomo.
Nemmeno il timor dell'inferno in un moribondo, credo che possa essere così
intimamente terribile. Perchè la ragione e l'esperienza rendono inaccessibili a
qualunque sorta di sentimento, quell'ultima e profondissima
532 parte e radice dell'animo e del cuor nostro, alla quale penetrano
e arrivano, e la quale scuotono e invadono le sensazioni fanciullesche o
primitive, e in ispecie il detto timore. (20. Gen. 1821.). {{V. p. 535. capoverso 1.}}